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Riassunto psicologia delle organizzazioni, Sintesi del corso di Psicologia Delle Organizzazioni

Riassunto libro psicologia delle organizzazioni

Tipologia: Sintesi del corso

2018/2019

Caricato il 12/08/2019

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Scarica Riassunto psicologia delle organizzazioni e più Sintesi del corso in PDF di Psicologia Delle Organizzazioni solo su Docsity! PSICOLOGIA DELLE ORGANIZZAZIONI 1. CHE COSA SONO LE ORGANIZZAZIONI Le organizzazioni sono una caratteristica importante delle società moderne. Tutta l’azione collettiva si svolge in e attraverso contesti organizzativi. Attraverso il coordinamento di numerose azioni umane, le organizzazioni sono un potente strumento sociale che permea molti aspetti della vita collettiva (attività di cura, istruzione, gestione del denaro, sicurezza…). Le società moderne hanno così tante organizzazioni che diventa necessario creare, in alcuni casi, organizzazioni di secondo ordine per coordinarle e supervisionarle. Poiché viviamo in una società di organizzazioni, il cambiamento sociale richiede, in alcuni casi, un cambiamento organizzativo. Le organizzazioni sono strumenti neutri, né cattive né buone. Incarnano i valori fondamentali di una società. La conoscenza del funzionamento delle organizzazioni costituisce il primo passo per poterle cambiare. Le grandi organizzazioni hanno un impatto rilevante sugli individui, ma anche su altre collettività, sulle città o sulle comunità. Inoltre, attraverso i processi di selezione e di reclutamento delle persone e di ripartizione del lavoro, le organizzazioni svolgono un ruolo rilevante nel produrre, mantenere o modificare le diseguaglianze sociali. Le multinazionali, in virtù del loro potere economico, acquisiscono anche un elevato potere politico che le mette in condizione di esercitare una forte influenza anche al di fuori della nazione d’origine. DEFINIZIONE DEL CONCETTO DI ORGANIZZAZIONE Possiamo individuare 4 diverse concezioni dell’organizzazione: 1. SISTEMA RAZIONALE: organizzazione come collettività orientata al raggiungimento di fini specifici, con una struttura relativamente formalizzata e una cooperazione consapevole tra i partecipanti. Secondo questa prospettiva, la caratteristica principale delle organizzazioni è quella di essere deliberatamente progettate per raggiungere fini specifici. 2. SISTEMA NATURALE: organizzazione come collettività i cui partecipanti sono accomunati dall’interesse per la sopravvivenza dell’organizzazione stessa e si impegnano in attività collettive, informalmente strutturate, per raggiungere tale fine. L’organizzazione, da mezzo per raggiungere uno scopo, diviene fine a se stessa, un organismo adattivo che cambia i propri fini per perpetuare la propria esistenza. (Queste due prospettive hanno in comune il fatto di considerare l’organizzazione come un sistema chiuso, separato dal suo ambiente e con partecipanti stabili e facilmente identificabili. ) 3. SISTEMA APERTO: organizzazione come un sistema di attività e flussi interdipendenti che dà luogo a coalizioni instabili tra partecipanti con interessi diversi in un contesto più ampio che comprende anche l’ambiente esterno. 4. PROCESSO DI AZIONI E DECISIONI: organizzazione come processo di azioni e decisioni, un processo intenzionale verso risultati attesi e caratterizzato da razionalità limitata (gli uomini sono razionali solo limitatamente. Operano in ambienti che rendono le loro decisioni imperfette, perché comportano limiti fisiologici, contestuali, temporali o relativi alla disponibilità di informazioni o alla capacità di elaborarle). Gli elementi centrali dell’organizzazione sono le azioni e le decisioni. In sintesi possiamo definire le organizzazioni come delle entità sociali, intese come un processo di azioni e decisioni, che perseguono degli obiettivi, basandosi su processi di differenziazione e integrazione, con ruoli distinti assegnati ai partecipanti e con un sistema di autorità riconosciuta e accettata dai membri come decisore, in interazione dinamica con l’ambiente esterno. REQUISITI DI FUNZIONAMENTO 1. EFFICACIA: il grado in cui un’organizzazione riesce a realizzare i suoi fini; 2. EFFICIENZA: rapporto tra il risultato raggiunto e i mezzi impiegati per ottenerlo. Un’organizzazione è efficiente quando utilizza in maniera economica le risorse a propria disposizione; 3. ECONOMICITÀ: capacità di un’organizzazione, nel lungo periodo, di utilizzare le proprie risorse in modo efficiente, raggiungendo i propri obiettivi in modo efficace; 4. QUALITÀ: misura delle caratteristiche o proprietà di un’entità (prodotto, servizio…) in confronto a quanto ci si attende da essa per uno specifico impiego; 5. AFFIDABILITÀ: capacità di fornire un prodotto o servizio rispettando il livello di prestazione richiesto e garantendo un basso tasso di errori o incidenti. Necessario per il funzionamento di sistemi ad alto rischio; 6. RESILIENZA: capacità di un’organizzazione di effettuare costanti e adeguati aggiustamenti di fronte a situazioni sfidanti dell’ambiente esterno. Capacità di preservare il proprio funzionamento nonostante la presenza di avversità; 7. LEGITTIMITÀ SOCIALE: capacità di un’organizzazione di conformarsi alle pressioni dell’ambiente esterno. 2. LA STRUTTURA ORGANIZZATIVA La struttura organizzativa riguarda le scelte relative alla differenziazione delle componenti di un’organizzazione e l’istituzione di connessioni tra queste componenti. La struttura organizzativa riguarda, quindi, la divisione e il coordinamento del lavoro all’interno dell’organizzazione. Per divisione del lavoro si intende il processo, governato dall’organizzazione, di ripartizione dei vari compiti tra soggetti diversi. STRUTTURA ORGANIZZATIVA INFORMALE: norme e aspettative sociali che non posseggono alcun principio di legittimità o di formalizzazione, ma che possono comunque influenzare fortemente il comportamento delle persone nell’organizzazione. STRUTTURA ORGANIZZATIVA FORMALE: esplicita, formalizzata e legittima divisione delle responsabilità e dell’autorità. Definisce la struttura dei compiti, l’allocazione dell’autorità e le relazioni tra le persone. Individua il raggruppamento degli individui in unità organizzative e il raggruppamento di queste nell’insieme dell’organizzazione, definendo anche i rapporti di dipendenza formale, il numero di livelli gerarchici e l’ampiezza del controllo di manager e supervisori. Comprende, inoltre, la progettazione delle modalità di comunicazione e coordinamento tra le unità organizzative. Il concetto di struttura è legato a quello di strategia, ossia la definizione delle mete fondamentali e degli obiettivi di lungo periodo di un’impresa, la definizione dei criteri d’azione e la modalità di stanziamento delle risorse. Esistono 3 teorie principali per spiegare il rapporto tra struttura e strategia: la struttura consegue alla strategia (la struttura è determinata dalle scelte strategiche e si modella in base a queste); la strategia consegue alla struttura; strategia e struttura coevolvono (processo di interazione circolare tra le fasi). da molti project team in rapida evoluzione e da intensi scambi comunicativi tra gruppi relativamente autonomi. È particolarmente adatta per realizzare innovazioni complesse, ed è tipica di imprese ad alto tasso di innovazione. Si tratta di un’organizzazione con scarsa formalizzazione, elevata specializzazione orizzontale delle mansioni e tendenza ad aggregare gli specialisti in unità funzionali, utilizzandoli però in piccoli gruppi di progetto. Il potere è decentrato. È adatta ad ambienti fortemente instabili, ma non per realizzare attività ordinarie o di routine, in quanto i costi sono elevati e il carico di lavoro è difficile da bilanciare. ERA 3: I NETWORK Ha inizio a metà degli anni Novanta, a seguito dei profondi cambiamenti ambientali e nei mercati, sempre più imprevedibili, e allo sviluppo di nuove tecnologie. Questo porta alla ridefinizione dei confini dell’organizzazione: si può parlare di boundaryless organizations. Il crescente processo di outsourcing “svuota” l’impresa dalle attività di produzione, che ora è specializzata nell’intermediare tra finanza, produzione e vendite sulla base di un marchio consolidato. I processi sempre più spinti di esternalizzazione portano alla nascita di un nuovo soggetto organizzativo basato sul network. Una parte della letteratura ha studiato le reti di persone, un’altra ha studiato le reti organizzative, nella doppia accezione di organizzazione network e network di organizzazioni. ORGANIZZAZIONE NETWORK L’organizzazione network è caratterizzata dall’integrazione, entro i confini formali, di tipi multipli di relazioni socialmente importanti. La presenza di densi e stretti legami ne costituisce l’elemento distintivo. L’ambiente in cui l’organizzazione opera è visto come una rete di altre organizzazioni, e le reti limitano l’azione e ne sono a loro volta influenzate. Le reti vanno considerate non solo in quanto strutture, ma anche in quanto processi. Pichierri definisce l’organizzazione network come un modello stabile di transazioni cooperative tra attori individuali o collettivi che costituisce un nuovo attore collettivo. Tale organizzazione può nascere per disaggregazione di un’organizzazione unitaria o per aggregazione di attori autonomi. Nella prospettiva dei costi di transazione, forme di organizzazione network nascono laddove i crescenti costi di un’organizzazione verticalmente integrata stimolano l’emergere di legami tra coinvolte in uno stesso processo produttivo. La dimensione relazionale prevale su quella strutturale, e il governo di queste forme avviene più attraverso la gestione delle relazioni che attraverso la struttura gerarchica e l’unità di comando. Possiamo distinguere 3 principali tipi di organizzazione network: • SUB-CONTRACTING: caratterizzata dall’elevato livello di esternalizzazione delle attività e dalla distinzione tra attività core e non-core; • MODULARE: esternalizza la realizzazione di parti compiute del prodotto. Il centro mantiene il controllo sui processi in cui ha competenze distintive e trasferisce le altre attività ad altre organizzazioni; • PARTNERSHIP: caratterizzata dalla presenza di relazioni esclusive e fortemente sbilanciate in favore del soggetto più forte (impresa focale). Quest’ultima gestisce il complesso network di produttori, distributori ed altri soggetti. Le relazioni tra l’impresa focale e le imprese del network non sono né propriamente verticali né orizzontali. NETWORK DI ORGANIZZAZIONI I network di organizzazioni possono essere definiti come un insieme di attori che perseguono relazioni di scambio ripetute nel tempo con uno o più attori ma che hanno poca o nulla autorità per risolvere i conflitti legati agli scambi. Le imprese appartenenti al network sono spesso di dimensioni ridotte e interagiscono scambiandosi informazioni, macchinari, personale e ordini, pur essendo in competizione tra loro. Si affidano a un piccolo numero di imprese che forniscono loro servizi di business, servizi finanziari, beni capitali e materie prime, e si affidano ad altre imprese per la gestione e la distribuzione. Il sistema di produzione è una struttura flessibile, aperta, condivisa da tre attori che cooperano: clienti, produttori e fornitori. Le reti di piccole e medie imprese hanno diversi vantaggi, come la diffusa distribuzione del potere, ridotti livelli gerarchici, una più equa distribuzione della ricchezza e un forte legame con le istituzioni del governo locale. Possono essere individuate due macrocategorie di network: i network a cooperazione competitiva, tra imprese che appartengono allo stesso settore, e i network a cooperazione simbiotica, cioè tra organizzazioni in settori competitivi diversi. Quindi, i network di organizzazioni si configurano come forme reticolari tendenzialmente simmetriche in cui non vi è un attore dominante e le relazioni di influenza sono complesse. I rapporti tra le imprese si concretizzano in transazioni e relazioni di varia natura, sempre improntate alla cooperazione. 3. LE ORGANIZZAZIONI E L’AMBIENTE L’ambiente organizzativo è l’insieme degli elementi e delle forze esterne all’organizzazione che sono in grado di influenzarne il comportamento. Possiamo distinguere due livelli: l’ambiente di riferimento (o task environment), che comprende fattori ed elementi che hanno un impatto diretto e rilevante sull’organizzazione (ad esempio fornitori, concorrenti, consumatori) e l’ambiente generale, che comprende fattori che possono avere un’influenza indiretta sull’organizzazione (ad esempio politiche governative, fattori socioculturali…). Per quanto riguarda il rapporto tra l’organizzazione e l’ambiente possiamo individuare due differenti concezioni: i modelli diadici dell’ambiente e l’organizzazione dell’ambiente. MODELLI DIADICI DELL’AMBIENTE Pur riconoscendo che per capire il comportamento delle organizzazioni bisogna considerare anche l’ambiente, l’analisi è incentrata sull’organizzazione. Rientrano in questa concezione la teoria delle contingenze di Thompson, la teoria della dipendenza dalle risorse di Pfeffer e Salancik e la teoria dei costi di transazione di Williamson. • L’ECONOMIA DEI COSTI DI TRANSAZIONE Williamson concepisce le organizzazioni come strutture per governare le relazioni di scambio, con l’obiettivo principale di stipulare e garantire contratti affidabili ed efficienti che riguardino sia le relazioni interne di lavoro, sia le relazioni con altre imprese. Ne consegue che l’unità di analisi non è più il bene prodotto ma la transazione. Per transazione si intende lo scambio, regolato da una qualche forma di contratto, che riguardi beni o servizi con fornitori esterni, prestazioni di lavoro dipendente, ecc. L’economia dei costi di transazione considera, dunque, l’azienda come una struttura di governance delle transazioni, con l’obiettivo di minimizzare i costi. A causa dei processi di esternalizzazione, viene messa in discussione la concezione classica dell’azienda, che prevedeva la sostanziale coincidenza tra lo spazio fisico dell’organizzazione e la sua azione. L’ECT si basa sull’idea che le relazioni di mercato non sempre rappresentano il modo migliore per gestire le attività economiche, in quanto almeno due fattori ne minano l’efficienza: la razionalità limitata e l’opportunismo. Secondo il principio della razionalità limitata, gli uomini sono razionali intenzionalmente ma solo limitatamente, in quanto operano in contesti che comportano limiti fisiologici, di tempo, relativi alla disponibilità di informazioni o alla capacità di elaborarle. Questi limiti contribuiscono a determinare decisioni razionali solo in maniera limitata. Per opportunismo, si intende la ricerca del proprio interesse tramite l’inganno e riguarda comportamenti scorretti, fraudolenti o illeciti che gli attori possono adottare per conseguire i propri vantaggi. La razionalità limitata e l’opportunismo favoriscono il blocco informativo, ovvero condizioni di asimmetria informativa, in cui gli elementi rilevanti per una decisione sono a conoscenza soltanto di alcuni soggetti. Williamson individua tre aspetti della transazione che sono essenziali per stabilire se all’azienda conviene produrre in proprio (MAKE) o ricorrere al mercato (BUY), in modo da economizzare i costi di transazione. I tre aspetti sono l’incertezza (affidabilità con la quale un bene necessario è disponibile quando richiesto o rischio di comportamenti opportunistici), la frequenza (numero di transazioni da effettuare) e la specificità delle risorse (grado in cui un bene è specializzato in relazione ad una determinata transazione). Ad esempio, in condizioni di incertezza della transazione, di elevata frequenza e di elevata specificità delle risorse, i costi di mercato tendono ad aumentare e ricorrere alla gerarchia, ossia al governo interno delle relazioni, costituisce la scelta migliore per governare le transazioni in una logica di economizzazione. • TEORIA DELLA DIPENDENZA DALLE RISORSE La teoria della dipendenza dalle risorse mette in evidenza innanzitutto l’importanza del contesto: per capire il comportamento di un’organizzazione occorre capire il più ampio contesto in cui si manifesta, l’ecologia dell’organizzazione e non soltanto le sue dinamiche interne. Nessuna organizzazione è del tutto autonoma, ma sono tutte inserite in un ambiente composto da altre organizzazioni. Un’organizzazione dipende da un dato elemento del suo ambiente di riferimento in maniera direttamente proporzionale al bisogno dell’organizzazione di risorse o prestazioni che tale elemento può fornire e in modo inversamente proporzionale alla capacità di altri elementi di provvedere alla stessa risorsa o prestazione. I fattori più importanti di cui le organizzazioni devono tenere conto sono altre organizzazioni. Inoltre, le organizzazioni devono mettere in atto una serie di strategie per perseguire i propri interessi. Secondo Pfeffer e Salancik l’obiettivo di un’organizzazione è, da un lato, minimizzare la dipendenza da altre organizzazioni per l’acquisizione delle risorse scarse presenti nell’ambiente, dall’altro trovare il modo di influenzarle. Il terzo e più importante elemento su cui si basa la teoria è il potere. La questione più importante è la sopravvivenza dell’organizzazione, che dipende dalla sua abilità nell’acquisire e mantenere le risorse. Il comportamento di un’organizzazione è la risposta ai vincoli ambientali o il tentativo di liberarsi da essi. Poiché le organizzazioni dipendono da altre organizzazioni, cercano modi di gestire tali dipendenze. Un’organizzazione è dipendente dall’ambiente esterno quando deve lottare strenuamente per la propria sopravvivenza e per procurarsi le risorse. Il grado di dipendenza di un’organizzazione da un’altra organizzazione dipende dall’importanza della risorsa per la sopravvivenza dell’organizzazione (es. risorse rare) e dal grado in cui una data risorsa è controllata da altre organizzazioni. Maggiore è la dipendenza da un’altra organizzazione, minore è l’autonomia decisionale. Un’organizzazione riesce a sopravvivere se è in grado di condizionare l’ambiente che la condiziona. Quindi, le strategie esterne sono più importanti di quelle interne e influenzano i requisiti di efficacia ed efficienza. Un’organizzazione deve acquisire le risorse necessarie per sopravvivere e, al contempo, essere capace di soddisfare le domande provenienti dall’ambiente nel quale opera. L’ambiente è attivato dall’organizzazione, nel senso che essa sceglie come operare in relazione ad esso, con chi entrare in contatto e con chi allearsi per raggiungere i propri obiettivi. L’ORGANIZZAZIONE DELL’AMBIENTE Alti livelli di incertezza possono paralizzare il processo di pianificazione strategica, riducendo la possibilità di affrontare le minacce e di intraprendere azioni di rimedio. Weick distingue il concetto di incertezza da quello di ambiguità. In situazioni di ambiguità, le persone sono confuse per un eccesso di informazioni, mentre in situazioni di incertezza non possiedono alcuna interpretazione. 4. IL POTERE Il potere è la capacità di un soggetto di conseguire in modo intenzionale determinati scopi, o di imporre la propria volontà, nonostante la possibile opposizione o resistenza di un altro soggetto. Nel caso delle organizzazioni si fa spesso riferimento alla definizione secondo cui il potere di una persona A su una persona B è la capacità di A di ottenere che B faccia qualche cosa che senza l’intervento di A non avrebbe fatto. Si tratta di una situazione asimmetrica, in cui i soggetti non sono sullo stesso piano in quanto uno possiede una posizione superiore rispetto all’altro. Possiamo distinguere due forme di potere organizzativo: il potere nelle organizzazioni, che individui o gruppi esercitano all’interno dell’organizzazione, e il potere delle organizzazioni, che esse esercitano nei confronti dell’ambiente esterno e di altre organizzazioni. Il tema del potere è molto importante nello studio delle organizzazioni in quanto esse sono strumenti per controllare il mondo in base alle proprie aspirazioni. Il potere organizzativo può essere definito come l’abilità di produrre effetti su entità collettive e organizzate e su coloro che ne fanno parte. Nelle organizzazioni il potere è reso evidente dalle caratteristiche e dai diritti di una posizione nella catena di comando. Tra le più importanti fonti del potere organizzativo vi sono: l’autorità formale, il controllo delle risorse scarse, il controllo dei processi decisionali, il controllo della conoscenza e dell’informazione e le alleanze. La posizione di un attore in un network è un fattore chiave del potere. Il potere è spesso stabile e autoperpetuante, in quanto coloro che lo detengono possiedono anche le risorse per mantenerlo nel tempo. Salancik e Brindle distinguono due tipi di potere: quello pulito (clean) e quello sporco (dirty). Il potere pulito è simile a quello istituzionale ed è spesso invisibile e socialmente accettato, mentre quello sporco è più visibile, tipico della manipolazione e della coercizione per raggiungere fini prestabiliti. Le organizzazioni cercano di reperire potere, secondo Thompson, nei confronti di coloro dai quali dipendono. Esse possono ricorrere a strategie diverse: di contrattazione, negoziando un accordo per scambi futuri, di cooptazione, assorbendo nella leadership nuovi soggetti e di coalizione, attraverso la creazione di joint ventures con altre organizzazioni. Crozier e Friedberg definiscono il potere come uno scambio strutturalmente squilibrato di possibilità d’azione e di comportamento tra un insieme di attori individuali o collettivi. Secondo questa prospettiva, alcune circostanze non sono riconducibili al potere legittimo, ma alla capacità di uno degli attori di controllare una fonte di incertezza. Il potere è relazionale, in quanto è un rapporto tra attori e non un attributo di questi, è legato all’interdipendenza tra gli attori ed ha una natura multilaterale, in quanto non è separabile dai processi di scambio e coesiste con essi. Secondo Crozier, il potere di A su B dipende dalla prevedibilità del comportamento di B per A e dall’incertezza in cui B si trova circa il comportamento di A. Il potere di un individuo può, dunque, essere diverso dall’autorità formale, e dipende dall’ampiezza della zona di incertezza che l’imprevedibilità del suo comportamento gli permette di controllare. Dunque nelle organizzazioni si creano delle lotte per il potere, dei comportamenti strategici con lo scopo di rendere il più possibile imprevedibile il proprio comportamento e, al tempo stesso, più prevedibile il comportamento altrui. 5. LE DECISIONI Decidere (dal latino decaedere, tagliare) significa scartare le diverse opzioni fino a che ne rimanga una sola. Una decisione include sempre un atto di volontà da parte di un attore, l’esistenza di possibili alternative, il processo attraverso il quale la decisione è stata presa e l’oggetto o il contenuto della decisione. Le teorie più diffuse sulle decisioni vedono il processo decisionale come dominato dalla scelta razionale. Questa teoria, di tipo normativo, si basa sull’idea di utilità attesa e indica come dovremmo ragionare, giudicare e scegliere se vogliamo farlo nel migliore dei modi. Il modello assume che, prima di scegliere, il decisore conosca tutte le alternative, le conseguenze e i costi associati a ogni scelta. Nelle situazioni reali è altamente improbabile che siano presenti tutte queste condizioni. Simon mette in discussione questo modello e argomenta che gli individui sono caratterizzati da razionalità limitata. La teoria di Simon prende quindi in considerazione i limiti cognitivi, di conoscenza, di tempo e di capacità di calcolo del soggetto. Tali limiti prevengono i decisori dal prendere le decisioni ottimali. Secondo Simon gli individui fissano un livello di soddisfacimento, esaminano le alternative disponibili, e selezionano la prima scelta che consente loro di raggiungere il livello atteso con una certa probabilità. Secondo questo modello, i decision makers tentano di prendere decisioni razionali, ma mancano loro importanti informazioni, capacità e risorse perché possano essere davvero pienamente razionali. Elster ritiene che la realtà interna e la realtà esterna si influenzino a vicenda. Ad esempio, un attore può modificare le proprie preferenze in ragione delle opportunità. Le emozioni possono favorire situazioni di wishful thinking e autoinganno, ossia situazioni in cui si crede a ciò che si desidera. Le emozioni possono quindi distorcere le nostre percezioni e incidere sulla valutazione delle probabilità. Damasio sostiene invece una visione positiva del ruolo delle emozioni, che possono aiutarci a tener conto delle conseguenze a lungo termine. La nostra intelligenza, infatti, è prevalentemente inconscia e basata su processi estranei alla logica (nuova terra della razionalità). Kanheman e Tversky evidenziano una moltitudine di bias che influenzano il processo decisionale. In particolare mettono in evidenza le euristiche, strategie cognitive di semplificazione, utilizzate per prendere decisioni. In alcuni casi, le euristiche possono condurre le persone a decisioni sbagliate, o bias. In altri casi, le euristiche risultano accurate e funzionali in quanto richiedono minori sforzi. Gli studi di neuroscienze e di brain imaging hanno mostrato come il comportamento umano sia il risultato dell’interazione tra processi automatici, o affettivi, e controllati, o cognitivi. Spesso le situazioni presentano ambiguità, ossia mancanza di chiarezza o di coerenza nella causalità o nell’intenzionalità. Le situazioni ambigue non possono essere codificate con precisione. Secondo Thompson le variabili fondamentali della decisione sono: le credenze relative ai rapporti di causa- effetto e le preferenze personali riguardo i risultati. In base alla situazione, va utilizzata una diversa strategia: • In condizioni di certezza sia della causalità sia delle preferenze, siamo in situazioni di strategie di calcolo; • Quando vi è chiarezza sulle preferenze ma incertezza sulla causalità, si è in una situazione di strategie di giudizio; • In condizioni di incertezza sulle preferenze e certezza circa le relazioni di causa-effetto, il processo decisionale si baserà su strategie di compromesso; • Quando vi è incertezza su entrambe le dimensioni siamo in presenza di strategie di intuito. March e Olsen ritengono che la decisione si configuri come un’anarchia organizzata in casi di problematicità delle preferenze, di incertezza sulla tecnologia utilizzata e di fluidità della partecipazione. I due autori sviluppano il modello decisionale a cestino dei rifiuti, che evidenzia l’apparente caoticità del processo decisionale raffigurandolo come se i partecipanti gettassero i diversi tipi di problemi e soluzioni in un cestino dei rifiuti. In questo modello, problemi, soluzioni, partecipanti e opportunità di scelta, combinandosi tra loro, compongono la decisione. In questa prospettiva, non sono i problemi a creare le soluzioni, ma le soluzioni disponibili ad orientare la definizione del problema. Il modello a cestino dei rifiuti è patologico, ma consente di trovare la soluzione ai problemi in situazioni di ambiguità. Possono essere distinte due logiche d’azione: la logica delle conseguenze e la logica dell’appropriatezza. La logica delle conseguenze si basa sulla razionalità analitica, per cui gli individui prendono le decisioni in base alle preferenze e valutando le conseguenze probabili. Il comportamento è intenzionale e riflette il tentativo di far coincidere risultati e obiettivi perseguiti. La logica dell’appropriatezza, invece, si basa sulle regole. L’azione è basata sull’identificazione del comportamento ritenuto normativamente appropriato alla situazione. La decisione nasce da una necessità e non da una preferenza. La distinzione tra le due logiche è alla base delle differenze tra il livello individuale della decisione e quello organizzativo. In alcuni casi, la conoscenza anticipata di esiti negativi molto probabili del processo decisionale non ne modifica il percorso. In questi casi prevale una logica dell’identità. Si preferisce essere sconfitti piuttosto che prendere decisioni che minerebbero l’identità dell’organizzazione rispetto alla cerchia di riconoscimento. Le decisioni nelle organizzazioni non sono tutte della stessa importanza, ma possono essere distinte a seconda della loro magnitudo e della strategicità che rivestono per l’organizzazione. Le decisioni possono essere collocate lungo un continuum che va da decisioni di routine a decisioni strategiche. Non è detto, però, che una decisione di routine comporti un cambiamento maggiore di una di routine. Allison, nei suoi studi sul processo decisionale (caso dei missili di Cuba), utilizza tre modelli: quello dell’attore razionale, secondo il quale i decisori agiscono secondo una logica consequenzialista e in base a calcoli di costi e benefici; quello organizzativo, che considera le decisioni come l’output di grandi organizzazioni che operano in base a modelli regolari di comportamento; quello politico, che si focalizza sulle decisioni come risultanti da un conflitto tra diversi giocatori. I tre modelli sono integrati e ognuno comprende il modello precedente. VINCOLI AL PROCESSO DECISIONALE Un vincolo al processo decisionale è costituito dall’esistenza di precedenti decisioni che impegnano le risorse dell’organizzazione in certi corsi d’azione. Alcune organizzazioni impegnate in corsi d’azione negativi potrebbero essere indotte a proseguire tali corsi d’azione, peggiorando la situazione (escalation situation). In questi casi, le decisioni precedenti orientano le decisioni successive. Un altro fattore che vincola le decisioni organizzative è costituito dalla embeddedness sociale. Le organizzazioni sono, infatti, inserite in una rete di relazioni con altri attori. Tali relazioni influenzano significativamente le decisioni, in quanto rappresentano un’importante fonte di informazione sulle scelte da fare e in quanto richiedono una serie di azioni per mantenerle. Un altro aspetto che influenza il processo decisionale è il group thinking, fenomeno tipico delle situazioni in cui un piccolo gruppo omogeneo cerca di raggiungere, sotto pressione una decisione. Il group thinking comporta una valutazione incompleta delle alternative. Lo stress e il bisogno di conferma portano spesso gli attori a sopprimere ogni dubbio, obiezione e ipotesi alternativa, favorendo un pensiero acritico e una forte spinta al conformismo. Linee di ricerca –da leggere 6. IL SENSEMAKING NELLE ORGANIZZAZIONI Weick considera l’organizzazione come un sistema sociale aperto, un’entità continuamente costruita e ricostruita dagli attori che agiscono sul proprio ambiente attivandolo (enacting). Tali attori sono quando si creano nuove forme discontinue e in modo imprevedibile rispetto alla situazione di partenza. Secondo una concezione adattiva del cambiamento, è l’impresa che si adatta ai mutamenti esterni. Viene messo in primo piano il ruolo del leader, che dirige l’organizzazione modificandone molteplici aspetti in funzione delle mutate condizioni esterne. I cambiamenti nelle forme di organizzazione, secondo questa prospettiva, si realizzano secondo apprendimento e imitazione. La concezione ecologica, invece, attribuisce particolare rilevanza ai cambiamenti ambientali come fattori di selezione delle organizzazioni più adatte a sopravvivere. Ci sono quattro teorie principali che spiegano il cambiamento organizzativo: • La teoria del ciclo di vita assume che l’organizzazione abbia un “programma” che regola il processo di cambiamento e che porta l’entità da un determinato punto di partenza ad uno stato finale già prefigurato. Ciò che è latente diventa via via manifesto. Essendo lo stato finale prefigurato, è possibile definire in anticipo gli stati intermedi. • La teoria teleologica o del cambiamento intenzionale vede lo sviluppo come un ciclo che va dalla formulazione dei fini all’implementazione, valutazione e modifica in base a ciò che è stato appreso. Non ci sono regole prefissate o sequenze logiche necessarie. Questa teoria conferisce importanza alla dimensione intenzionale delle persone come forza generatrice del cambiamento. • La teoria dialettica o del cambiamento conflittuale si basa sull’assunzione che le organizzazioni esistono in un mondo pluralistico e competitivo. La stabilità e il cambiamento vengono spiegati con riferimento all’equilibrio del potere tra le differenti entità. Il cambiamento si verifica quando le forze in gioco possiedono un potere sufficiente a rompere lo status quo. • La teoria evolutiva o del cambiamento competitivo spiega il cambiamento in termini di variazione, selezione e ritenzione. La variazione dà luogo a nuove forme, l’ambiente seleziona poi quelle più adatte a una determinata nicchia e infine la ritenzione riguarda le forze, come l’inerzia e la persistenza, che perpetuano il mantenimento di certe forme selezionate. Vi sono numerosi elementi che favoriscono la stabilità organizzativa e l’inerzia, come il tentativo da parte degli attori di proteggere i propri interessi individuali e di mantenere le posizioni acquisite, i modi di pensare e le credenze consolidate, le convenzioni e le routine, ecc. La resistenza al cambiamento è il comportamento difensivo posto in essere dagli attori coinvolti dal cambiamento e che lo vedono come una minaccia al proprio potere negoziale. Il processo di cambiamento ha successo se coloro che lo propongono riescono a costituire una coalizione di interessi ad esso favorevole che abbia posizioni e potere negoziale superiori alle forze che vi si oppongono. Beer e Nohria individuano due teorie, denominate teoria E e teoria O. la prima si basa sul perseguimento del valore economico e della sua massimizzazione e tende a realizzarsi attraverso significative ristrutturazioni, ampi risparmi e riduzioni della forza lavoro, mentre la teoria O si focalizza sulle capacità dell’organizzazione e tende a realizzarsi attraverso lo sviluppo della cultura, delle capacità individuali e organizzative e dell’apprendimento. Weick mette a confronto questo tipo di cambiamento (pianificato) con quello denominato emergente, che consiste in una serie di aggiustamenti continui che producono un cambiamento senza che ci sia una precedente intenzione. Un’ulteriore distinzione sulle modalità del cambiamento è quella tra exploration ed exploitation. L’exploitation è definita come l’utilizzo e lo sviluppo di cose già note, mentre l’exploration come il perseguimento di cose che potranno diventare note. Sia l’exploration sia l’exploitation sono essenziali per le organizzazioni. Il tema del cambiamento è particolarmente problematico negli ambienti turbolenti e altamente competitivi, in cui fattori economici, politici, tecnologici e sociali mutano rapidamente. Il fattore tempo diventa rilevante nel processo di cambiamento, ma crea alcuni paradossi, come l’effetto Red Queen: correre più veloci genera successo nel breve periodo ed è meno rischioso nell’orizzonte immediato, ma può rivelarsi inefficace nel lungo periodo. Negli ambienti odierni, basati sull’innovazione continua della conoscenza, sappiamo che le imprese non possono sopravvivere limitandosi a correre più in fretta, ma devono piuttosto correre in maniera diversa rispetto ai concorrenti. La concezione tradizionale del cambiamento prevede alcune fasi: il modello organizzativo (modello 1) viene valutato come inadeguato rispetto alle richieste dell’ambiente. Viene quindi definito un modello ottimale cui pervenire (modello 2) e un percorso di cambiamento per condurre l’organizzazione dal modello 1 al modello 2. In ambienti ad alto tasso di cambiamento, però, tale modello risulta problematico, poiché in tali ambienti, quando si passa dal modello 1 al modello 2, quest’ultimo più già risultare inadeguato in quanto le condizioni ambientali sono di nuovo diverse. In ambienti di questo tipo è più sensato ragionare in termini di gestione dell’inaspettato e progettare strutture in grado di affrontare contesti continuamente mutevoli. Grandori suggerisce di passare dal cambiamento dell’organizzazione all’organizzazione capace di cambiare continuamente rispetto alle contingenze ambientali pur mantenendo il suo “nocciolo duro”. L’INNOVAZIONE L’innovazione e il cambiamento sono due fattori distinti. Con cambiamento si intende l’adozione di una nuova idea o comportamento già esistenti, mentre con innovazione si intende la creazione e l’adozione di un’idea o comportamento nuovi, non noti fino a quel momento. Un’ulteriore distinzione può essere fatta tra invenzione e innovazione. L’invenzione è il primo evento di un’idea riguardo un nuovo prodotto o processo, mentre l’innovazione è il primo tentativo di metterlo in pratica. L’innovazione migliora i modi esistenti di fare le cose, mentre l’invenzione cambia i modi di fare le cose. Tradurre l’invenzione in innovazione richiede la combinazione di diversi tipi di conoscenze, capacità, abilità, risorse. A volte un’invenzione non può diventare innovazione in quanto non sono disponibili determinati elementi. L’innovazione può riguardare diversi ambiti: i prodotti, nuovi metodi di produzione, nuove fonti di approvvigionamento, ecc. Le innovazioni, inoltre, possono variare significativamente per gli aspetti di novità, dimensione e durata nel tempo. Le innovazioni che distruggono un mercato esistente sono dette innovazioni dirompenti. Gli studi sull’innovazione organizzativa esaminano soprattutto le cause e le conseguenze dell’innovazione e il modo in cui vengono create, sviluppate e implementate le innovazioni. L’utilità di un’innovazione può essere affermata solo dopo che il processo innovativo sia stato completato e implementato. L’innovazione comporta un iniziale calo della performance, dovuto ai costi legati all’apprendimento e all’implementazione. Questo temporaneo deterioramento è seguito da un aumento delle performance. Diversi studi dimostrano come il design organizzativo possa influenzare la propensione individuale e organizzativa all’innovazione (gli assetti burocratici e altamente formalizzati ostacolano l’innovazione, mentre le forme network, grazie alla riduzione dei livelli gerarchici, aumentano l’innovazione). Tra i fattori che favoriscono l’innovazione vi sono: la presenza di risorse per l’innovazione, la frequenza di comunicazioni tra le unità organizzative, un assetto organizzativo flessibile, un ambiente interno che stimoli, supporti e incentivi i comportamenti innovativi, la propensione a creare alleanze interorganizzative su temi innovativi (numerosi studi sui brevetti hanno dimostrato l’importanza delle comunicazioni interorganizzative, la mobilità delle persone, le alleanze strategiche per la condivisione e il trasferimento della conoscenza). Per quanto riguarda il processo dell’innovazione organizzativa, Rogers ha delineato un modello di sviluppo dell’innovazione articolato in tre fasi: 1. L’invenzione della nuova idea che deriva dall’analisi dell’ambiente e dalla ricerca; 2. Lo sviluppo dell’idea, la sequenza di eventi che la trasformano in realtà operativa; 3. L’implementazione, ossia l’adozione e diffusione da parte degli utilizzatori. Kline e Rosenberg hanno criticato questo modello lineare dell’innovazione. I due autori ritengono che l’innovazione non sia un processo sequenziale, ma un processo che coinvolge molte interazioni e feedback, input multipli e che non deriva dai processi di invenzione, che tendono invece ad essere intrapresi in un’ottica di problem solving all’interno del processo di innovazione. Uno dei problemi più rilevanti per le imprese rispetto all’innovazione riguarda il mantenere un alto tasso di innovazione organizzativa evitando il rischio che le competenze distintive sviluppate a seguito di un’innovazione finiscano per ostacolare lo sviluppo di ulteriori innovazioni (da core capabilities a core rigidities). Numerose ricerche evidenziano una relazione positiva tra la formazione delle alleanze tra imprese (network di innovatori) e l’innovazione. I network contribuiscono significativamente alle capacità innovative delle imprese, esponendole a nuove fonti di conoscenza. La collaborazione può inoltre favorire una divisione del lavoro che rende possibile alle imprese raggiungere obiettivi che da sole non avrebbero potuto perseguire. APPRENDIMENTO ORGANIZZATIVO L’apprendimento organizzativo è stato definito come un processo di cambiamento multilivello nella cognizione e nell’azione. È un processo radicato nell’organizzazione e da essa influenzato. Non è semplicemente la somma degli apprendimenti individuali, ma perché diventi organizzativo le cognizioni e le azioni individuali devono essere condivise con altri e incorporate nei sistemi organizzativi e nelle routine, in modo da diventare indipendenti da ogni singolo individuo. Nella prospettiva sull’apprendimento organizzativo è possibile individuare due principali prospettive: • La prospettiva cognitiva mette in primo piano l’acquisizione, la distribuzione, l’immagazzinamento, il recupero e l’interpretazione delle informazioni ai fini del decision making. L’apprendimento organizzativo si verifica quando le nuove opzioni d’azione sono riconosciute come il risultato dell’analisi delle informazioni. La prospettiva cognitiva si articola due approcci: l’apprendimento cognitivo individuale e l’apprendimento cognitivo dell’organizzazione. Uno si concentra sull’apprendimento dei singoli individui, mentre l’altro analizza come l’intera organizzazione apprende. Entrambi gli approcci basano le loro considerazioni sulla comprensione del significato che gli individui attribuiscono all’apprendimento. • La prospettiva culturale ritiene che l’apprendimento organizzativo non possa riguardare i singoli individui ma i gruppi. È l’intera organizzazione, in forma integrata, ad apprendere. Viene messo in evidenza, inoltre, il concetto di pratica. Il conoscere in pratica indica che il conoscere non è una capacità statica, ma un processo sociale costruito e ricostruito dagli attori quando affrontano il mondo nella pratica. Diversi autori sostengono che l’apprendimento sia guidato dai fallimenti. Argyris e Schon ritengono che l’apprendimento organizzativo, come quello umano, abbia a che fare in primo luogo con l’individuazione e la successiva correzione degli errori. L’identificazione di un errore costituisce, dunque, il primo passo del processo di apprendimento. I due autori distinguono due forme di apprendimento: il single-loop learning, basato su un meccanismo di feedback molto semplice che comprende la rilevazione degli errori e la loro correzione, nel mantenimento delle norme organizzative esistenti, e il double-loop learning, che mira al cambiamento degli assunti e delle norme esistenti responsabili dei comportamenti erronei. Tale forma, cercando di ridurre la ripetizione degli
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