Docsity
Docsity

Prepara i tuoi esami
Prepara i tuoi esami

Studia grazie alle numerose risorse presenti su Docsity


Ottieni i punti per scaricare
Ottieni i punti per scaricare

Guadagna punti aiutando altri studenti oppure acquistali con un piano Premium


Guide e consigli
Guide e consigli

Riassunto Psicologia della comunicazione. La mente, il corpo, gli altri, Sintesi del corso di Psicologia della Comunicazione

Riassunto completo del libro più schemi per la materia Psicologia delle emozioni e della comunicazione multimodale dell'anno accademico 2022/2023. E' completo di tutti i capitoli (anche i più inutili), se ci sono dei problemi è perché docsity non converte bene i pdf. Ho buttato sangue e lacrime per questo riassunto :')

Tipologia: Sintesi del corso

2022/2023

In vendita dal 23/01/2023

giulia-zaffino-4
giulia-zaffino-4 🇮🇹

4.9

(33)

9 documenti

1 / 112

Toggle sidebar

Anteprima parziale del testo

Scarica Riassunto Psicologia della comunicazione. La mente, il corpo, gli altri e più Sintesi del corso in PDF di Psicologia della Comunicazione solo su Docsity! Psicologia della comunicazione. La mente, il corpo, gli altri Parte prima. Azione e conoscenza, interazione e comunicazione I. Un modello per capire la comunicazione 1. La comunicazione come azione Jhon Austin (filosofo del diritto di Oxford) nel 1962 diceva che parlare è agire. La nostra storia inizia nel 1960, Plans and the structure of behavior scritto da Miller, Galanter, Pribram. Essi erano uno psicologo, un matematico e un neurologo. Pongono le basi della Scienza cognitiva: evidenziano che la struttura dell’azione è la stessa negli organismi biologici e nelle macchine. Questo Capitolo illustra il modello teorico dell’azione e della comunicazione su cui si basano i concetti e le analisi di tutto il libro. I concetti primitivi su cui si basa questo modello sono due: scopi e credenze. 2. Azioni e scopi L’universo è popolato di sistemi. Un sistema è un’entità costituita da uno o più elementi che funzionano in modo unitario (es. il sistema solare). Ci sono anche altre entità chiamati sistemi scopistici: - sistemi organici (uomo, gatto...), - sistemi individuali (uno studente, una formica...), - artificiali (un cellulare, una macchina...) - e collettivi (un formicaio, una squadra...). Ogni azione è determinata da uno scopo. Lo scopo è uno stato regolatore, cioè uno stato che determina, regola l’azione. Questo stato non reale a volte è rappresentato nel sistema stesso. Può essere identico o diverso da uno stato nel mondo percepito del sistema stesso; quando c’è una discrepanza fra lo stato percepito e lo stato regolare, il sistema si mette in azione per ridurre annullare la discrepanza. Quando non c’è discrepanza, il sistema è in quiete. 2.1. Condizioni, risorse, azioni e piani La possibilità che un sistema raggiunga i suoi scopi dipende dalle condizioni del mondo, dalle risorse che l’organismo ha a disposizione e delle azioni che compie: per un piacevole pic-nic mi serve un cielo sereno. Se in certi casi può raggiungere il suo scopo con una singola azione, in altri deve prima creare le condizioni e pro-cacciare le risorse necessarie al raggiungimento. Ciò porta alla progettazione e messa in atto di un piano da realizzare con un certo numero di azioni, di cui al- cune creano le condizioni per la buona uscita di altre. Nel secondo caso, invece, per raggiungere lo scopo è necessario un piano o gerarchia di scopi, cioè una serie i cui rispettivi scopi mirano tutti a uno scopo unico e comune. S1: A ha la mela in mano Az1: A afferra la mela Le azioni 1 e 2 hanno lo scopo S3 di avere una scala, ma questo è solo un mezzo per il sovrascopo S2 di trovarsi vicino alla mela; e l’Az. 4 realizza finalmente lo scopo finale, o meta, del piano, che è un sovrascopo comune a tutte le azioni compiute: avere la mela in mano. 2.2. La struttura gerarchica dell’azione. Azioni, scopi, sovrascopi e piani L’azione ha dunque una struttura gerarchica: lo scopo di un’azione può essere mezzo per un sovrascopo, uno scopo sovraordinato al primo, e il sovrascopo a sua volta essere mezzo per uno o più altri sovrascopi. Chiameremo piano o gerarchia di scopi, una struttura di azioni con i loro relativi scopi e sovrascopi che mirano tutti a uno stesso scopo finale: la meta del piano. E le azioni che compongono un piano possono essere raggruppate in sottopiani, ciascuno dei quali serve a realizzare un sottoscopo della meta. La relazione mezzo-scopo è ricorsiva, cioè può ripetersi al di sopra e all’interno di una unità di azione. 2.3. Tipi di scopi Definendo lo scopo uno stato regolatore, possiamo far rientrare in questa categoria così astratta e generale tipi di scopi molto diversi (desideri, bisogni, ecc.) che si distinguono per modalità di rappresentazione, livello gerarchico e caratteristiche processuali. 2.3.1. Rappresentazione dello scopo Non tutti gli stati regolatori sono rappresentati all’interno del sistema che regolano. Alcuni, che chiamiamo pseudoscopi, sono funzioni adattive esterne al sistema, verso cui il sistema è orientato in modo non casuale ma finalistico → un tipo di pseudoscopi sono gli scopi esterni: scopi non rappresentati all’interno del sistema, che però ne determinano le caratteristiche e le azioni (anche un oggetto può avere scopi). Sono scopi esterni degli oggetti l’uso, le destinazione e la funzione. - Es. → se passeggiando bel basco trovo dei pinoli e voglio schiacciarli, posso cercare un sasso adatto all’uopo. Questi scopi di uso del sasso sono rappresentati nella mia mente, non nel sasso, ma determinano le caratteristiche che nel sasso cercherò. - La destinazione è un uso ripetuto e infine cristallizzato. Es. → un uomo su un’isolo tropicale, trovata una canna lunga, può usarla una sola volta, o destinarla per sempre da lì in poi. Ma se decide di modificarne la forma, essa diventa un manufatto, un oggetto costruito o manipolato dall’uomo per la funzione di far cadere le noci. - La funzione è infatti uno scopo esterno che determina le caratteristiche del sistema su cui vige. Anche un sistema scopistico può avere scopi esterni, posti su di lui da un altro organismo o dalla situazione: in questo caso uno degli scopi interni del sistema funge da tramite rispetto allo scopo esterno. S2: A è vicino alla mela S4: la scala poggia sull’albero S3: A ha una scala Az 1: A va al capanno Az 2: A prende la scala Az 3: A appoggia la scala all’albero Az 4: A sale sulla scala Az 5: A afferra la mela dall’albero S1: A ha la mela in mano 3.2. Fonti di credenze Le credenze sono risorse fondamentali per perseguire e raggiungere scopi, e vitali per l’animale uomo. Meno forti dei leoni, dobbiamo essere più bravi ad acquisire ed elaborare credenze. Due questioni sono dunque particolarmente rilevanti per il funzionamento del nostro sistema cognitivo: 1. i modi in cui la nostra mente acquisisce o costruisce credenze 2. il modo in cui sono immagazzinate e connesse in maniera organizzata I meccanismi cognitivi sono 5: percezione, comunicazione, inferenza, significazione e memoria.  Percezione e comunicazione sono le strade delle nostre credenze, i modi per acquisirle  Memoria è la loro casa, immagazzinamento di esse  Inferenza e significazione sono l’officina, elaborazione di esse  Percezione = prima strada attraverso cui veniamo ad acquisire credenze. In questo caso le credenze non sono introdotte nella mente in maniera non mediata: l’oggetto fisico incontrato dai nostri sensi attraverso la sensazioni è rielaborato dalle leggi della percezione. Visivamente, vedo che Beatrice bacia Daniele e la credenza che acquisisco è: (6) Beatrice bacia Daniele  Se già la percezione è elaborazione di credenze, ancora maggiore è questa ricostruzione nel secondo meccanismo, la memoria. Le credenze ci servono a perseguire scopi, una volta acquisite vengono immagazzinate per poterle recuperare quando servono. La memoria a breve termine conserva poche informazioni e per pochi secondi; in quella a lungo termine sono conservate, anche per tutta la vita, credenze che possono rivelarsi utili per il futuro; e nella memoria di lavoro facciamo interagire le credenze appena arrivate dalla percezione con quelle acquisite in passato e recuperate dalla memoria a lungo termine. Quella immagazzinata nella memoria a lungo termine non è direttamente la credenza percepita, ma una sua generalizzazione e codificazione astratta.  Il termine inferenza ha due significati diversi. o Da un lato inferenza o processo inferenziale, un processo cognitivo di generazione di credenze nuove da credenze preesistenti: in sostanza, la capacità di ragionamento. o L’altro significato del termine non si riferisce al meccanismo di generazione ma al suo risultato, la credenza generata. In questo caso chiamiamo inferenza una credenza che non è acquisita tramite la percezione ma generata autonomamente dalla mente, sulla base di credenze preesistenti. Se la credenza sullo stimolo percepito Csp1 interagisce con la credenza recuperata Cr2 dà luogo alla Credenza inferita Ci3; se interagisce con 4, genera 5, se interagisce con 6, genera 7. Un’inferenza è dunque una credenza nuova diversa da quelle acquisite dall’esterno, il processo inferenziale è un meccanismo di moltiplicazione delle conoscenze. Csp1 Cr2 Cr4 Cr6 Ci3 Ci5 Ci7  Il significato è dunque un’inferenza così strettamente connessa a uno stimolo percepibile, che chiameremo segnale, da diventare la sua unica inferenza possibile. Il significato si può dunque definire come un’inferenza tratta da una credenza percettiva talmente frequente e probabile che il legame fra le due credenze, non è più transitorio, precario e soggetto a opinione, perché o il risultato del processo inferenziale, o la scelta della regola inferenziale da applicare hanno subito un processo di cristallizzazione, cioè definitivo immagazzinamento nella memoria a lungo termine. Può accadere che non sia la credenza finale a essere memorizzata e ricavata aromaticamente, ma solo la regola inferenziale usata.  Nella comunicazione veniamo ad avere credenze dagli altri, attraverso il meccanismo della significazione, cioè attribuendo significato a stimoli percettivi. 3.3. Metacredenze Abbiamo visto che le rappresentazioni di formato proposizionale godono della proprietà della ricorsività. Un aspetto di questa proprietà è l’esistenza di metacredenze, cioè credenze che abbiamo sulle nostre credenze. Sulle nostre credenze abbiamo 3 tipi: 1. Ambito di riferimento: noi non abbiamo credenze solo sulla realtà (abbiamo sogni, immaginazione...). Di ogni credenza quindi sappiamo in quale ambito è valida e in quale no. 2. Grado di certezza: la certezza è la probabilità che attribuiamo a una credenza di essere vera. Il grado di certezza delle credenze è importante visto che su di esse ci basiamo nel perseguire scopi. Per questo quando comunichiamo agli altri li informiamo anche sul grado di certezza che attribuiamo alle credenze che gli diamo. 3. La fonte delle nostre credenze. In genere noi sappiamo da dove ci viene una certa credenza. An- che questa informazione è rilevante perché a quelle stesse fonti tendenzialmente si attribuiscono diversi gradi di certezza. Oltre ad avere metacredenze sulle fonti delle nostre credenze abbiamo anche metacredenze valutative su tali fonti: una stima di quanto ci si può fidare di ciascuna. 3.5. L’organizzazione delle credenze nella memoria Le credenze nella nostra memoria a lungo termine non restano isolate ma si connettono fra loro e con le credenze preesistenti, costituendo in reti di credenze. Una rete è un insieme di credenze costituito da nodi e archi, in cui ogni nodo è una credenza e ogni arco è una relazione fra credenze. Le relazioni fra credenze sono di vario tipo: - di tempo - di luogo - classe-sottoclasse - classe-esempio - parte-tutto - causa-effetto - mezzo-scopo - condizione - contrasto. Queste relazioni fra le credenze nella rete sono come passarelle che permettono di passare dall’una all’altra; se ho la credenza X, e questa è legata da una relazione causa-effetto a una credenza Y, sapendo X posso inferire Y o viceversa. Collegare la nuova conoscenza a quelle preesistenti è la base di due processi fondamentali: capire e crede. - Capire significa interagire nella rete la credenza nuova instaurando connessioni con quelle pregresse. Il confronto con le credenze pregresse è un importante banco di prova per quelle in entrata. Due credenze si considerano contradditorie se l’una è o implica l’opposto dell’altra; ma la regola di non contraddizione vale soltanto fra credenze che hanno entrambe un alto grado di certezza e che appartengono allo stesso ambito di riferimento. Ma se la credenza nuova è in contrasto con una o più credenze della rete, allora hai due alternative: o rifiutare la credenza nuova o al contrario attuare revisione delle credenze. - Nel primo caso vince il senso critico, - nel secondo caso si accetta di aprirsi al cambiamento. L’organizzazione delle credenze in una rete ha dunque varie importanti funzioni: - recupero efficiente: la connessione permette un recupero veloce ed efficiente delle credenze necessarie nel momento della pianificazione; - quantità: la generazione di inferenze resa possibile o necessaria dal processo di integrazione di una credenza nuova ha fra gli altri l’effetto di aumentare la quantità e interconnessione delle credenze intrattenute nella rete; - spiegazione e comprensione: la connessione della credenza nuova con quelle pregresse permette di integrarla nella rete e così comprenderla meglio; - controllo compatibilità: il raffronto con la rete pregressa permette di porre un filtro di plausibilità sulle credenze nuove, rigettando quelle implausibili; - decisione di credere: l’esito positivo del controllo di plausibilità favorisce la decisione di credere, ossia l’accettazione delle credenze nuove plausibili; - riconferma delle credenze pregresse: grazie al reciproco supporto fra credenze nuove e pregresse, si rinsalda la rete e il suo grado di certezza. Su ogni credenza abbiamo una metacredenza sul suo grado di certezza. Questo dipende in parte dalle metacredenze sulla sua fonte. Infine, l’esistenza di metarappresentazioni vale anche per gli scopi: posso avere una credenza su un mio scopo o uno scopo sulla mia credenza. 4. Gli altri La risorsa più rilevante dei sistemi umani per raggiungere scopi è l’interazione sociale. 4.1. Potere Che cos’è il potere? Chiamiamo potere-di la probabilità che un sistema ha di raggiungere i suoi scopi; e diciamo che il sistema ha il potere di rispetto al suo scopo S se nel suo repertorio l’azione appropriata per raggiungere S, e se sono soddisfatte le condizioni del mondo perché si realizzi. Un processo che aumenta il potere-di è l’apprendimento, un altro è il fornire opportunità. Da questa nozione di potere possiamo dedurre quella di mancanza di potere, che può nascere da mancanza di condizioni o azioni del repertorio. Una terza ragione è la mancanza di potere di scelta. Immaginiamo che sull’isola, oltre a Robinson, ci sia Venerdì, conoscitore e scalatore di palme di cocco. Venerdì ha più potere di Robinson. Ecco dunque una prima nozione sociale di potere. Il confronto di potere. Dalla mancanza di potere di un sistema può nascere la dipendenza da altri sistemi. Se A ha uno scopo SA, ma non sa compiere azioni o non possiede le risorse materiali necessarie a perseguirlo e B ha più potere di A rispetto a quello scopo perché possiede tali risorse o capacità, allora A dipende da B: una dipendenza oggettiva, che può però tradursi in dipendenza soggettiva se A sa di dipendere da B. Ma quali sono questo scopi «vitali»? La teoria sequenziale dei bisogni di Maslow ipotizza che gli scopi dell’umano siano in un ordine che va da quelli fisici a quelli immateriali. Vi è un piccolo numero di scopi che abbiamo tutti in ogni momento della nostra vita, perché sono tutti funzionali agli scopi biologici della sopravvivenza e della riproduzione. Gli scopi che ogni umano possiede sono: 1. scopo di reintegrazione delle energie biologiche e prevenzione di danni; 2. scopo del potere sulle risorse dell’ambiente; 3. scopo di apprendimento: acquistare e saper usare credenze e capacità di azione; 4. scopo di ricevere adozione: attaccamento e affiliazione: 5. scopo di adottare gli scopi altrui: altruismo; 6. scopo di equità e reciprocità; 7. scopo dell’immagine; 8. scopo dell’immagine dell’altro; 9. scopo dell’autostima; Questi scopi sono innati e universali, anche se il valore può variare da persona a persona e da cultura a cultura. Possono entrare in conflitto. 6. Emozioni L’emozione è un meccanismo adattivo che ha la funzione di monitorare lo stato di raggiungimento o compromissione degli scopi fondamentali di molti sistemi animali, fra cui l’uomo. Ogni volta che il sistema assume, che un suo scopo di alto valore adattivo, raggiunto o compromesso a causa di un evento reale si innesca che uno stato soggettivo complesso comprende: - aspetti cognitivi - sentimenti soggettivi - reazioni fisiologiche - reazioni espressive - attivazione di scopi specifici da perseguire con alta priorità e urgenza. Le emozioni sono dunque connesse agli scopi perché: - sono funzionali a monitorarne l’ottenimento - attivano scopi, cioè hanno un potere motivazionale alto - diventano scopi esse stesse. Se le emozioni sono un meccanismo di monitoraggio degli scopi più importanti, scoprire quali emozioni si provano più spesso ci permette di capire quali scopi sono in balli in quei contesti. Le emozioni si possono infatti raggruppare in famiglie in base agli scopi che sorvegliano. Alcune corrispondono agli scopi di reintegrazione e prevenzione danni: le «emozioni di meta-regolazione» che ci avvertono del raggiungimento o compromissione di uno scopo non meglio specificato. Sono le emozioni positive di piacere, gioia, speranza e quelle negative di dolore e frustrazione. Vi sono poi le «emozioni di sopravvivenza» funzionali alla prevenzione di danni. Poi ci sono le emozioni «sociali» in senso stretto, che rendono saliente uno scopo di interagirvi in modo adottivo o aggressivo. Ancora, vi sono le emozioni del potere, legate allo scopo di avere più potere degli altri. Sono emozioni dell’altruismo, legate all’acquisire scopi altrui. Le emozioni dell’equità controllano lo scopo della reciprocazione e si provano quando si sente scardinato l’equilibrio tra le fortune nostre e dell’altro. Infine le emozioni dell’immagine, gratificazione e orgoglio; dell’autoimmagine come gratificazione e vergogna; e dell’immagine dell’altro, che marcano con un’emozione la nostra immagine dell’altro inducendo a intrattenerci una relazione positiva o negativa. L’ipotesi di questo lavoro è che tutti gli individui della specie Uomo hanno gli scopi qui rappresentati: sopravvivenza, conoscenza, immagine, autoimmagine e immagine dell’atro; di essere adottato e di adottare gli scopi di altri; di difendersi dalle aggressioni, di avere più potere di altri e di influenzarli. 7. Influenzamento sociale Si definisce influenzamento il fatto che un sistema A faccia aumentare o diminuire la probabilità che un sistema B persegue uno scopo. Esso può essere egoistico o altruistico, cioè lo scopo che cerco di far perseguire all’altro può essere uno scopo solo mio o uno scopo che tutela i suoi interessi. Si influenzano gli altri modificando o l’assetto dei loro scopi o le loro credenze. Si modifica l’assetto degli scopi di una persona, per esempio, con la seduzione: se ti faccio innamorare di me, tu farai quello che voglio io. Un altro modo di influenzare è far prendere coscienza all’altro dei suoi scopi: direttamente o indirettamente. Il primo è il meccanismo della tentazione e il secondo è il talento del talent scout. Parte seconda. La comunicazione II. Che cos’è la comunicazione 1. Prima della comunicazione: percezione, inferenza e significazione Un indizio è una credenza percettiva da cui chi percepisce di fatto trae una o più inferenze. Tali inferenze però sono «indeterminate». L’inferenza che si fa è determinata solo dalle credenze pregresse con cui l’indizio si combina. Così lo stimolo diviene un segnale, e l’inferenza è il suo significato. Definiamo dunque segnale uno stimolo fisico percepibile a cui è sistematicamente collegata una specifica credenza, che chiamiamo significato. Il collegamento tra questi due è «codificato», cioè depositato in memoria in maniera duratura. 2. La comunicazione Definiamo comunicazione il fatto che un Mittente (M) ha, direttamente o indirettamente, lo scopo di far prendere a un Destinatario (D) una credenza (C) attraverso il meccanismo della significazione, e per questo scopo produce un segnale comunicativo (sc) che M assume sia collegato nella mente sia di M che di D, alla credenza C, che di sc è il significato. Il segnale comunicativo sc è prodotto dal Mittente in una certa modalità produttiva (MP) e percepito dal Destinatario in una corrispondente modalità recettiva (MR), ed è collegato al significato C attraverso un sistema di comunicazione (SC), un insieme di regole per mettere in corrispondenza segnali e significati. La comunicazione come tale implica significazione → il modello dice che: M → SC → D MP C 2.1. Condizione necessarie Le condizioni necessarie sono: 1) La presenza di un Mittente → senza un Mittente, qualsiasi acquisizione di credenze sarebbe dovuta solo alle capacità di percezione, inferenza o comprensione di significati del sistema che le acquisce; 2) La presenza di uno Scopo di comunicazione → condizione necessaria perché si possa parlare di comunicazione è che un sistema abbaia lo scopo che un altro sistema venga ad avere credenze. È condizione necessaria lo scopo di comunicare. La presenza di uno scopo di comunicare è condizione necessaria per la nostra nozione di comunicazione; 3) Lo scopo di essere causa dell’acquisizione di credenze per l’altro → l’assenza di un Mittente, e il suo scopo che l’altro sappia, non sono ancora condizioni sufficienti per il processo comunicativo. Lo scopo del Mittente è di essere proprio lui a causa l’acquisizione di credenze nel Destinatario. Per comunicare non è sufficiente lo scopo di far sapere, è condizioni necessaria la produzione attiva di uno stimolo percepibile. La comunicazione implica necessariamente significazione; 4) Un processo di significazioni, cioè la produzione di un segnale dotato di significato → per parlare di comunicazione necessario che la strategia usata dal Mittente per far sapere qualcosa al Destinatario non sia la semplice evidenza empirica ma il meccanismo della significazioni. 2.2. Segnali comunicativi e segnali informativi Si è detto che una credenza percettiva può essere un indizio di altre credenze, recuperabili facendola interagire con credenze pregresse. Un indizio è un caso particolare di segnale informativo, cioè di uno stimolo percepibile da cui qualcuno può ricavare credenze; e va distinto da un segnale comunicativo proprio perché non è prodotto da qualcuno con lo scopo di far avere credenze. 2.3. Condizioni non necessarie 1) Presenza di un Destinatario; 2) Ricezione del messaggio → il processo di comunicazione vada a buon fine, cioè che le credenze comunicate dal Mittente siano effettivamente ricevute dal Destinatario. Distinguiamo il tentare dal riuscire: mi basta voler e cercare di comunicare, anche se la comunicazione non ha buon esito. Questa definizione è fortemente sbilanciata dalla parte del Mittente, e poco interessata al punto di vista del Destinatario. Questo perché l’umano è per sua natura animale inferenziale. Perciò distinguiamo i casi di comunicazione da quelli di comunicazione riuscita e definiamo comunicazione la prima anche se non va a buon fine; 3) Condivisione dei significati attribuiti → un’altra condizione che non consideriamo necessaria per la definizione di comunicazione è che il segnale prodotto da M sia effettivamente collegato alla credenza da comunicare. Non è necessario che il segnale sia collegato tra mittente e destinatario. 3. Lo scopo di comunicare: una definizione rigorosa ma comprensiva. La presenza di uno scopo di comunicare, necessaria nella nostra definizione di comunicazione, la rende al tempo stesso una definizione stretta ma ampia, rigorosa ma comprensiva. • Ci serve che sia rigorosa perché una definizione deve stabilire dei fines, dei confini fra ciò che rientra e ciò che è fuori dalla definizione stessa. Watzlawyck et al. → «non è possibile non comunicare». Questo significherebbe che tutto è comunicazione. Ma per sostenere questo è sufficiente la nozione di significazione o anche solo la nozione di informazione. Le persone ricavano informazioni da tutto ciò che facciamo o non facciamo. • Ma la definizione deve essere anche ampia. Alcune definizioni (es. Straweson e Grice) considerano tali solo i casi di comunicazione intenzionale. Una simile definizione considera comunicazione solo il linguaggio verbale. La definizione deve essere comprensiva, intendo farti sapere che intendo farti sapere. Come per tutti gli scopi, anche fra gli scopi di comunicare vi sono scopi interni e scopi esterni. III. Segnali, significati e sistemi di comunicazione 1. Il segnale Un segnale è uno stimolo fisico percepibile che in una o più mente richiama un significato, cioè una credenze che vi è sistematicamente collegata. Lo stimolo fisico percepibile è un pattern di materia-energia che può venir percepito dagli organi sensoriali di un sistema, e può essere prodotto dall’esistenza di varie entità o dall’occorrenza di vari eventi. Molte cose possono fungere da segnale: - Un’azione comunicativa; - Una non-azione inaspettata; - Un tratto morfologico transitorio; - Un tratto morfologico duraturo; - Un oggetto usato durante un’azione; - Un oggetto che è il risultato di un’azione deliberata; - Un oggetto o altra entità che è un effetto collaterale di un’azione che non aveva lo scopo di produrlo; - Una parte di un oggetto o entità che è un effetto collaterale di un’azione di più sistemi; - La combinazione simultanea di azioni simili di un solo sistema; - La combinazione in sequenza di azioni simili di un solo sistema; - La combinazione simultanea di azioni simili di uno o più agenti; - La combinazione in sequenza di azioni simili di due o più agenti. I segnali possono essere di tipi diversi, a seconda degli scopi comunicativi che li governano. Es. → lo scopo di comunicare è interno il segnale è in genere un movimento del Mittente. 2. Modalità Lo stimolo percepibile che costituisce un segnale è prodotto dal Mittente con specifici movimento o modificazioni del corpo, che passano attraverso un mezzo fisico e sono percepiti dal Destinatario attraverso uno specifico apparato sensoriale. 2.1. Modalità produttive e recettive I segnali comunicativi dell’uomo e di altri animali differiscono per gli organi che li producono, il mezzo fisico in cui viaggiano e la modalità sensoriale che li percepisce. 2.2. La multimodalità della comunicazione umana La comunicazione umana è multimodale: riceviamo segnali con tutti e cinque i sensi e ne produciamo con molte parti del nostro corpo. I visemi sono le forme che la bocca assume nel pronunciare i diversi suoni linguistici: il corrispettivo visibile dei fonemi, i segmenti di suono di cui la parola è costituita. La prossemica è il sistema di segnali con cui facciamo capire la nostra relazione con gli altri. 3. Il significato Il Significato è la credenza o l’insieme di credenze collegate a un segnale. Tuttavia, noi non comunichiamo per parole. L’unità minima della comunicazione non è la singola parola, ma almeno un’intera frase, o addirittura un discorso: più in generale, un atto comunicativo. Ogni atto comunicativo ci informa 1) Dei suoi contenuti che il Mittente intende comunicare 2) Su perché intende comunicarli 4. Il Mondo, il Sé e la Mente La nostra tassonomia di significati parte dall’idea che in qualsiasi sistema di comunicazione, è possibile e utile distinguere almeno tre classi di significati: 4.1. Informazioni sul mondo - Informazioni sul Mondo (Imo) → primo tipo di informazioni che comunichiamo e sono sul mondo. Nelle lingue verbali, i verbi in genere svolgono il ruolo del predicato, nomi e pronomi quello degli argomenti. Ma anche in altri sistemi di comunicazione vi sono segnali dedicati a comunicare questo o quell’elemento della struttura predicato-argomenti. I gesti simbolici comunicano prevalentemente predicato; 4.2. Informazioni sull’Identità del Mittente - Informazioni sull’identità del mittente → quando sono in presenza di qualcuno do informazioni su di me. Chi mi vede sente parlare necessariamente capisce che appartengono alla specie umana, se sono maschio o femmina. Scopi esterni biologici e sociali mi impongono di comunicare queste credenze su di me. Gli scopi di informare sull’identità del Mittente governano anche la comunicazione animale, sia intraspecifica che extraspecifica; 4.3. Informazioni sulla Mente del Mittente - Informazione sulla Mente del Mittente → nella comunicazione umana le credenze del Mittente che sono oggetto del suo comunicare non sono solo rappresentate, ma metarappresentate. Quando comunichi tu dai anche credenze sulla tua mente. Queste informazioni a volte le esprimi esplicitamente con atti comunicativi a parte, aggiuntivi rispetto alla comunicazione di credenze sul mondo. 4.3.1. Le credenze del Mittente Per questo è importante non dare credenze di cui non siamo sicuri. Vengono differenziati quindi due tipi di segnali: 1) Segnali di epsitemicità, sul grado di certezza della credenza. Fra quelli verbali, il grado di certezza viene comunicato da:  Segnali lessicali;  Segnali morfosintattici; 2) Segnali di evidenzialità, sulla fonte della credenza. 4.3.2. Gli scopi del Mittente Uno scopo che deve comunicare con segnali verbali o corporei, è quello dell’atto comunicativo che sto compiendo; e lo comunico con mezzi lessicali, grafici o con l’intonazione, o l’espressione facciale. In ogni frase c’è una parte nuove, o comment, e una parte «vecchia», il topic. Il Mittente deve quindi distinguere e attirare l’attenzione del Destinatario sulla parte nuova. Un discorso è una serie di frasi con uno scopo-meta comune a tutte, in cui il Mittente comunica nuove credenze al Destinatario. La conversazione è un’attività sociale regolata da norme, che diventano scopi esterni sociali per i conversanti. Un’informazione presente in una combinazione di atti è la stance del Mittente: il suo atteggiamento interazionale, il «modo di porsi» nei confronti del Destinatario. 4.3.3. Le emozioni del mittente Il Mittente può comunicare le proprie emozioni con frasi contenenti parole emotive. Ma anche una frase di per sé neutrale può esprimere emozioni. IV. Sistemi di comunicazione 1. Il sistema di comunicazione Un sistema di comunicazione è un insieme di regole che stabiliscono come collegare segnali e significati. Una lingua verbali è un sistema di comunicazione in cui possiamo distinguere sottosistemi di regole fonologiche, morfologiche, lessicali e sintattiche. 2. Parametri per distinguere i sistemi di comunicazione Nel 1960 Charles Hockett propose 13 criteri per distinguere i sistemi di comunicazione umana, che chiamò «i tratti del disegno». Per parametro di distinzione si intende un «punto di vista» dal quale guardare una classe di oggetti per classificarli; ogni parametro di classificazione comprende un certo numero di valori che posso attribuire a quella classe di oggetti. Poiché nel nostro caso parliamo di sistemi di comunicazione, cioè regole per mettere in corrispondere segnali e significati, i parametri che prenderemo in considerazione riguardano la natura e origine dei segnali. 2.1. La relazione con altri segnali: segnali autonomi e non Il primo parametro per caratterizzare tipi di segnali è la loro relazione con segnali di altre modalità. - È autonomo un segnale che può sia essere prodotto simultaneamente ad altri segnali di altre modalità, sia occorrere da solo, ma che anche quando occorre da solo è comprensibile e significativo - È non-autonomo un segnale che risulta incomprensibile o strano. Una parola scritta è un segnale autonomo perché si può produrre e capire anche in isolamento. All’opposto i gesti batonici non hanno ragion d’essere né significato senza una frase concomitante. 2.2. La costruzione cognitiva: segnali codificati e creativi Un secondo importante parametro di differenziazione fra segnali è la loro costruzione cognitiva, cioè il fatto che siano o meno rappresentati stabilmente nella memoria del Mittente. Da questo punto di vista si distinguono segnali codificati e creativi. 2.2.1. Segnali codificati È codificato un segnale che è stabilmente collegato a un significato, così da costituire una coppia segnale- significato rappresentata nella memoria a lungo termine del Mittente e del Destinatario. Il segnale è rappresentato per il Mittente in termini di programmi motori, per il Destinatario in termini di immagini mentali. Il significato è rappresentato come uno schema motorio e/o un’immagine mentale, e in un formato proposizionale. I significato codificati, dunque, formano nella nostra mente un lessico. Una liste di coppie segnali-significato codificare nelle menti dei parlanti forma un sistema di comunicazione codificato, cioè un lessico. Alcuni lessici comprendono inoltre anche una serie di regole per combinare fra loro i segnali codificati, che chiamiamo regole sintattiche. Un lessico che comprende anche regole sintattiche si può definire una lingua. 2.2.2. Segnali creativi È creativo un segnal la cui corrispondenza col significato è stata escogitata dal Mittente ex novo, in maniera estemporanea, perché nella sua mente non vi è già una preesistente corrispondenza segnale-significato atta a comunicare proprio il significato che il Mittente vuole comunicare. Il tipico esempio di segnal creativo sono i segnali iconici, cioè quelli che rappresentano un significato imitando aspetti fisici legati a esso. Differenza tra segnale creativo e codificato: Nell’incrocio fra «costruzione cognitiva» e «rapporto segnale-significato», sia i segnali codificati che quelli creativi possono essere sia motivati che arbitrari. Alzare la mano per chiedere la parola è codificato, ma è motivato biologico. Parte terza. Frasi, parole e significati V. L’atto comunicativo 1. Atti linguistici e atti comunicativi L’unità della comunicazione è l’atto comunicativo: un atto con cui parli di certe cose, ma fai anche capire al Destinatario qual è la tua intenzioni comunicativa, cioè perché ne parli. Quindi ogni atto comunicativo è costituto da due parti: un performativo e un contenuto proposizionale. La nozione di «performativo» è stata proposta da Austin, che per primo ha evidenziato come ogni frase «compie» un’azione. Un atto comunicativo è un’azione prodotta da un Mittente M, volta a influenzare un Destinatario D, cioè a chiedergli di compiere un’azione. Tutta la comunicazione, infatti, è un atto di influenzamento. Il significato di ogni atto comunicativo comprende un contenuto proposizionale e un performativo. - Il contenuto proposizionale è l’insieme di credenze su cui M vuole comunicare, - E il performativo è il tipo di azione comunicativa che M intende compiere verso D relativamente a quel contenuto. (1) Ti consiglio di prendere l’ombrello Qui il contenuto proposizionale parla di qualcuno che prende l’ombrello e dà informazioni su ciò a cui M si riferisce e su ciò che M predica. Il performativo è l’azione di consigliare. 2. Il performativo Sono tanti i performativi delle nostre frasi. Ma poiché il materiale semantico di cui sono costituiti è ricorrente, si possono distinguere in base a un piccolo numero di parametri, cioè i tipi di informazione contenuti in genere nel performativo: 1) Il tipo di scopo dell’atto comunicativo, che ha 4 possibili valori:  Richiesta: si può chiedere all’altro di compiere un’azione  Domanda: dare un’informazione  Informazione: credere a ciò che gli si dicembre  Ottativo: prendere atto di un’espressione di desiderio. 2) Nell’interesse di chi è l’azione richiesta o l’informazione data; 3) Il grado di certezza delle conoscenze comunicate; 4) La relazione di potere fra M e D. Si fa riferimento all’ordine, la supplica e il consiglio, come parametri di relazione di potere tra le due figure; 5) Il tipo di incontro sociale → livello di formalità della relazione con l’interlocutore; 6) Lo stato affettivo del Mittente; 7) La valutazione, positiva o negativa, di M su D o sull’evento o azione menzionati. Non tutti i parametri sono rappresentati in tutti i performativi. Il parametro fondamentale per distinguere i performativi è il «tipo di scopo». Tutta la comunicazione ha uno scopo di influenzamento, quindi ogni atto comunicativo è una richiesta di azione. Fra le varie tipologie di performativi proposte quella che propongono distingue quattro tipi di scopo degli atti comunativi: 1) Richiesta; 2) Domanda; 3) Informazione; 4) Ottativo. All’interno di questi quattro generali «tipi di scopo», innumerevoli performativi specifici si distinguono in base agli altri parametri. Un parametro distintivo all’interno di richieste e informazioni è nell’«interesse di chi» sia l’azione richiesta o l’informazione fornita. Un’importante differenza fra i performativi d’informazione è il grado di certezza con cui il Mittente assume l’informazione C che sta comunicando al Destinatario. Un’altra distinzione tra gli atti comunicativi con scopo di richiesta, rilevante se confrontiamo ordini, consigli e suppliche, è la relazione di potere fra Mittente e Destinatario. Come mostrano gli studi di sociologia linguistica, quando siamo in un rapporto di familiarità con il nostro interlocutore usiamo un linguaggio diverso rispetto a quando intratteniamo solo rapporti di servizio: un’altra differenza fra i performativi è dunque il livello di formalità della relazione con l’Interlocutore. Molti performativi contengono credenze su stati emotivi effettivi o potenziali del Mittente. Nelle informazioni valutative e nelle espressioni di desiderio, un parametro molto importante è la valutazione, positiva o negativa, dell’azione o evento menzionato o evocato. 3. I marcatori del performativo Esistono anche marcatori performativi: - Il più classico marcatore del performativo è una parola nella frase: il verbo performativo. Nella frase (1) Ti prometto che verrò Il verbo prometto non DESCRIVE l’azione comunicativa compiuta, ma la FA, è una promessa. Un verbo performativo è un verbo che esprime l’azione che sta compiendo, e con l’esprimerla la compie. Ma per compiere l’azione che dice, il verbo deve essere «usato performativamente». - Un altro marcatore esplicito del performativo sono le formule performative, parole che solo essendo pronunciate, decretano uno stato di cose in base a convenzioni sociali. Es. scacco matto. - Austin sosteneva che il performativo è esplicito solo quando è espresso da un verbo performativo. Il segnale più chiaro e più usato è l’intonazione della frase. L’intonazione è la variazione della frequenza fondamentale della voce umana quando produce suoni; la sequenza di questi toni diversi chiama melodia o contro intonativo. - Alla categoria delle «formule» appartengono anche gesti come quello che decreta un break nella partita di pallavolo → gesti performativi. - Anche l’espressione facciale che accompagna la frase è un potente segnalatore del suo performativo → facce performative. VI. La forza del non detto 1. L’atto comunicativo e i suoi sovrascopi Il sovrascopo di un’azione è uno scopo per cui lo scopo dell’azione è un mezzo, ma per definizione può essere solo inferito. Lo stesso vale per gli atti comunicativi. Come detto, ogni atto comunicativo comprende un performativo e un contenuto proposizionale, che costituiscono il suo significato; e il significato dell’atto comunicativo è il suo scopo, ossia che che con quell’atto il Mittente vuole dal Destinatario. Tutto questo è il significato letterale, o scopo letterale dell’atto comunicativo, che è comunicato esplicitamente dal significato dei segnali usati. Ma oltre a tale scopo letterale l’atto comunicativo può avere un sovrascopo. Il sovrascopo di una frase o altro atto comunicativo, anche solo corporeo, è dunque uno scopo che il Mittente ha. Chiameremo allora scopo, significato letterale o significato diretto di un atto comunicativo quello che si può desumere dal lessico e dalla sintassi se è una frase, o dal suo significato condiviso se è un gesto, uno sguardo o un altro segnale; e chiameremo sovrascopo o significato indiretto o significato implicito quello che si può inferire dal significato letterale. 1.1. Sovrascopi comunicativi. No dico ma voglio far capire Il sovrascopo è comunicativo quando farlo capire al Destinatario è una condizione necessaria per raggiungerlo. Dunque, è comunicativo quando M vuole che D lo capisca. 1.2. Sovrascopi anticomunicativi. Non dico e non voglio far capire In altri casi il sovrascopo dell’atto è anticomunicativo, cioè M ha quel sovrascopo ma non vuole farlo capire a D, perché se D lo comprendesse il sovrascopo non potrebbe essere raggiunto. (3) La bambina stava dormendo «essere biondo», «essere bambino», «dormire» sono dei predicati-proprietà, cioè richiedono un solo argomento: quello a cui la proprietà si attribuisce. 2.1. Il predicato e i suoi argomenti «Predicato» è una nozione logica astratta, una proprietà o una relazione, per cui il predicato di una frase può venire espresso oltre che da un verbo anche da altri tipi di parole, accompagnate dal verbo essere. Possono essere espresse da aggettivi, o da nomi, e la relazione di luogo e di tempo, da preposizioni. Il predicato pone delle restrizioni sui suoi argomenti. Determina il numero di argomenti cui si può attribuire. Oltre a determinarne il numero, il predicato ne determina anche la natura. Il predicato pone delle restrizioni semantiche su suoi argomenti; il che implica che si può attribuire solo ad argomenti che sono oggetti di altri specifici predicati. 2.2. La ricorsività della struttura La struttura predicato-argomento è ricorsiva, cioè un argomento può essere a sua volta una struttura predicato-argomenti. Possiamo distinguere due tipi di argomenti: - Argomento-cosa = può essere una persona; - Argomento-fatto = un evento, qualcosa che accade. Alcuni predicati si devono attribuire necessariamente a un argomenti-fatto: es. predicati che esprimono atti di comunicazione, pensieri, emozioni, scopi. Un tipico esempio di struttura ricorsiva è il discorso indiretto, in cui il Parlante riporta un discorso di qualcun altro. La ricorsività della struttura predicato-argomenti nelle frasi di una lingua può svilupparsi, per così dire, vero il basso o verso l’altro. - Si ha la ricorsività verso il basso → un evento, cioè un argomento-fatto, è oggetto di un predicato, per esempio un verbo di dire, di emozioni o di pensiero. Questo produce una struttura complessa, in cui una struttura predicato-argomenti prende come suo argomento un’altra struttura = struttura inserita. Sono strutture inserite frasi subordinate, sia esplicite che implicite. - Si ha la ricorsività verso il basso → quando l’intero evento espresso da una frase è a sua volta argomento di un predicato. Ossia: anche di una frase si può predicare una proprietà o una relazione. Il predicato che prende come suoi argomenti una o più strutture predicato-argomento lo chiamiamo «avverbiale». La ricorsività della struttura predicato-argomenti mostra come la lingua utilizzi meccanismi semplici e potenti per costruire strutture anche molto complesse combinando in diverso modo gli stessi semplici elementi. 2.3. La coreferenza Una struttura predicato-argomenti si può ripetere non solo all’interno di un’altra struttura, ma anche accanto a essa: nella coreferenza due o più strutture si riferiscono allo stesso argomento. Un caso di struttura coreferente è la frase relativa: (1) Alberto è amico di una ragazza che studia cinese Che corrisponde a: (2) Alberto è amico di una ragazza. La ragazza studia cinese Ma abbiamo strutture coreferenti anche con parole singole come aggettivi o nomi, che sono la «condensazione» di una frase relativa. (1) Loro hanno visto un film bellissimo Corrisponde a: (2) Loro hanno visto un film che è bellissimo 3. Le parti del discorso Questa struttura viene espressa in «classi di parole» diverse, le diverse «parti del discorso», ciascuna delle quali è dedicata a esprimere una parte specifica della struttura, e quindi un particolare tipo di significato. Ecco le funzioni delle parti del discorso distinte dalla grammatica tradizionale: - Nomi - Pronomi - Articoli - Aggettivi - Verbi - Preposizioni - Congiunzioni - Avverbi - Interiezioni 3.1. Nomi, pronomi e articoli Nomi, pronomi e articoli esprimono gli argomenti di una frase. - Un nome comprende nel suo significato le credenze che servono a far riconoscere uno specifico argomento o una classe di argomenti. - Il nome proprio è un’«etichetta»: permette di identificare un argomento ben preciso, caratterizzato proprio e solo dal chiamarsi in quel modo. - Il nome comune invece contiene nel suo significato le credenze definitorie, cioè necessarie e sufficienti a identificare una certa classe di argomenti. - Il pronome identifica un argomento ma richiamandone solo alcune credenze definitorie generiche. 3.2. Verbi e aggettivi, preposizioni, congiunzioni e avverbi Verbi e aggettivi esprimono il predicato in una frase e una struttura inserita o coreferente. - La preposizione, per esempio a in (1) Alberto è andato a Roma Contribuisce insieme al verbo a esprimere un predicato-relazione, cioè due o più argomenti. - L’avverbio esprime il predicato di una struttura avverbiale a un solo argomento-fatto, cioè attribuisce una proprietà all’evento espresso da una frase. - La congiunzione esprime invece di predicato di una struttura avverbiale costituita da due argomenti-fatto. - L’interazione infine è un segnale olofrastico. VIII. Le parole 1. Le parole e il loro significato Conoscere significa acquisire informazioni nuove su oggetti di conoscenza. Ogni oggetto di conoscenza nella nostra mente è un nodo in una rete di credenze, e ogni credenza che abbiamo su di esse è un predicato. Avere una credenza significa sapere qualcosa su un nodo della rete. Quando la conoscenza ci arriva attraverso la comunicazione, ogni parola è portatrice di una credenza, cioè di un predicato attribuito a uno o più nodi. 1.1. Tratti semantici Chiamiamo tratti semantici, cioè «caratteristiche di significato», queste credenze primitive che permettono di distinguere un nodo da tutti gli altri caratterizzati dagli stessi tratti. Il fatto che uno stesso tratto semantico sia presente nel significato attribuito a molto nodi è un elemento di economia del lessico. Tutti i nomi comuni in una lingua servono a individuare classi di cose o di fatti. - Una classe è un insieme astratto di nodi che hanno almeno una caratteristica rilevante in comune. Per raggruppare in una classe un certo numero di nodi dobbiamo coglierne le caratteristiche che li rendono più simili a nodi con cui conviene raggrupparli e li distinguono da altri con cui è meglio non confonderli. 1.2. Componenti semantici Nelle parole che riguardano fatti, qualche che accade, possiamo individuare credenze che combinate insieme ne costituiscono il significato: li chiamiamo componenti semantici. In (1) Andrea dà il libro a Beatrice il significato del predicato dare comprende alcuni significati più semplici che combinati lo costituiscono: il predicato esprime un cambiamento nel luogo con cui coincide l’oggetto dato; chi causa questo cambiamento è Andrea, che lo fa con lo scopo di causarlo. 1.3. Il bello di tratti e componenti I significati delle parole sono come costruzioni Lego: ogni parola è composta da un piccolo numero di mattoncini che ricorrono in mole parole diverse e che sono più primitivi, meno numerosi delle parole e universali. La scomponibilità semantica delle parole in tratti o componenti è la chiave per capire la regole della compatibilità semantica fra predicato e argomenti in una frase. Il fatto che le parole siano costituite di tratti o componenti semantici spiega anche un fenomeno pervasivo della comunicazione: la metafora. - La metafora è una figura retorica, cioè un modo di usare le parole stravolgendone il significato. Essa può essere considerata una cancellazione di tratti semantici: quando uso una parola in senso metaforico non mi avvalgo di tutti i significati che porta, perché me ne servono solo alcuni. 2. L’analisi del significato Quella vista fino ad ora era la struttura semantica della nostre frasi. Si fa riferimento perciò a quella che è l’analisi del significato. 2.1. Regole semantiche e norme d’uso Innanzitutto, in ogni sistema di comunicazione possiamo distinguere due tipi di regole: - Regole semantiche → stabilisce la corrispondenza tra segnali e significati, determinando istruzioni. - Regole internazionali o norme d’uso → non stabilisce come comunicare un certo significato, ma se un certo significato può, non può, deve o non deve essere comunicato in una certa situazione. Come funzionano queste norme d’uso? - Alcune sono molto generali: es. in certe culture gesticolare è sanzionato, perché i gesti sono considerati un sistema di comunicazione informale, e questo porta a inibire la gestualità in genere. 3) Avversativo; 4) Perplessità o dubbio. L’elemento semantico che si ritrova in tutti questi significati dell’innalzamento di sopracciglia è quello di un’informazione nuova, inattesa, non inferibile dalle credenze. - Nella sorpresa e nel significato avversativo, una credenze in entrata è in contrasto con quelle preesistenti; - Nella perplessità, il contrasto fra credenza causa un’indecisione epistemica; - Nell’enfasi c’è semplicemente una credenza nuova. I quattro significati differiscono invece: - Per il soggetto che crede o inferisce le credenze in questione; - Per la classe di contesti in cui il segnale è prodotto. E veniamo all’aggrottamento; che si fa ravvicinando le sopracciglia. Questo segnale si usa quando: 1) Fai una domanda; 2) Non riesci a capire una cosa; 3) Vuoi comunicare al tuo Interlocutore che non capisci ciò che dici; 4) Vuoi comunicargli in modo indiretto che non sei d’accordo; 5) Guardi qualcosa molto attentamente; 6) Cerchi di ricordare qualcosa; 7) Asserisci qualcosa con sicurezza, facendo capire che non stai dicendo per scherzo; 8) Sei preoccupato per qualcosa; 9) Sei arrabbiato; 10) Dai un ordine perentorio. Parte quarta. Fingere e scherzare IX. L’inganno 1. Che cos’è l’inganno Un inganno è un atto o tratto di un organismo M che ha lo scopo di non far avere a un organismo I una credenza vera che per quell’organismo è rilevante, e che non rivela tale finalità. Questi i componenti definitori della nozione di inganno: - Un atto o un tratto; - Che ha lo scopo S; - Di far sì che un altro Agente I: • Non venga ad assumere una credenza vera CV; • O venga ad assumere una credenza falsa CF; - Dove la credenza C è rilevante per I; - Inoltre, M intende non far sapere a I del suo scopo S. Questa definizione configura l’inganno innanzitutto come un atto sociale, cioè un atto di un Agente verso un altro Agente. Quindi la parola «inganno» è un nome generico che include molti iponimi, di cui forse il prototipo, cioè il caso più tipico, è la bugia – un atto linguistico con cui qualcuno cerca di far credere il faslo a qualcun altro. La nostra definizione generale di inganno non riguarda soltanto gli inganni umani, ma anche quelli degli animali non umani. Vediamo i vari punti di questa definizione: 1) Atto o tratto; 2) Scopo; 3) Non verità; 4) Rilevanza; 5) Metainganno. 1.1. Un atto, un oggetto o una caratteristica La nozione di atto è intesa qui in un senso molto ampio, con accezioni più forti e più deboli. Possiamo considerare atti ingannevoli: - Un atto linguistico (es. bugia); - Un atto comunicativo non linguistico (es. sorriso ipocrita); - Un atto non comunicativo (es. M uccide P e poi gli mette la pistola nelle mani per far credere il suicidio); - Un’omissione (es. un ragazzo che decide di non dire alla sua compagna di avere l’HIV). Oltre agli atti in sé, si posson considerare inganni gli oggetti prodotti o usati per ingannare o durante un’azione di inganno: - Un oggetto prodotto dall’atto di inganno; - Un oggetto usato in un atto di inganno. Infine, può essere un inganno un tratto funzionale di un sistema: - Una caratteristica morfologica di un organismo. 1.2. Scopo Possiamo distinguere due tipi di inganno, in base al tipo di scopo: 1) Inganno funzionale: quello degli animali non umani, in cui lo scopo di non far sapere il vero all’altro è una funzione biologica. 2) Inganno intenzionale: quello degli umani, si tratta dell’inganno vero e proprio. 1.3. Non verità Lo scopo dell’Ingannatore M è far sì che l’Inganno I non sappia la verità: cioè non venga ad assumere una certa credenza. Distinguiamo tra: - Verità oggettiva → il caso di una credenza che «fotografa» fedelmente la realtà esterna. Ma è molto difficile essere certi di verità oggettive. - Per decidere cosa è inganno possiamo far riferimento a una verità soggettiva, possiamo effettivamente decidere cosa è inganno. Tutto ciò ci permette di distinguere tra l’inganno umano e quello degli altri animali. - Nell’inganno «intenzionale» degli uomini, lo scopo di ingannare è una intenzione cosciente dell’ingannatore; - Nell’inganno «funzionale» degli animali, invece, lo scopo di ingannare è una funzione biologica dell’Ingannatore. 1.4. Rilevanza La credenza vera che l’Ingannatore non fa avere all’Ingannato è una credenza rilevante per quest’ultimo, cioè gli serve per perseguire i suoi scopi. 1.5. Metainganno Se ti voglio ingannare non te lo devo far sapere; cioè, perché ci sia inganno si deve ingannare anche sul proprio scopo di ingannare. Manca il metainganno nei casi di «inganno consensuale». 2. Perché esiste l’inganno? Perché le persone ingannano? Come sappiamo, la conoscenza è una delle risorse fondamentali di cui si servono gli organismi per vivere e realizzare i loro scopi: sapere è potere. Per questo gli umani hanno quello di acquisire credenze, e credenze vere, cioè rappresentazioni il più possibile fedeli alla realtà. - Possedere una credenza, e non condividerla con chi ne ha bisogno, è un atto di egoismo che può darci molto potere; - e al contrario fornirla a un altro è fargli un regalo: un atto d’altruismo. Per questo fra gli umani vige una norma di «altruismo della conoscenza». L’inganno è proprio una violazione di questa norma. Chi inganna rifiuta di condividere le sue credenze, e può farlo per due scopi: - Per mantenere il proprio potere; - Influenzare l’altro, cioè indurre o inibire scopi. La principale funzione adattiva dell’inganno, infatti, è la stessa della comunicazione: influenzare gli altri. Dunque, se la condivisione di informazioni veritiere è atto di cooperazione, la non condivisione e la comunicazione deliberata di informazioni fuorvianti inducono uno squilibrio nei saperi, e quindi nei poteri delle persone. 3. L’inganno: buono o cattivo? In termini utilitari l’inganno = atto conveniente per l’Ingannatore, in termini etici = atto aggressivo che provoca danno all’Ingannatore, per tre motivi: 1) Compromette lo scopo di B di conoscere il vero; 2) Quando la credenza fuorviante fornita da A è finalizzata a influenzare B, se B sapesse il vero non farebbe quanto A lo induce a fare, e ciò finisce col fare compromettere i suoi scopi; 3) L’inganno è la violazione della norma di altruismo reciproco delle conoscenze. Ma l’inganno è sempre un male? A volte è attuato con intenzioni benevole: un inganno a fin di bene. 3.1. La verità che fa male Alcune credenze provocano emozioni negative  sono credenze «dolenti», che ci inducono addirittura a ingannare noi stessi. È proprio per risparmiare agli altri informazioni che li farebbero star male che li inganniamo. 3.2. Inganno prosociali tutori Sono inganni prosociali tutori le cosiddette «bugie a fin di bene»: quelle che diciamo per non ferire i sentimenti altrui. Tuttavia, c’è sempre una piccola quota di danno che l’Ingannatore infligge all’Ingannato → violazione del diritto dell’altro alla verità. È questo il vulnus più grave all’altro, nell’inganno a fin di bene: l’attacco alla sua immagine. 4. In quanti modi posso ingannarti? Sono davvero tanti i modi in cui si inganna. Nel lessico di una lingua sono alcune centinaia le parole che si riferiscono all’inganno. Si delineano le principali distinzioni fra modi di ingannare, facendo riferimento a tre aspetti cognitivi dell’inganno: 1) Il tipo di manipolazione che l’Ingannatore attua sulla mente della persona da ingannare; 2) Il tipo di azioni che deve compiere per farlo; 3) Le credenze dell’altro. 8. Gli inganni a fin di bene - Inganni «a fin di bene» → la persona che cerchiamo di difendere o avvantaggiare non siamo noi ma altri. - In inglese e in altre lingue si chiamano «bugie bianche» quelle considerate meno gravi, in genere perché a fini di cortesia. - Inganni prosociali → quelli la cui metà è a difesa o a vantaggio di altri, cioè dell’Ingannato o di terzi. 8.1. Inganni tutori Gli inganni tutori si possono distinguere in base al loro scopo. - EA = evitare azione negativa → finalizzati a evitare che l’Ingannato compia un azione che andrebbe a sua danno; - PA+ = provocare azione positiva → mirano a provocare un’azione dell’Ingannato positiva per lui; - EE- = evitare emozioni negative all’Ingannato; - PE+ = provocare emozioni positive all’Ingannato. 8.2. Inganni per la faccia Un tipo di inganni tutori volti a evitare emozioni negative e provocarne di positive sono quelli relativi all’immagine: molte omissioni e bugie puntano provocare emozioni positive dell’immagine o evitarne di negative. 9. A caccia di bugie Le persone cercano di scoprire inganno e ingannatori. Ma questa capacità è innata o si può imparare? Ambedue. - Dal punto di vista cognitivo, ingannare implica un carico cognitivo più pesante rispetto al dire la verità; - Dal punto di vista emotivo, quando una persona inganna può provocare alcune particolare emozioni. A volte queste emozioni sono espresse spontaneamente dalla faccia; - Dal punto di vista comunicativo, particolarmente dalle modalità corporee possono sfuggire indizi d’inganno. X. Giochi comunicativi 1. Comunicazione letterale e non letterale - Per significato letterale s’intende il significato che può essere attribuito a un segnale o combinazione di segnali in base alle regole del suo sistema di comunicazione. - Il significato non letterale di un segnale o combinazione di segnali è un significato che si può ricavare per inferenza dal significato letterale. Nella comunicazione non letterale il significato che il Mittente vuole far capire al Destinatario è diverso da ciò che letteralmente comunica. Quello dell’atto comunicativo indiretto  È un significato non letterale idiomatico perché l’inferenza necessaria per comprenderlo a partire dal significato letterale è obbligata  È «creativo» perché le inferenze necessarie per dedurre questi due significati differiscono a seconda del contesto. La stessa differenza fra questi ultimi due significati la troviamo in singole parole. - I significati metaforici di alcune partole in certi contesti sono idiomatizzati; per questi si chiamano metafore morte. - Il significato non letterale di una parola è invece creativo quando in ogni contesto i significati che si ricavano da quello letterale sono diversi → metafore creative. Gli idioms, o espressioni idiomatiche¸ sono un caso particolare di segnale con significato non-letterale idiomatizzato. Un idiom è una sequenza di parole che ha la funzione di una parola singola, ma il cui significato non si può dedurre dalla combinazione delle parole che lo costituiscono. 2. Le figure retoriche Una figura retorica è un uso di una parola o di un segnale corporeo, di una frase o di altro atto comunicativo, cui il significato che il Mittente vuole comunicare è diverso da quello letterale, ma vi è collegato da una particolare regola d’inferenza. Poiché le figure retoriche sono segnali o atti comunicativi usati con un significato «traslato», cioè spostato, diverso da quello che hanno di norma, si distinguono per il tipo di deviazione chi imprimono al significato letterale. Vediamone alcune. 2.1. Similitudine Si ha una similitudine quando una proprietà di una entità viene attribuita a un’altra entità, stabilendo fra queste una somiglianza. 2.2. Metafora La metafora è considerata fin dalla retorica classica una similitudine implicita. Se togliamo dalla similitudine la proprietà e la comparazione, abbiamo la metafora. 2.3. Metonimia La metonimia è una figura retorica in cui si menziona un oggetto X per riferirsi a un altro oggetto Y che gli è semanticamente connesso, per esempio perché X è parte di una definizione o descrizione di Y, o è qualcosa di prodotto o causato da Y. 2.4. Sineddoche La sineddoche si può considerare un tipo di metonimia, in cui il significato letterale e quello indiretto sono collegati in un modo più specifico che nelle altre metonimie. Considera relazioni di tipo parte/tutto, oggetto/funzione, contenente/contenuto. 2.5. Iperbole Iperbole vuol dire esagerazione. Si ha un significato iperbolico quando il significato letterale esagera rispetto a quello inteso. 2.6. Eufemismo: indorare la pillola Eufemismo = una figura in cui si usa un segnale che ha un significato letterale gradevole per smascherare un significato inteso che è al contrario crudo. 2.7. Disfemismo Il disfemismo è l’opposto dell’eufemismo: usare deliberatamente una parola o espressione particolarmente cruda o insultante, in genere per ragioni di provocazione. 2.8. Litote La litote è una figura che esprime un significato Y negando il significato opposto X. 2.9. Allusione Alludere è un atto comunicativo con cui il mittente ha lo scopo di far capire al Destinatario che intende riferirsi a una credenza che non vuole menzionare esplicitamente ma dà per certo sia fra loro condivisa, e chiede al Destinatario di recuperarla dalla sua memoria per farne oggetto di discorso. Un caso di allusione sono le citazioni nelle canzoni, nelle opere, nei film. 2.10. Ironia L’ironia è una figura retorica in cui il Mittente di un atto comunicativo ha lo scopo letterale di comunicare un significato X, ma attraverso tale significato ha il sovrascopo di comunicare un significato Y che è contrastante, spesso addirittura opposto, rispetto a X. 2.11. Capire l’ironia L’ironia è un caso di «recitazione» e non di inganno perché il Mittente fa capire al Destinatario che sta comunicando credenze opposto a quelle che crede vere. Il Destinatario deve compiere due passaggi: - Prima capire che il Mittente intende essere ironico (allartemanto all’ironia) - E poi deve inferire il significato ironico a partire dal significato letterale (comprensione dell’ironia). Una prima tecnica di allertamento dell’ironia → metacomunicazione: uno specifico segnale di ironia dedicato che metacomunica, cioè comunica sulla propria comunicazione «sto facendo dell’ironia», «sono ironico». Un altro modo → paracomunicazione: il Mittente produce un atto comunicativo verbale o corporeo, contemporaneo o simultaneo a quello ironico, che dà un’informazione parallela ma contrastante. A volte infine non è necessario nessun segnale per allertare all’ironia, perché tutto il lavoro lo fa il contesto. Parte quinta. Le parole del corpo XI. Le interiezioni 1. I lessici del corpo Non solo le lingue hanno un lessico; anche i sistemi di comunicazione del corpo hanno segnali codificati che costituiscono lessici. 2. L’interiezione. Una parola-frase L’interiezione è una parola-frase, cioè un segnale vocale olofrastico, ossia una coppia segnale-significato codificata in cui a un segmento unitario corrisponde il significato di un atto linguistico completo. 3. Interiezioni e frasi incomplete Se un’interiezione porta il significato di un atto comunicativo intero, qual è la differenza da una frase incompleta di una parola sola? Sia l’interiezione che la frase veicolano un atto linguistico completo, ma - un’interiezione ha sempre il significato dello stesso atto linguistico, codificato nel lessico, - mentre la frase incompleta porta atti linguistici sempre diversi in diversi contesti. Nella frase incompleta l’unica parola pronunciata porta il significato solo di una parte dell’atto linguistico; e le parti non espresse dell’atto linguistico devono essere recuperate dal contesto. Nell’interiezione invece il significato dell’atto linguistico completo è lo stesso in qualunque contesto. Tuttavia, nell’interiezione non sono codificati proprio tutti gli argomenti della struttura comunicativa: uno deve essere recuperato dal contesto. Per questo l’interiezione si può considerare un segnale deittico in cui il significato del segnale varia a seconda del contesto in cui è prodotto. 4. Tipi di interiezioni Si possono distinguere: - Interiezioni primarie → vocalizzazioni istintive naturali e agli «scopi emotivi»: suoni fisiologici o riflessi vocali come risate o sospiri. - Interazioni secondarie → sono semplicemente parole «normali» di una lingua che sono usate anche come interiezioni, cioè parole olofrastiche. 6. Le parole dei sordi: da un lessico di gesti a una lingua di segni Il caso più tipico di un sistema di gesti simbolici sono le Lingue di Segni usate dai sordi. È un sistemi di gesti simbolici che comprende regole lessicali, morfologiche e sintattiche. Le Lingue di Segni sono lingue storico- naturali; ce n’è una Italiana, una francese, una inglese, ecc.. E addirittura possono comprendere dialetti. Per questo non si deve confondere una Lingua di Segni con un lessico di gesti simbolici. La prima è una lingua a pieno titolo perché ha anche una sintassi. 7. Cherologia: la fonologia dei gesti Nel 1960 William Stokoe per dimostrare che quelle usate dai sordi sono lingue a pieno titolo propose di analizzarle attraverso strumenti concettuali analoghi a quelli applicati alle lingue vocali: mostrò anche che dei segni possiamo individuare i «cheremi», cioè i fenomeni delle mani. Alla base del concetto di cherema vi è la nozione di «parametro formazionale» del segno: ciascun segno di una lingua di segni è prodotto con una certa forma della mano, in un certo luogo, con un certo movimento e orientamento. I parametri formazionali sono criteri di classificazioni in base a cui è possibile analizzare i gesti di qualsiasi sistema di comunicazione gestuale. Così ogni gesto è caratterizzato univocamente dalla combinazione dei valori che assume rispetto ai vari parametri. 8. Il Gestionario Se i gesti simbolici sono un lessico, possiamo scriverne un dizionario: per ogni «entrata lessicale» di un sistema di comunicazione esso riporta le informazioni sul segnale e sul significato. Vi sono tre dizionari di tre sistemi di comunicazione corporee: Gestionario, Occhionario o Tocconario. Gestionario: il lessico dei gesti simbolici usati dagli udenti in Italia. In una ricerca, 250 gesti simbolici sono stati raccolti e analizzati in base a uno schema, in cui per ogni gesto sono state individuate varie informazioni semantiche. - Formulazione verbale: per ogni gesto simbolico è scritta nel Gestionario una formulazione verbale che lo accompagna o lo parafrasa; - Contesto: per un gesto vi sono contesti in cui più tipicamente si una o l’altro; - Sinonimi: altri gesti che hanno più o meno lo stesso significato del gesto analizzato; - Contenuto semantico: la definizione vera e propria che mira a enucleare il significato comune agli usi del gesto in contesti diversi; - Classificazione grammaticale: nei gesti simbolici non ci sono vere e proprie categorie grammaticali come nome o verbo, ma è possibile distinguere gesti olofrastici e articolati, cioè «gesti-frase» e «gesti-parola»; - Classificazione pragmatica: i «gesti-frase» si classificano come gesti di domanda, richiesta, minaccia, lode; - Classificazione semantica: ogni gesto è classificato nel Gestionario come Informazione sul Mondo, l’Identità o la Mente del Mittente. - Significato retorico originario e significato retorico coesistente (figure retoriche) nei gesti: anche di un gesto possiamo avere un uso retorico. XIII. Il contatto fisico 1. Toccare. La comunicazione aptica La comunicazione aptica riguarda toccare gli altri. Questo tipo di rapporto è molto importante, sia perché è un sistema antico, sia perché è effettivamente il primo approccio che un bambino appena nato ha con la sua mamma. Ma nonostante questo, il tocco diventa comunicativo quando c’è contatto diretto sulla palle o sui vestiti. Noi tocchiamo cose e persone per diversi scopi: 1) Percepire → per ricavare informazioni percettive; 2) Afferrare → tocchiamo una mela per afferrarle e addentarla; 3) Sentire → cioè provare sensazioni piacevoli o spiacevoli; 4) E infine tocchiamo per comunicare. Il toccare è comunicativo quando vi è un contatto fra una parte del corpo del Toccante e una parte del corpo del Toccato perché il Toccante ha lo scopo di far avere credenze al Toccato. Spesso lo scopo da parte di chi tocca e la comprensione di chi è taccato sono taciti (non vi è consapevolezza esplicita) ed è difficile determinare se un atto di toccare sia davvero comunicativo o no. Oltre a capire, per ogni «atto di contatto fisico», se comunica o no, dobbiamo chiederci cosa comunica. 2. Aptologia. La fonologia del toccare Anche per il toccare possiamo classificare tutti gli atto di contatto fisico in base a un certo numero di parametri formazionali, i cui valori costituiscono l’aptologia, cioè la «fenologia» di tutti i segnali aptici. Il primo parametro rilevante sono gli organi con cui si tocca e si è toccati. Ci concentriamo su quelli della comunicazione quotidiana. Gli altri parametri formazionali riguardano il luogo e il movimento: 1) Parte toccante: la parte del corpo del Toccante che tocca il Toccato (es. nella carezza è la mano); 2) Parte toccate: la parte del corpo del Toccato che viene toccata; 3) Luogo o spazio toccato: 3 valori →punto, linea, area; 4) Movimento: si può distinguere un movimento 1 e un movimento 2, che può esserci o non. Entrambi i movimento sono articolati in sottoparametri: a) Direzione: il tragitto delineato dalla parte toccante alla parte toccata; b) Pressione: la forza del movimento; c) Tempo: lunghezza, frequenza o ripetizione del contatto fisico fra parti toccate o toccata. Ha come dimensione  Durata  Velocità  Ritmo. 3. Il Tocconario. Significati del toccare Anche per i segnali di contatto fisico è possibile individuare e classificare i significati, e quindi farne un lessico. Tocconario → dizionario del toccare, in cui per ogni segnale aptico si indicano le seguenti informazioni: 1) Nome o descrizione verbale: una parola o espressione verbale che menziona il segnale analizzato; 2) Parafrasi o espressione verbale che può accompagnare l’atto di tocco; 3) Significato letterale 4) Significato indiretto: inferibile da quello lettere e che però è quello veramente inteso dal Mittente; 5) Significato originario: anche i segnali di contatto fisico possono avere origine, attraverso il meccanismo della ritualizzazione, da azioni non comunicative; 6) Scopo sociale: ogni contatto fisico esprime la disposizione sociale del Toccante verso il Toccato. Lo scopo è  Aggressivo, quando l’atto di toccare mira a fare male all’altro;  Protettivo se offre aiuto o affetto;  Affiliativo se chiede aiuto o affetto;  Amichevole quando offre aiuto o affetto ma senza implicare una differenza di potere. 4. Chi, dove e quando toccare: norme d’uso del Tocconario Fra le regole che costituiscono un lessico, un’informazione molto importante sono le norme d’uso che regolano chi, dove e quando si può usare il segnale analizzato. Tre segnali del Tocconario: 1) Tempo: in quale momento di un incontro faccia a faccia si esegue in genere il segnale di contatto fisico, se all’inizio, alla fine o durante l’incontro; 2) Scopo interazionale: gli scopi per cui i partecipanti interagiscono determinano come dev’essere interpretato il segnale di contatto fisico. Può essere  Affettivo, se usato per stabilire un tipo di interazione in cui comunicare un affetto positivo o negativo e sincero;  Erotico, se fa parte o prefigura un contatto sessuale;  Rituale se è governato da norme cerimoniali;  Scherzoso, se il contatto fisico è usato violando ostentatamente le regole d’uso; 3) Grado di intimità: se il gesto di contatto fisico si usa solo fra amanti, o con amici, conoscenti, sconosciuto; 4) Relazione di potere fra Toccante e Toccato. Queste norme d’uso possono variare in situazioni storiche e sociali particolari. 5. Il Tocconario: una ricerca empirica 6. Il contatto fisico tra madre e bambino: un rivelatore di affetti e disposizioni all’interazione È nota l’importanza del contatto fisico con la madre per lo sviluppo affettivo e relazionale del bambino. L’analisi del contatto fisico è stata applicata all’interazione fra tre mamme e i loro rispettivi bambini. I tipi di atto comunicativo individuati sono i seguenti: - Offerta di aiuto - Offerta di affetto - Richiesta - Richiesta di aiuto - Richiesta di affetto - Proposta - Richiesta negativa o proibizione - Condivisione. XIV. Lo sguardo 1. Vedere, guardare, sentire, pensare, comunicare Gli occhi ci servono a diverse funzioni, quali: - Vedere, cioè immagazzinare informazioni attraverso la percezione visiva; - Guardare, cioè vedere con l’intenzione di farlo; - Sentire. La percezione visiva è fonte di sensazioni positive e negative e piaceri estetici. - Pensare: aiutano i processi del pensiero; - Comunicare: coi loro movimenti e tratti morfologici facciamo avere informazioni agli altri, deliberatamente o meno. 2. Parole sullo sguardo e parole dello sguardo Lo sguardo è un sistema di comunicazione, con un lessico, una fonologia e forse anche una morfologia. Ma come fare a scrivere questa «grammatica» dello sguardo? Per capire quali sono e come sono fatte le «parole» dello sguardo adottiamo l’approccio «etnosemantico», che definisce i concetti di senso comune partendo da come sono distinti e organizzati nel linguaggio quotidiano. L’analisi entosmetnica definisce i concetti di senso comune, e serve per comprendere le parole dello sguardo. Questa analisi mostra inoltre - In molte lingue il modo più sicuro per attribuire i predicati ai nodi giusti è la sintassi, cioè l’ordine delle parole. - In lingue come il latino, in cui la morfologia di caso ha una peso più rilevante della sintassi, l’informazione su quale nodo sia il primo o il secondo argomento di un predicato è segnalata da una parte della parola, la desinenza. Quando passiamo dalla frase al testo, come facciamo a connettere i nodi delle frasi, a sapere a quale nodo di una frase attribuire un predicato dell’altra? I nodi sono identificati da due tipi di parole: nomi e pronomi. - Il nome identifica un nodo perché contiene nel suo significato tutti i tratti semantici che lo definiscono. Tuttavia, lo stesso nodo può essere nominato in altri modi  Si ha ripetizione quando il nodo è nominato un’altra volta esattamente con lo stesso nome;  Un sinonimo è una parola che ha un significato molto simile a quello di un’altra;  Un iperonimo è il nome della classe a cui il nodo appartiene;  Infine, una definizione è un’espressione di più parole che insieme corrispondono al significato di un nome. - Un pronome è una parola messa al posto di un nome per identificare un nodo che con quel nome è già stato o può essere chiamato  È anaforico quando si riferisce a un nodo che è stato nominato precedentemente nel testo o discorso;  È cataforico quando rimanda a un nodo che verrà nominato in seguito;  Il pronome deittico richiama un nodo da cercare nel contesto fisico;  Vi è infine un uso enciclopedico di un pronome, quando per recuperarne il referente è necessario cercare fra le credenze sul mondo condivise fra parlanti e ascoltatori. 2.2. Parole e inferenze Quando cerchi in un testo il referente di un pronome, in genere segui le regole della vicinanza e dell’accordo morfologico. - La regola della vicinanza dice: il referente del pronome è il nodo nominato dal nome più vicino - Più cogente è l’accordo morfologico: cercare un nome con cui si accorda la morfologia del pronome - Se però né la vicinanza né l’accordo bastano a individuare il referente giusto, ci si basa sul significato delle parole che accompagnano il pronome. 3. La rete esplicativa Se la rete strutturale è la struttura «atomica» del brano, vista predicato per predicato, nodo per nodo, salendo a un livello «molecolare», ciascuna delle credenze così costituite si interconnette con le altre, andando a formare una ulteriore rete → rete esplicativa. A questo livello le credenze sono connesse da legami di spiegazione: le une spiegano le altre, nel senso che permettono di inferirle. I legami che connettono in una rete le credenze di un brano sono di vario tipo: - Nessi di tempo, - Di spazio, - Classe-esempio, - Causa-effetto, - Mezzo-scopo, - Condizione, - Relazione avversativa. I nessi possono essere esplicitati da avverbiali come prima, poi, intanto, ecc. Nel processare un brano il lettore o ascoltatore si chiede il perché di quella credenza. Nella rete esplicativa, ogni credenza si collega a una o più altre attraverso legami di spiegazione, rappresentati da frecce che vanno dalla credenza che spiega alla credenza che è spiegata. L’interconnessione esplicativa fra le credenze è fondamentale per varie operazioni cognitive sul testo. Questa quantità di legami è particolarmente rilevante sia per la comprensione del brano che per il suo riassunto. Il legame di spiegazione per eccellenza è quello causale. Tuttavia i diversi tipi di testi e discorsi si differenziano per i loro legami di spiegazione più frequenti. Consideriamo tre tipi di legami: - Cause → è un evento senza il quale non ne potrebbe avvenire un altro; - Scopi → uno stato non esistente che motiva l’inizio dell’azione; - Condizione → causa «debole», che cioè solo in presenza di altre concause permette il verificarsi di un evento. 4. La gerarchia di scopi Ecco il terzo tipo di connessione che tiene insieme le frasi di un brano → gerarchi di scopi. Un testo è discorso è un piano comunicativo, cioè una gerarchi di scopi di azioni comunicative. Ogni atto comunicativo ha uno scopo letterale, espresso dal suo significato letterale; ma questo scopo può essere subordinato a una catena più o meno lunga di sovrascopi (SS). Per una comprensione completa di un brano, dunque, non basta ricostruire il significato letterale dei suoi atti comunicativi; è necessario capirne i sovrascopi fino a cogliere la meta del brano, cioè lo scopo ultimo per cui il Mittente lo ha prodotto. 5. L’iceberg e le credenze fantasma Possiamo vedere come molte credenze non siano esplicite. La parte nascosta dell’iceberg sono le credenze fantasma: tutte le credenze necessarie alla nostra comprensione ma non esplicitate nel brano. 6. Tipi di testi e discorsi Sono molti e diversi i tipi di testi e discorsi che possiamo produrre. Una distinzione classica ne individua cinque tipi: 1) Descrittivo → ha lo scopo di dare informazioni su un’entità «cosa», cioè un oggetto animato o inanimato, concreto o astratto, individuale o collettivo. 2) Narrativo → narrare, raccontare, significare da informazioni su un’entità «fatto», cioè su un evento o una serie di eventi che si svolgono nel tempo. 3) Espositivo → illustra in dettaglio non oggetti o eventi concreti ma concetti astratti. 4) Regolativo → un testo che menziona o richiede azioni da compiere. 5) Persuasivo → un testo o discorso che ha come scopo finale una richiesta d’azione. VXI. La conversazione 1. La struttura dell’interazione Che cos’è una conversazione? Secondo i teorici dell’Analisi Conversazionale, due enunciati di persone diverse fanno una conversazione in virtù della loro collocazione sequenziale: una frase si può considerare una risposta non in base ai suoi aspetti fonologici, sintattici, semantici o logici, ma solo per il fatto che viene dopo una domanda. Quando conversano, due persone producono «coppie conversazionali», o «coppie di adiacenze», cioè coppie di frasi di cui una è tendenzialmente sempre seguita da una corrispondente: domanda e risposta, informazione e presa d’atto, appello e risposta, saluto e saluto. 1.1. La presa del turno Questa visione puramente temporale della conversazione vede come uno dei capisaldi dei meccanismo conversazionali «presa del turno». L’alternanza tra gli interventi di più persona è regolata da leggi che dicono quando e chi può prendere il turno di parola. 1.2. Struttura dei turno e struttura della relazione La struttura delle regole per la presa del turno varia da un tipo all’altro di situazione interazionale, il che permette di descrivere i rapporti di potere che vigono in ogni tipo di interazione. Vi sono infatti - Interazioni simmetriche → una conversazione tra mici tutti hanno lo stesso potere interazionale, cioè gli stessi diritti di presa del turno; - Interazione asimmetrica → chi ha più potere o ne sa di più ha un «diritto di regia», cioè è quello che fa domanda e determina chi può parlare, di che cosa e quando. 2. Il significato dell’interazione In realtà, non bastano due frasi di due persone diverse per fare una conversazione. Ma l’immediata sequenzialità di un secondo atti comunicativo con il promo non è nemmeno condizione necessaria. Che cosa dunque fa, di due o più atti comunicativi di persone diverse, una conversazione? Uno scopo comune. La conversazione è un caso di adozione di scopi. Due atti comunicativi di Mittente di versi «fanno conversazione» quando adottano gli scopo l’uno dell’altro. Dunque, cioè che rende le nostre frasi degli atti di conversazione non è il loro essere prodotte dopo altre frasi che le «chiamano», ma comunicare i significato che sono richiesti. 3. Scopi di controllo e segnali di backchannel quando parliamo con un’altra persona ogni nostro atto comunicativo ha uno scopo «centrale», che chiediamo all’altro di realizzare. Ma oltre a questo scopo «centrale», ogni mio atto ha degli scopi di controllo, gli scopi epistemici di avere informazioni sull’Interlocutore e sull’andamento della conversazione in corso.  A volte un consiglio indiretto menziona una relazione mezzo-scopo o causa-effetto fra il sottoscopo S2 proposta da A e lo scopo S1 che A attribuisce a B.  Un’ultima strategia di consiglio consiste nel dare la ragione dello scopo consigliato. 6. Un aiuto alla decisione Il consiglio si colloca a metà strada tra un’informazione e una richiesta, tra una consulenza e un ordine. - La consulenza è una sorta di consiglio dato in un ambito professionale e/o istituzionale/istituzionalizzato - Il consiglio nelle relazioni familiare o amicali. Differenza consulenza vs. ordine: - Il consulente si limita a dare informazioni utili per la decisione, a far presenti possibili scopi da porsi, senza però avere lo scopo che l’altro segua proprio quella strada; - Chi consiglia lascia all’altro la libertà di porsi o meno lo scopo proposto, e tuttavia non si pone nel modo freddo e neutro del consulente, in almeno tre sensi: 1) Come per chi ordina o prescrive, chi consiglia ha lo scopo che l’altro persegue lo scopo proposto, cioè vuole influenzarlo; 2) Diversamente però dallo scopo imposto con un ordine, quello proposto con un consiglio è nell’interesse dell’altro; 3) Chi consiglia è meno neutro di chi dà una consulenza, perché «si sbilancia», ossia valuta positivamente lo scopo che consiglia. Per questo una valutazione è sempre presente nei consigli. Questi tre aspetti del consiglio sono solidali. Il consiglio si può dunque considerare un aiuto alla decisione. Parlando di aiuto si cattura la sua dimensione adottiva, disinteressata e orientata all’altro. Mentre la parola decisione esprime bene quando la scelta di seguire o meno il consiglio sia lasciata alla volontà dell’altor. Tuttavia, non sempre il Destinatario di questo aiuto alla decisione accetta il consiglio, né sempre ne è grato. Per due ragioni: (1) La già accennata intrusività del consiglio: sia proponendogli scopi, sia attribuendogliene, chi consiglia rischia sempre di limitare o conculcare la sua libertà; (2) Proprio il suo essere un atto d’aiuto. XVIII. Scuse e giustificazioni 1. Salvare la faccia Scuse e giustificazioni sono comportamenti di riparazione. Un individuo A è causa o condizione di un evento negativo che per qualche ragione può incrinare i suoi rapporti con un altro individuo, B, ed è per sanare questa incrinatura che A mette in atto un comportamento di riparazione. 2. Chiedere scusa Il senso di colpa è un’emozione che proviamo quando una nostra azione omissione viola una norma o provoca a qualcuno, e con nostra responsabilità, un danno immeritato. Può essere “senza colpa” quando ci si sente responsabili di qualcosa che non abbiamo fatto, o il «senso di colpa del sopravvissuto». L’atto comunicativo del chiedere scusa presuppone alcune credenze e ne asserisce altre. a. Credenze presupposto nel chiedere scusa → se A chiede scusa a B per F, con questo atto comunicativo presuppone queste credenze: (1) Che un certo fatto F si è verificato o può verificarsi; (2) Che F è un danno per B; (3) Che A è in qualche modo la causa del verificarsi di F; (4) Che A, oltre a esserne la causa, è responsabile del verificarsi di F. Che vuol dire essere responsabili? V ritiene A responsabile del fatto F quando V crede che:  A ha il potere di provocare o evitare il verificarsi di F;  Su A vige la norma, ossia uno scopo esterno, posto su A da altri, di provocare o di evitare il verificarsi del fatto F. Le due assunzioni sono fortemente solidali, e insieme costituiscono il nucleo dell’attribuzione di responsabilità. L’esigenza di attribuire delle responsabilità nasce dal bisogno di «potersela prendere con qualcuno» nel caso che non si verifichino eventi desiderati o se ne verificano di indesiderati. b. Credenze asserite nel chiedere scusa → oltre a riconoscere che il danno a B c’è stato, e che è stato da lui causato, nello scusarsi A: (1) Accetta in toto la propria responsabilità nel verificarsi del fatto, riconoscendo che aveva, oltre al potere, il dovere di evitare quel danno; (2) Riconoscere il diritto di B a pretendere un risarcimento morale del danno subito; (3) Esprimere il proprio dispiacere per aver causato il danno, fornendo così il risarcimento che riconosce dovuto. c. I costi del chiedere scusa → il vantaggio di essere reintegrato nell’adozione del gruppo che si ottiene chiedendo scusa implica tuttavia dei costi pesanti sia per l’autoimmagine che per l’immagine dell’individuo. Questo spiega due fatti che osserviamo quotidianamente: (1) Che chiedere scusa è molto difficile; (2) Che vere e proprie scuse si incontrano molto raramente in natura, e sono sempre forme attenuate di scusa. Chiamiamo «scuse attenuate» tutte quelle in cui non vengono pronunciate le fatidiche formule performative scusa, scusami, chiedo scusa  La scusa incompleta esplicita solo una parte delle credenze asserite dalla scusa;  scusa indiretta → es. autoironia, fare dell’ironia su sé stesso è un modo elegante per riconoscere i propri errori senza però troppo abbassarsi.  Scusa non verbale → uso di segnali di pacificazioni gestuali, posturali, espressivi. d. Scopi ed effetti delle scuse → la scusa è un rito di pacificazioni volto ad attenuare l’aggressività dell’altro. Ma in quanto atto «rituale», in essa è più forte la componente simbolica che quella materiale dell’atto compiuto e del danno arrecato. Ciò che pretende B, e che A offre con le sue scuse, è più che altro un risarcimento morale. e. Scuse ipocrite e sincere → a volte le scuse sono solo un atto di cortesia formale. Una scusa è ipocrita, e quindi insincera quando tutte o in parte le credenze presupposte o asserite dalla scusa non sono in realtà assunte da A. 3. Giustificarsi Una persona si giustifica quando pensa o sa che le viene attribuita la responsabilità di un evento negativo, e quindi cerca di mostrare o che l’evento non dipende da lei o che non è così grave. Lo scenario della giustificazione comprendere tre elementi: - A, la persona che si giustifica; - F, il fatto di cui A si giustifica; - E V, una persona valutante, di fronte a cui A si giustifica. Il fatto di cui A si giustifica è necessariamente un fatto che è o può essere valutato negativamente; ma A si può giustificare sia di fronte ad altri che di fronte a sé stesso, cioè darsi un’autogiustificazione, in cui V si identifica con A e rivolge a sé stesso ragionamento e argomentazioni simili a quelli che comunicherebbe ad altri. Chi si giustifica dà due informazioni: 1) Sostiene che l’evento negativo è meno grave di ciò che si pensa, o che lui non ne è totalmente responsabile; 2) Argomenta ciò che sostiene. La giustificazione è dunque un’argomentazione, cioè una serie di ragionamenti che A espone mentalmente a sé stesso o comunica ad altri attraverso uno o più atti linguistici, con cui A intende dimostrare che la propria responsabilità nel verificarsi di un fatto negativo, o la gravità del fatto stesso, è minore di quanto A stesso o altri potrebbe pensare. 3.1. Quando ci si giustifica Vediamo quali sono le condizioni affinché un individuo decida di giustificarsi → A si giustifica se: a. Crede che si è verificato o può verificarsi un certo fatto F; b. Crede che tale fatto F è da qualche punto di vista negativo; c. Crede che F è in qualche modo causato da A stesso; d. Crede che, oltre a esserne la causa, A stesso è responsabile del fatto F. Perché A si giustifichi deve considerare F reale o quantomeno probabile → il fatto sussiste. Per giustificarsi A deve considerare F un fatto negativo. Ma poiché una valutazione è una credenza sul potere che un fatto, oggetto o organismo ha rispetto al raggiungimento di uno scopo S, è rilevante determinare per chi quale dato S sia uno scopo. A deve credere di essere la causa del fatto negativo. Causa anche in senso debole, cioè anche solo di esserne stato una condizione facilmente. La condizione è infatti uno stato o un evento che permette il verificarsi di un altro evento. Può essere; - Un’azione di A; - Un’omissione; - Il fatto negativo è stato permesso da una caratteristica di A. A decide di giustificarsi di F se crede di essere responsabile del fatto F, cioè che ha lo scopo di non far verificare F, e al tempo stesso ne ha il potere. 3.2. Perché ci si giustifica Lo scopo di giustificarsi è determinato da altri scopi di A per cui il giustificarsi è un mezzo. ti giustifichi con una persona quando pensi di essere o fare qualcosa che disapprova e non vuoi che ti giudichi male. Ma per mantenere positiva l’immagine globale, devi almeno in parte riconoscere e accettare la valutazione negativa sul singolo evento in questione. Per questo chi si giustifica dà per presupposto le credenze viste sopra. A riconosce infatti: - Che un certo fatti si è verificato o probabilmente si verificherà; - Che è un fatto negativo; - Che A ne è la causa; - Che A ne è responsabile. 3.3. Come ci si giustifica Chi si giustifica da un lato riconosce, dall’altro cerca di attenuare la valutazione negativa di sé in relazione al fatto, e può farlo in due modi: 1) Riducendo la propria responsabilità; 2) Oppure attenuando la gravità del fatto. Vi sono dunque due tipi di giustificazioni 6) «domande-critica» → a volta si chiede all’altro di confermare, spiegare o motivare una sua azione pratica o comunicativa, di cui in realtà si comunica una valutazione negativa, cioè una critica, una disapprovazione. 7) «domande-richiamo» → è una domanda che richiama l’Interlocutore alle sue responsabilità di credibilità; in realtà è una specie di domanda-critica che mette in dubbio la plausibilità dell’informazione appena data e chiede di correggerla. I prossimi tipi sono decisamente delle richieste: 8) «domande-proibizione» → «Come ti permetti?» è una richiesta perentoria di non fare qualcosa, una proibizione. Sono invece chiaramente richieste di fare qualcosa: 9) «domande-fare» → il classico «puoi passarmi il sale?» non chiede di fare una cosa, ma di farla. 10) «domanda-offerta» → «Lo prendi un caffè?» è una richiesta all’Ascoltatore di compiere un’azione che è nel suo interesse; 11) «domande-opportunità» → quando la mamma dice al bimbo: «Hai detto grazie?» gli ricorda o lo sollecita a compiere un’azione verso terzi. 3. La risposta Una risposta è un atto che fa conversazione con un altro atto comunicativo, e necessariamente gli succede: non può esistere una risposta dove non vi sia stata una domanda, magari implicita. In realtà, se un Parlante ha posto una domanda, qualsiasi atto che segue quella domanda quella domanda tende a essere sentito come risposta, proprio in virtù dell’organizzazione della conversazione in coppie adiacenti: domanda- risposta, informazione-presa d’atto, saluto-saluto. 3.1. Reazioni, repliche e risposte Le risposte sono atti comunicativi; e possono essere: - Reazione a una domanda → un atto o un non atto da questa determinato che ne può riconoscere lo status di atto sociale e comunicativo ma non necessariamente ne adotta gli scopi. È un «agire» o «re-agire», perché lo scopo della sua azione è determinato dal fatto che un’altra persona gli ha rivolto un’azione sociale. Essa può essere verbale o corporea, ed essere comunicativa ma anche non comunicativa. - Replica → un’azione comunicativa o non comunicativa che adotta uno qualsiasi degli scopi del Domandante, cioè compie un’azione che non solo tratta la frase precedente come un’azione sociale e comunicativa, ma anche «fa conversazione» con essa, cioè ne adotta lo scopo. - Risposta a una domanda → un atto comunicativo che adotta lo scopo centrale di una domanda, cioè fornisce l’informazione richiesta. 3.2. Condizioni della risposta Per dare una risposta devono essere soddisfatte tre condizioni: 1) Capire la domanda; 2) Sapere la risposta; 3) Voler rispondere. Se mi fanno una domanda e una di queste tre condizioni non è soddisfatta, la mia non potrà essere una vera risposta, ma solo una replica o una semplice reazione. Sono repliche quegli atti comunicativi con cui direttamente o indirettamente informo che una delle condizioni della risposta non è soddisfatta e cerco di soddisfarla. Alcune di queste repliche le possiamo considerare delle «pre-risposte». 3.3. Pre-risposte Pre-risposte = repliche preparatorie all’azione di rispondere che adottano gli scopi di controllo del Domandante «sapere se l’Ascoltatore ha capito la domanda», «sapere se sa la risposta» e «sapere se ha deciso di rispondere». Per questo queste repliche mostrano la disponibilità a rispondere dell’Interpellato. - Un primo tipo di pre-risposte segnalano l’intenzione di capire meglio la domanda. - A volte però la domanda non è abbastanza precisa, e si chiede di precisarla; - Infine, poiché comprendere una domanda significa anche ricostruirne i sovrascopi, alcune repliche servono a verificare proprio se si è capita la vera ragione della domanda. - Con altre pre-risposte l’interpellato comunica di voler soddisfare la condizione «sapere». - Altre repliche, che mirano a soddisfare la condizione «volere» fanno però inferire che non ha ancora deciso se rispondere o no; quindi non sono pre-risposte in senso stretto, visto che dopo la risposta dal Domandante, l’Interpellato può decidere di non voler rispondere. 3.4. Non-risposte Non-risposta → una reazione che persegue lo scopo di non rispondere a una domanda. Può essere una semplice reazioni o una replica. 3.4.1. Far sapere che non si vuol rispondere Quando si dà una non-risposta, a volte si vuol far capire che non si vuole rispondere, altre volte no. Il vantaggio di una non-risposta che fa capire chiaramente che non voglio rispondere è di prevenire ulteriori insistenze da parte del Domandante. 3.4.2. Non far capire che non si vuol rispondere Far capire di non voler dare un’informazione, incuriosisce ancor più l’altro. Per questo, se l’Interpellato non vuole far trapelare nessun indizio che permetta di risalire alla risposta, non deve far sapere che non vuole darla, ma darà non-risposte «travestite» dà risposte, come: - Vaghezza → dare una credenza meno precisa di quella richiesta, che cioè fornisce una minor quantità di informazioni. - Elusione → fornire credenze tangenziali all’argomento specifico di quella richiesta. - Menzogna → per esempio negando di conoscere l’informazione richiesta pur sapendola, o dandone una che sa falsa. Un’altra strategia → il «finto equivoco»: fingere di non aver capito la domanda e rispondere a un’altra domanda (dà luogo anche a una non-risposta opposta). 3.5. Tipi di risposte Possiamo distinguere - Risposta diretta quando è il significato letterale della frase di B che fornisce l’informazione richiesta, cioè adotta uno scopo del Domandante. - Risposta indiretta se è il sovrascopo di B, cioè un’informazione inferibile dalla sua frase, che adotta uno scopo del Domandante. Oltre a distinguere come rispondere il Rispondente, dobbiamo chiederci a cosa rispondere. Si può infatti rispondere allo scopo o al sovrascopo della domanda. (1) La mamma sta passando la lucidatrice, ma poiché la prolunga non arriva a pulire dove le serve, che alla figlia: «In camera tua c’è un attacco?» e la figlia: «Non con la presa Siemens». È una risposta diretta il cui significato letterale adotta il sovrascopo della domanda. Il sovrascopo dell’atto comunicativo dell’Interpellato adotta il sovrascopo della domanda, cioè si dà una risposta indiretta a una domanda fatta in modo indiretto. XX. Segnali di accordo 1. Essere d’accordo, mettersi d’accordo, andare d’accordo Per capire che significa «accordo», ci limitiamo a tre espressioni che la contengono: - Essere d’accordo = c’è coincidenza fra le opinioni di due o più persone. È quindi uno stato «spontaneo» di identità o somiglianza fra le opinioni di due persone; - Mettersi d’accordo = vuol dire negoziare. È un’azione che richiedere il venire a considerare accettabile l’uno l’opinione dell’altro; - Andare d’accordo = due o più persona hanno generalmente simili scopi, hanno sentimenti consonanti, provocano reciproca simpatia ed empatia, per cui in genere non hanno bisogno di discutere o litigare per prendere decisioni condivise. In questo caso vi è un comune modo di sentire: affinità elettive. «Essere d’accordo» è uno stato e ha come oggetto un’opinione, mentre «Mettersi d’accordo» è un processo e ha come oggetto uno scopo. Curiosamente, si può cambiare opinione, ma mentre su uno scopo da perseguire ci si può mettere d’accordo, su un’opinione no. O si cambia opinione oppure per essere d’accordo con l’altro, si deve già da prima avere la sua stessa opinione. 2. Su che cosa si può essere d’accordo? Non si può essere d’accordo su una credenza fattuale, quindi su un atto d’informazione qualsiasi, ma solo su atti comunicativi come - Una proposta → è un atto comunicativo di richiesta d’azione, con cui cioè il Mittente chiede al Destinatario di perseguire uno scopo; ma si distingue da altre richieste per tre caratteristiche: nel chiedere di perseguire quello scopo, il Mittente implica che: 1) Lo scopo proposto è potenzialmente utile sia al Mittente che al Destinatario perché è un mezzo per gli scopi di entrambi; 2) Il Mittente non ha più potere del Destinatario; 3) (Ne discende che) il Destinatario è libero di accettare o meno la richiesta del Mittente; - Un giudizio → è un atto comunicativo informativo che esplicita una valutazione, cioè una credenza del Mittente su quando un atto, persona o evento ha o d potere rispetto a un certo scopo. La valutazione è positiva quando quell’entità permette, e negativa quando non permette di raggiungere lo scopo; - L’espressione di un’opinione → è un atto informativo. Le persone perseguono scopi attraverso piano di azione basati su credenze. Sulle credenze hanno metacredenze sul loro grado di certezza. Le credenze fattuali si posson distinguere dunque dalle opinioni per queste caratteristiche: 1) In genere si è meno certi di un’opinione che di un fatto; 2) La differenza nel livello di certezza delle opinioni rispetto alle credenze fattuali può essere dovuta in parte al fatto che un’opinione riguarda oggetto o eventi astratti. Mentre un fatto è percepibile con i sensi, un’opinione è una credenze elaborata della mente che: a. Per definizione non può essere acquisita attraverso la percezione; b. È il risultato di un’inferenza; c. (ne consegue che) di un’opinione non si possono trovare prove empiriche. 3) In genere, un’opinione è una credenza su qualcosa rispetto a cui persone diverse possono avere diverse posizioni, diversi punti di vista, in un senso. Abbiamo «punti di vista» diversi. Quindi un’opinione è una credenza su scopi o valori, concepita a partire da un punto di vista in qualche modo «ideologico», basato sulla propria concezione del mondo. Chiamiamo dunque opinione una credenza soggettiva, cioè che noi sappiamo non essere necessariamente condivisa, e per cui non abbiamo evidenze empiriche. Alcuni atti comunicativi possono essere considerati commenti o no sia se prodotti dell’Interlocutore che dal Terzo Ascoltatore. Anche l’atto comunicativo dell’Interlocutore a volta può essere non richiesto perché non è la replica richiesta, come coppia adiacente, dall’atto del precedente Parlante: per esempio, il Parlante da una domanda ma l’Interlocutore invece di dare una risposta mette in dubbio la domanda. 4.3. Commenti diretti e indiretti, verbali e corporei Il commento, sia verbale che corporeo, può essere diretto o indiritto. Anche un commento verbale può essere indiritto: per esempio una frase che non contiene una valutazione esplicita, nemmeno in un aggettivo. Una frase è un commenti indiretto quando la valutazione non è espressa direttamente dal significato letterale delle parole che la compongono ma un’inferenza che se ne può trarre. 5. Commenti e libertà di giudizio Un commento è un atto comunicativo abbastanza autonomi rispetto alla struttura dei turno. Che fa un commento non si sente vincolato dalle loro rigide regole. Il commento è un modo di esprimere la propria libertà di avere opinioni e di comunicarle; e quello corporeo permette di esprimere opinioni e valutazioni anche quando sta parlando un altro. Parte settima. Il corpo, la mente, il cuore XXII. La sinfonia della comunicazione 1. La partitura della comunicazione multimodale La comunicazione è multimodale. Per capire come i segnali di diverse modalità con i loro significati si intrecciano fino a darci un significato globale, è necessario analizzarli singolarmente ma anche nella loro interazione reciproca. Quante e quali modalità prendere in considerazione nell’esaminare un frammento con la «partitura» dipende dagli scopi della ricerca che si sta conducendo, ma nella sua versione «classica» si scrivono e si analizzano su righi paralleli i segnali di cinque modalità: 1) Verbale (v.): le parola e frasi pronunciate; 2) Prosodico-intonativa (p.): ritmo del parlato, pause, ecc.; 3) Gestuale (g.): movimento delle mani, bracci e spalle; 4) Facciale (f.): movimenti del capo, sguardo, movimenti della bocca; 5) Corporea (c.): movimento del busto e gambe, posture. Ogni segnale di ogni modalità è sottoposto a cinque livelli di analisi: (1) Descrizione del segnale (Ds.): si descrivono le caratteristiche fisiche del movimento, gesto, sguardo, elemento vocale in questione; (2) Tipo di segnale (Ts.): ogni segnale si può classificare in base a una certe tipologia; (3) Significato (S.): di ogni segnale si scrive una «traduzione» verbale; (4) Tipo di significato (TS.): ogni significato è classificato come Informazione sul Mondo, sull’Identità del Mittente o sulla Mente del Mittente; (5) Funzione (F.): la relazione semantica tra il segnale che si sta analizzando e il concomitante segnale verbale, o un altro segnale che si prende come punto di riferimento. La relazione può essere:  Ripetitiva: i due segnali hanno lo stesso significato;  Aggiuntiva: un segnale aggiunge un significato congruente con quello dell’altro segnale;  Sostitutiva: il Parlante non dice una determinata parola perché non se la ricorda, o reputa più opportuno non pronunciarla, e la sostituisce con un altro segnale;  Contradditoria: il significato del segnale in questione contrasta con quello di un segnale concomitante;  Indipendente: due segnali, pur simultanei, fanno parte di due piani d’azione indipendenti. 2. La partitura di Totò 3. Scoprire ciò che è nascosto In genere nella comunicazione i significati provenienti nelle diverse modalità si combinano in maniera coerente e ben integrata. Eppure, ogni tanto sentiamo una nota che stona: due segnali portano significati discordanti, stridenti, contraddittori. Questo avviene in due casi: - Quando la comunicazione non funziona - E quando funziona così bene che per noi è un gioco, un divertimento. La partitura serve proprio per evidenziare contraddizioni tra segnali; che si hanno specialmente nei casi di errore, ambivalenza, inganno e recitazione. I segnali di due modalità si possono contraddire nel caso di errori: se indicando una strana dico «prenda a destra» e intanto col gesto indico a sinistra. Qua fra gesto e parola uno dei due sicuramente sbaglia. A volte la contraddizione fra segnali è indice di una sottostante ambivalenza. Vi è ambivalenza cognitiva quando per esempio uno scolaro esprime con le parole un concetto matematico errato, ma dai suoi gesti si capisce che ha colto il concetto giusto. Causa invece ambivalenza affettiva un conflitto fra scopi del Mittente. Come insegnano i «cacciatori di bugie», i messaggi contradditori sono fra gli indizi più sicuro di inganno. Forse insieme allo scopo di ingannare c’è lo scopo di non trasgredire la norma di dire il vero. E poiché molteplici sono le strade della comunicazione se per una passa lo scopo di mentire, in un’altra passa la comunicazione sincera. Un’altra contraddizione fra segnali in sequenza, dove il primo sbugiarda il secondo, è quella della studentessa che all’esame, appena sentita la domanda, incassa la testa nelle spalle, ma subito dopo si ricompone e guarda in su come riflettendo. Ed ecco un caso di contraddizione fra espressioni concomitanti: un giovane intervistato sull’immigrazione che dice «Io non sono razzista» ma spostando indietro la schiena e tenendo le braccia conserte, in segno di distanza e chiusura. 4. Il discorso multimodale XXIII. Aprire la mente all’altro 1. I marcatori mentali La pragmatica linguistica chiama «marcatori discorsivi» una classe di parole o espressioni che servono a connettere parti di un testo o discorso, a mantenere il turno durante la conversazione o altro. fra gli aspetti che hanno in comune vi è il fatto che possono accorrere molto liberamente nel discorso, e che non danno informazioni sul contenuto proposizionale della frase, discorso o turno di parola: piuttosto informano sugli stati mentali del Mittente. Per questo li chiameremo «marcatori mentali»: segnali che danno Informazioni sulla Mente del Mittente. Per individuare i contenuti che possiamo trasmettere sulla nostra mente riguardo a ciò su cui stiamo comunicando, e i corrispondenti segnali nelle varie modalità, adottiamo una metodologia deduttiva. 2. Marcatori di credenze Riguardo alle credenze su ciò che comunichi, puoi dare due tipi d’informazione: informazioni sul grado di certezza e sulla fonte. Marcatori di certezza (o epistemici) → Poiché le credenze sono una risorsa vitale per gli umani ci formiamo nella mente una rappresentazione dell’ambiente che per essere utile deve essere la più fedele possibile, la più rispondente alla realtà. E allora quantifichiamo il grado di certezza che possiamo attribuire alle nostre credenze, sia per noi stessi che quando comunichiamo ad altri, nel fargli il dono della comunicazione. I marcatori grammaticali comprendono tempi e modi epistemici: come il futuro epistemico o il condizionale epistemico. I marcatori lessicali comprendono aggettivi epistemici, nomi, verbi, avverbi, interiezioni. Fra i segnali della punteggiatura, il punto in genere significa asserzione, quindi un alto livello di certezza di una frase o di un capoverso. Nella modalità prosodico-intonativa un’intonazione ascendente significa che il Parlante non è sicuro o che è in dubbio, se discendente che è sicuro di ciò che asserisce. Nei gesti, la mano aperta e piatta a palmo in già che delinea un piano orizzontale significa qualcosa che ha solide basi. Marcatori sulla fonte (o metacognitivi, o di evidenzialità) → Quando parli dai anche informazioni sulla fonte delle credenze che comunichi, se derivano dalla percezione, dalla memoria, dall’inferenza o dalla comunicazione: cioè di evidenzialità. Ma dare informazioni sulla fonte è darne anche sulla certezza. Nella comunicazione verbale, in bulgaro e in alcune lingue amerindiane un modo «evidenziale» dice per esempio che il fatto menzionate dalla frase il Mittente l’ha visto coi suoi occhi. Nella modalità grafica dei fumetti, la nuvoletta con i bordi puntuti dice che il Parlante sta parlando a voce alta, quella coi bordi tratteggiati, che sta solo pensando fra sé. Nella modalità vocale, ehm vuol dire che sto cercando di ricordare. Nello sguardo, alzare gli occhi vuol dire che stai cercando di fare inferenze, guardare in basso a sinistra, che stai cercando di ricordare. 3. Marcatori di scopi I segnali che informano sugli scopi del Mittente riguardo a ciò su cui sta comunicando sono marcatori 1) Del performativo 2) Metafrasali 3) Metadiscorsivi 4) Metaconversazionali. Infatti, oltre che con le risorse grammaticali e sintattiche, le emozioni sono espresse da nomi, verbi, interiezioni. Mentre, con la voce, possiamo fare riferimento al ritmo, l’intensità e altezza. 5. Significati letterali e indiretti. Mercatori che saltano Anche fra i marcatori mentali un segnale può avere un significato indiretto oltre a quello letterale. XXIV. Emozioni e comunicazione 1. Cosa sono e a cosa servono le emozioni L’emozione è un meccanismo adattivo emerso nell’evoluzione per facilitare il raggiungimento degli scopi più importanti dagli organismi animali. Ogni volta che un evento provoca il raggiungimento o la compromissione di uno scopo molto importante per l’individuo dal punto di vista adattivo, si attiva nel suo organismo uno stato soggettivo complesso che comprende aspetti cognitivi, di vissuto soggettivo, fisiologici, motivazionali ed espressivi. Questa complessa «sindrome» emotiva ha la funzione di monitorare il perseguimento di scopi adattivamente fondamentali. L’emozione si attiva dunque in presenza di: a. Una credenza su un evento presente, passato o futuro; b. Uno scopo importante per l’individuo; c. Una credenze sulla certezza, probabilità o possibilità di una compromissione o raggiungimento di quello scopo a opera dell’evento in questione. La presenza di tali credenze scatena nell’individuo una serie di altri eventi: 1) Sentimenti soggettivi, piacevoli per scopi raggiunti, come nella felicità o speranza, spiacevoli per scopi compromessi, come nella rabbia o paura; 2) Stati cognitivi: credenze, immagini, aspettative, attribuzioni; 3) Reazioni fisiologiche: arousal, accelerazione del battito cardiaco, sudorazione, ecc.; 4) Reazioni espressive; 5) Attivazione di scopi specifici miranti a risolvere la situazione. Il meccanismo della paura → es. partecipo a un sit-in pacifista; a un tratto compare un folto gruppo di poliziotti in assetto da guerra. Il mio cervello interpreta la situazione come potenzialmente dannosa di compromettere i miei scopi dell’incolumità o del benessere fisico – una credenza. Questa credenza scatena la paura, un sentimento spiacevole (vissuto soggettivo) collegato alla propriocezione di una serie di eventi fisiologici (reazione fisiologica): il cuore accelera il battito, il sangue defluisce dal viso per essere disponibile agli arti in caso di fuga. Contemporaneamente si attiva uno scopo (aspetto motivazionale) da perseguire subito: l’impulso a fuggire, per sottrarsi al pericolo. E un effetto collaterale di questo rivolgimento somatico-viscerale diviene un segnale: chi mi vede capisce che ho paura (l’aspetto espressivo). Le emozioni controllano lo stato di raggiungimento/compromissione dei nostri scopi adattivamente importanti. Le emozioni sono connesse agli scopi perché: - Sono funzionali a monitorarne l’ottenimento; - Attivano scopi; - Diventano scopi esse stesse. L’emozione è dunque una forma primitiva di valutazione che ti dice «istintivamente» che qualcosa è buono o cattivo, utile o non utile per i tuoi scopi vitali e ti induce a fare qualcosa per salvaguardarli. 2. L’osmosi delle emozioni Un’emozione è uno stato soggettivo piacevole o spiacevole provato da una persona, nella sua mente e nel suo corpo. Ma la natura ha voluto che le emozioni possano passare da una persona a un’altra. L’altro è importante per le mie emozioni. Se provo l’emozione verso l’altro, sapere cosa provo per lui può essere importante per le nostre interazioni e relazioni. Le emozioni dunque a volte restano nella mia mente, ma più spesso passano in altre menti, come per osmosi. L’osmosi di emozioni fra l’una e l’altra mente a volta passa attraverso la comunicazione, a volte no. 2.1. Induzione Si ha induzione di emozione quando una credenza su un Agente A provoca un’emozione E in un Agente B. la credenza che induce emozione può riguardare: - Un evento che accade ad A; - Una caratteristica di A; - Un’azione di A; - Un’azione comunicativa di A; - Una credenza su un’emozione di A. A volte l’emozione è indotta in B semplicemente da un evento accaduto ad A, e l’induzione di E in B è un effetto dell’evento. In tutti gli altri casi, però, dobbiamo distinguere se l’emozione che si genera in B è un effetto non voluto da A, oppure uno scopo di A. Quando è un’emozione di A che induce un’emozione in B, l’emozione di B, rispetto a quella provocata da A, può essere; - Simile → provano la stessa emozione per lo stesso oggetto; - Reciproca → l’emozione è la stessa, ma soggetto e oggetto si scambiano; - Complementare → il soggetto cambia e il precedente soggetto diventa oggetto. 2.2. Trasmissione Un tipo particolare di induzione è la trasmissione di emozioni, in cui: - A prova un’emozione EA; - A produce un segnale espressivo o comunicativo dell’emozione EA; - B viene a provare un’emozione EB; - Il fatto che B provi EB è causato dal fatto che A prova EA; - L’emozione EB provata da B è simile o identica a EA provata da A. Nella trasmissione, l’induzione di emozioni è causata non da eventi, caratteristiche o azioni di A, ma specificamente da un’emozione di A. - Quindi, nell’induzione A può essere «freddo», non provare alcune emozione, ma indurla in B, volontariamente o meno, tramite sue azioni o caratteristiche, o anche eventi che gli capitano; - Nella trasmissione anche A necessariamente prova un’emozione e, in buona misura, la stessa che proverà B. inoltre, il fatto che un’emozione simile o identica a quella di A sia provata da B si può definire trasmissione quando c’è stato un qualche tipo di comunicazione. È importante distinguere la trasmissione come effetto dalla trasmissione come scopo. 2.3. Conoscere le emozioni dell’altro Come sappiamo che un altro prova un’emozione? Si distinguono due classi: 1) Credenza causata da A: a. Espressione non comunicativa; b. Comunicazione in senso forte; c. Comunicazione in senso debole, o comunicazione espressiva. 2) Credenza inferita o acquisita da B: a. Ragionamento; b. Immedesimazione. Definisco espressione di emozioni il fatto che A produce un segnale espressivo. Non comunicativa quando l’espressione è prodotta solo per sfogare l’emozione. Vi è comunicazione di emozione (in senso forte) quando A prova un’emozione, ha lo scopo che B sappia che A la prova, ma anche lo scopo che B sappia che A gli vuol far sapere che le prova, e per questo produce un segnale comunicativa dell’emozione. La comunicazione in senso debole, o espressione comunicativa, è un caso intermedio fra l’espressione non comunicativa e la comunicazione in senso forte. In generale è espressione il caso in cui un Mittente A ha lo scopo di far avere a un Destinatario B una credenza, ma in cui, specificamente: - Lo scopo di comunicare non è uno scopo interno conscio dell’individuo; - Non c’è metarappresetazione e quindi non ci può essere metacomunciazione dello scopo di comunicare; - La credenza non è un’Informazione su Mondo, ma un’Informazione sull’Identità del Mittente o sulla Mente del Mittente. Si ha espressione comunicativa quando A prova un’emozione, ha lo scopo che B sappia che A la prova, e per questo produce un segnale comunicativo dell’emozione. In certi casi B capisce l’emozione di A, ma non grazie a un intervento, voluto o non, comunicativo o non, di A stesso: B ci arriva per inferenza o acquisizione. B può immaginare il vissuto di A in due modi: per una via più distaccata, il ragionamento, o per una via più coinvolgente, l’immedesimazione. Quando l’immedesimazione porta B non solo a capire che A prova una certa emozione, ma addirittura a provarla, è quell’induzione di emozione che chiamiamo empatia. Immagina di essere in attesa di fare un esame e di vedere una degli altri prenotati che passeggia nervosamente. Dop un po' anche tu ti senti nervosa. Qui lei prova un’emozione; ha semplicemente lo scopo di allentare la propria tensione emotiva, ma con la sua espressione non comunicativa genera in tu un’emozione simile alla sua. È un caso di contagio emotivo. È contagio emotivo come effetto il fatto che un’espressione di emozione di A ha l’effetto di far provare a B la stessa emozione o un’emozione simile. Nel contagio di emozione come scopo, A prova un’emozione, ha lo scopo di farla provare anche a B, e per questo produce un segnale comunicativo. - Il contesto e la relazione → la variabile forse più scontata per la decisione di manifestare è se l’interazione avvenga in pubblico o in privato. Anche la relazione personale fra Agente e Interlocutore è rilevante. XXV. Come comunichiamo le emozioni? 1. L’espressione facciale delle emozioni La maggior parte degli studi sull’espressione delle emozioni si è concentrata sulle modalità visive, specialmente la faccia e la postura. Si fa riferimento agli studi di Ekman e Friesen, essi propongono il FACS, un sistema per la codifica dei movimenti muscolari del volto. In sostanza, una prosopologia (studio della corrispondenza tra le contrazioni muscolari facciali). Con una ricerca in una tribuà dei papua della Nuova Guinea, Ekman cerca poi di dimostrare l’universalità delle espressioni emotive già ipotizzate da Darwim: mostrando immagini di facce che esprimono emozioni a soggetti di culture molto distanti rivela che i pattern espressivi di alcuni emozioni quali gioia, tristezza, rabbia, paura, disgusto e sorpresa sono riconosciuti dai soggetti di tutte e tre le culture, mente alcune altre emozioni, come il disprezzo, mostrano ambiguità nel riconoscimento  teoria neuro-culturale delle emozioni. 1.1. La bocca Vediamo come le emozioni sono comunicate dalla bocca. In questa parte del viso sono particolarmente importanti i movimenti di 4 muscoli: il muscolo buccinatore, il muscolo orbicolare della bocca, il muscolo massetere e il muscolo zigomatico; è la loro contrazione che genere la maggior parte delle espressioni emotive. Emozioni negative → La tristezza spesso si manifesta con le labbra tese in orizzontale e gli angoli della bocca piegati vero il basso, mentre le guance sono spinte verso l’altro. Nella pura le labbra sono spesso tese e orizzontali, mente nella sorpresa la bocca è aperta. Ma l’espressione emotiva della bocca più importante e più studiata è il sorriso. Esso e i suoi molteplici significati mostrano l’esistenza di un «lessico» del sorriso. Poggi e Chirico distinguono due classi fondamentali di sorrisi: - Emotivi - Sociali. Così, se il sorriso di felicità contiene l’ingrediente mentale «sono felice», un sorriso di saluto significa «sono felice di vederti». Il sorriso sociale di consolazione significa «ti sono amico, e spero che questo ti consoli». 1.2. Il discorso della vergogna Un importante segnale facciale → rossore. La vergogna è un’emozione negativa che consiste nel dispiacere o timore di fare una «brutta figura», cioè di dare un’immagine negativa di noi agli altri o a noi stessi. Il segnale espressivo innato della vergogna è un discorso multimodale che comprende due segnali corporei complessi: - Rossore - La postura di vergona (il capo e lo sguardo rivolti in basso, spalle e busto quasi ripiegati su sé stessi). Questo insieme di segnali corporei è governato da una complessa gerarchia di scopi comunicativi biologici; un discorso del corpo con cui si chiede scusa al gruppo per non essere stati all’altezza di una norma o un valore che si condivide: un tratto e un comportamento che hanno una funzione di pacificazione. Secondo questa ipotesi il rossore, è proprio un segnale comunicativo, ma un segnale contrario alla volontà: spesso ci da fastidio sentire che stiamo arrossendo. Il comportamento espressivo della vergogna è una richiesta di scuse multimodale che comprende tre segnali comunicativi – arrossare, abbassare gli occhi e abbassare il capo –, che possiamo analizzare come discorso cui è sottesa una gerarchi di scopi. - Il segnala a, il rossore, ha lo scopo di comunicare che il Mittente M è dispiaciuto per il suo errore; e col significato originario, «il mio viso è rosso come quello di un bambino piccolo», comunica «sono come un bambino» → «sono inferiore». - Il segnale b è abbassare gli occhi. Poiché la visione è la nostra prima forma di controllo sulle cose. - Il segnale c, abbassare il capo, ha al tempo stesso due significati:  Quello di mostrarsi più piccolo  Quello di desistere dal confronto con l’altro. 2. Il parlato emotivo Quali sono i segnali emotivi, le risorse comunicative di cui disponiamo? Vediamo che cos’è il «parlato emotivo», quali contenuti semantici possiamo considerare «emotivi» e quali segnali li comunicano. 2.1. Significati emotivi L’emozione nasce da un evento che mi accade, per cui quando la esprimo, nello scritto o parlato, posso informare: 1) Sull’emozione che provo; 2) Sull’evento che la causa. E nel primo caso: a. Semplicemente far capire che sto provando un’emozione; b. O anche qual è. Es. sono in un condomino e alle dieci e mezza di sera la vicina sta cantando (per cui mi sono già lamentato). Il significato emotivo che intendo esprimere è: 1.a. provo un’emozione; 1.b. l’emozione è di rabbia molto intensa (furia); 2. l’evento che causa la mia emozione è il fatto che la ragazza di fronte canta troppo forte o troppo a lungo. 2.2. Significati emotivi Le risorse comunicative di cui disponiamo nel parlato sono di tipo verbale e prosodico-intonativo. Esse sono: 1) Lessicali 2) Sintattiche 3) Morfologiche 4) Retoriche 5) Fonologiche segmentali 6) Fonologiche soprasegmentali 7) Il contesto fisico, linguistico o cognitivo. Per definizione le risorse segmentali si posson usare solo in sequenze e quella soprasegmentali solo contemporaneamente a quelle segmentali; e le loro combinazioni sono molteplici. Nella combinazione sequenziale produco due atti comunicativi uno dopo l’altro: - Uno, che comunica l’emozione provata può essere una frase contenente una o più voci di lessico emotivo oppure un’interiezione emotiva; - L’altro esprime la causa con una frase completa o incompleta. A volta utilizziamo una sola risorsa, ma l’altra può capire lo stesso perché dei due aspetti del significato emotivo uno è implicito e si può capire dal contesto. L’altra possibilità è la combinazione simultanea di più risorse comunicative. Usiamo la morfologia emotiva quando la frase che esprime la causa dell’emozione contiene almeno una parola con suffisso derivazionale emotivo. Usiamo invece una costruzione sintattica emotiva nella costruzione enfatiche. Un’altra risorsa sintattica è la frase esclamativa, con cui il Parlante comunica un contenuto emotivo insieme alla sua causa. L’enfasi → Un elemento semantico tipicamente emotivo che è espresso da più risorse. Si enfatizza quando si ha lo scopo di rimarcare che ciò che si sta comunicando è particolarmente degno di attenzione. 3. La telecronaca emotiva Un esempio di parlato emotivo sono le radiocronache e le telecronache delle partite di calcio, in cui il commentatore descrive ciò che avviene in campo, ma può anche manifestare le emozioni che gli suscita. Naturalmente quasi commentatori hanno stili diversi: alcuni sono espressivi, enfatici, altri più freddi. Per distinguere gli stili di parlato emotivo, quattro radiocronache di calcio di due diversi cronisti (uno iper- emotivo e uno più distaccato) sono state analizzate. - La persona acida tende a fare precisazioni, a no lasciare le cose nel vago; - L’indirettezza è un elemento definitorio della comunicazione acida; - L’insinuazione è un’accusa indiretta, parzialmente nascosta; - Il Mittente che allude (allusione) si riferisce a qualcosa o qualcuno ma senza menzionarlo esplicitamente, o menzionandolo solo in maniera incidentale. A dispetto delle sue cupe motivazioni profonde, lo stile verbale dell’acidità è uno stile particolarmente forbito, creativo. Fa uso di un lessico sofisticato e letterario, talvolta pieno di figure retoriche. Come la metafora, l’ossimoro, l’ironia; quest’ultima è la figura retorica più caratterizzante della comunicazione acida → il Mittente fa un’affermazione intendendo il contrario di ciò che dice. 6. Mettere in scena l’acidità Infine, come viene messa in scena l’acidità? L’acidità in senso fisico varia in base al tipo di relazione tra mittente e bersaglio. Analizziamo tre tipi, soffermandoci sui rispettivi segnali dell’acidità multimodale: - Nella relazione strumentale un segnal frequente di acidità è il colpi in giù del mento; e poi l’innalzamento delle sopraccigli, tono alto della voce e ritmo sostenuto; - Nelle relazioni tra pari, la partecipante prende le distanze ritraendosi, scrollando le spalle, ecc.; - Nelle relazioni affettive gerarchiche, in posizione di dominanza e in presenza di emozioni de- attivanti come delusione, amarezza, senso di impotenza, il messaggio è espresso da un tono basso e rimo della voce lento, fronte corrugata, angoli delle labbra in giù. Nel caso di una posizione di minore status, i gesti ed il ritmo della voce sono più veloci, e l’espressione facciale è caratterizzata da segnali di rabbia. In questo caso esistono due tendenze opposte: 1) Aggredire l’altro; 2) Astenersi da una aggressività patente, probabilmente per mantenere la relazione. Parte ottava. Influenzare XXVII. Influenzare, persuadere, manipolare 1. L’influenzamento Che vuol dire influenzare? Vuol dire determinare le credenze e gli scopi degli altri. Diciamo che A attua un influenzamento sociale su B quando A causa il fatto che aumenti o diminuisca la probabilità che B persegua un certo scopo. Ma spesso si vuole influenzare: dichiamo che A ha lo scopo di influenzare B quando ha lo scopo di far aumentare o diminuire la probabilità che B abbia un certo scopo. I modi di influenzare sono innumerevoli. Possiamo distinguere i tipi di influenzamento in base a varie dimensioni. 2. Influenzamento egoistico e altruistico Si possono influenzare gli altri per scopi egoistici o altruistici. Quando un’azione X di un Agente A implica uno o più altri agenti, B e/o C, possiamo definire egoistica l’azione di A se lo scopo finale della gerarchia che la regola è uno scopo dello stesso Agente che l’ha compiuta; e altruistica se il suo scopo finale è uno scopo di B o di C. 3. Influenza diretta e aggancio di scopi Oltre a considerare «nell’interesse di chi» è l’atto di influenzamento, dobbiamo chiederci con quali strumenti è perpetrato. Chiamiamo influenzamento diretto un influenzamento puramente biochimico o fisiologico che non passa attraverso le credenze dell’Influenzato. La strategia più tipica con cui influenziamo gli altri è invece l’«aggancio» di scopi: A ha lo scopo di indurre B a perseguire uno scopo SA e per farlo induce B a pensare che perseguire SA è un mezzo per raggiungere uno scopo che B già aveva: SB. 4. Aggancio cognitivo e aggancio emotivo L’influenzamento ad aggancio cognitivo consiste nel pilotare la pianificazione dell’Influenzando. Influenzare significa infatti determinare le scelte dell’altro, cioè fare in modo che la sua decisione penda verso il perseguire un certo scopo anziché un altro. Ma la scelta dipende soprattutto dai valori dell’influenzando: si fa riferimento al marketing e alla pubblicità, e al loro processo di ricerca di mercato. Bisogna prima conoscere il target di riferimento per potare a termine lo scopo di vendita. 4.1. Il valore degli scopi Come fa l’Influenzatore A a far scegliere a B lo scopo X anziché lo scopo Y? Aumentando il valore di X, cioè dimostrando che i benefici di perseguire X rispetto a Y sono alti, cioè X serve a più scopi di B, e o scapi più importanti per B; e al tempo stesso i costi, cioè gli scopi che X comprometterebbe, sono inferiori per quantità o valore. 4.2. Il potere delle emozioni Le emozioni costituiscono una potente arma persuasiva grazie al loro potere motivazionale. Innanzitutto, innescano scopi in modo urgente e cogente, quasi irresistibile; inoltre, poiché la loro funzione biologica è proprio sorvegliare i nostri scopi vitali, ogni volta che proviamo un’emozione diventa saliente lo scopo cui fa da guardiano. Il peso di uno scopo sostenuto dall’emozione supera incommensurabilmente quello di qualsiasi altro scopo, ed è per questo che fare appello a un’emozione è come calare l’asso. 5. Induzione di emozioni spontanea e calcolata Le emozioni che influenzano possono essere indotte dall’Influenzatore in maniera spontanea o calcolata. Un altro caso di emozioni indotte senza un’intenzione cosciente di determinarle sono i releaser biologici. In releaser è uno stimolo fisico che innesca automaticamente una risposta innata. Fra i releaser acustici, un timbro di voce particolarmente grave in un maschio adulto può incutere rispetto o timore, e più facilmente far ottemperare alle sue richieste. E per quanto riguarda gli stimoli visivi il faccino un po' grassottello, gli occhioni di un bimbo sono elemento strutturali del suo aspetto visivo che inducono un senso di tenerezza, e quindi un desiderio di accogliere e proteggere chi di quei tratti è portatore. 6. Influenzamento comunicativo e non comunicativo Chiamiamo influenzamento comunicativo quello in cui A intende influenzare B ma vuole anche fargli sapere che vuole influenzarlo. Ma, per esempio, quando i produttori della Coca-Cola, durante la proiezioni di un film, proiettano immagini della bevanda a velocità tachistoscopica, e all’intervallo compriamo proprio Coca-Cola, siamo di fronte a un influenzamento «a certe scoperte», un influenzamento non comunicativo, in cui i consumatori desiderano il prodotto senza sapere che qualcuno gliel’ha fatto desiderare. La persuasione è un caso di influenzamento comunicativo, perché B sa che A lo vuole influenzare, e decide liberamente di perseguire SA perché A lo ha convinto, cioè gli ha fatto credere con un alto grado di certezza che SA serve a SB. Vi possono essere vari gradi di comunicatività di un messaggio persuasivo. 7. Convinzione e induzione Vi sono due diverse strade all’aggancio di scopi, che possiamo chiamare influenzamento per induzione o per convinzione. - Nell’induzione, B è indotto a perseguire SA dal fatto che fra A e B c’è un rapporto sbilanciato di potere, tale che A ha il potere di influenzarlo. All’interno dell’induzione possiamo distinguere due modi di indurre scopi:  La coercizione, tipo una minaccia, l’impiego di A impedisce qualche scopo di B;  L’allettamento, tipo una promessa, l’impegno di A favorisce qualche scopo di B. Nella promessa, dobbiamo distinguere fra ➔ Promessa pura, un atto comunicativo con cui il Parlante s’impegna a realizzare uno scopo dell’Interlocutore; ➔ Promessa condizionata, dove condiziona l’azione positiva verso l’altro all’azione a lui richiesta, avvicinandosi molto a un’azione di scambio. In tutti i casi di induzione vi è uno sbilanciamento di poteri fra A e B. L’influenzamento per induzione si basa sempre su una sorta di ricatto, anche se formulato in modi opposti: - Nella minaccia, in negativo, se tu non fai questo io ti faccio del male; - Nella promessa in positivo: se studi ti compro il motorino. Veniamo all’influenzamento per convinzione. Io sono convinto di qualcosa quando ho un’opinione a cui però attribuisco un grado particolarmente alto di certezza. Nell’influenzamento per convinzione B decide di perseguire lo scopo proposto da A perché è convinto che perseguire SA è un mezzo per raggiungere il proprio scopo SB, al punto che se ci avesse pensato da solo avrebbe deciso autonomamente di perseguire SA. La persuasione è un tipo di influenzamento per convinzione. 8. Persuasione In base ai criteri illustrati, possiamo a questo punto definire persuasione un tipo di influenzamento: - Comunicativo, cioè a carte scoperte; - Che fa appello alla convinzione e non alla coercizione; - Che lascia libero il Persuadendo di perseguire o meno lo scopo proposto; - Che si avvale del meccanismo dell’aggancio di scopi. Per queste sue caratteristiche, un atto finalizzato alla persuasione è un atto comunicativo molto simile a un consiglio. Anche nel consiglio infatti, A chiede a B di fare un’azione come mezzo di uno scopo di B. 9. Convincere Essere convinto significa attribuire a una credenza un alto grado di certezza, pur sapendo che non è detto che altri la credano come noi. Il Persuasore deve convincere il Persuadendo non tanto di credenze relative a bellezze architettoniche o naturali. Il suo è un lavoro informativo; ma con questo può farci provare emozioni: farci apprezzare quegli oggetti, ammirarne gli autori. Una figura parallela alla guida turistica che si è affermata negli ultimi decenni è quella dello storico dell’arte rinomato o del divulgatore che in televisione o su YouTube illustra importanti siti storici o artistici. La differenza è che quello della guida è un discorso dialogico, mentre quello del divulgatori tv è monologico. 2. L’arte al museo e in TV Per analizzare il discorso monologico del divulgatore artistico televisivo è stato raccolto un corpus di dieci video su YouTube in cui i Commentatori Artistici illustravano opere d’arte antiche o contemporanee. La gerarchia di scopi condivisa da tutti i discorsi del corpus comprende le funzioni comunicative che tutti i Commentatori devono soddisfare attraverso la comunicazione diretta o indiretta, verbale o corporea. All’accrescimento di conoscenze sono funzionali due tipi di sottoscopi: 1) Gli scopi testuali di dare informazioni nel merito dell’oggetto illustrato; 2) Vari scopi modali che il Commentatore persegue per raggiungere con efficienza gli scopi testuali. Gli scopi modali sono scopi collaterali rispetto a quello centrale del piano, necessari a perseguirlo nel migliore dei modi. Nelle guide però a quelli si aggiungono ulteriori scopi. Vi sono gli scopi «intenzionali», che la guida deve perseguire per rendere la visita socialmente fluida e accogliente. - Da un lato deve favorire la conoscenza reciproca fra sé e i turisti; - Dall’altro deve gestire l’interazione. L’altro scopo fondamentale è far provare emozioni: le emozioni cognitive di imparare cose nuove o quelle estetiche di godere della bellezza. 2.1. Scopi testuali Gli argomenti fondamentali nel discorso della guida o del Commentatore televisivo sono l’opera e l’autore. Dell’opera, può narrare la storia, descriverne il significato manifesto o i significati profondi; sulla storia dell’opera può poi anche parlare del committente e delle circostanza della sua creazione, o delle fortune e degli usi successivi. 2.2. Scopi modali Realizzare gli scopi modali significa soddisfare le condizioni e precondizioni necessarie per farci capire. Quando parliamo, dobbiamo essere certi che l’Interlocutore presti attenzione e comprenda sia il significato letterale sia quello più profondo del messaggio, punto la guida turistica nell'interazione faccia a faccia un utilizza: - L'indicazione; - L'enfasi; - tecniche per sorvegliare la curiosità. Un altro importante scopo modale e facilitare la comprensione sia letterale che profonda dell'interlocutore. La comprensione letterale è quella delle frasi e della rete strutturale del discorso. Capire una frase significa comprendere il significato linguistico letterale, che include significati delle parole e della loro costruzione sintattica, la struttura topic-comment, il performativo. I commentatori usano: - segnali deittici; - definizioni; - sinonimi verbali; - sinonimi gestuali. Il performativo della frase può essere esplicitato da gesti o facce performativi. La distinzione fra topic e comment nella frase è marcata dalla prosodia ma anche da gesti batonici e dalla posizione fra sguardo diretto e sguardo distolto dell'Interlocutore. La ricostruzione della rete strutturale richiede l'attribuzione dei predicati ai giusti argomenti. Favorire una comprensione profonda significa aiutare il destinatario non solo a capire significati letterari del testo, ma anche accoglierne le implicazioni nascoste. I segnali del Commentatore Artistico devono permettere al destinatario di riscostruire: - Rete esplicativa; - Piano del discorso; - Collegamento al contesto fisico; - Collegamento con le credenze pregresse. Le relazioni logiche tra le credenze del discorso sono espresse da marcatori metà discorsivi, verbali, ma anche da gesti come oscillare il posto e pollice e indice curvi a C, per indicarne una relazione casuale, o dall'innalzamento delle sopracciglia, che esprime una relazione avversativa fra due eventi. Segnali verbali e corporei comunicano anche le relazioni fra gli scopi delle frasi e come queste possono essere inferite da segnali espliciti, necessari anaforici, contesto o conoscenze pregresse. Stabilire nessi tra frasi o paragrafi del discorso implica a volta il richiamo al contesto fisico della visita turistica, permettendo di collegare il discorso con il luogo in cui si tiene. Comprendere significa integrare le credenze nuove, comunicate dalla guida, con le proprie credenze precedenti immagazzinate in memoria. Questo appello a richiamare credenze pregresse per connetterle con le nuove è lanciato spesso con un’allusione: un atto che comunica «mi riferisco a qualcosa che non dico esplicitamente, ma che voglio che tu recuperi da solo nella tua memoria». 2.3. Scopi interazionali La comunicazione della guida turistica si svolge in una modalità interattiva. Gli scopi internazionali sono degli scopi modali, perché volti a soddisfare le precondizioni per una trasmissione fluida ed efficiente di contenuti culturali. In particolare: - Autopresentazione; - Sintonia. La guida si qualifica per nome e competenze e ruolo professionale. L’autopresentazione ha due funzioni - Creare un clima di familiarità e di sintonia durante la visita; - Ma anche dare un’immagine di competenza guadagnando così la fiducia dei turisti. La guida cerca di instaurare una sintonia col gruppo di turisti per rendere l’interazione e l’acquisizione di informazioni più fluida, motivante ed efficace. Così gestisce l’interazione con segnali di presa del turno e di backchannel. Un altro modo per instaurare una sintonia è indurre emozioni positive nei turisti, gratificandoli e facendoli sentire centrali. 2.4. Scopi emotivi Uno scopo fondamentale del discorso del Commentatore Artistico è far provare ai Destinatari le emozioni estetiche del bello e le emozioni cognitive dell’acquisizione di conoscenze; e le persegue in vari modi: - Esprimendo emozioni estetiche; - Sollecitando l’immaginazione. Una via principe per indurre emozioni è il contagio. Grazie ai neuroni specchio, osservare un’espressione emotiva in altri attiva automaticamente in noi lo stesso stato emotivo con le relative risposte somatiche. Un altro modo per indurre emozioni estetiche e culturali è risvegliare l’immaginazione del turista o del fruitore dell’arte. Oltre a narrarti la storia dell’opera e dell’autore o a descriverne il contesto storico, ti faccio immergere in quel tempo e in quel luogo. XXIX. Il discorso persuasivo 1. La persuasione La persuasione è una forma di influenzamento sociale: - Comunicativo → A non solo intende influenzare B ma gli fa anche sapere che intende influenzarlo; - Non coercitivo → infine B perseguo lo scopo SA per convinzione, non costretto; - Attraverso «aggancio» di scopi → B persegue lo scopo SA che A gli propone perché lo «aggancia» a uno scopo SB di B. A cerca di persuadere gli elettori B a votare per lui dicendo che se sarà eletto diminuirà le tasse. 2. Far credere per far volere Il Persuasore usa queste tre strategie perché il Persuadendo creda fortemente che è bene per lui fare ciò che gli si chiede, e così desideri fortemente farlo. Perché allora far leva sul pathos? Le emozioni sono meccanismi di monitoraggio degli scopi adattivi degli individui che innescano una forte reazione cognitiva e fisiologica ogni volta che sono in ballo scopi come l’immagine o l’autoimmagine, il desiderio di libertà, di non soffrire, di provare piacere o di essere amati. Sono due le strade attraverso cui arriviamo a credere fortemente, cioè a essere convinti di qualcosa. - Da un lato ci basiamo sul nostro ragionamento, e se qualcuno ci propone di perseguire uno scopo compiendo una certa azione, controlliamo se davvero quella serve ai nostri scopi, se ci sono le condizioni per compierla e se una volta compiuta le condizioni del contesto permettono che lo scopo sia raggiunto  questa è la strada del logos. - C’è pero anche un’altra ragione che ci porta a credere a ciò che ci dicono: chilo dice. Se la fonte è affidabile ci fidiamo  questa è la strada dell’ethos. 3. Logos, ethos e pathos nel discorso politico In ogni discorso persuasivo si può fare appello a tutte e tre le strategie. Vediamo tre casi di discorso persuasivo. 3.1. L’autopresentazione dell’oratore Il frammento di comunicazione persuasiva che prendiamo in esame è tratto dal dibattito elettorale svoltosi tra Silvio Berlusconi e Achille Occhetto il 25 marzo 1994 a Braccio di ferro. L’arma più usata da Occhetto nel frammento non è il legos ma l’ethos, cioè l’autopresentazione dell’oratore stesso. La vaghezza è anche diversa dall’ambiguità, che si ha quando da un certo stimolo possiamo acquisire due o più credenze diverse. 3. Vaghezza nella comunicazione Secondo il «principio di cooperazione» di Grice è cooperativa e completa una comunicazione che non dice nulla di più né di meno di ciò che è rilevante; ciò determina la soglia di precisione a cui attenersi. Ma talvolta la nostra comunicazione si mantiene sotto questa soglia per due possibili ragioni: - O non conosciamo le informazioni necessarie (non sapere); - O non vogliamo andare nel dettaglio (non volere). Siamo vaghi forzatamente quando quelle credenze sono vaghe anche con noi; ma lo siamo deliberatamente quando non vogliamo scendere nei dettagli anche se sono rilevanti. In questo caso, la vaghezza è una forma di inganno perché è passare credenze lacunose. 4. La vaghezza nella comunicazione politica Un discorso non è vago nella misura in cui: - È pertinente; - Va dritto al punto; - Scende nei dettagli; - È completo; - È chiaro; - Il Parlante fornisce supporti alle proprie affermazioni; - Il Parlante esplicita una posizione; - Il Parlante esplicita le conclusioni. Le partecipanti considerano non generico un discorso se: - È pertinente; - Va dritto al punto; - Non si mantiene sulle generali; - Completezza; - Dettaglio; - Precisione; - Concisione; - Completezza; - Analisi approfondita; - Chiarezza; - Concretezza. Criteri simili definiscono anche la precisione, ancora in positivo o in negativo: - Pertinenza; - Andare dritti al punto; - Chiarezza; - Scendere nei dettagli; - Approfondimento dell’analisi. 4.1. Vaghezza e persuasione Da questo studio emergono due elementi caratterizzanti della vaghezza nel discorso politico: 1) La mancanza di un principio ideologico; 2) Una mancanza di dati oggettivi. Gli affetti di questi due aspetti sono stati indagati da uno studio sperimentale, in cui erano variabili indipendenti la presenza o assenza di un principio ideologico, e presenza o assenza di dettagli pertinenti, e variabili dipendenti la valutazione del messaggio come più o meno vaga, concerto, coerente, preciso persuasivo. Sono stati costruiti quattro messaggi risultanti dalle combinazioni delle variabili indipendenti: 1) Con principio ideologico e con dettagli; 2) Con principio ideologico e senza dettagli; 3) Senza principio ideologico e con dettagli; 4) Senza principio ideologico e senza dettagli. Il messaggio è percepito come più vago, meno concreto e meno persuasivo quando il principio ideologico non è espresso, ma anche quando a questo si uniscono i dettaglia. In presenza di entrambe le informazioni = overload cognitivo, troppa informazione possa risultare confondente. Questo curioso risultato è confermato dal fatto che la comunicazione è percepita come concreta, precisa e persuasiva soprattutto quando non è espresso il principio ideologico ma sono presenti informazioni di dettaglio, o quando vi sono dettagli ma non il principio ideologico. 5. Preciso che sono vago La vaghezza è dunque una forma di incompletezza dell’informazione che abbiamo nella nostra mente. Ma nel comunicare, il «principio di cooperazione» ci impone di dare all’altro le informazioni che gli servono. E così lo facciamo capire all’altro con marcatori di incertezza perché lo stesso principio di impone anche di fargli sapere quanto può fidarsi delle credenze che gli diamo, cos’ anche quando la credenze che stiamo trasmettendo è vaga possiamo riconoscerlo, mostrarcene coscienti, e metacomunicarlo: dobbiamo in qualche modo avvertirlo che stiamo comunicando un’informazione vaga. Passeremo in rassegna alcuni «gesti di vaghezza», che da un lato si possono considerare gesti metacognitivi, dall’tro gesti metadiscorsivi. 5.1. Gesti di vaghezza «Gesti di vaghezza» = gesti che comunicano che c’è qualcosa di vago. Fra i casi in cui scegliamo di essere vaghi, e di metacomunicarlo, dobbiamo distinguere quelli di I. «non sapere» = mi mancano proprio le informazioni che mi permetterebbero di essere preciso; II. «non volere» = scelgo deliberatamente di non dare alcune informazioni. . - A volte non so qualcosa perché nessuno la sa: c’è una mancanza di conoscenze nel mondo; - Altre volte la credenza in questione forse qualcuno la sa, ma io non la so, quindi non posso dirtelo: mia mancanza di conoscenze; - In altri casi decidi deliberatamente di essere vago, ma sentendoti giustificato a farlo: una vaghezza da non volere; - Ancora, si può non specificare per irrilevanza: non ne parlo perché non è importante; - A volte non essere precisi serve a non ferire o a lasciare una via d’uscita all’Interlocutore; e la vaghezza può avere un fine altruistico di eufemismo; - Altre volte non conviene dettagliare per ragioni egotistiche, perché è contro i propri interessi. 5.2. Gesti di approssimazione Gesto di approssimazione quantitativa: - «E se lo siamo è solo a metà» mentre lo dice la persona oscilla le mani a parlme in giù oblique, con le dita aprte per significare «più o meno». Approssimazione di intensità: - Nel dire «relativamente» la persona inclina il capo a destra e fa oscillare le mani a dita aperte e palmi paralleli per significare «quasi, relativamente». I segnali di approssimazione si distinguono nell’esecuzione da quelli di vaghezza perché nei primi il movimento è di oscillazione, mentre nei secondi hanno forme delle mani arrotondate e movimento curvi. 5.3. Gesti di ricerca di parole Molto simili sono i gesti che accompagnano la ricerca di parole: - Mentre cerca di trovare le parole giuste, una studentessa muove la mano destra verso destra, con pollice indice e medio a pinza: sembra voler dire, metaforicamente, «questa non è la parola giusta, ne cerco un’altra». Cognitivamente, questa è una situazione opposta alla vaghezza, in cu invece si rinuncia a cercare la parola precisa. 5.4. Gesti di sbrigatività In un’intervista ad alcune studentesse è stato chiesto di raccontare i loro sogni. Il movimento a forbice delle mani sembra significa: «tagliamo i dettagli importanti» = «tagliare corto». Questa sbrigatività potrebbe derivare o da uno scopo di protezione delle privacy, o dal fatto di averne un ricordo solo vago o impreciso. 5.5. Gesti di precisione Vari gesti indicano l’intento di essere precisi. - Quadro = le mani aperte, distanziate, a palmi paralleli, come a delineare i lati di un scatola, tendono a «inquadrare» un discorso; - Anello =pollice e indice che si toccano chiudendo un cerchio, con la mano che si muove su e già, accompagna affermazioni o ordini conferendovi categoricità; - Presa di precisione = pollice schiacciato sull’indice a formare una specie di pinza, attrae l’attenzione dell’Interlocutore si un argomento specifico del discorso; - Becco = mano a palmo in già con dita piegate e polpastrelli che si toccano, serve a indicare qualcosa di singolo e puntuale. 5.6. Gesti di vaghezza e precisione. Differenze nel segnale, differenze nel significato I gesti di vaghezza si possono distinguere dagli altri per le loro differenze fisiche nell’esecuzione del segnale. Sono caratterizzati da forme delle mani arrotondate e movimenti curvi. Utilizzano valori basici, e come movimento utilizzano traiettorie curve. Il gesto può essere o molto veloce di breve ampiezza o, all’opposto, lento con bassa tensione muscolare; inoltre, in genere è ripetuto. I segnali facciali che accompagnano questi gesti sono spesso uno sguardo laterale o gli occhi al cielo, tipici di qualcuno che sta pensando perché non ha ancora trovato il concetto più giusto, o una smorfia con gli angoli della bocca abbassati che significa: «non lo so». 6. Essere o non essere vaghi? La scelta di essere vaghi anziché precisi può avere motivazioni egoistiche o altruistiche. - Può essere egoistica per autodifesa, per evitare errori, o per prevenire le mosse dell’altro; - Ma la motivazione può essere altruistica quando i dettagli possono offendere o ferire: nella vaghezza eufemistica che smussa valutazioni troppo negative, o nell’omissione protettiva del medico sui dettagli di una diagnosi infausta. XXXI. La pubblicità 1. Pubblicità. L’aggancio ai sogni La pubblicità è una forma di persuasione. Anch’essa è infatti: Parte Nona. Comunicazione politica XXXII. La comunicazione politica 1. Funzioni e forme della comunicazione politica Comunicazione politica = gli atti comunicativi in cui un Mittente ha, direttamente o indirettamente, lo scopo di far prendere a un Destinatario una posiziona politica. Questi anni hanno uno scopo persuasivo perché anche quando un testo, discorso o dibattito è costituito da atti puramente informativi, la sua meta è tendenzialmente guadagnare consensi alla parte politica del Mittente. Le forme della comunicazione politica sono molteplici: voltanti, manifesti elettorali, comizi, ecc; ma anche conversazione tra amici, programmi elettorali. Anche la propaganda è un mezzo di comunicazione politica, ma è una forma di persuasione particolare che oscilla da forma classiche, semplici e quasi infantili a forme decisamente manipolatorie che non assumono la forma di testi o discorso: ma azioni che mirano a far apprezzare un Paese, un partito, un governo. 2. Il dibattito politico: persuasione competitiva triangolata Un dibattito è un tipo di interazione comunicativa in cui due o più persone sostengono ciascuna la propria opinione e cercano di persuadersi l’un l’altro. Un dibattito politico è dunque una forma di interazione persuasiva competitiva triangolata, in cui A e B a turni alterni, cercano ciascuno di convincere un pubblico a preferire le proprie opinioni e proposte. Anche in un dibattito quindi, come in ogni discorso persuasivo, l’oratore utilizza armi di logos, pathos ed ethos: cerca di aumentare la proprie credibilità e affidabilità e di diminuire quelle degli avversari. In particolare, accentua le caratteristiche positive del proprio ethos. Deve in qualche modo vantarsi delle proprie qualità. 3. L’ethos del persuasore politico Quali sono le qualità rilevanti di un politico? Nelle vita quotidiana deve mostrare doti di benevolenza e competenza: faccio i tuoi interessi, sono buono; ho capacità di decisione, sono bravo. Ma a un personaggio politico si chiede qualcosa di più → richiedono caratteristiche di dominanza: la capacità di influenzare altri e di non lasciarsi influenzare. 4. Potere e dominanza Per definire il concetto di dominanza, possiamo metterlo a confronto con due nozioni connesse in ambito sociologico: - il potere = la capacità di influenzare o controllare altre persone o gruppi, - e lo status = una posizione gerarchica in un gruppo o in un’organizzazione, determinata da caratteristiche innate o apprese attivamente. - La dominanza si potrebbe dunque considerare una combinazione di potere e di status: è la capacità di influenzare o controllare altri, tanto un singolo individuo, quanto un intero gruppo. Per definire questa nozione, partiamo da quattro nozioni di potere: - il potere-di: dato all’individuo dalle proprie conoscenze e capacità di azione; - il potere su, corrispondente allo status: una posizione riconosciuta in un gruppo, che dà all’individuo un potere di influenzare altri; - il potere di influenzare: la capacità di controllo e influenza sulle azioni di altre persone; - il potere da confronto di potere: avere più o meno potere di rispetto a un’altra persona in un certo ambito. Chiamiamo dominanza quest’ultima nozione di potere: il fatto che una persona che abbia, in maniera tendenzialmente stabile, più potere-di rispetto a un’altra rispetto a un particolare scopo o classe di scopi. Lo status è dunque il riconoscimento istituzionalizzato della dominanza. 5. Conoscere e far conoscere le relazioni di potere: la rappresentazione cognitiva della dominanza Poiché una Posizione Gerarchicamente sovraordinata mi dà dei diritti in più rispetto agli altri e dei diritti sugli altri, deve essere conosciuta sia dagli altri che da me; in altre parole, anche per l’uomo è importante la rappresentazione cognitiva dei rapporti di potere. Sapere se io sono più o meno forte dell’altro contendente è una condizione fondamentale per poter decidere se mettermi in competizione. Per questo esiste la possibilità di inganno e di bluff, fra gli animali come fra gli umani: l’importante non è quanto io sia forte, ma quanto tu credi che sono forte. In sostanza, se l’altro crede che io abbia più potere di lui può avere paura di me, o comunque evitare il confronto. Per questo la comunicazione della propria dominanza è essenziale. E il suo principio fondamentale è che esibire un’immagine di dominanza è un primo passo per acquisire potere di fatto! L’immagine di potere è già potere. 6. Segnali di dominanza Definiamo segnale di dominanza qualsiasi segnale con cui in un’interazione un Agente A comunica all’avversario B «io ho più potere di te». Questo messaggio si può esprimere in vari modi, dai più banali ed evidenti ai più sottili e impalpabili. A seconda delle parole, il messaggio si istanza in un significato più specifico che costituisce una particolare strategia di dominanza, un peculiare modo di mostrarsi dominante. Per individuare le strategie di dominanza è stata condotta una ricerca osservativa su frammenti videoregistrati, ne risulta: - Forza tranquilla → mostrarsi non particolarmente preoccupati; - Sussiego → mostrare disprezzo verso l’interlocutore; - Noncuranza → ignorare l’interlocutore e non prenderlo in considerazione; - Asservita → mantenere il punto senza aggredire l’altro. Le prime sono modi di dominare gli altri molto espliciti, sfacciati.; le seconde sono modi indiretti, subdoli, sottili di mostrare la propria superiorità all’altro, che tendono a mettere l’altro in posizione di soggezione. Le strategie sfacciate sono in genere strategie aggressive: - Imperiosità; - Valutatività; - Invasione; - violazione di norme; - sfida. Le strategie sottili sono invece: - vittimismo; - permalosità; - sussiego; - disinvoltura; - noncuranza; - asservita e forza tranquilla. 6.1. Strategie aggressive Un primo, banale modo di mostrarsi dominante in un dibattito è l’aggressività. La strategia aggressiva può assumere quattro forme: - Imperiosità → una strategia molto diretta per esprimere dominanza aggressiva è comandare = «io ti do ordini». I segnali portatori di questo messaggio sono, tipicamente:  atti comunicativi imperativi, verbali o in altre modalità;  parole deontiche come dovere, potere, necessariamente, ecc. - Valutatività → quando un partecipante al dibattito ha un atteggiamento giudicante e usa parole valutative, fa capire che si erge a giudice delle cose o persone di cui parla. Un esempio di erigersi a giudice è mostrare severità ma anche semplicemente esprimendo rabbia. Poiché la rabbia in genere si prova per la violazione di norme e diritti; - Invasione → Chi esprime dominanza aggressiva invade il territorio dell’altro in termini sia acustici, sia spaziali, sia temporali: interrompe, si sovrappone al turno dell’altro, quando è il suo turno si prende più tempo che gli spetta. - La violazione di norme → L’invasione nella gestione dei turni è un esempio anche di un’altra strategia aggressiva, la violazione di norme. Un modo di esprimere dominanza, tipico di chi non è già in posizione di oggettiva dominanza ma aspira a esserlo → la sfida = un atto con cui A comunica a B la sua intenzione a superarlo e la sua capacità nel poterlo fare. Segnali tipici della sfida: portamento orgoglio, e lo «sguardo di sfida», opposto «abbassare lo sguardo» che è segno di sottomissione. Caso evidente è un frammento del processo «Mani Pulite», un momento importante nella politica italiana, definito da Giglioli → un «rituale di degradazione», cioè un rito nel quale, a causa di colpe legali o morali, le persone sono spogliate del loro status e della loro identità pubblica sotto la sferza della pubblica indignazione. Adesso veniamo alle strategie di dominanza sottili: che apparentemente non urlano, no battono i pugno sul tavolo, ma tuttavia fanno sentire all’altro la sua inferiorità. 6.2. Strategie sottili Una strategia efficace è fare la vittima, significa che altri indebitamente ti hanno fatto un torto, hanno violato i tuoi diritti, quindi è giusto che tu voglia rivalerti, proclamare i tuoi diritti e pretendere che siano rispettati. Mostrarsi impermaliti è un tipo particolare di vittimismo. Essere permaloso significa avere una bassa soglia del sentirsi offesi. Sentirsi offesi significa sentire che un’azione comunicativa o non comunicativa di qualcuno o addirittura un’omissione è un attacco alla propria immagine. Opposta alla strategia del vittimismo è quella del sussiego, in cui il Mittente vuol far capire all’uditorio che è superiore all’avversario, ma non lo fa vantandosi, bensì in un modo più implicito. Tipicamente il sussiego si esprime in un comportamento saccente e un atteggiamento didattico verso l’avversario. Chi mostra sussiego tratta gli altri come se fossero studenti o bambini: spiega le cose con chiarezza, con gesti iconici o gesti che mostrano certezza, ecc. Per questo si può mostrare sussiego anche facendo aspettare le persone che ti chiedono udienza: un messaggio implicito, proprio perché col non fare nulla a chi fa anticamera lascia inferire, ma senza comunicare che vuol inferire. Un altro modo di comunicare superiorità è mostrarsi disinvolto, a proprio agio. Una strategia di dominanza sottile ma crudele è la noncuranza: comportarsi come se l’altro non esistesse o non fosse lì. «qualità straordinaria» di un individuo cui si attribuiscono capacità sovra-umane, prodigiosa memoria, velocità di apprendimento, mente aperte e precorritrice. 3. Il carisma: tratti interni e manifestazioni esterne Il carisma è una serie di caratteristiche interne di una persona che, quando si manifestano esternamente attraverso tratti percepibili o comportamenti in varie modalità, suscitano negli altri emozioni positive, che li inducono a perseguire scopi non per costrizione, ma volontariamente e con trasporto. Dal punto di vista della manifestazione esterna possiamo distinguere: - Un carisma del corpo = l’aspetto fisico e la voce di una persona, ad esempio la camminata o la voce - Un carisma della mente = le idee creative e trascinanti di una persona, o i sentimenti espressi dalle sue parole o azioni. Le idee e la musica sono espressioni di questo carisma. 4. Le dimensioni del carisma La caratteristica fondamentale del carisma è la capacità di indurre altri a perseguire scopi non per la costrizione ma per convinzione  essenza della persuasione efficace. Il carisma è il nucleo centrale della capacità persuasiva; e le caratteristiche di cui è costituito sono le stesse che abbiamo individuato nel logos, pathos e ethos: un carattere che ispira fiducia quanto a benevolenza, competenza e dominanza. Una persona carismatica possiede un alto grado di questa qualità; e le loro particolare combinazioni formano tipi diversi di carisma. 5. Misurare il carisma di un leader Per verificare questa ipotesi multidimensionale sulla natura del carisma alcuni lavori si sono centrati sul carisma dei leader politico. Un primo studio qualitativo → somministrato un questionario online che chiedeva: - Elencare nomi di leader politici e altri noti personaggi pubblici considerati carismatici e non; - Generare liberamente aggettivi che descrivessero le qualità di una persona che consideravano carismatica e di una non. Risultati = due liste di aggettivi (italiani e francesi). Gli aggettivi di entrambi gli elenchi si possono raggruppare attorno ad alcuni degli aspetti di persuasività ipotizzati: il pathos e le tre dimensione dell’ethos – benevolenza, competenze e dominanza. Un’ulteriore dimensione, definita effetti di induzione emotiva, riguarda non tanto le capacità emotive del leader carismatico ma le emozioni che induce nei seguaci. Questi aggettivi descrivono, positivamente e negativamente, le caratteristiche interne de carisma, che si possono raggruppare attorno a queste dimensioni: - pathos: il leader carismatico ha un alto livello di intelligenza emotiva, cioè una forte capacità di provare ed esprimere le proprie emozioni; - il leader carismatico mostra benevolenza: è disinteressato cioè antepone ai propri interessi quelli dei seguaci; - competenza: il leader possiede abilità fisiche e mentali in gran numero e in misura sorprendente, meritando così l’ammirazione; - dominanza: il leader carismatico è dominante, spesso sfida le tradizioni, provoca gli altri leader, non si sottomette; - induzione emotiva: il carisma del leader induce emozioni nei seguaci. Il leader carismatico è maschio alpha. In base a questo studio è stata messa a punto la scala MASCharP, per valutare la percezione del carisma. 6. Tratti esterni del carisma. La voce carismatica La carismaticità di una persona, si può sentire dalla voce. Ma perché? In un lavoro sperimentale si è sfruttato un experimentum naturae: un caso in cui la voce di un leader carismatico ha subito un cambiamento drastico, da una voce normale e voce disfonica → la voce di Bossi pre e post ictus. Il primo risultato interessante è che i tre tipi di atto linguistico, indipendentemente dalla loro appartenenza a discorsi prima o dopo l’ictus, sono portatori di diversi gradi di carismaticità: l’incitazione è percepita in generale come più carismatica delle altre due, dando valori particolarmente alti per le qualità nella dimensione «competenza». Al contrario, l’atto linguistico della domanda retorica fa percepire il Parlante come più introverso, mentre l’asserzione evoca qualità come indifferente e non chiaro. In secondo luogo, vi sono differenze significative nella percezione del carisma di Bossi prima e dopo l’ictus. Le differenze sono più forti per la dimensione del pathos: il parlante è percepito come competente nel discorso pre-ictus e poco chiaro nel post-ictus. Quanto all’«induzione emotiva» il parlato pre-ictus ottiene alti punteggi su affascinante, seduttivo, attraente. Le dimensioni del carisma sono molteplici, le persone e i leader carismatici hanno tipi di carisma diversi. Il carisma è infatti un insieme di caratteristiche interne di un leader, una serie di ingredienti mentali manifestati da aspetti del suo comportamento comunicativo. Le tipologie sono: Autoritario-Minaccioso, Calmo-Benevolente, Proattivo-Seduttivo. Sono proprio gli ingredienti mentali del carisma, dunque, che dobbiamo cercare per caratterizzare lo stile di carisma comunicativo di un oratore: gli aspetti di competenza, benevolenza, dominanza, pathos, e induzione emotiva che sono evocati dalle parole, dai tipi di atti comunicativi, dalla voce, dai gesti di un leader carismatico. 7. Mussolini. Carisma nel corpo e nelle parole Un esempio di comunicazione carismatica è quella di Mussolini. Il suo lessico è caratterizzato da due aspetti che possiamo chiamare belparolismo e forzutismo: - Da un lato l’uso di parole che menzionavano o evocano emozioni e valutazioni positive. Sono esempi di belparolismo, le parole calde quelle che menzionano cose nobili. - dall’altro una tendenza a utilizzare l’iperbole, l’esagerazione, i gradi più alti di quantità e intensità degli oggetti e proprietà menzionati. Esprimono forzutismo, invece, tutte le parole che contribuiscono a dare un’immagine di forza, potere e dominanza. Spesso le parole sono superlative come significato, perché indicano sempre il grado estremo di qualcosa. Ma il forzutismo ha anche l’effetto di alzare il grado di certezza delle affermazioni di Mussolini. Se persuadere implica convincere, cioè far credere qualcosa con un alto grado di certezza, la certezza è ingrediente importante nella comunicazione del Persuasore, perché si contagia al Persuadendo. Così il forzutismo, contribuisce anche a dare un’immagine di competenza, oltre a dare un’idea di dominanza. Infine il forzutismo, con la sua aura di certezza e categoricità, ha anche un effetto di «induzione emotiva», perché induce sicurezza nell’uditorio: un’emozioni positiva e pro-attiva. Un aspetto della competenza del leader carismatico è la creatività: idee innovative, visionarietà, pensiero divergente; e nelle comunicazione questo si traduce in creatività linguistica. Il linguaggio di Mussolini è pieno di neologismi e figure retoriche: neologismo, metafore, ossimori e iperboli. C’è un limite alla creatività; un’eccessiva divergenza sarebbe troppo in conflitto con due scopi importanti della sua comunicazione carismatica: un lato deve essere compressibile dal maggior numero di persone, dall’altro mostrarsi simile a loro per sollecitare. Usava: - incitazioni - ordini e richieste - domande retoriche - minacce - atti di discredito - espressioni di affetti - espressioni di empatia - lodi = atto di seduzione Mussolini fa un uso retorico di vari aspetti della voce. Innanzitutto, fa molte pause retoriche: per creare suspense, aspettativa, sorpresa. Le sue pause sono dunque funzionali il pathos quando suscitano curiosità, ma più spesso sono strumento di dominanza: la pausa costringe a prestare attenzione, e aumenta la dipendenza dell’uditorio dall’oratore. Inoltre, Mussolini fa spesso uso dell’iperarticolazione, cioè parla lento e scandisce le parole; un modo di parlare «orientato all’ascoltatore». Le movenze esagerate e gigionesche di Mussolini sono impresse nella nostra memoria. 8. Gli ingredienti del carisma nella comunicazione multimodale di Mussolini L’analisi di 11 minuti di comunicazione multimodale di Mussolini ha permesso di individuare 17 ingredienti carismatici raggruppabili attorno alle dimensioni di dominanza, competenza, pathos e benevolenza. Contribuiscono alla dominanza i seguenti ingredienti: - imperiosità: Mussolini la esprime multimodalmente, sia a voce che a gesti; - minaccia, espressa con le espressioni; - categoricità, espressa con movimenti; - valutatività espresso da parole deontiche; - discredito. Mussolini stigmatizza ciò che di negativo il nemico ha fatto al suo popolo; - dominanza mascherata con domande retoriche alla folla. Gli ingredienti di competenza si possono raggruppare in tre dimensioni: comunicatività, sicurezza di sé, e pathos. La comunicatività comprendere ingredienti di: - chiarezza; - certezza; - creatività. Vi sono poi ingredienti di sicurezza di sé: - narcisismo; - ottimismo. Pathos e induzione emotiva infine sono presenti in ingredienti sia di ricezioni che di produzione: capacità di provare emozioni e di indurle in altri. - emotività; - induzione emotiva. Gli ultimi quattro sono gli ingredienti di benevolenza: - lode; - inclusività; - empatia; - complicità. Tutto ciò dà luogo ai quattro tipi di carisma: Autoritario-Minaccioso, Autoritario-Benevolente, Proattivo- Seduttivo, e Benevolente.
Docsity logo


Copyright © 2024 Ladybird Srl - Via Leonardo da Vinci 16, 10126, Torino, Italy - VAT 10816460017 - All rights reserved