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RIASSUNTO PSICOLOGIA DELLE ORGANIZZAZIONI, Appunti di Psicologia Delle Organizzazioni

il riassunto è completo di appunti, capitoli del libro e slide proiettate a lezione. Sono evidenziati con vari colori le parole chiave e i concetti principali.

Tipologia: Appunti

2020/2021

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Scarica RIASSUNTO PSICOLOGIA DELLE ORGANIZZAZIONI e più Appunti in PDF di Psicologia Delle Organizzazioni solo su Docsity! Psicologia delle organizzazioni Psicologia del lavoro e delle organizzazioni Capitoli che non spiega di lavoro:12-13-7-8 Capitoli che spiega di organizzazioni: Cultura, clima, leadership, cambiamento, emozioni Definizione È quel settore della psicologia volto ad analizzare e modificare la natura dell’attività lavorativa, in varie condizioni di attuazione. La psicologia del lavoro e delle organizzazioni si occupa del lavoratore (in tutte le sue forme) e di gruppi (organizzazioni) uniti da uno scopo comune, che è un fine istituzionale e formalizzato ovvero LA PRODUTTIVITÀ. Dobbiamo analizzare il comportamento del singolo e quello del gruppo perché SONO DIVERSI. D’altra parte troviamo anche una branca particolare della psicologia ossia la psicologia dell’ambiente  studio delle condizioni\caratteristiche dell’ambiente che possono contribuire all’aumento del benessere, della motivazione e della performance. Breve storia della psicologia del lavoro Secondo Gabassi, la psicologia del lavoro ha avuto origine alla fine del 1800 quando si preannunciava quella che sarebbe diventata la seconda Rivoluzione industriale. Fu proprio in questo periodo che nacque un interesse rivolto alla soggettività lavorativa. Non possiamo non tenere conto della nascita delle organizzazioni sindacali, dei primi provvedimenti legislativi a favore dei lavoratori o della discesa in campo politico dei movimenti socialisti. Sicuramente non possiamo dimenticare il contributo di TAYLOR un ingegnere che, pur non avendo una specifica formazione psicologica, riesce a cogliere una serie di temi legati alle figure dei lavoratori e alle problematiche lavorative. In Italia, nel periodo pre-bellico, l’ambito di ricerca è concentrato principalmente:  Sullo studio sistematico delle differenze individuali, che si sviluppa come metodo per l’orientamento professionale;  Sull’adattamento dell’uomo al lavoro;  Sulle condizioni di lavoro e i loro effetti sul comportamento e sulla salute mentale dei soggetti lavoratori; Nel 1917, anno in cui gli USA fanno il loro ingresso nel conflitto mondiale, presso l’università di Harvard vengono realizzati due test famosissimi per la selezione: 1. IL TEST A per persone in grado di leggere e scrivere. 2. IL TEST B per gli analfabeti. Il primo dopoguerra segna un nuovo impulso per la psicologia del lavoro principalmente perché gli Stati devono affrontare la ricostruzione. I problemi lavorativi vengono indagati: - Nell’ottica della psicologia sociale, analizzando l’influenza degli atteggiamenti, delle motivazioni e del morale sull’ abbassamento delle prestazioni e la comparsa dei sintomi della fatica; - In chiave psicotecnica, cioè in termini di selezione, orientamento ed ergonomia. La crisi del 1929 ha portato non solo ad una ridefinizione del concetto di uomo al lavoro, ma anche alla modificazione delle metodologie utilizzate in tale disciplina. L’industria italiana, però, non presta particolare attenzione al ruolo che il fattore umano svolge nelle dinamiche economiche. È proprio in questo periodo che si afferma la leadership americana, al punto che molti ritengono che la psicologia del lavoro sia nata lì. Infine, nel secondo dopoguerra, quattro avvenimenti contribuiscono allo sviluppo della psicologia del lavoro:  La pubblicazione di The social problems of an Industrial Civilization (Mayo)  La costituzione della sezione 14 dedicata all’ Industrial and Business Psychology da parte dell’American Psycological Association, riconoscendo uno statuto autonomo a questa disciplina.  Lewin fonda il Research Center for Group Dynamics e dà vita alla rivista Human Relations.  Agostino Gemelli pubblica l’opera L’operaio nell’industria moderna Concetti fondamentali  Compito  Condizioni di esecuzione  Ambiente tecnico\fisico\sociale  Ruoloè la posizione che un individuo ricopre in ambito lavorativo e può essere: formale\ informale; prescritto\discrezionale. Contribuisce a mettere ordine e costituisce ciò che ci si aspetta da una persona.  Il lavoratore subisce EFFETTI INTRALAVORATIVI (l’area privata potrebbe emergere e influenzare quella lavorativa al momento della comunicazione) vs EFFETTI EXTRALAVORATIVI (l’area lavorativa va ad emergere in ambito privato al momento della comunicazione)  “ARENA EMOTIVA”: espressione spesso associata all’organizzazione e indica il modo in cui vengono espressi i sentimenti. Da questa escono “vincitori” e “vinti”.  Si focalizza su atteggiamenti e comportamenti che stanno alla base della performance In altre parole, il nostro ambito di indagine è quello “dei sentimenti delle persone, dei loro atteggiamenti, delle loro condotte, dei processi socio psicologici che le sostengono e delle loro prestazioni lavorative. L’approccio usato è per natura interattivo e centrato sulla situazione sociale concreta. Si considera nello stesso tempo la persona ed il suo ambiente di vita, facendo riferimento ai vari aspetti che caratterizzano il lavoro, dall’ambiente lavorativo, alle interazioni nel gruppo di lavoro, alla struttura organizzativa, al sistema di regole sociali e tecniche, al contesto culturale interno ed esterno all’impresa, al sistema di direzione. Psicologia del lavoro: ambiti Privilegia il lavoratore in quanto tale, a prescindere dal ruolo che ricopre e tiene conto della complessità del mondo lavorativo, proponendo dei modelli teorici che consentono di delineare per la psicologia del lavoro un quadro di riferimento ampio ed eterogeneo. In tale scenario i principali ambiti di intervento della disciplina sono rappresentati dai seguenti: risorse umane. selezione, valutazione e formazione delle R.U. motivazione al lavoro e soddisfazione lavorativa. La motivazione è sostanzialmente una “spinta” a fare qualcosa e varia nel tempo. La soddisfazione è ciò che ne deriva, ma non sempre chi è motivato è anche soddisfatto (es. sono motivata a fare shopping ma non sono soddisfatta se spendo tutti i miei soldi in un paio di scarpe). Dobbiamo mirare a formare lavoratori motivati perché chi è motivato è soddisfatto e chi è soddisfatto PRODUCE DI PIU’ E MEGLIO. prevenzione, sicurezza ed ergonomia. L’ergonomia è la disciplina che studia gli strumenti che consentono un lavoro più agevole. PREVENZIONE E SICUREZZA: RISCHI PSICOSOCIALI Accanto ai rischi tradizionali (fisici, chimici, biologici) per la salute dei lavoratori, stanno emergendo sempre di più i fattori relazionali: 1. Contratti precari in un ambito di lavoro instabile. La socializzazione: è il processo attraverso il quale le organizzazioni fanno conoscere la loro storia, che è il risultato di una cultura costituita da: valori, simboli, strutture, che rappresentano degli importanti meccanismi di influenza del comportamento organizzativo. L’ICEBERG ORGANIZZATIVO Le organizzazioni spesso sono paragonate a degli iceberg perché esiste una dimensione formale, razionale e visibiletutti quegli aspetti formalmente identificabili= asset organizzativi tangibili come struttura e ruoli, tecnologia, risorse finanziarie ecc. (es. quante persone ci sono a lezione, quanti crediti vale la materia ecc.) e una dimensione informale=asset organizzativi intangibili come atteggiamenti, sentimenti, assunti valoriali, ideologia, identitàimmagine di sé, riflessa dal confronto che ne deriva dagli altri. METAFORE ORGANIZZATIVE Una delle modalità più originali per descrivere il fenomeno organizzativo è quella delle metafore di MORGAN: 1. Organizzazioni come macchina. Un insieme di parti assemblate che è mosso dalla “benzina” (stipendio) e necessita di una guida. È quella che più si avvicina alle realtà organizzative riferite a:  OSL (organizzazione scientifica del lavoro): Taylor fa ricorso alla scienza per giustificare una teoria organizzativa. Viene intesa come un insieme di principi che non si preoccupano della divisione del lavoro, ma del suo aumento e intendono sostituire alle opinioni, alla conoscenza individuale e alle regole, la conoscenza empirica. Questi principi sono:  One best way: esiste solo una via per raggiungere l’utilizzo efficiente del lavoratore.  The right man to the right place: l’uomo giusto al posto giusto sulla base delle attitudini di ciascuno.  Differential rates: l’applicazione di tariffe differenziali del salario (cottimo)che sono in questo caso individuali e non a squadra perché egli era convinto che in gruppo la prestazione fosse rallentata. Lo studio scientifico dei metodi lavorativi prevede l’uso del cronometro e le task management cioè la separazione tra progettazione ed esecuzione Critiche  parcellizzazione; carenze motivazionali; assenza della dimensione sociale, sfruttamento e antisindacalismo. 2. Le organizzazioni come sistemi politici. Perché sono caratterizzate da dinamiche di autorità e\o democrazia. La rappresentazione più calzante di questa metafora è quella dell’arena politica dove si generano “conflitti” per la distribuzione del potere e per gli interessi. 3. Le organizzazioni come prigioni psichiche. Morgan immagina l’organizzazione come un insieme di processi consci ed inconsci che vanno a costruire una sorta di “gabbia” per gli individui, che rischiano di rimanere intrappolati dalle dinamiche (immagini, pensieri, azioni, idee) che scaturiscono dai processi organizzativi. La conseguenza è che l’organizzazione può assumere i connotati di un’altra organizzazione, arriva ad avere una vita propria rispetto a quella che era l’intenzione iniziale dei padri fondatori. 4. Le organizzazioni come organismi. Le organizzazioni si evolvono, crescono, sono aperte e dinamiche e sono paragonate agli organismi viventi, in contatto costante con il contesto esterno 5. Le organizzazioni come cervelli. Come il cervello, sono viste come complessi sistemi che trattano dati e informazioni. La dinamica fondamentale è quella dell’apprendimento, della conoscenza, al fine di accrescere la capacità decisionale e l’adeguamento alla crescente complessità (Learning organization) 6. Le organizzazioni come cambiamento. Le organizzazioni sono dei sistemi (è una combinazione di più parti; al variare di una variano anche le altre) che cambiano per sopravvivere, per adattarsi alle nuove circostanze e a nuove spinte, interne o esterne. In un sistema chiuso la comunicazione è unidirezionale, il conflitto è risolto mediante la coercizione. 7. Le organizzazioni come sistemi culturali. Questo significa che le persone, nelle organizzazioni, lavorano per trasmettere i valori, i simboli, i modi di fare di quelle organizzazioni. Il contributo di Mayo Mayo intendeva proseguire la teoria di Taylor, cercando di risolvere alcune contraddizioni: 1. L’uomo è motivato anche da bisogni di natura sociale ed ottiene dal rapporto con gli altri un contributo alla propria identità. 2. Il lavoro stesso appare in sé privo di significato, che va ricercato nei rapporti sociali che si formano sul lavoro; 3. Il lavoratore è più influenzato dalla componente sociale che dagli incentivi; 4. Il lavoratore risponde alla direzione in base a come essa si comporta nei suoi confronti, rispettando i suoi bisogni sociali, di appartenenza e di sentirsi accettato. Giunse alla conclusione che, se il dipendente può aspettarsi dalla partecipazione alla vita di azienda la soddisfazione di alcuni bisogni emotivi, può sentirsi anche moralmente impegnato allo sforzo aziendale. La leva dei lavoratori per Mayo è, quindi, di tipo SOCIALE E NON ECONOMICO. Di conseguenza, le aziende, secondo questa visione possono aspettarsi maggiori livelli di lealtà, impegno ed identificazione con gli scopi organizzativi. Gli studi di Mayo sono famosi per il cosiddetto effetto Hawthorne: l’autore stava indagando cosa motivasse le lavoratrici dello studio, che dovevano affrontare lunghi turni lavorativi. Egli intuì che introducendo una pausa al mattino al fine di incrementare la produttività, essa cresceva. Visti i risultati, ne aggiunse, man mano altre, ma la produttività progressivamente calava. Successivamente, svolse delle interviste per chiedere alle donne cosa le motivasse e cosa no; a questo punto, la produttività aumentò di nuovo, in quanto si sentivano prese in considerazione. Da Mayo, prende il via una linea di studio che valorizza sempre di più le risorse umane. Organizzazione come sense-making (costruzione di senso)in questo caso essa è rappresentabile come un flusso costantemente permeato da emozioni. La concezione di Weick è quindi molto importante e rientra NEGLI APPROCCI COGNITIVI allo studio delle organizzazioni, rispetto a quello di Taylor e Mayo che sono ENTITARI. La definizione di organizzazione che Weick propone si basa sui seguenti punti: È impensabile parlare di dinamiche organizzazione-ambiente perché quello che noi chiamiamo ambiente in realtà esso origina dai processi di attivazione (enactment)che si generano dalle attribuzioni di senso che abbiamo prodotto. Nell’azione organizzativa il linguaggio ha un’importanza centrale nelle dinamiche di sense-making. Il potere si sviluppa a partire dalla capacità che ha un soggetto di far accettare agli altri la sua visione della realtà. Ciò che assume importanza nei contesti sociali non è l’immagine statica dell’organizzazione, bensì la dinamica dell’organizzare. Teorie contingenti Inoltre, possono essere classificati su un continuum che va dal livello “macro” al “micro”: 1) organizzativi. 2)di gruppo. 3) individuali. Resistenze al cambiamento Circa il 70% delle iniziative di cambiamento tende a fallire, in particolare quando l’organizzazione non cambia nella direzione desiderata, cambia parzialmente o cambia per poi ritornare alla situazione di partenza. Non sempre un’azione di cambiamento è bene accetta dagli attori organizzativi, tant’è che la letteratura parla di “resistenze al cambiamento” per indicare l’insieme degli effetti di quest’ultimo sui soggetti, nei quali, si genera una vasta gamma di emozioni che va dal completo supporto al completo rifiuto del cambiamento, talvolta anche abbandonando l’organizzazione. Tali resistenze generano spesso emozioni quali paura, frustrazione, ansia, rabbia ecc. ed è compito degli attori del cambiamento (chi si occupa della decisione e progettazione del cambiamento) individuarle e gestirle. Esse possono essere di due tipologie: individuali e di gruppo. Resistenze individuali Tra queste, troviamo principalmente:  Incertezza per il nuovo . Gli individui tendono a resistere al cambiamento quando esso comporta una minaccia alla propria sicurezza o al proprio futuro, in tal senso, cambiamenti di ruolo, delle consuete attività lavorative possono generare una serie di timori nelle persone, le quali metteranno in atto difese psicologichese sentono minacciata la propria identità occupazionale; economiche se la propria competenza esperta, consolidata negli anni, è minacciata e si teme una riduzione dello stipendio, una retrocessione o un aumento del carico di lavoro non proporzionale agli incentivi.  Selezione percettiva delle informazioni . La tendenza degli individui a selezionare le informazioni coerenti con le proprie credenze e opinioni fa sì che essi resistano maggiormente quando i cambiamenti minacciano queste credenze\opinioni consolidate.  Abitudini . Le persone contrastano maggiormente i cambiamenti quando implicano una modificazione delle attività abituali. Secondo le teorie disposizionali della personalità, esistono alcune caratteristiche individuali in grado di predire la tendenza dei dipendenti ad accettare il cambiamento: AUTOEFFICACIA E LOC INTERNOreazione positiva ai cambiamenti. STRATEGIE DI COPING INCENTRATE SUL PROBLEMA\ SU MECCANISMI DIFENSIVI (diniego, isolamento) accettazione\rifiuto del cambiamento. TEORIE MOTIVAZIONALI APPLICATE AL CAMBIAMENTO maggiore propensione a partecipare al cambiamento da parte di coloro che tendono alla realizzazione e alla crescita personale. Resistenze di gruppo Troviamo principalmente:  Dinamiche di potere e conflitto . Le persone resistono al cambiamento quando esso implica un maggiore potere attribuito ad alcuni a discapito di altri.  Struttura organizzativa . Organizzazioni fortemente centralizzate, con una rigida divisione gerarchica dei ruoli resistenza al cambiamento maggiore rispetto a quelle decentralizzate e più “flessibili”. La ricerca-azione per lo sviluppo organizzativo (O.D) È il movimento che negli anni’50, in seguito ai contributi di Lewin, rappresentò la pratica più diffusa per la gestione del cambiamento. OD è un tentativo guidato dal top management, condotto in un lungo arco temporale, volto a migliorare la visione dell’organizzazione, l’empowerment, l’apprendimento e i processi di risoluzione dei problemi, attraverso una gestione collaborativa e continua della cultura organizzativa, con l’aiuto di un consulente-facilitatore e l’uso della teoria e tecnica delle scienze applicate del comportamento, inclusa la ricerca-azione. Questa definizione sottolinea tre condizioni fondamentali: A. La possibilità di usare il tempo come risorsa non stringente. B. La lettura dell’organizzazione come cultura. C. L’utilizzo della scienza comportamentale applicata e in particolare della “ricerca-azione”. La ricerca-azione è stata intesa in vari modi:  RA è un modo di intervenire nel contesto organizzativo, con un intento trasformativo, prendendo le mosse da una domanda spontanea (dall’organizzazione o qualche suo rappresentante) o provocata (dal consulente stesso e fatta propria da un attore o un gruppo di attori organizzativi).  RA è un modo di conoscere nella relazione e attraverso la relazione. La conoscenza è conoscenza in relazione, si definisce all’interno della “comunità di ricerca”; essa emerge nel tempo, così come la qualità delle relazioni, che è condizione per la qualità della ricerca.  RA è una filosofia, in quanto è animata da intenti valoriali e trasformativi ed è una <<scienza delle persone e non sulle persone>>. Il suo obiettivo è rendere il mondo (in questo caso mondo organizzativo) un posto migliore in cui vivere.  RA è un processo di cambiamento: changing.  RA è una metodologia di ricerca, prevalentemente ma non esclusivamente qualitativa e, a differenza della ricerca sperimentale, opera in contesti inevitabilmente caratterizzati da ambiguità ed imprevedibilità: le interazioni sono infatti sempre precarie e le convergenze provvisorie non sempre portano ai risultati attesi. Se la ricerca-intervento, appunto “interviene” a produrre un cambiamento, è la tipologia più utilizzata in ambito organizzativo. Il MODELLO DELL’ACTION RESEARCH DI LEWIN è il più diffuso. Possiamo cercare di comprendere come funziona tramite un esempio: i bambini non vanno a scuola e voglio sapere perchénon conduco una semplice ricerca esplorativa, ma intendo produrre un cambiamento (RA). Seguo, quindi, alcune tappe: 1. Individuazione del problemaprendo un campione di “convenienza” cioè quello che ho a disposizione, non posso prendere un campione randomizzato, devo considerare TUTTO QUEL CAMPIONE DI QUELLA SCUOLA. 2. Consultazione con gli espertiidentifico quelle classi in cui il problema è maggiore 3. Raccolta dati e diagnosi 4. Feedback con il cliente (in questo parlare con i bambini che si assentano) 5. Pianificazione dell’azioneraccolta ulteriori dati (se le cose non cambiano del tutto es. il 50% continua a non andare)feedback al gruppo cliente (intervista ai genitori in questo caso)discussionepianificazione azionenuova azione “FOCUS GROUP” = è una tipologia di ricerca-azione che si focalizza sulle idee e i suggerimenti tipici di un gruppo di individui (target specifico) per esempio su ciò che gli individui cercano in un prodotto. Presuppone 2 categorie di soggetti: a. gli “utenti della strada” che non hanno mai acquistato il prodotto, andando ad indagare il perché; b. i clienti abituali per promuovere ulteriori acquisti. Clima organizzativo. Quello di clima è un costrutto complesso e di non semplice concettualizzazione. Occuparsi di clima organizzativo significa investire sul piano soggettivo, emotivo, psicologico delle organizzazioni. Spesso si tende a confondere il clima descrizione percepita dell’ambiente lavorativo; con la soddisfazione lavorativa uno stato emotivo più individuale, la risposta di valutazione affettiva della persona circa alcuni aspetti del lavoro. Lewin indica le condizioni di tipo psico sociale che si vengono a creare nei gruppi con il concetto di atmosfera: l’atmosfera è qualcosa di intangibile, una proprietà della situazione sociale complessiva; si tratta di quel sistema di attributi e percezioni di significato che i protagonisti di un campo psicologico giudicano pertinenti in un dato spazio e tempo. Nell’ultimo decennio si tende ad abbandonare l’idea di poter individuare un clima omogeneo e si parla invece di “climi” organizzativi o di “aggregazioni climatiche” o di “climate for something”. Perché accade questo? Perché il clima dipende dal tipo di interazione in atto. 3. Una tendenza socioculturale più ampia che ha portato a concepire il proprio lavoro e il successo personale in termini di “qualità della vita” e ha enfatizzato il bisogno di rispettare la propria soggettività, nonché di trovare nelle occupazioni occasioni per essere coinvolti emotivamente ed espressivamente. Cultura: definizioni. I primi tentativi di definire questo termine appartengono alla sociologia e soprattutto all’antropologia, che ha definito la cultura come ciò che distingue gli essere umani dagli altri animali e rende unici e irrepetibili i vari gruppi umani. Nel contesto organizzativo, è stato assimilato gran parte del bagaglio concettuale dell’antropologia. Quella di cultura non era comunque un’idea nuova, anzi se ne trovano tracce nei lavori di diversi autori, in particolare Selznick  sostiene che un sistema cooperativo ha due dimensioni: Organizzativa = l’organizzazione è uno strumento concepito razionalmente per raggiungere gli obiettivi. Istituzionale = l’organizzazione è anche una realtà naturale e adattiva, prodotto delle esigenze e dei bisogni individuali. Secondo l’autore un’organizzazione diventa istituzione quando si impregna di valori, di “carattere” (concetto assimilabile a quello di cultura) attraverso il consolidamento di esperienze collettive di successo. Il carattere e i valori fondano l’identità dell’organizzazione ossia la percezione che l’organizzazione ha di sé e delle ragioni della sua esistenza. La cultura può essere intese in tre modi diversi:  Variabile indipendente nel senso che norme e valori sono costruiti dal contesto istituzionale e fatti propri dall’organizzazione.  Variabile dipendente nel senso che la cultura è composta di storie e miti che, se accuratamente “mescolati” fra loro alimentano un circolo virtuoso: AUMENTO DELLA MOTIVAZIONE, VOLONTÀ DI COOPERARE, FEDELTÀ DIFFUSA ALL’ORGANIZZAZIONE, INCREMENTO DI EFFICACIA TOTALE ecc.  Metafora di base nel senso che L’ORGANIZZAZIONE E’ LA CULTURA che si esprime nei modi di interagire dei suoi membri, nelle decisioni che sono prese, nelle azioni intraprese, nella cornice di significati in grado di dare senso a ciò che accade nell’organizzazione. Cultura e culture Uno degli autori di riferimento di questo approccio è Geertz sostiene che l’uomo è un animale sospeso in una rete di significati, vale a dire in una cultura che egli stesso ha generato. Un altro autore fondamentale è Schein la cultura è un insieme di significati che racchiudono assunti, valori e credenze un gruppo ha inventato e scoperto e che trovano espressione visibile nei comportamenti e negli artefatti materiali. Schein distingue: - Gli artefattidescrivono cos’è un’organizzazione. Hanno a che fare con l’ambiente fisico, tecnologico e sociale dell’organizzazione, i codici comunicativi condivisi e i modelli comportamentali sviluppati dai membri del gruppo. In altre parole: manifestazioni fisiche quali loghi, abbigliamento, disegni, costruzioni, layout: manifestazioni comportamentali quali cerimonie, rituali, tradizioni, usanze, manifestazioni verbali quali storie, miti, metafore, gerghi, aneddoti - I valori dichiaratirispettivamente le strategie, gli obiettivi e le filosofie organizzative: ma anche le norme, ossia le regole (anche se non scritte) che consentono ai membri di un’organizzazione di capire, prevedere, cosa fare (ed aspettarci) in date situazioni. Hanno la funzione di comunicare l’orientamento culturale di quella data organizzazione creando adesione e consenso nel gruppo. - Gli assunti di basesignificati dati per scontati dai componenti dell’organizzazione. Si tratta di tutto ciò che potrebbe essere considerato come il frutto della storia dell’organizzazione, la dimensione organizzativa inconscia, sedimentata nei modi di pensare e di agire taciti ma comunque condivisi. In tale livello ritroviamo spesso temi fondamentali, quali il rapporto dell’organizzazione con l’ambiente, le sue idee sulla natura umana, i valori etico comportamentali che l’organizzazione difende e trasmette. Egli ha sostenuto che NON SI PUÒ SOSTENERE DI ESSERE IN PRESENZA DI UNA CULTURA SE QUESTI SISTEMI DI SIGNIFICATI, COL TEMPO, NON VENGONO RITENUTI “VALIDI” E DUNQUE TRASMESSI ANCHE AI NUOVI MEMBRI. L’interiorizzazione di tali significati permette di orientarsi nelle organizzazioni. Per imprimere e trasmettere tale cultura ai membri della propria organizzazione i fondatori si servono di due ordini di procedimenti: Meccanismi primari: concentrando la propria attenzione su determinati oggetti, attribuendo premi, modellando i ruoli, scegliendo i criteri sui quali basarsi per la selezione del personale; Meccanismi secondari: comprendono i messaggi contenuti nella struttura organizzativa, nelle norme, nell’aspetto esteriore e nelle dichiarazioni informali. Una cultura ha la funzione di generare modelli a) cognitivi, che permettono la categorizzazione e l’interpretazione di ciò che accade in un’organizzazione; b) emotivi e affettivi, con ricadute sull’impegno e l’energia che i singoli sono disposti a spendere nell’azione; c) distinzione fondamentale tra ciò che è dentro e ciò che è fuori. CULTURA ORGANIZZATIVA VS COMUNITÀ DI PRATICA: Elementi comuni importanza dei processi di socializzazione dei nuovi membri; idea di organizzazione come artefatto culturale, frutto di negoziazioni e costruzioni di significati. Elementi di differenza gli studiosi delle organizzazioni si focalizzano su una sola organizzazione e sui prodotti culturali che ne delimitano i confini; i teorici delle comunità di pratica sottolineano l’importanza delle attività “pratiche”, quelle lavorative in primis; la cultura organizzativa contiene al suo interno, almeno potenzialmente, più comunità di pratica. Infine, alcuni autori ritengono che nelle organizzazioni convivano più culture, per es. in forma di sottoculture che si costituiscono sulla base dell’orientamento comune dei membri: si costituiscono per età, occupazione, modi di percepire la realtà, genere ecc. Visione costruttivista Sostenere che una cultura è “un insieme di significati intessuti dall’uomo” significa assumere una visione costruttivista della realtàla cultura, e più in generale, l’ordine sociale, derivano da processi di negoziazione di significati e accordi impliciti, frutto della condivisione di esperienze collettive. Tale visione potrebbe erroneamente indurre a pensare che la realtà sia “un fatto sociale”, qualcosa di “afferrabile”, viceversa i costruttivisti ritengono che la realtà (quindi anche l’organizzazione) sia oggettivata ossia socialmente costruita in modo da sembrare oggettiva, ma in realtà non lo è di per sé, bensì nelle sue conseguenze. Comunicazione organizzativa Si è sostenuto che l’organizzazione non sarebbe altro che un intreccio di rapporti fra persone che si scambiano informazioni e messaggi ossia una RETE DI COMUNICAZIONE. Ci sono due prospettive da considerare, relativamente all’organizzazione, quando parliamo di comunicazione: Organizzazione come corso di azioni e decisioni come un fluire costante nel tempo, che è sempre diverso da ciò che era prima. Organizzazione come processoin tal caso è possibile identificare alcune costanti, quali persone, edifici, attrezzature. Questa lettura implica che all’interno degli eventi ci sia 1. Una certa regolarità; 2. Intenzionalità degli attori coinvolti. Quindi, la comunicazione può essere definita come il passaggio di significati tra due o più attori o fra aggregati collettivi coinvolti in un processo. Aspetti ed elementi della comunicazione Un primo aspetto da considerare riguarda il disegno organizzativo cioè l’insieme delle attività e delle relazioni che determinano la fisionomia dell’organizzazione. Una dimensione del disegno è la gerarchia: è possibile descrivere il flusso delle comunicazioni come dipendente da essa (distingueremo fra percorsi bottom up\ top down). Un secondo aspetto riguarda gli elementi della comunicazione, tra i quali troviamo:  I partecipanti : singoli individui che si rivolgono ad altri singoli individui o a collettività\enti e viceversa.  Pubblico : tutti i cittadini di una nazione o un segmento di essi.  Direzionalità: esiste una comunicazione unidirezionale o bidirezionale.  Finalità: una comunicazione può essere volta a influenzare il corso di azioni in maniera esplicita e diretta o a modificare, ribadire significati che connotano un certo ente (quindi in questo caso la funzione di influenzare avviene successivamente)  Strumenti : diretti o indiretti. I primi caratterizzano le situazioni comunicative in presenza e sono sostanzialmente basati sul rapporto interpersonale; i secondi consentono di rendere disponibile e replicabile il messaggio anche in tempi e luoghi molto distanti dalla situazione specifica.  Contesto: la comunicazione non si svolge mai senza di esso, in quanto il contesto è la cerniera tra la comunicazione interpersonale ed organizzativa. Può essere definito come un complesso di conoscenze e significati che emittente e ricevente hanno in comune, la cornice simbolica entro la quale gli attori coinvolti si muovono. Circuiti della comunicazione Assumendo la prospettiva dei partecipanti, possiamo innanzitutto, identificarne le tipologie: - Singole persone; - Enti interni cioè un brand, una divisione, un operaio e quindi una parte o anche l’intera azienda. Si parla anche di “pubblici interni”; - Enti esterni: pubbliche amministrazioni, ad esempio. - Pubblici esterni: collettività rilevanti e circoscritte secondo qualche criterio. Tutti questi partecipanti possono assumere il ruolo di emittente e ricevente e in base a quale ruolo viene assunto si individuano sette principali circuiti della comunicazione:  CIRCUITO A: emittente: singolo individuo ricevente: singolo individuo Essa, è, in sostanza, la comunicazione interpersonale ed è sempre BIDIREZIONALE.  CIRCUITO B: emittente: singolo individuo ricevente: molti I casi più comuni sono i convegni e simili. È moderatamente BIDIREZIONALE.  CIRCUITO C: emittente: ente interno ricevente: singole persone Solitamente è BIDIREZIONALE.  CIRCUITO D: emittente\ricevente: enti interni. È sostanzialmente la comunicazione interna ed è UNIDIREZIONALE.  CIRCUITO E: emittente: enti interni ricevente: enti esterni. Può essere BIDIREZIONALE (business-to-business)  CIRCUITO F: emittenti: enti interni gerarchica dominante. gerarchica. newsletter . adesione ideologica. Sistema della motivazione professionale Gratificazione interna ed esterna delle competenze. In base alla variabile organizzativ a\ professional e. Elevata e specialistica. Posta elettronica , stampa, meeting, formazion e Valorizzazione professione vs efficienza. Sistema per la circolazione dell’innovazi one Trasformazione della cultura tecnologica\ organizzativa. Variabile professional e per processi Elevata, specialistica. Fonte interna ed esterna Dossier, stampa specializza ta, incontri con esterni. Formazion e, convegni esterni. Attenuazione dei vincoli burocratici\ gerarchici vs creatività e innovazione. SISTEMA BASE\SISTEMA DELLA MOTIVAZIONE GERARCHICA=ANTICO: l’assetto è fortemente orientato alla stabilità e alla centralizzazione. Sono sistemi di supporto al governo con cui si intende perseguire la funzione di omologare, controllare, giustificare l’autorità. SISTEMA DELLA MOTIVAZIONE PROFESSIONALE\SISTEMA PER LA CIRCOLAZIONE DELL’INNOVAZIONE= EVOLUTI: il primo è un sistema basato su un disegno organizzativo più leggero ed esprime una più stretta connessione dell’azienda con il suo ambiente (tecnologie, mercato del lavoro, ambienti finanziari); il secondo è rivolto agli assetti a rete o comunque fortemente decentrati e si tratta di un sistema volto al cambiamento e soprattutto a fare in modo che avvenga in tempi brevi. Sono sistemi di supporto alla gestione del saper fare e delle tecnologie e includono temi quali il coordinamento, sviluppo professionale, rapidità, intelligenza, creatività delle prestazioni. L’ordinamento dei sistemi riflette anche una maggiore\minore sensibilità dell’azienda verso il proprio ambiente circostante. L’attenuazione delle barriere interno\esterno è maggiore ai livelli più bassi così come anche l’integrazione con la comunicazione esterna. CIRCUITO F E LA COMUNICAZIONE ESTERNA La comunicazione esterna tende ad essere identificata, in prima istanza, con la comunicazione finalizzata a promuovere sul mercato i prodotti\beni\servizi dell’organizzazione per sostenerne l’attività. Dunque, è un’attività comunicativa rivolta essenzialmente al cliente\utente, finalizzata ad accrescerne il numero e sollecitarne il comportamento di acquisto o fruizione. La comunicazione pubblicitaria, in particolare quella sulle riviste e sulla stampa locale, è indicata fra gli strumenti più importanti. Questa definizione cela la complessità che caratterizza questo circuito e che riguarda, da un lato, la varietà delle finalità che persegue, dall’altro, l’insieme delle competenze specialistiche necessarie perché la comunicazione possa essere condotta adeguatamente.  Competenze specialistiche, perché? Se nella fase di diffusione dei beni di massa poteva essere sufficiente costruire comunicazioni “semplici”, indifferenziate rispetto ai destinatari, centrate esclusivamente sulle caratteristiche dei prodotti, oggi diventa cruciale modulare l’offerta in funzione delle caratteristiche degli interlocutori, riconoscendo che è impossibile comunicare a tutti allo stesso modo. A questo proposito INTERNET è un sistema di comunicazione privilegiato, che rende i soggetti non solo consumatori, ma anche produttori del bene proposto con le loro richieste. E grazie ad internet compaiono nuovo personaggi che fungono da mediatori fra le aziende e i clienti (influencer, una figura più “vicina” al pubblico e quindi favorisce meglio la presa del messaggio).  Varietà nelle finalità, perché ? Di certo, per un’organizzazione l’informazione sui beni e servizi non è la principale finalità della comunicazione esterna. Ciò che è principalmente importante è la diffusione dei simboli, mediante i quale essa si rende riconoscibile al pubblico e si differenzia dalle altre organizzazionidefinizione dell’identità aziendale. Il fondamentale “oggetto” della comunicazione esterna è il brand ovvero non il prodotto in sé ma la rappresentazione del prodotto attraverso i suoi connotati affettivi e razionali con i quali si vuole che sia percepito dai destinatari. Possiamo dire che l’azienda mira alla riproduzione del cosiddetto “ciclo seduttivo” di Jakobsonsi cerca di indurre i destinatari a mettere in atto un determinato comportamento (acquisto) curando il contatto attraverso un modalità di particolare efficacia con la quale la comunicazione è presentata in maniera tale da fare emergere la bellezza, la rilevanza, l’utilità del prodotto ecc. CIRCUITO G E LA COMUNICAZIONE DI ACCESSO È quello in cui la partecipazione diviene una richiesta esplicita dell’organizzazione ai suoi pubblici di cui è resa nota anche la finalitàraccogliere informazioni sulla relazione o sui prodotti proposti, dando la parola agli utenti\consumatori\clienti perché possano intervenire effettivamente su di essi, anche se indirettamente, migliorandoli, modificandoli o confermandoli. Le parti sono invertite in quanto l’organizzazione si pone come ricevente e il pubblico è l’emittente. Si tratta di un circuito sempre più rintracciabile e frequente presso le varie tipologie di organizzazioni, sollecitato dalla consapevolezza degli individui dei loro diritti di consumatori e dall’esigenza di trasparenza sui processi da cui dipendono. La comunicazione di accesso è riconducibile a due modalità fondamentali: 1. Il singolo utente\consumatore si rivolge all’organizzazione per esprimere un giudizio, un problema, una richiesta o reclamo. 2. Indagini campionarie mediante cui sono raccolte le opinioni degli utenti, per esempio rappresentate da giudizi aggregati di soddisfazione o insoddisfazione. In entrambi i casi, si devono realizzare delle condizioni di base perché tali comunicazioni costituiscano veri strumenti di partecipazione:  Condizioni “tecniche” in base alle quali si garantisce l’effettiva accessibilità dei canali da parte di tutti gli interlocutori e la possibilità di esprimere realmente il loro punto di vista.  Condizioni “organizzative” cioè aspetti legati alla capacità e volontà di gestire le informazioni possedute, tradurre le osservazioni ricevute in termini di miglioramento del funzionamento organizzativo ossia considerarne le ricadute sul piano dei processi e intervenire su di essi, eventualmente anche modificando il disegno dell’organizzazione. Conflitto nelle organizzazioni Il tema del conflitto, da sempre mosso dalla presenza di divergenze e differenze e dalla loro elaborazione, assume una rilevanza centrale nei contesti organizzativi e lavorativi. Etimologicamente, la parola conflitto deriva dal latino confligere (“urtare”, “battere insieme”) e indica un incontro/scontro tra due entità differenti, non necessariamente con una valenza positiva\ negativa, anche se da sempre è stata enfatizzata l’una o l’altra. Il conflitto è stato inteso diversamente dalle varie discipline: Area antropologico-filosofiariconduce alla pluralità dei desideri la fonte perenne del conflitto. Area sociopoliticadi volta in volta, ha inteso il conflitto come: a. Perturbatore dell’equilibrio sociale; b. Avente una funzione adattiva; c. Elemento intrinseco e necessario alla dinamica sociale; Area psicoanalitica postula la presenza di istanze pulsionali contrarie generatrici di conflitto nello sviluppo della soggettività. Le concezioni di conflitto in ambito organizzativo sono sovrapponibili a quelle di conflitto interpersonale e sociale. Una prima rilevante concezione è quella che enfatizza la funzione pericolosa del conflitto (paradigma di Taylor e movimento delle Human Relations). In questi casi, sono stati proposti degli strumenti, regole e procedure (nel caso delle H.R. di tipo sociale quali cooperazione, sostegno) per mantenere un ordine razionale (Taylor) per garantire soddisfazione e incrementare la produttività (H.R.). Paradigma interazionista: sottolinea che il conflitto è un aspetto inevitabile e che le organizzazioni devono gestirlo a) in modo da trarne beneficio; b) attenzionando anche le conseguenze positive; c) interrogandosi su quelle occasioni in cui non emerge conflittualità e sollecitando l’esplicitazione. Paradigma culturale: vede le organizzazioni non come luoghi in cui il conflitto è un evento occasionale, bensì luoghi caratterizzati sempre da un conflitto dinamico. Paradigma della complessità: racchiude le concezioni più recenti secondo le quali il conflitto è importante per il raggiungimento degli obiettivi e per l’innovazione organizzativa. Elementi comuni alle concezioni di confl itt o. 1. Percezione= il conflitto può essere reale o immaginato\percepito, con una serie di ricadute sulle soggettività coinvolte. 2. Dimensione relazionale= non si può parlare di conflitto se non c’è un’interazione tra due o più parti. 3. Minaccia per il Sé= il conflitto non è generato dalle divergenze di due\più persone circa le visioni del mondo, ma dalla percezione, da parte del soggetto che la visione del mondo di un altro sia minacciosa o destabilizzante per il sé. 4. Dimensione emotiva= ogni conflitto porta con sé rifiuti, attacchi, critiche, contrapposizione, una forte densità emotiva. PRINCIPALI TEORIE SUL CONFLITTO A seconda dello specifico orientamento, si definisce il conflitto sulla base: - Della dimensione in cui si esprime (cognitiva, affettiva, comportamentale). - Delle cause che lo fanno precipitare (eventi particolari o processi\alterazioni di processi relazionali). - Del livello interessato (intrapersonale, infragruppo e intergruppo). - Del ruolo (leadership, appartenenza ecc.). Modelli strutt urali vs processuali. I primi si concentrano sui “parametri” del sistema (norme, incentivi, procedure) e le condizioni stabili del sistema organizzativo che portano all’insorgenza del conflitto. Tra le variabili strutturali maggiormente studiate vi sono:  Predisposizioni comportamentali dei singoli ;  Pressioni sociali;  Struttura degli incentivi;  Cultura organizzativa;  Ambigua definizione delle responsabilità;  Differenze di status ecc. I secondi si concentrano sulla sequenza temporale degli eventi che si verificano durante il conflitto, focalizzando l’attenzione su queste fasi: 1. Mutazione sostanziale degli scenari contemporanei: la crisi, la disoccupazione allarmante, la crescita del debito pubblico fanno sì che i contesti organizzativi siano in profonda trasformazione, che i confini delle organizzazioni siano meno definiti; agli individui si chiede di essere rapidi, flessibili, capaci di apprendere. Tutti questi segnali rientrano in un contesto più generale che è da alcuni definito “quarta rivoluzione industriale”. 2. Mutazione delle caratteristiche della professionalità, dei saperi ad essa connessi: infatti, gli individui sono chiamati a confrontarsi con problemi per i quali non è sufficiente fare riferimento a strutture cognitive e schemi noti, bensì a nuove e originali modalità di pensare e agire, cercando di confrontarsi con la crescente incertezza e novità del contesto attuale. 3. Sfida o sollecitazione alla soggettività degli attori organizzativi: la soggettività, intesa come intreccio dinamico di responsabilità, temporalità, progettualità, immaginazione ecc. deve, visto l’aumento delle opportunità e delle scelte possibili, confrontarsi con tutte le incertezze che ne derivano. E questo non è né scontato né automatico e possono verificarsi fenomeni di frammentazione dell’identità, disincanto, chiusura, disinvestimento ecc. Ci sono tre approcci cui possiamo riferirci per intendere come avviene la conoscenza e l’apprendimento nei contesti organizzativi. Approccio della sociologia del lavoro e della conoscenza. È un quadro molto ampio che si concentra sul costrutto di ˷ PRATICA insieme di attività culturalmente situate e mediate dal linguaggio e dalle tecnologie generate da queste attività. L’idea di fondo di questo approccio è la rilevanza attribuita al “conoscere in pratica” cioè un processo di negoziazione di significati all’interno di un sistema di azione. Pratiche lavorative= sistemi di azione sufficientemente stabili e condivisi che tengono insieme persone, strumenti, culture di riferimento, conoscenze situate e diffuse. È possibile identificare tre caratteristiche delle pratiche situate: 1. Dimensione “indessicale”  in linguistica corrisponde a tutte quelle espressioni che risultano comprensibili solo nel contesto concreto in cui sono prodotte e usate. 2. Accountability  capacità dei partecipanti alle pratiche di renderle osservabili, comunicabili, fornendo motivi, spiegazioni. 3. Reflexivity  riflessione. Insieme dei modi con cui un soggetto conferisce significato alla realtà e lo rende accessibile agli altri. ˷ CONOSCENZA = non qualcosa di precedente all’azione, bensì qualcosa che dall’azione si genera e prende forma. ˷ APPRENDIMENTO = secondo questo approccio, è l’insieme dei processi di costruzione e negoziazione di significati che i soggetti attribuiscono alle loro esperienze e alla loro vita organizzativa. È locale cioè si riferisce all’attitudine dei soggetti ad apprendere a partire dalla riflessione sulle pratiche concrete della vita lavorativa. È un apprendere diverso da come lo intendono la prospettiva cognitiva e sociale perché tiene conto non solo di processi mentali di elaborazione di dati e informazioni, ma anche delle condizioni di contesto. NON È un passivo trasferimento di informazioni dall’esterno alla mente dell’individuo, che poi le immagazzina in memoria per recuperarle successivamente. Essendo un quadro molto ampio contiene riferimenti a varie teorie e studi: Activity Theory . Enfatizza gli aspetti sociali, materiali, simbolici per mezzo dei quali si forma e si espande un sistema di attività. Actor-network-Theory . Afferma che ogni fatto sociale, risulta prodotto da un'intricata rete di relazioni in cui interagiscono attori sociali umani e non-umani, concentrandosi sul rapporto fra conoscenza ed azione. Teoria dell’apprendimento situato+ il relativo concetto di comunità di pratica . Studia la relazione tra l'apprendimento e le situazioni sociali in cui esso avviene. Si entra a far parte di una comunità di pratica che ha come obiettivo la produzione di conoscenza, in modo da trasmettere convinzioni e comportamenti da acquisire. Workplace studies . Sostengono che lavoro e azione sono socialmente organizzati a partire dall’interazione fra soggetti, oggetti e tecnologie. Approccio culturale ed estetico che, oltre a valorizzare le dimensioni simboliche e di significato connesse agli oggetti e alle pratiche, valorizza anche la sensorialità attraverso cui si conosce l’organizzazione. La prospettiva economica. Il suo punto di partenza è un’aporia (contraddizione) inerente al fatto che la conoscenza possa essere trattata come tutti gli altri prodotti del mercato, ma non ha, allo stesso tempo le loro proprietà ovvero: - Scarsità (risorsa limitata) , in quanto è aperta a molteplici usi alternativi. - Divisibilità (correlazione fra costi e singoli usi), poiché la corrispondenza tra costi e ricavi è imperfetta. - Escludibilità (protezione dalla fruizione da parte di altri), essa invece è usufruibile in vari modi da terzi. - Strumentalità (mezzo per raggiungere un fine), essa invece è anche risorsa riflessiva. La disponibilità di conoscenza, la sua produzione, gestione e distribuzione dipende da tre elementi: a. Efficacia, che è funzionale anche all’identità. Dipende soprattutto da un apprezzamento soggettivo e sociale al contempo. b. Moltiplicazione e quindi la possibilità di riutilizzarla, riproducendola in contesti nuovi. c. Appropriazione, che fa riferimento al valore generato dalla conoscenza e dalla sua distribuzione, che si esprime in termini di utilità economica (riguardo al rapporto costi\ricavi) e sociale (sicurezza, legami, identità). È necessario trovare un equilibrio tra la produzione di una nuova conoscenza, che può rispondere ai problemi emergenti, ma esposta a rischi ed incertezze e il riutilizzo del già noto, che non va incontro a questi problemi ma che potrebbe trascurare il valore delle differenze e della variabilità nei singoli contesti d’uso. Approccio dell’antropologia ed ecologia della cultura. Approfondiscono il legame esistente fra dimensioni culturali (rappresentazioni, valori, emozioni, relazioni) e l’insieme di vincoli e possibilità che emergono nel momento in cui ci collochiamo in ambienti sociali e materiali. Utilizzano strumenti qualitativi, etnometodologici e di osservazione partecipante per indagare i complessi meccanismi con cui si introduce\produce\condivide conoscenza nelle situazioni organizzative. Reflexivity e reflectivity. Abbiamo sottolineato che la gestione della conoscenza e dell’apprendimento non sono scissi dalla pratica a cui si riferiscono e dalle relazioni attraverso le quali prendono forma. Il rapporto tra apprendimento, conoscenza e competenze operative richiede l’esercizio di una reflectivity= è la riflessione, attraverso la quale il soggetto riconsidera ciò che ha imparato, sul significato che ha avuto per lui. Ma implica anche la reflexivity= avviene quando il soggetto considera le implicazioni di ciò che ha imparato nel contesto più ampio e generale in cui lavora. Decisioni nelle organizzazioni Di decisione in organizzazione si sono occupate diverse discipline. Prendere decisioni è un atto quotidiano e abituale, ma in ambito organizzativo diviene necessario comprenderne gli elementi di base. DECISIONEprocesso che comporta l’individuazione e la scelta fra soluzioni alternative per giungere ad una situazione auspicata. Ci sono tre dimensioni della decisione: 1. Rilevanzasi riferisce all’impatto che la decisione ha sui processi organizzativi; bassa rilevanza (es. decisioni di routine); alta rilevanza (es. definire le linee guida per i prossimi tre anni). 2. Temporalitàil periodo di tempo in cui avvertiamo le conseguenze di una decisione (decisioni a breve, medio e lungo termine). 3. Contestole condizioni ambientali in cui vengono prese le decisioni. Possiamo avere situazioni di certezza (si conoscono bene i fatti e l’esito delle decisioni), di rischio (si ha una conoscenza parziale delle informazioni e si possono fare solo proiezioni sul possibile esito), di incertezza (non si dispone di informazioni sufficienti nemmeno per fare proiezioni). Ci sono anche due tipologie di decisione: 1. Programmate  << fare le cose bene>> affrontano problemi strutturati, di routine, familiari e richiedono di scegliere la procedura standard pianificata in anticipo più adatta ad affrontare la situazione in questione. Queste decisioni non hanno una grande rilevanza, hanno effetti a breve termine e non comportano rischi ( decisioni operative ). 2. Decisioni non programmate  <<fare la cosa giusta>> affrontano problemi non strutturati cioè situazioni inaspettate in cui non si possiedono molte informazioni e quindi non è possibile adottare le procedure standard. Sono spesso questioni di grande rilevanza, con effetti a lungo termine sull’organizzazione e vengono prese in contesti incerti. Esse si articolano a loro volta in: - Decisioni tattiche: non affrontano grandi problematiche, ma sono comunque questioni con effetti a breve\medio termine che richiedono una certa dose di creatività ed improvvisazione. Richiedono un certo livello di responsabilità. - Decisioni strategiche: hanno più ampia rilevanza e più alto livello di rischio, in quanto modificano le strategie a lungo termine (es. entrare in nuovi mercati o sviluppare nuovi prodotti). Queste decisioni vengono prese quasi esclusivamente dai livelli più alti del management aziendale. Oggigiorno, le aziende affrontano in numero decisamente superiore le decisioni non programmate. Modelli del decision making Gli studi sul processo decisionale hanno una radice economica e il primo modello assume che l’essere umano sia un decisore perfettamente razionale, per questo è chiamato MODELLO RAZIONALE è un modello prescrittivo, che indica il processo decisionale che gli individui dovrebbero seguire per arrivare alla massimizzazione dei risultati. Comprende 8 tappe: 1. Ricognizione del problema: l’organizzazione riconosce di avere un problema, o meglio, percepisce la discrepanza fra la situazione attuale e quella desiderata. 2. Definizione del problema e degli obiettivi : l’organizzazione analizza le “cause” e i “sintomi” del problema. A. FATTORI PSICOLOGICI INDIVIDUALI E SOCIALI , ad esempio l’autogiustificazione e la difesa della propria immagine (quando un individuo si identifica o è stato identificato con la decisione da prendere, si verifica l’intensificazione) oppure quando c’è una sottovalutazione dei rischi e una sopravvalutazione delle possibilità di successo. B. FATTORI ORGANIZZATIVI come problemi nella comunicazione interna o fattori di inerzia. C. CARATTERISTICHE DEL PROGETTO cioè quando un progetto non porta a dei risultati immediati, chi decide spesso è mosso dall’intenzione di portarlo avanti, considerando perdite e fallimenti come eventi temporanei. D. FATTORI SOCIALI\POLITICI quindi pressioni esterne al di fuori del controllo dell’organizzazione. È stata evidenziata anche una relazione fra tendenza all’intensificazione e caratteristiche di personalità del modello dei Big Five. INFLUENZE ESTERNE. Comprendono influenze sul processo (agiscono nella fase di raccolta ed elaborazione delle informazioni) e influenze sulla persona. Le prime sono determinate da:  Divisione del lavoro spesso limita le possibilità di comunicazione e scambio di informazioni, distorcendo e omettendo alcune delle informazioni stesse.  Gerarchia spesso rende difficoltoso comunicare da un livello all’altro e le informazioni talvolta sono “filtrate” dall’alto verso il basso.  Qualità e accessibilità delle informazioni , non sono sempre garantite dall’organizzazione.  Limiti di tempo richiedono di scegliere in fretta, privilegiando la velocità piuttosto che la qualità della decisione.  Comunicazioni informali rispetto a quelle istituzionali possono portare a fraintendimenti. Le seconde sono determinate da:  Formazione mal progettata o erogata con superficialità ad esempio un decisore che non è stato addestrato ad operare in situazioni prive di procedure standardizzate, può trovarsi in difficoltà al primo imprevisto.  Responsabilità limitata un decisore di solito non ha autorità sufficiente per portare a termine un processo decisionale, quindi, anche per un problema veloce, deve chiedere continue conferme dall’alto. DECISIONI DI GRUPPO Una delle domande più frequenti cui gli studiosi cercano di dare risposta riguarda quale processo decisionale sia il migliore (individuale o di gruppo): in realtà dipende dalla natura del compito e dal livello di competenze degli individui. Tra i vantaggi abbiamo:  Qualità della decisione. Il gruppo, purché eterogeneo, ha una maggiore quantità di conoscenze e competenze e di punti di vista, approcci al problem solving, rispetto al singolo.  Gestione efficace del tempo. Una volta individuato il problema, è possibile creare dei sottogruppi di analisi, accelerando il processo.  Accettazione e motivazione. Se il gruppo è composto dalle stesse persone che si dedicano all’implementazione della soluzione, aumentano le probabilità di successo. Tra gli svantaggi troviamo:  Tempo. I gruppi richiedono più tempo per prendere le decisioni.  Dispersione di risorse rispetto al singolo decisore.  Conflitti, in quanto più è alto il tasso di eterogeneità del gruppo, più probabile è che si creino fraintendimenti, dissidi ecc.  Dominio. Alcuni potrebbero monopolizzare le discussioni rispetto ad altri, non lasciando loro spazio.  Conformismo. Alcuni tendono a seguire la decisione di gruppo, nonostante non siano d’accordo, per evitare di essere mal visti. Tecniche per la decisione di gruppo. Sono state individuate diverse modalità attraverso cui un gruppo può lavorare per giungere ad una decisione:  Decisione per mancanza di risposta : nessuno dei membri ritiene che le alternative siano soddisfacenti per tutti, quindi si sceglie “la meno peggio”.  Decisione per autorità : il leader decide per tutti.  Decisione per minoranza : quando esiste una minoranza influente, capace di imporre il suo punto di vista.  Decisione per maggioranza : quando si procede a votazione questo può determinare la formazione di due “fazioni” (i vincitori e i vintiquesti ultimi, in seguito alla frustrazione della sconfitta, possono fare ben poco per l’implementazione della decisione o addirittura sabotarla per dimostrare che “avevano ragione”).  Decisione all’unanimità.  Decisione per consenso : la decisione presa è ben accetta dalla maggioranza e in parte anche dalla minoranza; è il miglior compromesso possibile.  Brainstorming: gruppi di 4\8 persone gestiti da un mediatore che propone un problema e chiede a ognuno di avanzare una possibile soluzione. LIMITI: 1. Molti non riescono a superare la timidezza e ad offrire il loro contributo. 2. Alcuni dimenticano parte delle loro idee mentre aspettano il turno per parlare (blocco produttivo)soluzione= Gruppo Nominale e Gruppo Delfi. Il primo è un gruppo di persone accumunate soltanto dal nome, come dice la parola stessail moderatore propone un problema e i membri del gruppo, individualmente, scrivono su un foglio tutti i suggerimenti. Il secondo è pensato principalmente per i gruppi che hanno difficoltà ad incontrarsi in presenzail moderatore gira un link con una spiegazione scritta del problema e i partecipanti in un foglio bianco proposto, devono scrivere le possibili soluzioni, le quali saranno raccolte dal moderatore ed esposte agli altri in forma anonima.  Tecnica dell’avvocato del diavolo : una o più persone a turno (per evitare ripercussioni negative su chi assume il ruolo) devono evidenziare tutte le debolezze\limiti delle argomentazioni dell’altra metà del gruppo. Il processo termine quando entrambe le parti sono soddisfatte delle argomentazioni proposte.  Tecnica dell’avvocato dell’angelo : una o più persone sono impegante in un esercizio di ascolto attivo e costruttivo delle idee degli altri, valorizzandone alcuni aspetti (“della sua idea mi piace il fatto che…”), ma allo stesso tempo mettendo poi in evidenzia gli aspetti da migliorare. Disfunzioni di gruppo. Tra le principali studiate troviamo: 1. Conformismo= tendenza ad uniformarsi alle idee\comportamenti del resto del gruppo. Può assumere tre diverse forme: a. Influenza informazionale : si verifica quando c’è uno stimolo ambiguo e il gruppo converge su una norma comune. b. Influenza normativa : si verifica quando l’individuo si conforma per mantenere un legame positivo coi membri del gruppo. c. Obbedienza all’autorità : conformismo generato da una condizione di <<inferiorità qualitativa>> ovvero da differenze di status. 2. Pensiero di gruppo= tendenza di alcuni gruppi molto coesi a privilegiare la coesione stessa rispetto alla buona qualità della decisione. Le possibili determinanti, oltre alla coesione sono il comportamento del leader; struttura organizzativa; livello di isolamento del gruppo stesso. 3. Rischio aggiunto\ polarizzazione= tendenza dei gruppi ad assumersi maggiori rischi rispetto a quelli che si assumerebbero i membri singolarmente. Reso possibile dalla diffusione di responsabilità. La tendenza al rischio o alla cautela, dipende, però anche: a. Preferenze di partenza degli individui. b. Contesto di riferimento. c. Informazioni a disposizione. d. Modalità con cui è stata condotta la discussione . Questioni aperte oggigiorno Sebbene la ricerca evidenzi i limiti del modello classico, le organizzazioni continuano ad avere la necessità di rendere il più possibile razionali i processi di decision making. Ecco perché il modello della razionalità è stato rivisto e aggiornato. Un esempio di questo aggiornamento è la teoria della decisione prescrittivaELEMENTO PECULIARE: sintetizza una soluzione che è composta di tutti gli elementi costitutivi delle altre alternative. Altri studiosi sono giunti alla conclusione che il modello razionale “rivisitato” può essere applicato a quelle circostanze in cui si devono affrontare problemi non troppo rilevanti e con molto tempo a disposizione. Naturalistic decision making (NMD) è una rivisitazione della teoria della razionalità limitata. Si occupa della presa di decisioni in condizioni difficili e complesse, caratterizzate da ambiguità, scarsità di tempo, incertezza ecc. Il presupposto di base è la critica della concezione di euristica di Simon: egli riteneva che esse, in quanto “scorciatoie mentali” fossero uno strumento in grado di portare nella maggior parte dei casi a risultati subottimali. Al contrario, oggi è sottolineato che le euristiche sono le migliori soluzioni possibili in quanto, in base al principio della razionalità ecologica, le persone, anche senza una forte preparazione e affidandosi alla loro esperienza, sono in grado di prendere buone decisioni. Ruolo dell’eti ca. Diversi autori sottolineano che le decisioni con maggiore efficacia a lungo termine sono quelle che tengono conto del ruolo dell’etica. In particolare, secondo alcuni, nel processo decisionale, si dovrebbero tenere a mente  Dimensione etica\morale\sociale: si riferisce alla consapevolezza dei decisori di operare nel rispetto dei propri valori etici e principi guida. Leader e manager devono affrontare e gestire tutte le implicazioni a breve, medio e lungo termine delle decisioni, senza dimenticarsi dell’aspetto “umano”. 2. Bystander  osservano, ma non partecipano. Sono consapevoli di ciò che accade nell’organizzazione, a differenza degli isolated, ma decidono appositamente di non essere coinvolti. 3. Partecipant a prescindere che supportino o meno il leader o l’organizzazione, sono molto impegnati e mossi dalla volontà di fare bene il loro lavoro. 4. Activist si sentono coinvolti dal leader e dall’organizzazione e agisce di conseguenza. 5. Diehard  i follower “estremi” (es. seguaci della Germania nazista), tendono a sacrificare salute e benessere per la causa, sia essa un individuo, un’idea o entrambi, anche nelle condizioni più usuali. Potter e colleghi: prendono in considerazione l’iniziativa come aspetto cruciale per esprimere comportamenti di followership realmente efficaci. Essa è una dimensione che si compone di due poli: a) performance initiative, che ha a che fare con lo svolgere bene il proprio lavoro, gestire il cambiamento; b) relationship initiative, che ha fare con il costruire un buon rapporto con il leader, costruire fiducia, negoziare le differenze. Dall’incrocio di queste due dimensioni, derivano quattro tipi di follower: 1. Subordinate (bassa PI e bassa RI). Può comunque svolgere il suo lavoro senza dare però un apporto personale alle attività. 2. Politician , estremamente sensibile alle dinamiche interpersonali, ma un po’ carente sul compito. 3. Contributor , ha elevate competenze, gestisce bene il compito, ma è più debole sul fronte relazionale. 4. Partner (alta PI e RI). Tipologie comportamentali prescrittive. Chaleff: enfasi sul coraggio del follower di:  Supportare il leader e quindi di assumersi anche incarichi più pesanti, stando sempre all’erta su tutte quelle aree che gli consentono un migliore esercizio delle sue competenze.  Sfidare il leader e quindi, laddove sia necessario, opporsi, dare voce ai propri dubbi costruttivamente, sapendo gestire anche eventuali emozioni negative e la rottura dell’armonia con il leader. Emergono quindi quattro profili: 1. Resource (bassi livelli di entrambi). 2. Individualist (bassi livelli di supporto e alti livelli di sfida). 3. Implementer (bassi livelli di sfida e alti di supporto). 4. Partner (alto supporto e alta sfida). È possibile far rientrare tra gli approcci prescrittivi anche tutti quei contributi che specificano i comportamenti adeguati ad una “followership efficace”, alcuni si riferiscono alla dimensione del supporto, altri a quella del comportamento proattivo (contrastare i tentativi inappropriati di influenzamento del leader, prendere l’iniziativa), altri ancora si riferiscono all’accettazione di ruolo o alla comunicazione efficace. Teorie situazionali. Fanno parte di questo gruppo più ristretto le teorie che si sono occupate di descrivere la followership in relazione alle caratteristiche del contesto in cui la relazione leader-follower si forma. È importante ricordare Wortman ha evidenziato che è più probabile che i follower siano creativi e indipendenti in un contesto organizzativo che promuove questo tipo di atteggiamento. Successivamente, altri autori hanno effettuato un match fra il modello di Kelley e quello della leadership situazionale, sottolineando che uno stile partecipativo in cui il leader condivide le idee e facilita la presa di decisione sembra bene adattarsi a follower alienati, mentre uno stile selling è più adatto a migliorare l’efficacia di un follower passivo che necessiti di direzione e guida, così come quello telling potrebbe potenziare lavoratori conformisti. Gli studi sul campo Pochi sono oggi i lavori di ricerca in tema di followership sebbene si osservi, un aumento degli studi in questa direzione. In generale, è possibile distinguere fra: - Lavori a carattere esplorativo (metodi qualitativi)obiettivo comune è quello di individuare le dimensioni attorno alle quali si costruisce una “buona” followership, utilizzando narrazioni e linguaggio quotidiano. - Ricerche quantitativealcune si sono proposte di individuare gli antecedenti di uno stile di followership efficace, considerando in particolare la relazione con la leadership e la possibile influenza di alcune dimensioni di personalità. Alcuni autori sostengono che collaboratori con punteggi elevati di ICT E AE presentano caratteristiche di personalità simili a quelle dei leader efficaci, soprattutto per quanto riguarda l’orientamento alla riuscita. La relazione delle due dimensioni della followership di Kelley e i fattori di personalità del modello Big Five non è particolarmente forte, tranne per quanto riguarda la relazione fra le due dimensioni della followership e la coscienziosità, e per quella fra ICT ed estroversione. Implicazioni per la ricerca Riguardano  il tentativo di rendere la conoscenza della leadership più completa ed organica;  il tentativo di arginare le ricadute dannose derivanti da una relazione leader-follower che si struttura in senso negativo e quello di far prendere coscienza ai leader del fatto che è necessario osservare ed interpretare i comportamenti dei collaboratori in modo più accurato e privo di distorsioni possibile .  Il tentativo di attuare interventi formativi condotti con modalità di lavoro partecipative e riflessive cioè tutti quei metodi che pongono la relazione al centro. Kelley ha proposto, infine, un questionario sulla followership che possiede 20 item (10 per l’ICT e 10 per l’AE) a sette punti da 0 (mai) a 6 (sempre). La scala viene descritta come “strumento di autodiagnosi” rispondendo al quale le persone dovrebbero pensare a come si comportano realmente e a quale sia il tipo di followership più frequentemente messo in atto, cercando di riflettere sui punti di forza e sulle aree che richiedono un miglioramento e permettono di stimolare la “flessibilità” con la quale una persona, nel suo ruolo di collaboratore, si muove dall’una all’altra dimensione. È uno strumento validato in italiano e poi proposto in una versione breve e può favorire la ricerca e lo sviluppo di percorsi formativi sulla followership. Gestione delle emergenze La ricerca sulla gestione delle emergenze trova le sue origini storiche negli anni successivi alla Prima guerra mondiale, a partire da una serie di studi che hanno studiato lo sviluppo di condizioni post- traumatiche nel personale militare. In Italia, la psicologia dell’emergenza è ufficialmente riconosciuta nel 1999, quando viene fondata la Società italiana di psicologia dell’emergenza. Centrale in questo ambito di studio è il concetto di crisis managementstudio e l’applicazione di tutte le strategie necessarie alla gestione di situazioni di emergenza. L’intervento psicologico in contesti di emergenza, rivolto sia il singolo sia alla comunità, si pone come obiettivo quello di far ritornare le persone che hanno vissuto situazioni drammatiche ad una condizione di “normalità” attraverso: a. La collaborazione con gli organismi pubblici e privati nell’attivazione degli interventi; b. La promozione del recupero dell’identità e della sicurezza collettiva; c. La riparazione del tessuto sociale danneggiato; significato e caratteristiche della crisi Dal greco crisissecondo Ippocrate è il “punto di svolta di una malattia”\dal verbo krinein ovvero “giudicare o decidere”. Non esiste ancora oggi una definizione univoca del termine, ma sicuramente esso fa riferimento ad una situazione di minaccia, urgenza, distruzione spesso in riferimento a situazioni di grande portata (disastri naturali o causati dall’uomo). La crisis solitamente inizia con uno o più eventi drammatici ed imprevedibili, determina un senso di rottura della continuità e dei valori, norme e relazioni dominanti fino a quel momento, per poi essere seguita da un miglioramento\risoluzione completa della situazione. Se è vero che ogni emergenza non necessariamente comporta una crisi, una crisi comporta sempre una situazione di emergenza da gestire. Gli elementi comuni ad ogni situazione di crisis sono: 1. Imprevedibilità dell’evento . 2. Senso di urgenza , che rende necessario intervenire tempestivamente. 3. Il potere della situazione di minacciare il regolare corso delle attività dei singoli e delle comunità. Le situazioni definibili “critiche”, inoltre, possono essere estremamente rare (uno tsunami) oppure più probabili (un incidente stradale), ma entrambe hanno il potere di provocare una serie di effetti psicologici rilevanti per i soggetti coinvolti. CRISIS MANAGEMENT. La gestione efficace di un evento critico è resa possibile da un’attenta crisis analysisprocesso attraverso cui si tenta di analizzare ed individuare le cause dell’evento drammatico. Primo ancora, però, è necessario:  Che esista una consapevolezza circa la possibilità del verificarsi dell’evento.  Che esistano alcuni elementi come la motivazione, l’impegno, la cooperazione. Stocker e colleghi affermano che il crisis management si riferisce ad una gestione efficace dell’evento sia prima, sia durante che dopo il suo avvenimento. Per fare ciò, sarebbe utile un buon scambio comunicativo, la capacità di analizzare rapidamente gli elementi della situazione ecc. Più nello specifico, la gestione di eventi drammatici implica l’attuazione di una serie di azioni lungo tre fasi principali: prevenzione. intervento. gestione degli effetti a lungo termine. Prevenzione Richiede di identificare tutti i potenziali segnali di pericolo e di testare tutte le strategie di prevenzione per ogni criticità emersa. Ulteriore elemento cruciale risulta la possibilità di applicare di nuovo e rivalutare l’intero ciclo di crisis management. RISCHI PSICOSOCIALI PER IL PERSONALE DI EMERGENZA. Gli eventi traumatici possono avere conseguenze negative anche su coloro che svolgono queste professioni “ad elevato rischio” a seguito del contatto con persone traumatizzate. Secondo le ricerche, i professionisti maggiormente a rischio sono gli operatori delle ambulanze, in quanto esposti a maggiori pressioni e stressor lavorativi rispetto agli altri professionisti delle emergenze. I principali rischi psicosociali cui possono andare incontro sono stress, traumatizzazione vicaria e burnout. STRESS La gravità dell’evento traumatico sicuramente espone ad elevati livelli di stress, tuttavia, perché si sviluppi una condizione di PTSD, è necessaria un’interazione fra stress acuto- stress cronico (legato ad alcune caratteristiche del lavoro) - storie pregresse di traumi vissuti dal soggetto. Cosa fare?  Strategia di coping basata sulla ristrutturazione cognitiva dell’evento traumatico cogliere più gli aspetti positivi.  Strategie di coping basata sulla consapevolezza di esercitare controllo sulla situazione.  Strategie di coping basata sulle emozioni libera espressione delle emozioni, parlando, ad esempio, con i colleghi. TRAUMATIZZAZIONE VICARIA A causa del contatto diretto con persone traumatizzate, gli operatori delle emergenze possono sviluppare una forma di malessere psicologico del tutto sovrapponibile a quella delle vittime dirette, tant’è che anche il DSM-5 parla della possibilità di sviluppo di PTSD sia per le vittime dirette che per le vittime indirette, ma in quest’ultimo caso è più corretto parlare di traumatizzazione vicaria. I sintomi sono gli stessi di quelli del PTSD: 1. Pensieri intrusivi  immagini, ricordi, percezioni ricorrenti di elementi dell’evento traumatico. 2. Evitamento di tutte gli elementi del contesto, persone, luoghi associati all’evento. 3. Iper-arousal  iperattivazione, ansia, difficoltà di concentrazione, nel sonno, ansia ecc. BURNOUT Pur essendo una condizione psicopatologica associata a tutte le tipologie di professione, è rilevante nelle professioni di aiuto. Le dimensioni tipiche del burnout sono: A. Esaurimento emotivo (derivante da un abuso delle risorse fisiche ed emotive del soggetto, sensazione di sovraffaticamento). B. Depersonalizzazione (del paziente\utente, che deriva dalla necessità di affrontare situazione molto impegnative e di carattere negativo al lavoro). C. Ridotta percezione di autoefficacia. L’insorgenza del burnout è attribuibile a fattori individuali, ma principalmente organizzativi quali carico di lavoro, controllo, riconoscimento, equità e valori. Fattori individuali e organizzativi di protezione dai rischi psicosociali. Risorse individuali ottimismo, resilienza, hardiness (la forza) sono tutti fattori in grado di mitigare gli effetti negativi degli eventi traumatici. Risorse organizzativechiarezza di ruolo cioè la definizione dei compiti e delle responsabilità, che può incrementare significativamente i livelli di benessere. Percezione di operare in un ambiente di comunità, collaborazione. Supporto sociale effettivo e percepito, non solo da parte dei colleghi ma anche extra lavorativo da parte di amici e parenti, attraverso il quale il soggetto sente di avere “altri” significativi su cui potere contare. Gruppi di lavoro Per evidenziare l’importanza dei gruppi di lavoro in organizzazione potremmo fare esempio classici come l’equipe medica di un reparto ospedaliero, il consiglio di classe di una scuola ecc. Secondo la celebre definizione di Lewin, il gruppo è qualcosa di più o di diverso della somma dei singoli membri: ha una sua struttura, una finalità propria, relazioni peculiari con altri gruppi. Elemento chiave della definizione è l’interdipenza tra i componenti ovvero l’idea che il cambiamento di una parte determini un cambiamento in tutte le altre. A partire da questa e altre definizioni, è stata proposta una concettualizzazione di gruppo di lavoro e lavoro di gruppo. Mentre un gruppo è un insieme numericamente ridotto di persone in interazione fra loro, il gruppo di lavoro è una pluralità che tende all’integrazione progressiva dei suoi legami psicologici, all’armonizzazione delle uguaglianze e differenze che si verificano. L’elemento chiave del passaggio da gruppo a gruppo di lavoro è l’idea dell’interdipendenza ovvero la consapevolezza che si dipende gli uni dagli altri. Il gruppo di lavoro si contraddistingue per questi aspetti: 1. Collaborazione, che è determinata da: a. Relazione di fiducia fra i suoi membri, in base alla quale ciascuno si sente sicuro delle proprie e altrui capacità. b. Negoziazione continua delle differenze, in base alla quale si elabora un punto di vista unico e condiviso. c. Condivisione delle decisioni prese e la loro concretizzazione in azioni. 2. Impegno comune, in base al quale si possono individuare delle tappe che determinano la transizione al gruppo di lavoro: a. La leadership è condivisa. b. La responsabilità è sia individuale che collettiva. c. Il gruppo sviluppa uno scopo o missione. d. Il problem solving è un’attività costante. e. L’efficacia è determinata dai risultati collettivi. LAVORO DI GRUPPOl’espressione dell’azione del gruppo di lavoro che prevede lo svolgimento del compito, da un lato, e la gestione delle relazioni fra i membri del gruppo con l’organizzazione dall’altro. Ci sono quindi due dimensioni del gruppo di lavoro:  Fare insieme= operatività, produttività di gruppo.  Stare insieme= le relazioni e le emozioni ad esse associate. Principali tipi di gruppi di lavoro. La letteratura individua:  Gruppi action and performing affrontano emergenze e crisi (vigili del fuoco).  Gruppi advisoryoffrono consulenza (addetti al controllo qualità).  Gruppi productionrealizzazione di un prodotto o servizio.  Gruppi project gestione del marketing, vendite ecc.  Gruppi managementcompiti di gestione (consiglio di amministrazione di un’azienda).  Gruppi serviceoffrono assistenza e si occupano di garantire risultati di qualità in situazioni altamente prevedibili e ripetute (assistenti di volo).  Gruppi formaliistituiti volontariamente e formalmente.  Gruppi informalinascono spontaneamente.  Task forces creati ad hoc in riferimento ad un obiettivo specifico e che si sciolgono al suo raggiungimento. Fattori di analisi di un gruppo di lavoro. STRUTTURALI (obiettivo, metodo, ruoli) PROCESSUALI (comunicazione, clima, sviluppo) PUNTO DI SNODO (leadership) Obietti vi La variabile che dà senso e giustifica l’esistenza del gruppo di lavoro. Affinché il gruppo sia efficace è necessario che l’obiettivo sia SMART, acronimo che sta per:  Specifico : l’obiettivo non deve essere vago, ma preciso.  Misurabile : appositamente valutato tramite specifici parametri, quantitativi o qualitativi (meglio quelli quantitativi).  Attuabile: deve essere realistico e raggiungibile in base a capacità e risorse del gruppo.  Risultato : connesso al risultato finale dell’organizzazione.  Tempo: deve essere prevista una scadenza entro la quale realizzarlo. Metodo È il modo di funzionamento delle attività di lavoro. La definizione di un metodo comune favorisce la tendenza all’uniformità perché gli individui sono portatori di diversi punti di vista, diversi ragionamenti. Le aree in cui bisogna avere un metodo sono:  Analisi delle risorse e dei vincoli  risorse= ciò che il gruppo ha a disposizione per realizzare il compito (competenze\conoscenze dei membri; tempo; strumenti dell’organizzazione) e vincoli= ciò che limita il lavoro di gruppo.  Problem solving.  Discussione ai gruppi è chiesto molto spesso di prendere delle decisioni, anche in questo è bene darsi un metodo, il quale influenza sia il livello di condivisione e consenso dei membri rispetto alla decisione sia la sua qualità (si sconsiglia il metodo a maggioranza).  Pianificazione del tempo  bisogna stabilire un’agenda cioè individuare la quantità di tempo da dedicare a ciascuna fase.  Discussione di gruppo  nel gruppo, come si sa, è importante il dialogo e lo scambio, e affinché esso sia costruttivo deve essere condotto in un certo modo. Ruoli Sono l’insieme dei comportamenti che ci si aspetta da una persona e sono assegnati in virtù delle sue specificità. Mentre il metodo tende all’uniformità, i ruoli tendono alla valorizzazione delle differenze di ognuno. Le aree che necessitano di una suddivisione di ruolo sono:  Area del risultato  conservatore (conserva la memoria di gruppo sui risultati raggiunti, impedendo di ritornare al punto di partenza); realizzatore (mantiene il gruppo focalizzato sul compito e i tempi, mirando alla concretezza delle azioni).  Area del lavoro  metodologo (orienta il metodo e il problem solving) negoziatore (aumenta il livello di partecipazione e condivisione, integrando i vari punti di vista.  Area delle relazioni  comunicatore e facilitatore (molto simili, facilitano la comunicazione, cercano di coinvolgere tutti).  Area della qualità  creativo e innovatore (si occupano di proporre nuovi modi, nuovi approcci per affrontare diversamente vecchi problemi). la “corsa libera” (free riding) il soggetto sceglie non solo di disimpegnarsi, ma anche di uscire dal gruppo (momentaneamente o definitivamente), ritenendo che difficilmente qualcuno se ne accorgerà (es. uscita fisica dalla stanza in cui il gruppo sta lavorando, fare altre cose durante il lavoro ecc.) lo “stare a guardare” (bystanding) quando l’individuo non interviene in una situazione in cui potrebbe dare un contributo, ma si limita ad osservare. il “disimpegno morale” (moral disengagement) l’individuo prende parte ad azioni che contrastano i propri valori etici grazie alla disattivazione dei suoi meccanismi morali. “BUONE PRATICHE DI EFFICACIA DEL GRUPPO” La ricerca ha sottolineato una serie di buone pratiche dei gruppi di lavoro che ruotano attorno a quattro aspetti:  Obiettivo: la finalità del gruppo. Le ricerche dimostrano che nei gruppi reali c’è una resistenza, rispetto alla definizione dell’obiettivo: viene dato per scontato, chi deve precisarlo non lo precisa perché gli appare superfluo, chi potrebbe chiedere chiarimenti non lo fa.  Metodo: l’insieme di regole che i gruppi scelgono per gestire le loro azioni e relazioni . I dati emersi dalla ricerca evidenziano che i gruppi tendono ad occuparsi delle modalità di lavoro di tipo tecnico, ma non delle modalità di tipo relazionale, quindi le interazioni risultano disordinate e confuse e gli individui si chiedono come lavoriamo insieme? Come ci parliamo? Chi comincia? i gruppi non si occupano di questa scelta perché credono che il miglior metodo di interazione emergerà spontaneamente oppure che un metodo vale l’altro, ma in entrambi i casi si fa un errore.  Risorse e vincoli: per raggiungere l’obiettivo, i gruppi devono tenere conto delle risorse a loro disposizione e dei vincoli. I dati di ricerca dimostrano che molto spesso ciò che frena l’efficacia dei gruppi non è l’insufficienza di risorse, ma il mancato utilizzo. Spesso questo è un inganno perché le risorse ci sono, ma il gruppo non è consapevole oppure lo è ma non in grado di utilizzarle. Si può verificare anche una situazione in cui i gruppi non tengono conto (deliberatamente o inconsapevolmente) dei vincoli.  Coordinamento: secondo i dati di ricerca, fare coordinamento significa: 1. Ancorare l’obiettivo cioè “ricordare l’obiettivo” tutte quelle volte che viene perso di vista 2. Padroneggiare risorse e vincoli. 3. Garantire il metodo cioè “proteggerlo” dal desiderio di essere rapidi e dal senso di stanchezza. FATTORI DI EFFICACIA NEI GRUPPI Team efficacy: è il corrispettivo dell’autoefficacia individuale e indica la credenza del gruppo di essere in grado di svolgere i compiti e gli obiettivi prefissati. Esistono due criteri di efficacia del gruppo di lavoro: performance= raggiungimento di un risultato atteso che soddisfa le richieste di un cliente interno o esterno all’organizzazione vitalità= soddisfazione dei membri del gruppo e desiderio di continuare a lavorare insieme. I principali fattori che sono in relazione all’efficacia del gruppo sono: Fattori di composizione del team Fattori di processo Fattori affettivi. Composizione del gruppo Troviamo: Dimensioni del gruppo: secondo le ricerche i migliori gruppi sono quelli formati da tre persone, seguiti da quelli con quattro o più membri e da quelli con due soli membri. Team tenure: questo fattore indica per quanto tempo i membri hanno fatto parte di uno stesso gruppo e lavorato insieme. Personalità di gruppo: alcuni studi hanno indagato la correlazione tra Big Five ed efficacia dei gruppi di lavoro, rilevando che l’amicalità di gruppo è uno dei principali indicatori di efficacia del gruppo. Diversità di gruppo: le differenze all’interno del gruppo possono riguardare vari elementi tra cui genere, età, etnia, precedenti esperienze, competenze, istruzione, caratteristiche fisiche. La diversità può rappresentare un vantaggio laddove crea complementarietà su determinati caratteristiche, ma allo stesso tempo può essere motivo di separazione. FATTORI DI PROCESSO Competenze di team work: un elevato livello di competenze aumenta l’efficacia. Norme e ruoli: le norme rappresentano le regole di comportamento condivise dai membri, mentre i ruoli sono ciò che ci si aspetta dagli altri Conflitto: la relazione confitto-efficacia risulta complicata. In particolare, esistono due tipologie di conflitto: una legata al compito caratterizzata dalla discussione su come le cose devono essere fatte; l’altra legata alle relazioni interpersonali. Mentre il secondo tipo di conflitto ostacola sempre la performance, in determinate circostanze quello legato al compito può favorire l’efficacia. FATTORI AFFETTIVI Coesione: il grado in cui i membri desiderano continuare a lavorare insieme in futuro; in un gruppo coeso sono forti le identità collettive e il senso di appartenenza. Cooperazione: continua integrazione degli sforzi individuali per il raggiungimento di un obiettivo comune. Cooperazione maggiore di competizione. Fiducia: credenza reciproca che gli altri agiranno come ci aspetta. Sicurezza psicologica: percezioni che gli individui hanno circa le conseguenze, positive o negative, delle loro azioni all’interno dell’ambiente di lavoro. Più i membri si sentono sicuri più saranno disposti a condividere idee ed opinioni. EVOLUZIONI ODIERNE GRUPPI AUTOGESTITI Sono gruppi di lavoratori che godono di autonomia e controllo nella supervisione gestionale del loro lavoro e delle loro attività. Hanno come riferimento un leader esterno, il quale non interviene nelle attività e nelle decisioni ma ha la funzione di facilitare l’autonomia e la gestione. VANTAGGI: aumento della produttività e della qualità dei risultati; migliore qualità della vita lavorativa; riduzione di assenteismo e turnover. SVANTAGGI: il leader potrebbe essere troppo coinvolto nelle attività o non in grado di sviluppare autonomia. GRUPPI VIRTUALI La crescente globalizzazione e lo sviluppo di nuove tecnologie ha spinto le organizzazioni a lavorare a distanza e sono nati i gruppi virtuali=gruppi di lavoro che non richiedono la presenza fisica dei membri e che sono accumunati da un obiettivo comune, pur essendo distanti. VANTAGGI: flessibilità; risparmio economico su viaggi e spostamenti; la possibilità di coinvolgere esperti da ogni parte del mondo per la risoluzione dei problemi. SVANTAGGI: scarsi scambi in presenza che portano ad un abbassamento del livello di coesione, fiducia, comunicazione e difficoltoso esercizio della leadership. GRUPPI TRANSCULTURALI la crescente globalizzazione ha portato alla nascita di gruppi trans culturali= persone provenienti da diverse zone geografiche e portatrici di diverse culture. VANTAGGI: maggiore apertura mentale; capacità di utilizzare approcci diversi al problem solving; aumento della creatività di gruppo. SVANTAGGI: chiusura mentale derivante dagli stereotipi e dalle discriminazioni. Leadership Il tema della leadership ha assunto importanza cruciale nel contesto organizzativo a partire dagli anni 90. Non c’è una definizione univoca si può intendere come l’azione di avere seguito e di conseguire al contempo i risultati. Centrale è, in ciò, il ruolo dei follower. Leadership vs management: la leadership è una relazione di influenza volta a raggiungere cambiamenti significativi, mira a ridurre i confini gerarchici, stabilendo una cultura condivisa, guarda al futuro. Il management è una relazione di autorità finalizzata a produrre e vendere beni e\o servizi come esito di un’attività coordinata, stabilendo confini gerarchici e orientandosi a mantenere la stabilità . Approcci allo studio della leadership. le teorie del “grande uomo”. Prendono le mosse dallo studio di quei leader che hanno raggiunto elevati livelli di popolarità. I tratti, motivazioni, abilità, caratteristiche del leader sono gli elementi su cui si è concentrata la ricerca inizialmente. L’obiettivo principale è stato quello di identificare ciò che è distintivo dei soggetti considerati “inclini alla leadership, naturalmente portati” rispetto a quelli che invece non lo so. L’elenco dei tratti presi in considerazione è molto ampio: lealtà, socialità, estroversione, autostima, iniziativa ecc. Si ipotizza anche che la compatibilità tra leader e follower sia di fondamentale importanza. L’approccio comportamentale. Lewin e colleghi hanno condotto uno studio che è considerato il precursore dell’approccio comportamentale. Ha analizzato l’influenza della leadership sul comportamento di gruppo in relazione a: - Clima affettivo; - Realizzazione del compito; si serve di gruppi di bambini, guidati da un leader adulto, appositamente addestrato per impersonare un leader:  Autocraticocentralizza l’autorità, gestisce il potere attraverso il controllo, premi e coercizioni. -prestazione migliore in presenza del leader, ma clima affettivo, in sua assenza, tra i membri del gruppo era negativo.  Democraticodelega l’autorità agli altri, incoraggia la partecipazione, si affida alla competenza dei followerprestazione migliore e clima affettivo positivo.  Laissez-faire  essenzialmente “passivo”; interviene solo quando espressamente richiesto dagli altri. Le università del Michigan e dell’Ohio, tramite strumenti quali questionari ed interviste, rilevano due orientamenti principali della leadership o due “stili”: a. Incentrato sul lavoro\sulla realizzazione del compito. b. Incentrato sulla persona\sul riconoscimento dei bisogni dei follower e lo sviluppo di relazioni. Leadership trasformazionale\transazionale. Il superamento delle leadership situazione è stato favorito dall’aumento dell’incertezza nei contesti organizzativi: il cambiamento, quindi non è più visto come una rarità, un evento eccezionale, ma come una regolarità che il leader deve affrontare sia sul fronte del raggiungimento degli obiettivi sia sul fronte della motivazione delle persone. La leadership è chiamata ad essere trasformazionale e non più o non solo transazionale. leadership transazionale leadership trasformazionale il leader è un professionista impegnato in comportamenti che mantengono un’interazione con i collaboratori, sulla base di tutte le leve necessarie ad aumentare la soddisfazione. Enfatizza il comportamento simbolico del leader, i messaggi visionari e di ispirazione, la comunicazione non verbale, il richiamo ai valori. Leadership empowering e team leadership. I contributi recenti sulla leadership sottolineano sempre più l’importanza di relazioni ispirate all’empowerment: sempre più persone reclamano maggiore potere sulle loro vite, a livello personale e professionale, maggiore partecipazione e coinvolgimento. Esigenze cui risponde la leadership empowering, attraverso la messa in atto di una serie di comportamenti.  Fare in modo che i collaboratori ricevano informazioni puntuali e continue sulla prestazione organizzativa.  Fare in modo che possano apprendere le conoscenze/competenze necessarie a contribuire al raggiungimento degli obiettivi organizzativi.  Dare loro la possibilità di prendere decisioni significative.  Aiutarli a comprendere il significato e l’impatto del loro lavoro.  Riconoscere il loro contributo al raggiungimento dei risultati organizzativi. Si parla di team leadership perché è stata segnalata l’importanza della leadership empowering nell’apprendimento di gruppo e alla produttività dello stesso, resa possibile attraverso una serie di comportamenti come:  Riconoscere i bisogni individuali e di gruppo ;  Identificare i punti di forza del team;  Costruire la fiducia;  Sviluppare le capacità del team di anticipare e affrontare efficacemente i cambiamenti;  Delegare e condividere responsabilità;  Ispirare e motivarlo verso livelli di prestazione più alti;  Riconoscere i risultati raggiunti ; leadership autentica e lato oscuro della leadership. Negli ultimi anni, l’interesse per la leadership autentica è cresciuto soprattutto in relazione ai grandi cambiamenti sociali, alla crisi e ai suoi correlati di incertezza e si esprime la necessità di avere un leader che: 1. Possieda una capitale psicologico positivo (ottimismo, resilienza, fiducia). 2. Abbia un sistema di valori positivo. 3. Dia l’esempio. 4. Promuova lo sviluppo e l’autoregolazione dei follower. 5. Abbia obiettivi ambiziosi, ma fattibili. Le varie definizioni di questo tipo di leadership puntano sempre di più sulla trasparenza della relazione leader\follower, che si ottiene tramite un processo di self-disclosure nei confronti dei collaboratori il leader fa leva sui propri punti di forza, ma non nasconde i punti deboli e questo alimenta la fiducia dei suoi collaboratori nei suoi confronti. Sono stati messi in evidenza, però, anche il lato oscuro e gli elementi di una leadership tossica come il senso di onnipotenza, l’eccesso nel potere che hanno conseguenze su: ˷ Relazioni tra i gruppi di lavorocompetitività, dipendenza a prevalere, disinteresse nei confronti dell’altro e leader autocratico o totalmente informale. ˷ Visionedistorta dai bisogni egoistici del leader. ˷ Comunicazionetoni eccessivi e frequenti manipolazioni, distorsioni comunicative (enfatizzazione degli aspetti positivi e omissione di quelli negativi o attribuzione di questi a fattori esterni). La leadership disfunzionale è stata oggetto di interesse dell’approccio psicodinamico che sostiene che: Il potere, cercato, voluto o evitato, è radicato nelle prime esperienze infantili. La leadership tossica è dominata dal narcisismo. La relazione leader\follower è letta in chiave di transfert  ripetizione delle relazioni con le figure genitoriali. La vita organizzativa è pervasa dalle emozioni suscitate in relazione al potere (paura, rabbia, invidia). La perdita di potere è vissuta come “non esistenza” nelle imprese familiari. Le fantasie dei follower rispetto al leader (onnipotenza\accoglienza) contribuiscono alla costruzione della relazione di leadership . Psicologia dei consumi e del marketing in ambito organizzativo. La psicologia dei consumi e del marketing, pur essendo un corpus teorico a sé, con i suoi assunti e le sue applicazioni, ha alcuni punti di contatto con la psicologia delle organizzazioni che bisogna tenere in considerazione ovvero: L’idea di organizzazione come artefatto generato dal “campo sociale”. L’idea di organizzazione come fenomeno complesso sul piano dei fini (espliciti\impliciti), della struttura (ruoli, compiti ecc.), del funzionamento (regole, programmi ecc.), della differenziazione tipologica (in termini morfologici e storici). L’idea della specificità del funzionamento degli individui nei contesti organizzativisi deve cogliere la dimensione contestuale del comportamento dei soggetti, che non va considerato in modo astratto. L’idea della reciproca influenza di individui e organizzazioni. Cos’è la psicologia dei consumi? Spesso si tende ad affermare che si tratta di un corpus di conoscenze decisamente disomogeneo: non solo per le diverse metodologie utilizzate, ma anche per alcune questioni teoriche ovvero: 1. Il rapporto fra <<saperi di base>> e <<saperi locali>>  la psicologia dei consumi, sin dalla sua nascita, si configura sia come un “sapere generale” circa il funzionamento della mente\ comportamento umano, sia come un “sapere locale” generato direttamente dallo studio del fenomeno del consumo. Si noterà, quindi, la presenza di saperi derivanti dai più generali ambiti della psicologia (percezione, emozione, attenzione, apprendimento ecc.) accanto a costrutti tipici di questa disciplina. 2. Il contrasto tra i saperi della comunità scientifica e quelli delle comunità di pratica  teorie formalmente eccellenti e riconosciute sul piano scientifico hanno avuto riscontri quasi nulli nella professione; allo stesso tempo opzioni teorico-metodologiche hanno riscontrato scarsa approvazione in ambito accademico. La soluzione migliore è un’integrazione fra i due piani, anche se ancora non è effettuata al meglio. 3. La rappresentazione del consumatore in prospettiva industriale e postindustriale si è prodotta una vera e propria frattura nei paradigmi nel passaggio dal periodo industriale a quello postindustriale. Visioni Posti di fronte al fenomeno del consumo, gli psicologi hanno di volta in volta privilegiato due diverse prospettive:  Gli attori considerati;  Le relazioni prefigurate fra gli attori; queste prospettive sono state analizzate su tre livelli: individuale, macrosociale e microsociale. Livello individuale . È caratterizzato da due assunti di base:  L’attenzione sul singolo (il consumatore) e sulla sua attività di elaborazione e risposta alle stimolazioni ambientali.  L’identificazione delle regolarità di funzionamento in grado di definire- almeno in parte- una sorta di teoria generale della condotta di consumo. A questa visione comune si riconducono molti approcci:  Quello funzionalista  mira a costruire un modello di flusso descrittivo dell’attività del consumatore.  Gli approcci derivati dal condizionamento classico e operante  sono assunti nell’ambito della psicologia dei consumi ai fini della comunicazione pubblicitaria, per massimizzare la probabilità di scelta e di successo di uno “stimolo di consumo”.  Gli approcci psicodinamici l’integrazione e il rapporto fra psicologia dei consumi e psicoanalisi permette di intendere la scelta di consumo come il risultato dei significati soggettivi ed impliciti che un individuo attribuisce all’oggetto di consumo.  La nascita della psicologia dei consumi, infine, va in parallelo allo sviluppo del “neuromarketing”è interessato ai correlati neurofisiologici delle attività di informazione e decisione relative ai consumi. Livello macrosociale. Il focus in questo caso è sull’influenza delle appartenenze sociali sugli orientamenti di consumo; gli attori sono concepiti come aggregati sulla base di appartenenze sociali. Questo approccio è maggiormente orientato allo studio delle differenze esistenti fra diversi gruppi di consumatori. Alcune delle differenze prese in considerazione riguardano l’età, genere, reddito, istruzione, status sociale; altre fanno riferimento ai modelli di norme, valori, credenze, pratiche diffuse presso una determinata società. Questa visione è attualmente quella dominante in quanto si applica più facilmente al marketing, volto a sostituire la rappresentazione di un consumatore “universale e generale” con una che valorizza la variabilità inter-segmento.
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