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Riassunto Psicologia delle organizzazioni - De Polo, Sintesi del corso di Psicologia del Lavoro

riassunto completo e dettagliato del testo PSICOLOGIA DELLE ORGANIZZAZIONI DI De Polo

Tipologia: Sintesi del corso

2013/2014

In vendita dal 03/07/2014

diana.deiboschi
diana.deiboschi 🇮🇹

4.4

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Scarica Riassunto Psicologia delle organizzazioni - De Polo e più Sintesi del corso in PDF di Psicologia del Lavoro solo su Docsity! 1 PSICOLOGIA DELLE ORGANIZZAZIONI – M. DE POLO CAP. 1: LA PSICOLOGIA E LE ORGANIZZAZIONI Introduzione È impossibile descrivere il comportamento umano senza fare riferimento alla modalità di rapporto con le varie forme di organizzazione. La capacità di gestire relazioni in ambienti variamente organizzati è fondamentale per tutti i membri di una società. È necessario, per vivere nelle organizzazioni, apprendere specifiche modalità di comportamento e impegnarsi in adeguato lavoro mentale. Inoltre nelle organizzazioni spesso si verificano la maggior parte degli avvenimenti importanti della vita, quelli che possono avere effetti profondi sulla persona; esempio tipico sono le transizioni psicosociali nella vita lavorativa (entrata nel mondo del lavoro, disoccupazione, pensionamento), che cambiano, a volte in modo brusco, il proprio modo di vivere e vedere il mondo e se stessi. Secondo un'altra prospettiva si possono guardare poi le componenti psicodinamiche profonde del legame tra individuo e organizzazione, che possono essere studiate anche con metodi analoghi a quelli che la psicoanalisi ha applicato nell’interpretazione delle dinamiche profonde degli individui: sono state quindi individuate delle “patologie organizzative” da Jacques, Kets de Vries e Miller. Convivere con le organizzazioni è un compito da svolgere e quindi richiede risorse che le diverse persone possono possedere in modo molto diverso l'uno dall'altro. Il successo dipende inoltre anche dai gradi di libertà, dalla possibilità di controllo, che ciascuno ha nell'organizzazione. Obiettivo del libro è quello di cercare di spiegare, con metodi psicologici i comportamenti osservati; l'interesse principale è l'organizzare più che l'organizzazione, più i processi che i prodotti: guardare le organizzazioni prima di tutto come un insieme di attività svolte da individui e gruppi che interagiscono. 1. Cenni storici Il primo incontro tra psicologia e lavoro organizzato si ha con la psicotecnica, il cui fondatore e Hugo Munsterberg, che rappresentò la prima applicazione delle conoscenze psicologiche del tempo alle situazioni lavorative. Fin dall'inizio si è evidenziata la presenza sia di esigenze conoscitive a sé stanti sia di richieste di produrre conoscenza in grado di modificare le situazioni reali. Hollway afferma che la psicologia del lavoro organizzato è un corpus di conoscenze che non è stato scoperto, ma prodotto in risposta ad esigenze concrete. Ciò si capisce bene se si pensa alla situazione socioeconomica in Occidente all'inizio del ventesimo secolo. La rivoluzione industriale ha sancito il passaggio alla produzione di massa, quindi nella fabbrica industrializzata vi sono problemi di organizzazione, coordinamento, gestione del personale che si presentano come nuovi e hanno bisogno di trovare risposte adeguate e l'unico esempio di struttura organizzata era quello dell'organizzazione militare. Per questo motivo il primo strumento di organizzazione è stato l'uso di una disciplina strettissima nei luoghi di lavoro. Tuttavia oggi si comincia dubitare che la disciplina, da sola, basti ad assicurare buoni risultati produttivi. 1.1. Taylor e l'organizzazione scientifica del lavoro Taylor e l'ideatore del metodo noto come Scientific management, che è costituito dai seguenti elementi:  analisi dettagliata del compito che deve essere svolto in modo da ricomporre le procedure e le sequenze di movimenti nel modo più razionale. Così si prescrive come svolgere ogni lavorazione nel modo ottimale, riducendo al minimo lo sforzo fisico e aumentando la produttività al massimo. La locuzione che identifica il taylorismo è il one best way che indica appunto il modo più efficiente di lavorare. Per taylor è sempre possibile giungere ad una conclusione scientificamente fondata che indichi quale sia, per ogni lavoro da svolgere, la modalità in assoluto più efficiente; 2  la scelta del lavoratore le cui caratteristiche si devono adattare alle modalità di lavoro (l'uomo giusto al posto giusto);  addestramento del lavoratore affinché metta in pratica esattamente le procedure previste;  corresponsione di una retribuzione adeguata ai lavoratori che raggiungono rendimenti elevati. È il livello retributivo che funziona come elemento motivatore. L'applicazione dello Scientific Management negli Stati Uniti non fu senza contrasti come testimonia il rapporto Hoxie, redatto per conto della commissione federale degli Stati Uniti sulle relazioni industriali. Taylor difese sempre il carattere a suo dire democratico del suo metodo in quanto fondato sulla scienza e non sull'arbitrio di capi, imprenditori e sindacati. Invece il sindacato addebitava alla proposta di Taylor assenza di scientificità in quanto trattava gli esseri umani come macchine inanimate ignorando l'esistenza di abitudini, carattere, tradizioni lavorative e mirando a minimizzare le abilità acquisite dai lavoratori. Inoltre lo Scientific management veniva accusato di fomentare disordini in quanto accresceva l'antagonismo tra i lavoratori e tra questi e i datori di lavoro, distruggendo armonia e cooperazione tra i gruppi. Le contraddizioni del metodo di Taylor continuano a riproporsi nelle relazioni industriali di tutto il mondo, dato che è oggetto di discussione non tanto l'analisi dettagliata dei tempi e dei metodi del lavoro, quanto l'utilizzo dei risultati per normare ogni comportamento, piegandolo al taglio dei tempi e all'aumento della produttività. È ancora dura a morire, almeno in Italia, l'idea che per essere “scientifica” l'organizzazione del lavoro debba progettare le modalità di svolgimento dello stesso facendo riferimento ad un lavoratore “medio” e quindi di fatto inesistente; tale presupposto non ha alcun fondamento, se non nella necessità di poter esercitare un controllo sociale sulla fabbrica. 1.2. La misura delle differenze individuali: nasce la selezione psicologica del personale Un secondo caso in cui la psicologia del lavoro si occupa di problemi concreti è la nascita della selezione del personale attraverso misure delle caratteristiche psicologiche delle persone. L'improvvisa richiesta di fornire strumenti efficaci di selezione si ha con l'entrata in guerra degli Stati Uniti nel 1917, con la conseguente necessità di assegnare all'addestramento dei compiti più complessi (e non al combattimento) i soldati che avevano maggiori probabilità di apprenderli in minor tempo. Quasi due milioni di persone furono sottoposte all’Army Alpha Test, uno strumento di intelligenza generale per discriminare il loro potenziale, sviluppato da Meyers, uno psicologo sperimentale, che alcuni anni dopo fondò il NIIP (National Instituite of Industrial), un'istituzione finanziata da imprenditori e politici che ebbe lo scopo di fornire assistenza agli imprenditori per trovare il modo migliore di fare ogni parte del lavoro con l'aiuto del metodo scientifico e delle conoscenze, oltre a trovare la mansione migliore per ogni lavoratore. Quest'evento è molto importante perché comincia ad essere considerato legittimo lo studio delle differenze individuali all'interno della psicologia scientifica. Come osserva Hollway (1991) l'introduzione dello studio delle differenze individuali fa emergere l'inadeguatezza del modello rigido, tipico dell'ingegneria organizzativa, che si fondava su trattamenti generalizzati basati su delle medie. 1.3. Il lavoratore ha anche un cuore: Hawthorne e la scoperta dell’organizzazione informale Una seconda tappa importante nello studio del comportamento organizzativo è costituita dalle ricerche condotte da Mayo e i suoi collaboratori negli stabilimenti Hawthorne, le cui prime ricerche riguardavano il rapporto tra illuminazione e produttività. Sin dai primi esperimenti alcuni risultati, del tutto inattesi, stupirono i ricercatori: ci fu un aumento di produttività non solo a seguito di un aumento di illuminazione ma persino a seguito della riduzione della luce. In pratica, qualunque modificazione dell'illuminazione si introducesse, la produttività aumentava. Questo risultato fu attribuito a un miglioramento generale della situazione dei lavoratori, probabilmente indotto anche dal fatto che l'impresa avesse indirizzato l'attenzione verso il gruppo di operaie coinvolte nell'esperimento. Quest'esperimento è divenuto sinonimo dell'effetto prodotto in ambiente naturale dalla semplice osservazione, ancora oggi noto come effetto "hawthorne". 5  capacità diagnostiche cioè saper utilizzare metodi e tecniche per descrivere e spiegare fenomeni psicologici collegati al lavoro;  capacità d'intervento: si riferisce alla capacità di progettare un intervento;  competenze professionali nel campo della ricerca e dell'intervento che riguardano l'esercizio diretto della professione, cioè la capacità dello psicologo di analizzare la domanda del cliente, tradurla in un possibile intervento, gestire la conduzione ed esporne i risultati. È evidente dunque l'interazione tra ricerca e intervento, che è uno degli elementi costitutivi della psicologia del lavoro e dell’organizzazione. Quindi in sintesi gli obiettivi della formazione universitaria sono:  dare conoscenze aggiornate su teorie, modelli concettuali e risultati empirici accettati dalla comunità scientifica professionale.  fornire una competenza metodologica, che deve comprendere sia il dominio della ricerca che quello di interventi. La ricerca e l'intervento sono da considerarsi elementi costitutivi con pari dignità; ciò che li differenzia sono talune modalità operative, mentre quello che li accomuna è la medesima logica di conoscenza e diagnosi.  avviare all'acquisizione di capacità operative da perfezionare successivamente nei contesti effettivi di lavoro professionale. CAP. 2: CHE COSA SONO LE ORGANIZZAZIONI 1. Definire le organizzazioni Cos'è un'organizzazione? Una risposta classica a questa domanda vede l'organizzazione come uno strumento, costituito con diversi gradi di efficacia e di efficienza, ma comunque diretto a coordinare in modo razionale gli sforzi di più individui in vista del perseguimento di un fine. Questa definizione vede l'organizzazione come una macchina che si muove verso il raggiungimento di determinati fini; ma questa visione nasconde quella parte di caos che c'è dietro l'apparente ordine e mette anche in secondo piano tutti gli sforzi che individui e gruppi sono costretti a fare per mantenere accettabilmente solide e ordinate le organizzazioni. Non esiste, ovviamente, la vera definizione di organizzazione; esiste però un effetto dell'accentuare in misura maggior o minore l'uno all'altro elemento del funzionamento dell'organizzazione. Accettare una definizione o un’altra preseleziona i livelli, le modalità delle descrizioni e delle spiegazioni che possono essere fornite sugli eventi organizzativi. Sostenere, ad esempio, una razionalità intrinseca dell'organizzazione significa classificare tutti gli esiti non razionali come deviazioni, irregolarità e disturbi. Ferrante e Zan mettono in luce i limiti derivanti da una concezione classica di questo tipo, come la formulazione classica che definisce l’organizzazione “un costrutto sociale fortemente costituito per il raggiungimento di determinati fini”. I due autori avanzano alcune osservazioni: innanzitutto quante persone servono per fare un'organizzazione? Neppure un gran numero di persone è di per sé sufficiente: un insieme di viaggiatori che si trova sullo stesso treno è sicuramente oltre la soglia minima di numerosità, condivide un medesimo scopo (arrivare ad una destinazione su quella tratta) e qualche elemento di strutturazione formale (ha acquistato un biglietto, ha fatto riferimento all'orario ufficiale, ecc.); tuttavia, poche persone accetterebbero di definire quei viaggiatori un'organizzazione. Un altro problema è l'inserimento nella definizione di fini espliciti, consapevoli e condivisi. Se per esempio, si assume che il fine di un'azienda sia quello di produrre profitto allora ci si dovrebbe domandare se si tratta di un profitto a breve, a medio o a lungo termine, dato che questo può cambiare le scelte strategiche e comportamentali delle aziende; e poi il lavoratore di basso livello che lavora nella grande azienda è davvero interessato a che l’azienda raggiunga il profitto o forse è solo interessato ad avere un buon salario? E questo vuol forse dire che non fa parte dell’organizzazione? Con queste considerazioni vengono messi in discussione alcuni assunti che il senso comune vede come costitutivi di un'organizzazione. Questi elementi esistono nella vita dell'organizzazione ma non sono sufficienti per spiegare i comportamenti concreti. 6 Un aiuto importante per chiarire meglio il concetto di organizzazione ci viene dalla prospettiva psicosociale di Hosking e Morley, che criticano molti testi che parlano delle persone e delle organizzazioni, enfatizzando uno dei due poli a scapito dell'altro. Quindi accade che da un lato alcuni teorici vedono il rapporto tra le persone e l'organizzazione semplicemente come quello che intercorre tra contenuto e contenitore: ciò che accade agli individui e i gruppi viene descritto e analizzato senza far riferimento al contesto organizzativo. Dall'altro lato, invece, ci sono autori che considerano le organizzazioni come un contesto indipendente dall'azione delle persone che vi fanno parte e che mantengono il fuoco dell’attenzione sull'organizzazione in quanto tale, senza chiarire gli assunti sulla natura umana. A partire da questa considerazione Hosking e Morley propongono un'analisi centrata sulla relazione tra persone e organizzazioni, che permette una via d'uscita rispetto agli approcci “entitari” (entitative) cioè quelli che considerano la persona e l'organizzazione come entità separate e indipendenti l'una dall'altra. 2. I limiti di un approccio entitario Una premessa da fare riguarda l'assunto che il rapporto tra una persona e il suo contesto è di mutua creazione: le persone fanno in qualche misura i loro contesti e sono in qualche misura fatte da questi. È vero che le persone fanno i loro contesti, ma è anche vero che non tutto è possibile; esse subiscono limitazioni, in qualche misura si adattano ai contesti cambiando se stessi ma anche modificando il contesto. In base a questo assunto si possono rileggere gli approcci più diffusi del fenomeno organizzativo in base a come hanno considerato il rapporto tra individuo e organizzazione: 1. un primo tipo di teorie sottostà a quella che Allport ha chiamato fallacia individualistica che pone un'enfasi eccessiva sul soggetto considerandolo come un'entità separata senza riferimento al contesto. Il comportamento è visto come tendenzialmente invariante da situazione a situazione. In questo tipo di approcci si sovrastimano le possibilità di spiegare le differenze osservate nel comportamento organizzativo degli individui a partire delle loro caratteristiche di personalità e dalle preferenze indipendentemente dai vincoli o dalle risorse rappresentate da quanto e da chi li circonda. Da questi approcci derivano le credenze circa la necessità per i capi di disporre di collaboratori dotati di specifiche qualità e caratteristiche; 2. un secondo tipo di teorie sono quelle che sottostanno a quella che Allport definisce fallacia culturalistica dove viene posta enfasi eccessiva sul contesto e sulla sua capacità di modellare il comportamento di individui e gruppi per mezzo dell'influenza di forze sociali e culturali e istituzionali. In base a questi approcci individui diversi, posti all'interno di contesti organizzativi simili, mostrano comportamenti e reazioni similari, nonostante le differenze individuali. Questo tipo di impostazione porta a considerare le organizzazioni come un dato, come un insieme di processi che esistono in quel modo, indipendentemente dalle persone che in quei processi si trovano ad agire in quel dato momento. È raro trovare forme pure dell'uno dell'altro approccio: si tratta piuttosto di tendenze verso l'una o l'altra concezione. È per questo che si sono diffuse teorie che cercano di superare il determinismo rigido dei due approcci precedenti. Un esempio sono le teorie che si richiamano al concetto di contingenza, accumunate dall’idea di fondo che non ci sia un unico modo - migliore rispetto a tutti gli altri - di organizzare, e che l'efficacia delle scelte su come organizzare dipenda soprattutto dalla congruenza di tali scelte con le caratteristiche dell'ambiente esterno in cui l'organizzazione si trova ad operare e con il quale si deve confrontare. In sostanza queste teorie considererebbero come entità tendenzialmente fisse e immutabili sia le persone che i contesti; cioè pur non accettando che il comportamento di individui e gruppi sia prevedibile a partire dai processi e dalla struttura organizzativa, continuano a descrivere le persone indipendentemente dai contesti di vita e di lavoro nei quali operano, considerando le persone come meri agglomerati di motivazioni, tratti di personalità, preferenze, atteggiamenti derivati quasi essenzialmente dai bisogni primari. Vedono le persone come entità sostanzialmente stabili, tendenzialmente immodificabili e avulsi dal contesto sociale. 7 Rientra in questa descrizione il modello di Maslow, conosciuto con il nome di scala dei bisogni in cui la spinta motivazionale è funzione del soddisfacimento progressivo di una serie di bisogni che vanno da quelli fisiologici, a quelli di sicurezza, a quelli associativi, a quelli di individuazione sociale, sino a quelli di autorealizzazione. Tali bisogni sarebbero caratteristici dell’essere umano. Il modello si basa su due perni: a) Un bisogno, a qualsiasi livello, cessa di essere motivante se si trova ad essere regolarmente soddisfatto; b) C’è una priorità naturale fra i bisogni, tale che un bisogno di ordine più elevato non mostrerà il suo potere motivante fino a che i bisogni di ordine inferiore non siano stati soddisfatti. Nonostante questo modello sia conosciutissimo e sia alla base di un’infinità di organizzazioni aziendali e di comportamenti dirigenziali, in realtà manca di soddisfacenti risultati empirici della sua validità. Ma anche i contesti possono essere trattati come entità fisse e descritte indipendentemente dalle persone che vi agiscono. Come affermano Hosking e Morley ciò porta a descrivere le organizzazioni come oggetti fisici in cui viene enfatizzata la condizione dell'essere organizzati a scapito dell'attività di organizzare. Manca non solo l’attenzione al fatto che sia le persone che i contesti contribuiscono a determinare i comportamenti organizzativi, ma soprattutto al modo in cui le persone costruiscono le loro interazioni con e nei loro contesti. Manca una strumentazione concettuale adeguata a studiare l'azione sociale intelligente. Negli approcci che considerano le organizzazioni come entità a sé stanti, sono identificabili cinque elementi costitutivi: 1. condizioni per l'appartenenza dei membri: ogni organizzazione specifica in modo formale le modalità con le quali si entra e si cessa di farne parte, cioè le condizioni per l'appartenenza. Queste divengono un confine; 2. l'identità dell'organizzazione: essa è vista e riconosciuta come un soggetto specifico dei suoi membri e in generale da tutti coloro che vengono a contatto con essa (organizzazione come soggetto dotato di una propria identità); 3. un'organizzazione è dotata di scopi relativamente chiari e definiti; 4. un'organizzazione ha una struttura formalmente stabilita, organigrammi e funzionigrammi in cui si specifica chi è responsabile di che cosa, se è legittimato a dare disposizioni a chi e come si svolge la comunicazione tra i membri dell'organizzazione. 5. organizzazione e ambiente circostante sono realtà separate, che stanno in rapporto di scambio: l'organizzazione riceve input dall'ambiente, li elabora e li restituisce all'ambiente stesso. Ciascuna di queste affermazioni presenta però delle contraddizioni. Una prima serie di riflessioni riguarda i punti 1 e 2 che riguardano i criteri di inclusione ed esclusione dei propri membri e il fatto che l'organizzazione abbia un'identità. Caplow nel 1964 definiva le organizzazioni come sistemi sociali dotati di identità collettiva, di qualche forma di elenco o registrazione dei propri membri, di procedure per rimpiazzare i membri uscenti con altri. Questa definizione presenta due problemi: il primo è quello di escludere l'esistenza di organizzazioni che non fanno ricorso a procedure altamente formalizzate di inclusione ed esclusione (per esempio alcune organizzazioni di volontariato, per le quali non sempre il requisito dell’appartenenza formale è soddisfatto); il secondo problema è di ordine pratico: per esempio, gli azionisti di un'azienda, poiché non rientrano nel libro paga si dovrebbe forse dire che non fanno parte di quell'organizzazione, anche se in realtà hanno un ruolo importante?; o ancora i vari subappaltatori che eseguono buona parte dei lavori nei cantieri, non fanno parte dell’impresa di costruzioni? Se lo scopo fosse quello di stabilire una responsabilità penale in caso di incidente i confini sarebbero netti; se invece lo scopo fosse individuare quali caratteristiche dell’organizzazione possano aumentare la probabilità di incidenti questi confini sarebbero molto diversi. A volte sono le percezioni dei coinvolti che ci danno un criterio per stabilire chi c’entra e chi non c’entra. Quindi possiamo affermare che i criteri formali di inclusione ed esclusione dei membri non ci dicono tutto sui confini reali dell'organizzazione, anzi a volte possono essere fuorvianti. Un'altra contraddizione riguarda il punto 3 che sostiene l'esistenza di scopi propri dell'organizzazione; in realtà non è possibile identificare degli scopi comuni a tutti i membri dell'organizzazione; ad esempio non solo esistono differenze di scopi tra dipendenti e dirigenti ma anche tra i dirigenti stessi. Il punto 4 riguarda l'esistenza di strutture formalizzate stabili nel tempo: questo porta con sé un approccio meccanico al cambiamento perché le organizzazioni cambierebbero modificando parte della loro struttura 10 Anche come livello di analisi il filone europeo privilegia un livello intermedio in quanto vi è, insieme alla riluttanza ad attribuire all'organizzazione in quanto tale la qualità di attore, anche l'idea che gli attori non coincidano con i singoli individui bensì con i gruppi di interesse socialmente costituiti. 3.2. Una pluralità di livelli di analisi Non esiste lo studio dell'organizzazione ma le organizzazioni sono il contesto, l'occasione, il pretesto per studiare il comportamento di aggregati sociali formati da individui e gruppi e dotati di una qualche forma di immagine olistica nella mente degli attori in gioco. Ogni indagine sull'organizzazione richiede una semplificazione degli elementi in gioco: non si può tener conto allo stesso modo con lo stesso peso, in ogni momento della ricerca o dell’intervento, neppure delle principali tra le variabili che definiscono la situazione sotto indagine. Questo non vuol dire che si deve scegliere come prima cosa il livello al quale effettuare la diagnosi, tralasciando gli altri; ogni evento o processo organizzativo può essere analizzato a più livelli, a seconda delle dimensioni che si vogliono mettere a fuoco: solo le informazioni così raccolte permettono di scegliere la centratura per l'intervento. Una delle modalità più classiche di individuare dei livelli di analisi possibili nel campo del comportamento organizzativo è la tripartizione in:  livello individuale che analizza gli eventi principalmente in funzione dei comportamenti e delle personalità delle persone che sono coinvolte nella situazione. Questo livello è importante perché gli stili comportamentali caratteristici di un individuo lo predispongono ad agire con modalità che risultano invarianti nelle diverse situazioni;  livello di gruppo che tiene conto dell'impossibilità di ricondurre gli eventi della vita di gruppi alla mera somma dei comportamenti degli individui che lo compongono; al contrario i gruppi elaborano proprie norme per ordinare l'ambiente e queste norme influenzano il comportamento degli individui che ne fanno parte. Quindi il comportamento organizzativo deve essere analizzato anche con riferimento alle appartenenze di gruppo dei membri e delle dinamiche di funzionamento degli stessi;  livello organizzativo: anche in questo caso l'organizzazione non è data dalla somma dei comportamenti individuali o di gruppi che ne fanno parte. Il modo in cui i processi organizzativi si consolidano in strutture e la collocazione dei membri in tali strutture, hanno un effetto su qualsiasi interazione sociale all'interno dell'organizzazione. Cherrington sottolinea come l'analisi del comportamento organizzativo non può prescindere dalla considerazione che l'ambiente esterno ha la capacità di influenzare il comportamento di gruppi e individui e di produrre eventi che possono modificare gli assetti dell'organizzazione stessa, cioè il suo modo di darsi delle strutture. Altri autori – Weick ad esempio – sostengono invece che anche il concetto di ambiente esterno sia discutibile, nel senso che le organizzazioni non reagiscono all'ambiente ma anzi producono esse stesse le situazioni che poi retrospettivamente definiscono “ambiente esterno”. Ma se è pur vero che in ogni sistema sociale le organizzazioni contribuiscono con le loro azioni a creare l'ambiente in cui operano, è vero anche che esistono fattori rilevanti che non sono sotto il loro controllo (cambiamenti normativi, fluttuazioni del mercato o nella forza lavoro, mutamenti di abitudini) che hanno però un'influenza diretta sugli assetti e sui processi interni. Schneider definisce il comportamento organizzativo (organizational behavior) come il punto d'incontro di studi di tipo individuale, gruppale e organizzativo che hanno il loro fondamento in discipline diverse; propone poi una distinzione tra "micro OB", i lavori che riguardano tematiche più vicine all'individuo come oggetto di ricerca (ad esempio studi sulla motivazione dei dipendenti), e "macro OB" lavori che vedono le organizzazioni come unità di analisi (studi sugli adattamenti strutturali delle funzioni di controllo). Nel '93 la Annual Review of Psicology propone una nuova classificazione che ha come criterio il tipo di influenza reciproca tra individui e gruppi da un lato e il contesto organizzativo dall'altro. I tre livelli di analisi sono:  il contesto organizzativo come fattore che influenza il comportamento di gruppi e individui;  gruppi e individui come fattori che influenzano l'assetto dei contesti organizzativi;  le interazioni di individui e gruppi con i loro contesti organizzativi. 11 L'aspetto che merita più attenzione è l'inserimento del terzo livello di analisi che caratterizza i lavori che si pongono direttamente l'obiettivo di ragionare in termini di interazione tra i diversi fattori in gioco. Tra le ricerche che fanno parte di questo livello di analisi è interessante il lavoro di Dutton e Dukerich sulla Port Authority di New York e New Jersey. Si tratta di un'importante organizzazione del tipo semipubblico che si trovò ad affrontare un problema che inizialmente sembrava banale. Un numero crescente di senzatetto iniziò ad approfittare del riparo dalle intemperie offerto da alcuni edifici dell'ente con ampie zone di pubblico passaggio. Questo causò disturbo agli altri utenti richiamando l'attenzione dei responsabili. La prima interpretazione della situazione fu che si trattava di un problema di ordine pubblico che fu affrontato esclusivamente allontanando con la forza di senzatetto e rafforzando la vigilanza. I dati raccolti mostrarono che i dirigenti non ebbero dubbi nell'effettuare questa scelta, perché si trattava di un'azione coerente con l'immagine che i dirigenti stessi avevano della loro organizzazione (era un'organizzazione che doveva occuparsi di problemi tecnici e quindi il sociale non la riguardava); questa linea di azione provocò tuttavia reazioni negative nell'opinione pubblica, a cui questa soluzione apparve come sproporzionata rispetto all'entità del danno e alla minacciosità delle persone coinvolte. I dirigenti dovettero prendere atto di queste reazioni e rivedere l'identità della propria organizzazione, confrontandola con quella che veniva restituita dalle relazioni esterne al loro comportamento nei confronti dei senzatetto. Il problema posto dai senzatetto fu reinterpretato dei dirigenti dell'ente come un problema organizzativo con implicazioni morali e non più come un problema di ordine pubblico. Questa nuova interpretazione portò a studiare una soluzione diversa, una linea di azione coerente con la nuova identità dell'ente. 3.3. Una pluralità di letture I due approcci classici che costituiscono un punto di riferimento importante per gli studi sul comportamento organizzativo sono i lavori di Taylor, a cui si fa risalire l'inizio della scuola classica, e quelli di Mayo, a cui si fa risalire la scuola delle relazioni umane. A partire da questi primi contributi si dipanano tutti gli studi successivi. Petit parte dalla constatazione che tutte le teorie organizzative hanno a che fare con il problema di trattare il cambiamento: alcune però lo fanno in maniera normativa, altre in maniera diagnostica. Tra le teorie ad orientamento normativo egli ricomprende: la scuola classica (Taylor, Fayol e Weber), la scuola delle relazioni umane (Mayo, Maslow, McGregor e Argyris). Semplificando si può dire che prevale in questi autori la preoccupazione per un’armoniosa integrazione tra individuo organizzazione. Nelle teorie ad orientamento diagnostico rientrano tre grandi filoni del pensiero organizzativo: l'approccio sistemico - le organizzazioni sono considerate entità distinte dall'ambiente circostante ma in continua interazione con esso; l'attenzione è rivolta a come l'organizzazione trasforma con la sua attività gli input dall'ambiente. L'analisi strategica prende le mosse dei lavori sulla burocrazia di Crozier, il quale sosteneva che individui e gruppi sono capaci di progettare strategie in modo autonomo e razionale all'interno dell'organizzazione. Uno dei concetti chiave per spiegare le relazioni di potere tra gli attori è il governo delle zone di incertezza, dove la struttura formale non può o non sa regolare i comportamenti. Quindi anche se l'organizzazione impone il sistema di vincoli di risorse i protagonisti restano comunque gli attori. L'analisi culturale - le organizzazioni sono considerate come sistemi sociali nei quali membri arrivano a condividere modi di pensare di agire caratteristici di quell'organizzazione (comportamenti come risposte coerenti con la cultura su come fare le cose). Beehr sostiene che il contributo di Taylor e quello della scuola delle relazioni umane sono interessanti perché introducono per la prima volta, anche se in modi diversi, concetti psicologici nella teoria organizzativa. Gli studi successivi gli sembrano derivare da questi due primi ceppi. Si ha così da una parte un filone detto dell’Administrative Management che è centrato su contributi di tipo prescrittivo diretti prevalentemente ai manager; dall'altra i precursori della psicologia organizzativa moderna quali Follett, Barnard e Lewin (con contributi diversi) che hanno sviluppato le intuizioni emerse dagli studi condotti da Mayo. 12 Dal periodo che va dal dopoguerra ai giorni nostri Beehr abbandona la ricerca di eventuali filoni segnalando invece il concentrarsi dell'interesse di psicologi organizzativi per tre grandi temi: leadership, gruppi, motivazione e soddisfazione. Il sociologo Strati fa una rassegna dei diversi criteri seguiti dagli studiosi per ordinare le diverse teorie organizzative: 1) Nacamulli: elenca undici scuole di pensiero da Taylor fino ai sistemi sociotecnici; 2) Gross e Etzioni individuano quattro assi principali:  modelli di tipo razionale, attenti soprattutto agli aspetti dei costi dell'efficienza;  modelli interazionisti, dove l'accento è sulla componente psicosociale della vita organizzativa;  approcci strutturali che prestano attenzione al rapporto tra variabili strutturali dell'organizzazione e altre dimensioni come per esempio la tecnologia;  modello dell'obbedienza, centrate sull'analisi del concetto di potere nell'organizzazione. 3) Scott identifica come dimensione di analisi primaria per l'analisi dei contributi, quello della prospettiva raggruppando in tre grandi filoni il pensiero prodotto fino agli anni 60. Le prospettive sono:  organizzazione come sistema razionale: le organizzazioni sono prima di tutto strumenti per raggiungere fini specifici che si avvalgono di forme diverse di razionalità della struttura;  organizzazione come sistema naturale, le organizzazioni sono prima di tutto una collettività quindi passano in secondo piano fini organizzativi e formalizzazione dei processi.  organizzazione come sistema aperto, cioè come sistemi in interazione dinamica con l'ambiente, trasformazione degli input ambientali. 4) Zan nella sua classificazione, mette in rilievo le novità di contenuto e di metodo che caratterizzano gli apporti più recenti, come: l'analisi longitudinale (centrata sullo sviluppo nel tempo dell'organizzazione), l'analisi interorganizzativa, l'economia organizzativa (si avvale di concetti economici), l'approccio culturale, la teoria delle decisioni, ecc. 5) Gherardi si sofferma invece sul metodo individuando alcuni approcci originali affermatisi più recentemente: apprendimento organizzativo (che analizza come le organizzazioni apprendano dall'esperienza per modificare la propria azione), l'approccio culturale e simbolico, le mappe cognitive, la semiotica (come chiave interpretativa dei prodotti culturali), l'approccio drammaturgico (che studia le organizzazioni come rappresentazioni teatrali). Si ha quindi una molteplicità di filoni e di approcci, il campo è decisamente variegato e in grande sviluppo. Negli ultimi anni si è andata affermando una linea incentrata più sui processi organizzativi (organizing) che sulle strutture organizzative, più sull'organizzare che sulle organizzazioni. Questo riflette anche i cambiamenti nella struttura profonda del mercato del lavoro, delle carriere e delle relazioni industriali. Tanto per fare un esempio la nascita dei lavori temporanei, a tempo determinato o part-time, ha sicuramente contribuito a svuotare di significato il concetto classico di commitment organizzativo; l'attaccamento alla dimensione lavorativa potrebbe essere meglio valutato per mezzo di una scala di commitment occupazionale, ovvero l'atteggiamento del lavoratore verso il “lavorare”. In modo analogo è stato introdotto il concetto di fiducia istantanea (swift trust) che deve aversi tra i diversi attori organizzativi dato che sempre più spesso i rapporti di lavoro sono destinati ad una breve durata e al raggiungimento di obiettivi specifici. Per questo è fondamentale che coloro che si interessano alla psicologia organizzativa mantengano una forte capacità reattiva nei confronti dei cambiamenti teorici e si sforzino di avere una visione d'insieme che permetta di integrare e far divenire complementari i diversi contributi e orientamenti teorici e di ricerca. CAP. 3: IL COMPORTAMENTO ORGANIZZATIVO La psicologia delle organizzazioni si interessa principalmente di quella parte del comportamento organizzativo che riguarda direttamente il soggetto nella sua qualità di appartenente all'organizzazione. L'organizzazione viene vista come un sistema sociale nel quale individui e gruppi si formano, scambiano e negoziano valutazioni e progetti su di sé e sul mondo. Per la psicologia organizzativa è rilevante capire come le persone giungano a rappresentarsi l'ambiente (esterno o interno) come propizio o sfavorevole, come ostile o benevolo. Da questa comprensione possono venire stimoli e indicazioni per identificare i 15  l’internalizzazione, in cui il soggetto percepisce la richiesta come coerente con il proprio modo di pensare e di vedere la situazione e si impegna autonomamente nel comportamento richiesto;  l'identificazione, in cui il soggetto tende ad assumere lo stesso comportamento dell'agente d'influenza, per guadagnare l'approvazione e per divenire simile a lui, essendo mosso principalmente da bisogni di approvazione sociale. Un'altra classificazione delle fonti di potere è quella tra:  potere di posizione, dove il potere dei capi è dato dal fatto di ricoprire una data posizione organizzativa, che gli permette di utilizzare risorse specifiche; l'espressione “rendita di posizione” rende l'idea: chi occupa una determinata posizione ha potenzialmente, per questo solo fatto, una maggiore possibilità di vedere andare a buon fine i suoi tentativi di influenzare il comportamento degli altri membri;  potere personale, che riguarda le qualità personali, specifiche di un dato individuo (competenza tecnico-professionale, suscitare sentimenti positivi, di vicinanza emozionale, di identificazione, il carisma personale, ecc.) Ma questa classificazione non è di particolare aiuto per capire come funzionano le attività di comando, guida o indirizzo nelle organizzazioni, tanto meno aiuta a capire quali fattori siano maggiormente predittivi nel decidere cosa caratterizzi una “buona leadership” e su quali meccanismi psicosociali si fondi la capacità effettiva di gestire i gruppi nel contesto organizzativo. 2.1. Chi è un buon leader? Nonostante il tema della leadership nelle organizzazioni sia molto trattato tra gli psicologi che si occupano di comportamento organizzativo, non c'è molto accordo su che cosa sia davvero. Stogdill sostiene che esistono tante definizioni di leadership quante sono state le persone che hanno cercato di definire questo concetto. L'unico punto su cui sembra esserci concordanza è il fatto che ci siano in causa dei meccanismi di influenza; minor accordo esiste però sulle caratteristiche di questa influenza. Alcuni considerano la leadership un processo originato principalmente dai capi formali nell'esercizio del loro ruolo e l'attenzione viene focalizzata sulle azioni del leader, sulle condizioni che ne favoriscono o meno il successo e sulle modalità di relazione con i subordinati. Altri studiosi mettono invece l'accento sul fatto che la leadership è sostanzialmente un processo sociale e quindi l'attenzione è concentrata sul modo in cui i diversi membri del gruppo possono svolgere le funzioni di leadership a seconda delle loro caratteristiche personali e sulle dinamiche di interazione e reciproco influenzamento. In un gruppo di lavoro è relativamente facile riconoscere chi si comporta da leader: i leader tendono ad avere un numero maggiore di interazioni con gli altri membri del gruppo, le soluzioni da loro proposte vengono più frequentemente accettate messe in pratica, nelle situazioni critiche gli altri membri fanno riferimento a loro, ecc. Ciò che è più difficile da capire è quali siano i meccanismi che fanno di una persona un leader. Ci sono due categorie di fattori capaci di spiegare una leadership efficace: le caratteristiche personali e le caratteristiche della situazione. Per quanto riguarda le prime, il senso comune e la storia suggeriscono che alcune persone “abbiano la stoffa” del leader e possano imporsi in ogni situazione. Eppure la ricerca empirica ha senza alcun dubbio dimostrato che il possesso di alcune caratteristiche personali aumenta la possibilità di riuscire come leader ma nessuna assicura il successo, perché l'importanza relativa dei diversi tratti dipende dalla natura della situazione in cui si esercita la leadership (le qualità che servono per essere un ottimo abate in un monastero non coincidono con quelle che rendono efficace un amministratore delegato di un'azienda che opera in un mercato turbolento). Tra le caratteristiche di tipo personale troviamo:  elevati livelli di attivismo e capacità di tollerare lo stress;  maturità emozionale intesa come capacità di controllare i propri impulsi e inclinazione a non assumere atteggiamenti autodifensivi in caso di difficoltà o errori;  integrità intesa come capacità di mettere in atto comportamenti coerenti con i valori affermati e come affidabilità morale;  fiducia in se stessi; 16  abilità tecniche, concettuali interpersonali e gestionali. Per quanto riguarda le caratteristiche della situazione possiamo dire che la leadership è influenzata da alcune variabili situazionali come il tipo di compito, le caratteristiche del gruppo di lavoro e quelle dell'ambiente organizzativo. Quindi una leadership efficace non è semplicemente il frutto di doti personali ma dipenda anche dall’interazione con le caratteristiche della situazione concreta: in altri termini non c’è uno stile di leadership adatto a tutte le situazioni. 2.2. Che cosa fa un leader? Alcune ricerche si sono interessate a descrivere i comportamenti reali dei leader. Queste ricerche hanno chiarito che il leader non è solo colui che pianifica e che controlla il lavoro della propria squadra, ma chi svolge un'attività che potremmo chiamare di "manutenzione" complessiva, che riguarda, oltre alle attività di pianificazione, assegnazione del lavoro, controllo, assegnazione di premi e punizioni, anche altre attività quali facilitazione nell'introduzione di nuovi mezzi tecnici ed eventuali aiuti a superare le difficoltà incontrate nel tenere il passo con l'innovazione tecnologica, o anche creare una visione condivisa delle priorità da rispettare nell'assolvimento dei compiti lavorativi, ecc. Possiamo classificare le diverse aree di attività della leadership in quattro grandi categorie generali: 1. decidere (pianificazione e organizzazione, soluzione di problemi, consultazione, delega); 2. influenzare (motivazione, riconoscimento, ricompense); 3. gestire l'informazione (controllo, chiarimento, informazione; la creazione, la manutenzione e lo sviluppo di una rete di flussi informativi è una delle attività che contraddistingue le posizioni di responsabilità); 4. costruire i rapporti (supporto, gestione dei conflitti, interconnessione, sviluppo e assistenza). Quest'ultima dimensione della leadership è molto importante se si considera la necessità di poter contare sul contributo che i lavoratori possono offrire alla produzione, soprattutto dove la complessità dei processi produttivi ha lasciato spazi di discrezionalità ed autonomia. Ma se è vero che questo pieno utilizzo può essere impedito da una non disponibilità assoluta del lavoratore di andare oltre l'impegno contrattualmente stabilito, è anche vero che può esserlo anche e soprattutto da uno stile di direzione e di gestione che non fa nulla per suscitare questo impegno. Una traduzione di questa funzione manageriale è il filone di ricerca e di intervento dell’empowerment, la cui idea di fondo è che è possibile attivare un processo che aiuti le persone ad uscire da una condizione di assenza di potere e di controllo percepiti sul proprio agire, ampliando gli spazi di autonomia e di partecipazione alla conduzione dell’attività lavorativa nelle organizzazioni. Claudia Piccardo descrive il lavoratore empowered come una persona con un tipico quadro di personalità narcisistica, eppure capace di collaborare con altri attori organizzativi per produrre la prestazione utile a perseguire i risultati collettivi attesi; sono le persone cha amano il proprio lavoro perché fanno ciò che meglio utilizza le loro potenzialità, sono divertite dal lavoro, ottimiste, fiduciose nelle proprie capacità e nel supporto che potranno trovare in caso di difficoltà; sono dotate di autostima, in grado di esercitare un controllo sul proprio destino e su quello della propria organizzazione, di dare senso e significato a ciò che fanno. Un dirigente che si ponga l'obiettivo di avere dipendenti epowered incentrerà una parte rilevante della sua strategia sulle attività collocate nell'area della “creazione di rapporti”. McGregor analizza le modalità con cui vengono dirette le persone nelle organizzazioni e trova che molti dei problemi derivanti da scarso coinvolgimento, disaffezione lavorativa, bassa accettazione degli scopi organizzativi, motivazione al lavoro di tipo strumentale, sono dovuti al fatto che i dirigenti sembrano accettare implicitamente una teoria dell'uomo che egli chiama Teoria X. In altre parole i dirigenti si comportano come se pensassero che le persone sono in genere incapaci di assumersi responsabilità nel lavoro, di qui uno stile di direzione che fa affidamento su regole restrittive, controlli e incentivi di tipo soprattutto economico. McGregor contrappone a questa teoria un'altra visione dell'uomo al lavoro, che chiama Teoria Y secondo la quale le persone sono invece portate a impegnarsi e a responsabilizzarsi se la situazione lo permette e le incoraggia; in questo caso il dirigente sceglierà linee di azione che evitino approcci troppo direttivi e che incoraggino i lavoratori alla partecipazione e all'assunzione di responsabilità. 17 A partire da quest'osservazione alcuni autori (Likert; Blake e Mouton) hanno identificato l'attività direzionale come combinazione di due tipi di orientamento del capo, tra loro ortogonali: un interesse per la produzione (per il fatto che il compito venga portato a termine) e un interesse per le persone (per il fatto che operino in situazioni tali da consentire loro di sviluppare autonomia e di ridurre al minimo gli effetti negativi connessi a lavorare). 2.3. I buoni leader sono flessibili? La risposta che ci viene dalle ricerche è che una leadership efficace deve esercitare flessibilità e adattamento per adeguare in qualche modo lo stile di direzione alle caratteristiche delle persone da coordinare. Quest'approccio è noto come modello della contingenza della leadership ed è caratterizzato dall'ipotesi che differenti tipi di direzione sono efficaci in condizioni diverse. L'ipotesi è stata largamente verificata, mentre più difficile è individuare quali siano gli elementi della situazione contingente che convenga prendere in considerazione per adattarvi lo stile di leadership. Fiedler (1967) arriva alla conclusione che il leader che vuole svolgere un'azione efficace, deve tener conto di quanto la situazione concreta gli sia favorevole. Il leader, nella situazione reale, deve valutare come si combinano tre fattori: la qualità delle relazioni esistenti tra il leader e i subordinati, il grado di strutturazione del compito da svolgere, il potere di cui il leader dispone. Dalla combinazione di questi tre fattori si individuano delle situazioni tipo, nelle quali possono risultare efficaci strategie diverse più orientate alla relazione e al clima del gruppo o invece più incentrate sul raggiungimento degli obiettivi lavorativi. Questo contributo mette in luce l’importanza di scegliere la strategia appropriata in funzione delle caratteristiche contingenti della situazione abbandonando l'idea che le qualità personali siano sempre da considerarsi delle risorse su cui il leader può contare. Fiedler indaga anche il rapporto tra risorse cognitive e prestazione del leader. Le ricerche empiriche non hanno mai dimostrato correlazioni significative tra le risorse cognitive o i livelli di esperienza e l'efficacia del leader; eppure il senso comune ci dice di dubitare che intelligenza ed esperienza non siano di aiuto ad una condotta efficace. Fiedler sostiene che sono il livello di stress sperimentato il tipo di compito a fare la differenza. Ci sono compiti che richiedono un notevole impegno intellettivo e compiti che possono essere svolti in modo automatico e in base all'esperienza. In situazioni in cui il leader sperimenta uno stress moderato e con compiti del primo tipo è possibile attendersi una correlazione positiva forte tra abilità cognitive ed efficacia. Con uno stress elevato e compiti del secondo tipo vi è invece una correlazione positiva forte tra il livello di esperienza del leader e l'efficacia della sua azione e l'esercizio delle abilità cognitive provoca solo intralcio. Lo stesso risultato può essere spiegato separando, per ogni specifico compito di leadership, tre livelli di esigenze: di tipo organizzativo (ad esempio prendere decisioni sulle risorse), relative allo svolgimento del compito (sostituire un componente della squadra se viene a mancare), di tipo individuale (padroneggiare situazione di stress elevato). Per ogni compito di leadership è quindi possibile disegnare una sorta di "profilo di posto" del leader, sulla base della combinazione dei tre livelli di esigenze. Questo ci permette di abbandonare l'idea che considera la figura del leader come unitaria e monolitica. Questa concezione può riguardare tutt’al più i leader carismatici, che devono dimostrare di essere invulnerabili ma nella vita normale “i capi” sono e devono essere considerati delle persone normali e quindi vulnerabili. Questo aiuterebbe a creare modelli di diagnosi e di intervento su una leadership efficace e non sul leader efficace, che non esiste. Ma nella storia – passata e recente – ci sono moltissimi casi in cui si assiste all'emergere di una figura che riesce a guidare popoli o a creare organizzazioni che divengono potentissime: sono specifiche situazioni in cui sia il leader sia i membri del gruppo o organizzazione partecipano a un legame nel quale la componente emozionale ha un notevole rilievo. I concetti di leadership carismatica e trasformazionale nascono infatti per cercare di spiegare l'influenza eccezionale di alcune persone e il loro successo nel motivare gli altri membri a prestazioni sopra la media. I due concetti sono però diversi: nella leadership carismatica l'attenzione è posta sull'azione della persona del leader, capace di entusiasmare i membri, di proporsi come modello, di mantenere elevata la fiducia dei 20 che il bisogno di mantenere l'immagine di sé in relazione agli altri e l'importanza degli atteggiamenti legati all'appartenenza al gruppo influenzano il processo di riduzione; spiegazioni del quarto livello si danno quando si ritiene che il processo di riduzione della dissonanza sia il prodotto di un'ideologia che vede l'individuo come autonomo e coerente. 4.1. Pensare per processi: interdipendenze e sensemaking Weick sostiene che bisogna pensare per processi se si vogliono cogliere le qualità dell'organizzare. Quindi l'organizzazione non è più vista come un insieme di strutture ma come un divenire continuo di processi di interdipendenza. Secondo Weick ci sono tre processi centrali attraverso cui le persone interagiscono: 1. l'attivazione che consiste nel mettere a fuoco alcune parti dell'esperienza del soggetto: gli eventi della vita quotidiana nell'organizzazione non sono dati ma richiedono un'interpretazione e gli individui “costruiscono” il loro ambiente mettendo a fuoco parti specifiche fra tutte quelle disponibili; 2. la selezione che consiste nel circoscrivere le interpretazioni effettuate prima, dando un significato possibile e compatibile con la situazione agli input ambigui classificati nel processo di attivazione; 3. la ritenzione con cui queste strutture di significato vengono immagazzinate per altri utilizzi, divengono dei “pattern” costituendo così una base per la relativa stabilità dei processi organizzativi. Nelle organizzazioni diviene quindi di centrale importanza anche il modo in cui le procedure di riduzione dell'ambiguità vengono “messe in memoria” e quelli utilizzati per renderle disponibili. Il ciclo Attivazione-Selezione-Ritenzione è dotato di circuiti di retroazione: sia i processi di attivazione dell'ambiente che quelli di selezione dei significati dipenderanno dai risultati precedenti e dunque dagli esiti dei processi di ritenzione. L’approccio cognitivo di Weick ruota sul concetto di un sensemaking o "creazione di senso". L'idea che sta alla base è che negli eventi organizzativi c'è molta imprevedibilità e ambiguità il che richiede un'intensa attività di ricerca di senso e di attribuzione di qualche forma di ordine all'ambiente. L'idea di fondo si colloca nell'approccio sociocostruzionistico e dell'interazionismo simbolico, per i quali il soggetto, ha un ruolo centrale nell'interpretare la realtà e nel costruire i significati nell'interazione sociale. L'attività di sensemaking si giustifica per il fatto che la realtà non è un dato ma è continuamente in via di realizzazione: le persone, per creare una sorta di equilibrio e coerenza cognitivi, cercano di attribuire un ordine all'ambiente, in modo da stabilizzare momentaneamente l'ambiguità insita nel flusso di eventi organizzativi. Il sensemaking viene descritto sulla base di 7 caratteristiche: 1. fondato sulla costruzione dell'identità: trattandosi di un processo relazionale mette in gioco l'identità delle persone: non solo perché il loro stesso sé può essere oggetto di costruzione di significato a partire da un’ambiguità percepita nel rapporto con l’ambiente ma anche perché lo stesso creatore di senso è un enigma permanente che sottostà ad una continua ridefinizione, coincidente con la presentazione agli altri di un certo sé e nel tentativo di decidere quale sé sia appropriato; 2. retrospettivo: anche se è un processo attenzionale che si compie in un momento attuale, c'è sempre il richiamo degli eventi dalla memoria, a ciò che è già avvenuto. 3. capace di creare ambienti sensati cioè attribuire un ordine all'ambiente riducendo in questo modo le ambiguità; 4. a carattere sociale: non è possibile concepire una creazione di senso svincolata dall'interazione sociale: il comportamento è, per definizione, sociale e gli altri ci influenzano anche se non fisicamente presenti; 5. continuo nel tempo: il sensemaking non ha un inizio e una fine ma è un processo continuo legato in qualche modo alle emozioni. Le persone nell'organizzazione è come se avessero continuamente a che fare con “progetti”: emozioni positive o negative possono essere originate da un'interruzione nei progetti, a seconda se il progetto interrotto sia un'attività spiacevole o significativa per il soggetto. Nelle organizzazioni l'attuazione di progetti è più spesso rallentata che non accelerata, quindi sono maggiori le condizioni per produrre emozioni negative. 6. collegato a informazioni selezionate: in modo simile a quello in cui si producono gli schemi d'azione, il sensemaking seleziona una parte della realtà secondo logiche che sono dipendenti dalla cornice 21 (frame) in cui il processo si compie: il soggetto effettua una categorizzazione in base all'interazione tra le sue caratteristiche e quelle del contesto organizzativo in cui si trova immerso (accessibilità, salienza, coerenza con lo stato emotivo, ecc). 7. tendente alla plausibilità, più che all'accuratezza: questo non stupisce visto lo stretto legame con l'azione, infatti, la maggior parte delle azioni che si svolgono nell'organizzazione ha il tempo come parametro importante che può decidere il successo o l'insuccesso. Inoltre il fatto che il sensemaking sia una ricostruzione odierna con logica retrospettiva di fatti del passato, rende poco rilevante la questione dell'accuratezza: il passato è una “ricostruzione” ovvero non viene ricordato esattamente come è avvenuto e quindi l'accuratezza ha poco senso. Weick sostiene che la condivisione degli obiettivi in un'organizzazione non ne costituisce la ragione dell'esistenza e nemmeno il collante principale; l'unità di analisi è la "doppia interazione" (qualcuno compie un'azione che richiama una risposta di un altro, alla quale il primo risponde ancora). Quando nelle organizzazioni il comportamento delle persone si basa sul reciproco sistema di mezzi-fini, per cui il mio comportamento è per te un mezzo per un tuo scopo e viceversa, prevedibile in circostanze date, e altri comportamenti successivi possono essere probabilisticamente collegati ai primi, si crea un sistema di interdipendenza, che si appoggia sulla possibilità di prevedere i reciproci comportamenti: non c'è bisogno di condividere i fini e nemmeno di adottare le medesime spiegazioni del processo se il requisito della mutua prevedibilità è soddisfatto. 4.2. Mappe cognitive: come muoversi tra i processi Le persone che danno vita a processi organizzativi sono soggetti umani posti di fronte a richieste di prestazione e, come tali, utilizzano forme di rappresentazione della situazione, che è sicuramente sintetica, semplificata, a volte addirittura errata. Questo significa assumere che i soggetti siano capaci di rappresentarsi, in modo più o meno efficace, se stessi, l'ambiente in cui operano e la relazione tra se stessi e quest'ambiente. Il comportamento organizzativo è un tipo di comportamento sociale, dunque si può assumere che le persone attivino processi simili a quelli che la social cognition ci ha mostrato essere in atto della vita quotidiana. Quando si rappresentano una situazione, le persone tendono a:  operare semplificazioni cognitive: orientare l'attenzione verso i punti critici del problema da risolvere;  ridurre dissonanze percepite tra le informazioni disponibili o tra atteggiamenti e comportamenti;  cercare conferme piuttosto che disconferme alle nostre ipotesi sul perché si verificano certi eventi;  ridurre l'incertezza e la tensione che può derivarne ridefinendo la situazione in modo congruente a questo scopo. Processi del tutto analoghi sono in atto anche nelle organizzazioni dove le persone sono chiamate a fornire spiegazioni di eventi e previsioni riguardanti il sistema. Ma con quale modalità i membri dell'organizzazione si rappresentano il funzionamento del sistema? Weick e Bougon parlano di mappe causali. I membri dell'organizzazione ordinano la propria esperienza organizzativa strutturandola in disegni di conoscenza personale: la rappresentazione di questa conoscenza è chiamata mappa cognitiva che è formata dai concetti e dalle relazioni che un partecipante utilizza al fine di comprendere le situazioni organizzative. Se ci limitiamo alla mappatura delle sole relazioni di causalità, abbiamo una forma più specifica di mappa cognitiva, chiamata mappa causale. Questa si sviluppa man mano che la mente riflette sull'esperienza, costruisce concetti sotto forma di variabili e fa dei collegamenti tra queste variabili, facendo loro acquistare di senso e di significato. Queste mappe causali diminuiscono l’ambiguità perché mettono in relazione i concetti e perché impongono strutture a situazioni dai confini vaghi. Nello studio del comportamento organizzativo l'interesse per mappe di tipo individuale è limitato, più importante è invece il problema di come più individui possono giungere a qualche forma di condivisione della mappa dell'ambiente in cui tutti loro si trovano ad operare. 22 Per Weick e Bougon non è necessaria un'effettiva condivisione della mappa ma soltanto la presenza di una doppia interazione (si tratta di instaurare una sequenza coordinata che permetta a ciascun membro il perseguimento del proprio scopo). Studi successivi hanno portato a riconsiderare l'importanza della condivisione di mappe mentali del compito tra i membri di una stessa squadra, soprattutto quando si tratta di compiti con alta tecnologia ed esigenze di coordinamento. Questo costrutto è denominato modello mentale della squadra o team mental model. Si usa il termine team o squadra al posto del termine "gruppo di lavoro" in generale, in quanto ci si riferisce a gruppi specifici in cui cooperazione e adattamento reciproci sono molto importanti per ottenere una prestazione soddisfacente e, inoltre, ruoli e responsabilità sono definiti e scarsamente intercambiabili. Si è osservato che nei team particolarmente efficienti i membri tendono a condividere qualche forma di definizione comune della situazione di lavoro (es. equipe chirurgiche, squadre di pronto intervento in situazioni critiche, ecc). In sintesi, un modello mentale è una rappresentazione psicologica dell'ambiente e del suo comportamento atteso; il suo ruolo è quello di fornire una cornice concettuale per descrivere, spiegare e predire gli stati futuri del sistema, permettendo alle persone di comprendere i fenomeni, fare inferenze, decidere quali azioni intraprendere. Un modello mentale di team è una rappresentazione orientata all'azione: si struttura con uno script, un copione comportamentale che permette al team di sfruttare alcune routine sedimentate dall'esperienza passata e di ristrutturare così disegni di risposta alle principali esigenze del compito, senza dover ogni volta riprocessare tutta l'informazione dall'ambiente; sono raccolte di conoscenze dichiarative (sul compito e sulla situazione) e procedurali (sul come affrontare il compito e la situazione per ottenere risultati). I modelli mentali di team sono costrutti difficili da indagare perché ipotetici: si devono costruire situazioni di ricerca nelle quali i comportamenti osservati si possano spiegare utilizzando la variabile oggetto di studio, avendo come obiettivo quello di sostenere che se il modello mentale non esistesse non si potrebbero spiegare altrettanto efficacemente i fenomeni ottenuti. Alcune ricerche hanno evidenziato però che i modelli mentali di team aumentano la probabilità di prestazione efficiente solo se offrono ai membri del gruppo la possibilità di avere rappresentazioni compatibili dell'intera situazione e non solo delle informazioni necessarie a descrivere lo stato attuale del sistema. Oltre a descrivere la situazione, i modelli mentali servono anche a spiegare e prevedere: spiegare è un processo di tipo induttivo (le osservazioni vengono mappate ed elaborate in interpretazioni), prevedere è, invece, un processo di tipo deduttivo (con le mappe elaborate si passa da strutture di conoscenza generale a previsioni specifiche della situazione). Bisogna quindi far attenzione ad una molteplicità di informazioni, interrelate ma appartenente a domini diversi. Per questo si parla di modelli mentali multipli, i cui quattro modelli principali sono:  un modello mentale dei mezzi tecnici che riguarda il funzionamento dei diversi strumenti che vengono utilizzati nello svolgimento del compito, alle procedure da usare con questi, ai limiti che questi hanno, fino ai malfunzionamenti (grado di stabilità nel tempo relativamente alto);  un modello mentale del compito che riguarda le procedure previste per svolgerlo, le circostanze particolari che possono verificarsi nel suo svolgimento, le strategie che possono tornare utili per far fronte alle diverse esigenze del compito, ecc. (grado di stabilità nel tempo media);  un modello mentale delle interazioni all'interno del team che si riferisce alla configurazione del sistema di ruoli e responsabilità tra i membri e a come interagire reciprocamente (la stabilità nel tempo è media);  un modello mentale del team stesso: per operare in modo ottimale è opportuno che ciascun membro abbia una buona conoscenza delle capacità, delle preferenze e delle conoscenze di ognuno degli altri (grado di stabilità nel tempo minore). 4.3. La negoziazione dei processi 25 La stabilità è concepita come un equilibrio provvisorio tra forze contrastanti, quest'equilibrio rappresenta tuttavia una condizione tendenzialmente capace di rimanere immodificata. Per questo motivo, la prima operazione richiesta per introdurre un cambiamento è lo scongelamento dell'equilibrio attuale: è necessario che questo venga visto come uno stato non più desiderabile, prima che si possa creare un nuovo diverso equilibrio. Quest'operazione può essere condotta sia lavorando direttamente contro la situazione, sia riducendo le forze che la sostengono. A questo punto è possibile intervenire favorendo lo sviluppo del cambiamento voluto, sempre utilizzando una combinazione di azioni volte a sostenere la nuova situazione e di azioni volte invece a ridurre le opposizioni ad essa: il sistema, infatti, è ora in situazione di disequilibrio o meglio è alla ricerca di una nuova condizione di equilibrio. Quando si raggiunge una situazione quasi stazionaria, bisogna rendere sufficientemente stabile l'equilibrio che si è appena prodotto. È la fase di ricongelamento in cui gli sforzi sono diretti a rendere naturale il nuovo assetto. Il modello di Lewin ha attirato l'attenzione di chi opera nelle organizzazione. Edgar Schein applica il modello lewiniano a un contesto di tipo clinico, come la consulenza di processo. Egli distingue tre modelli di consulenza: la consulenza come erogazione di informazioni o di competenze specifiche, la consulenza del tipo medico-paziente, la consulenza di processo. Nel primo modello il consulente è colui che fornisce al cliente delle informazioni o competenze che quest'ultimo non possiede; tuttavia è necessario che il cliente possieda abilità diagnostiche della propria situazione individuando correttamente il problema e deve poi saper trasferire le informazioni al consulente. Il secondo modello medico-paziente è una variante del primo, in quanto il consulente ha in più anche il compito di effettuare la diagnosi della situazione, che il cliente di solito arriva solo a definire come problematica. Inoltre il cliente deve anche essere disposto “a prendere la medicina” e anche questo non è facile. Queste due prime forme di consulenza sono difficili per il cliente, sia per le capacità che si presuppone possieda, sia per la sostanziale estraneità/passività che deve tenere. La consulenza di processo sembra invece in grado di fornire le condizioni più idonee per favorire la dinamica del cambiamento. Consiste in un insieme di attività, fornita dal consulente, che hanno lo scopo di aiutare il cliente a percepire, capire e agire sugli eventi che si verificano nel suo ambiente. La caratteristica centrale di questo modello è la partecipazione attiva del cliente: l'obiettivo è che egli apprenda a diagnosticare, progettare e mettere in pratica autonomamente i cambiamenti opportuni. Il problema diventa quello di capire come favorire nel cliente lo sviluppo di questa capacità di gestione del cambiamento. Schein offre una soluzione riprendendo le tre fasi (congelamento, cambiamento, ricongelamento) di Lewin. Per quanto riguarda la prima fase, quella dello scongelamento, Schein sostiene che per predisporsi a lasciare una situazione consolidata devono verificarsi tre precondizioni: la prima è che il soggetto interessato vada incontro a qualche forma di disconferma (può trattarsi di informazione nuova capace di cambiare la sua valutazione su una situazione); la seconda condizione è l'induzione di un senso di colpa o di ansietà: l'informazione ha maggiori probabilità di essere recepita se rivela il mancato conseguimento di obiettivo importante (ansietà) o la violazione di un ideale personale (senso di colpa); la terza condizione affinché il processo di scongelamento possa prodursi è la creazione di sicurezza psicologica: il consulente dovrebbe fare in modo che la condizione negativa legata al sentimento di ansietà o di colpa del cliente non giunga al punto di mettere in discussione l'autostima e il senso di identità personale del cliente stesso. La seconda fase, quella di cambiamento vero e proprio, va affrontata secondo Schein prestando attenzione a due componenti del processo attraverso il quale cliente può arrivare a ristrutturare cognitivamente la propria definizione della situazione: una componente di identificazione è una di esplorazione. Secondo la prima il cliente ha bisogno, in questa fase di cambiamento, di identificarsi con un modello adeguato; è importante cioè avere a disposizione l'esperienza di altri che possa servire da riferimento; con la seconda invece il cliente è invitato ad esplorare la nuova situazione, per ricercare soluzioni nuove anche attraverso il confronto con altri punti di vista e altri modelli operativi. Anche la terza fase, quella di ricongelamento, si focalizza su due punti: il ricongelamento personale e il ricongelamento relazionale. Il primo punto si riferisce al fatto che il cambiamento deve essere congruente alle strutture di pensiero e di valore che caratterizzano il cliente; il secondo punto si riferisce al fatto che il 26 cambiamento per stabilizzarsi ha bisogno anche di un lavoro di negoziazione e confronto con gli altri attori con cui il cliente interagisce. Schein traduce in un linguaggio clinico e pragmaticamente orientato all'intervento concreto nelle organizzazioni di lavoro le intuizioni che Lewin aveva formulato pensando ad una teoria del cambiamento sociale: nel lavoro di Schein viene messa in secondo piano quell'interazione sociale così importante per Lewin. 1.3. Le caratteristiche della ricerca-azione Si possono identificare diverse tipologie di ricerca-azione, ma tutte condividono cinque caratteristiche: 1) la modificazione del sistema ha come obiettivo di generare conoscenza critica sul sistema stesso: la ricerca-azione vuole modificare un contesto sociale utilizzando i risultati ottenuti per giungere ad un'ipotesi di nuovo equilibrio provvisorio del sistema; 2) la procedura è tipo sperimentale; cosa cambiare, quando e come farlo sono scelte dettate dal principio di validità della ricerca. Se le modificazioni vengono introdotte senza un adeguato disegno di ricerca può capitare di registrare un mutamento nel sistema senza però essere in grado di attribuirlo con la dovuta probabilità all'una o all'altra delle modificazioni introdotte; 3) il coinvolgimento degli interessati è indispensabile per diversi motivi. Le probabilità di stabilizzare cambiamenti significativi aumentano se il processo di scongelamento e modifica è attuato con la partecipazione attiva degli interessati. Infatti, alla luce degli studi sull'impegno (Kiesler 1971, Teoria dell'impegno: le persone tendono a mantenere coerenza tra comportamento e idee ma soprattutto tra comportamenti successivi nel tempo, soprattutto se pubblici; una promessa pubblica a fare qualcosa aumenta la probabilità che il comportamento venga effettivamente assunto) si può vedere che il coinvolgimento diretto degli interessati può aumentare la probabilità che il cambiamento si verifichi e si stabilizzi. Quindi è importante predisporre interventi che diano modo ai diretti interessati di esprimere il proprio punto di vista e di contribuire a definire le linee dei progetti di cambiamento organizzativo; 4) l'apprendimento dei soggetti coinvolti è un esito importante del processo: uno dei requisiti della partecipazione è la possibilità di controllare l'ambiente e la percezione di essere in grado di controllarlo. Questo assunto richiama il concetto di autoefficacia di Bandura che, nell'apprendimento organizzativo, per i soggetti coinvolti significa:  sentirsi in grado di comprendere la situazione attuale, le cause che l'hanno prodotta e fare previsioni sugli sviluppi futuri;  percepire di poter esprimere il proprio punto di vista sugli eventuali progetti di cambiamento;  la capacità di fronteggiare gli sviluppi futuri senza la presenza di un aiuto esterno (consulenti, esperti, capi, ecc.);  sulla base di queste condizioni, impegnarsi effettivamente per ottenere o mantenere uno spazio decisionale di controllo sull'ambiente organizzativo e sui suoi possibili sviluppi. Ne deriva che i diversi passi della ricerca devono essere progettati tenendo presente il livello di competenza posseduto dai soggetti coinvolti e i livelli di apprendimento giudicati auspicabili perché la partecipazione si fondi su una competenza sufficiente. In assenza di tale processo di apprendimento, gli eventuali cambiamenti introdotti dureranno quanto dura il supporto esterno ad essi, sia che si tratti della presenza del consulente oppure di premi o punizioni straordinari. 5) L’apprendimento è importante soprattutto in quanto rende i soggetti coinvolti capaci di intraprendere azioni specifiche sul sistema: la ricerca azione nasce per consentire ad un sistema sociale di mantenersi in efficace rapporto con il suo ambiente. Quindi oltre l'apprendimento è importante un'effettiva messa in atto di azioni volte a sperimentare, attuare e stabilizzare i cambiamenti voluti. Questo non significa che tutte le ricerche-azione, per dirsi riuscite, debbano veder realizzati tutti i cambiamenti voluti: anche dai fallimenti, dalle mancate verifiche delle ipotesi di partenza, se ben analizzate, si possono trarre conclusioni utilissime da utilizzarsi come feedback per riorientare l'azione. 1.4. Tipi di ricerca-azione 27 Drenth propone una tipologia dei diversi tipi di ricerca-azione, raffigurandola come uno schema in successione del processo di azione:  Ricerca preliminare: prima dell'azione si colloca un'attività di ricerca preliminare che ha lo scopo di valutare la fattibilità di un dato corso d'azione (Es. uno studio pilota sull'accettabilità di modifiche al tipo di vestiario di una squadra di pronto intervento);  Ricerca-azione: durante lo svolgimento dell'azione di modifica si ha la ricerca-azione vera e propria, che può essere di tre tipi: 1. il primo tipo è strumentale e serve da supporto all'azione, in quanto è una sorta di monitoraggio dell'andamento dell'intero processo per decidere se necessita di modifiche in corso d'opera; deve essere situata nei momenti che si ritengono critici e deve comunque essere predisposta fin dall'inizio del processo, sia perché stabilire dei punti di osservazione lungo il percorso permette di mantenere fonti di informazione anche durante i momenti in cui si devono affrontare le difficoltà, sia perché l'attivazione di un percorso di monitoraggio indipendente da come vanno le cose è un segnale importante per le persone coinvolte, visto che di solito i “capi” hanno l'abitudine di convocare i collaboratori solo quando si verifica un problema, partendo dal presupposto che se le cose vanno bene è merito dell'organizzazione del lavoro e quindi non c'è bisogno di parlarsi, mentre se vanno male allora la colpa è di qualche lavoratore che non ha fatto ciò che doveva nel modo giusto; 2. il secondo tipo di ricerca è quella di feedback, in cui il ricercatore restituisce i dati della ricerca ai soggetti interessati e li sottopone a discussione. Questo ha due obiettivi principali: a) ridurre le minacce alla validità di ricerca provenienti da interpretazioni erronee dei dati raccolti, in quanto il ricercatore può confrontare le proprie interpretazioni con quelle dei soggetti coinvolti; b) aumenta il coinvolgimento degli interessati e di conseguenza li predispone ad una partecipazione attiva alla progettazione e alla messa in atto del cambiamento voluto; 3. il terzo tipo di ricerca è l'autoricerca in cui il gruppo interessato si fa carico della progettazione e dell'esecuzione della ricerca stessa ed è il gruppo che dà inizio al processo di cambiamento. Viene dalla psicologia di comunità e non è molto diffusa nelle organizzazioni. Il ruolo dello psicologo è essenzialmente quello di consulente tecnico del gruppo che conduce la ricerca sulla sua stessa situazione di lavoro;  Ricerca valutativa: ricerca che si colloca nella fase successiva all'azione di cambiamento vera e propria. L'obiettivo che si propone è quello di valutare gli esiti delle azioni di cambiamento intraprese cioè a quali risultati è approdata l'azione. Quindi studia le modifiche nei comportamenti utilizzando diverse tecniche di raccolta dei dati. 2. Valutare attività organizzative Nelle attività organizzative non si può fare a meno di qualche tipo di valutazione. In generale, essa consiste nel rispondere a tre tipi di domande: 1. Cos'è successo e che cosa sta succedendo? 2. Ciò che è successo e che sta succedendo corrispondere a quanto si voleva realizzare? 3. Come si può modificare il corso d'azione intrapreso o stabilizzarlo? Su questo tipo di domande si è costruito un corpus di conoscenze detto tecniche di valutazione (evaluation). La valutazione, nel tempo, è passata da tecnica di tipo prevalentemente statistico fino ad allargare i suoi interessi ad una maggiore considerazione per il comportamento degli individui e dei gruppi coinvolti, inserendovi anche una dimensione psicosociale. 2.1. Alcuni approcci alla valutazione Davis e Stecher propongono una classificazione dei diversi approcci alla valutazione centrata sull’identificazione dell’interesse prioritario del valutatore: 1. approccio sperimentale: si richiama al paradigma classico della ricerca scientifica. La preoccupazione principale è quella di ottenere risultati generalizzabili a partire dall'analisi di una specifica situazione organizzativa. Ci si avvale di un gruppo sperimentale e di un gruppo di controllo 30 svolgere attività di ricerca. I motivi sono essenzialmente due: esigenza di riservatezza e timore che l'attività organizzativa possa essere intralciata. Il ricercatore però può mettere in atto degli accorgimenti per superare questi ostacoli. Per quanto riguarda l'esigenza di riservatezza prima di raccogliere i dati sarà bene comunicare chiaramente ai responsabili dell'organizzazione:  gli scopi dell'indagine;  perché è stata scelta proprio quell'organizzazione;  il contenuto e il tipo di informazione che verranno raccolte;  gli strumenti utilizzati;  quale pubblicità verrà data ai risultati;  se vi sarà la possibilità per l'organizzazione di rivedere, prima della pubblicazione, il modo in cui sono presentati i risultati. Per quanto riguarda il timore di intralciare l'attività organizzativa il rimedio giusto sarebbe quello di dimostrare l'utilità dell'indagine per l'organizzazione stessa. Se questa utilità è cognitivamente troppo lontana o addirittura inesistente, si deve quanto meno cercare di rendere la propria azione il più chiara e meno intrusiva possibile. Secondo Hakel nel lavoro di ricerca non bastano soltanto le abilità metodologiche e di contenuto, ma occorrono anche abilità comunicative e relazionali proprio perché nelle organizzazioni c'è spesso da convincere altri della bontà dei propri progetti di ricerca, per ottenere sostegno. Quindi il ricercatore deve saper fare opera di persuasione, che consiste nel:  saper spiegare la logica generale di una ricerca (scopi, rapporto costo/benefici);  saper ascoltare e saper reagire ai punti di vista espressi dai responsabili (incoraggiare le espressioni di opinioni, chiarire i dubbi);  saper esporre le proprie idee e i propri progetti relativi alla ricerca (dimostrare una congruenza tra gli obiettivi del ricercatore e quelli dell'organizzazione);  saper ridefinire o riorientare gli obiettivi espressi dai responsabili organizzativi (mostrare i collegamenti tra gli obiettivi e i problemi specifici dell'organizzazione da un lato e i risultati della ricerca dall'altro);  saper identificare le proprie competenze specifiche come ricercatore (rivolgersi a colleghi più esperti in un campo dove si ha meno competenza);  saper raggiungere un accordo esplicito e consapevole (è importante per i responsabili delle organizzazioni, che si impegnano con il ricercatore, avere chiaro le attività da svolgere, le responsabilità e le risorse da mettere a disposizione). Quindi, in generale, possiamo dire che il ricercatore deve possedere oltre alla competenza tecnico- professionale specifica anche alcuni abilità sociali, tra cui:  una flessibilità cognitiva, per saper collocare il proprio punto di vista e il proprio scopo all'interno di un sistema creato dagli scopi degli elettori dell'interazione;  un decentramento psicologico, per saper assumere il punto di vista dell'altro nell'interazione;  una competenza comunicativa, per scegliere e mantenere i registri comunicativi adeguati all'andamento dell'interazione. Riassumendo, i fattori negativi da evitare sono:  l'errata identificazione dei problemi dell'organizzazione;  lo scarso appoggio dei membri interni all'organizzazione;  il cambiamento di elementi importanti della situazione o di persone chiave nell'organizzazione;  la presenza di aspettative non realistiche circa il contributo della ricerca alla soluzione dei problemi dell'organizzazione. I fattori facilitanti sono:  una corretta identificazione degli interessi in gioco e di chi ne è portatore;  una definizione chiara degli obiettivi del progetto;  una negoziazione adeguata ed esplicita delle risorse necessarie ed i tempi richiesti per disporre dei risultati; 31  modalità di comunicazione del progetto congruenti con gli scopi e le modalità comunicative degli interlocutori organizzativi. CAP. 5: LAVORARE NELLE ORGANIZZAZIONI 1. Un intervento di ricerca- azione: l’efficienza dei gruppi di lavoro In questo paragrafo verrà presentato un esempio di ricerca condotto a metà degli anni '90 in alcuni servizi sanitari di una regione italiana. L'oggetto dell'indagine era una diagnosi della situazione organizzativa dei servizi per le tossicodipendenze (SerT) in vista di un mutamento organizzativo e normativo che si sarebbe avuto nel giro di poco tempo. 1.1. Il contesto e gli obiettivi generali dell'intervento Il SerT è un'équipe composta da operatori di diversa professionalità (medici, psicologi, assistenti sanitari, educatori, ecc.) con lo scopo di fornire prevenzione e terapie nell'ambito delle dipendenze da sostanze. L'ente regione, che aveva richiesto l'intervento, era soprattutto interessata ad individuare un modello organizzativo di questi gruppi di lavoro che potesse essere in qualche modo generalizzato. Tuttavia si trattava di una forma organizzativa molto variabile in relazione a spinte ambientali, visioni culturali e scientifiche diverse, a diverse competenze professionali e storie personali lavorative, a successi e insuccessi ottenuti, che eroga servizi diversi e si rivolge ad utenti assai differenziati e problematici. Quindi accanto ai fattori istituzionali di organizzazione, assume forte rilevanza l'insieme degli atti e delle relazioni che ogni attore del servizio svolge nel contesto concreto; per questo motivo, il primo obiettivo della ricerca-azione fu quello di delineare le caratteristiche del SerT a partire dalle ricostruzioni fatte dagli stessi attori coinvolti sulla base dei loro punti di vista, della loro esperienza, dei loro atteggiamenti e credenze. In base a questa diagnosi si sarebbe tracciato un piano operativo. 1.2. Le fasi dell'intervento L'intervento si è svolto seguendo in fasi: 1. Individuare alcune unità organizzative SerT scelte in accordo con l'ente regione come rappresentative delle diverse situazioni locali; 2. Raccolta ed analisi dei documenti relativi ai SerT da considerare, previa presentazione a ciascuno dei responsabili dei significati della ricerca; 3. Definizione della scaletta di intervista aperta con i responsabili dei SerT e realizzazione di questa: prima occasione di incontro dei ricercatori con ciascuno dei responsabili che offre la possibilità di stimolare un coinvolgimento e una collaborazione, oltre alla possibilità di individuare, attraverso il confronto, un quadro d'insieme degli aspetti problematici dell'organizzazione, oltre alla possibilità di osservare direttamente le condizioni di contesto che caratterizzano i diversi SeRT; 4. Dal quadro delineato con i responsabili si è predisposto un dossier per ciascuno dei SerT. Inoltre si è reso necessario potenziare la componente osservativa della ricerca, quindi si è richiesto a ciascun SerT di ospitare due ricercatori per farli partecipare, in qualità di semplici spettatori, alle attività normalmente svolte, il che ha permesso di osservare e rilevare gli argomenti trattati nelle riunioni, gli stili di relazione, il modo di operare dei vari operatori. Inoltre la possibilità di restare ha consentito di superare con il tempo la fisiologica diffidenza verso i ricercatori e di aumentare le informazioni ricavandole anche dai colloqui informali che avvenivano durante la giornata; 5. La fase dell'intervista con ciascuno degli operatori, preceduta da una serie di riflessioni avvenute nel gruppo di ricerca, era composta da due parti distinte: nella prima, si voleva far valutare agli operatori una serie di esiti/risultati concreti della loro attività in quanto équipe da mettere in relazione con una serie di cause ritenute efficaci; la seconda parte era incentrata su alcuni dei processi di base della vita organizzativa (comunicazione, decisione, integrazione, stile di direzione, ecc.). Dopodiché i dati ottenuti sono stati elaborati qualitativamente e quantitativamente. 32 6. Elaborati i dati, gli operatori sono stati invitati a una riflessione comune sugli andamenti rilevati, cioè è stato proposto di ridiscutere i risultati con gli stessi soggetti che li avevano forniti. Quindi non si trattava solo di un'esposizione dei risultati ma di un processo di valutazione collettiva, in cui gli operatori hanno potuto suggerire integrazioni, correzioni, approfondimenti, ecc. È da sottolineare l'importanza di questo momento finale, in cui gli operatori sono stati chiamati – come gruppo – a riflettere sulla loro situazione organizzativa: questo ha offerto un'opportunità significativa per orientarsi verso prese di decisione anche operative assai rilevanti per lo sviluppo e il potenziamento del lavoro comune. 1.3. La logica dell'intervento Nella ricerca sui SerT sono stati distinti tre livelli di analisi:  livello micro - di équipe - in cui l'attenzione è stata diretta verso il suo funzionamento come gruppo di lavoro e le sue dinamiche interne (descrivere il sistema dei vincoli e delle risorse caratteristiche di ciascun gruppo e le sue modalità di combinare le une alle altre, come l'équipe si attrezza per rispondere alle esigenze dei compiti);  livello intermedio, dove entra in causa il rapporto tra SerT e altri servizi della stessa unità sanitaria, con la dirigenza e con l'assessorato regionale. Per la ricerca rimaneva centrale il livello di gruppo di lavoro, quindi gli altri attori organizzativi non erano oggetto di indagine diretta ma interessava solo il modo in cui il gruppo si collocava il rapporto con questi;  livello macro che fa riferimento al rapporto tra il SerT e le politiche sociosanitarie. Anche in questo caso questo livello rappresentava più uno sfondo per la descrizione del funzionamento dei singoli gruppi. Variabilità delle risposte organizzative. Sin dalle prime analisi effettuate dalla ricerca è emersa una spiccata variabilità dei modi con cui i singoli SerT traducevano in pratica gli obiettivi generali ad essi affidati. Anche se questa variabilità non era preoccupante (perché dovuta sia al piccolo numero di operatori che componeva le diverse equipe, sia alle diverse competenze professionali e ai diversi contesti operativi) diveniva importante capire come il sistema sociosanitario regionale potesse convivere con essa garantendo un adeguato controllo sulla qualità di servizio offerta ai cittadini. A questo proposito la ricerca scelse come campo privilegiato di indagine l’équipe come gruppo sociale studiandone il funzionamento interno e i fenomeni tipici di gruppo che influenzano la qualità della prestazione (processi di comunicazione, di integrazione, di leadership, strategie operative, ecc.). Poiché nella logica della ricerca-azione il cambiamento è considerato normale e fisiologico, tutto l'impianto ha cercato di cogliere la grande quantità di cambiamenti che ogni gruppo introduce continuamente nel suo modo di agire e interpretare la situazione; se poi questi cambiamenti siano e meno positivi per il gruppo e la sua prestazione è un altro discorso. Quello che era importante era che la metodologia della ricerca suggerisse ai partecipanti di considerare il cambiamento come naturale e non intrinsecamente drammatico; e questo è stato fatto proprio indirizzando sin dall'inizio l'attenzione dei partecipanti sull'esistenza di modalità specifiche e originali di dare risposta al problema di trattare la tossicodipendenza. 1.4. Gli strumenti della ricerca Si possono distinguere gli strumenti in due grandi categorie:  strumenti di conoscenza preliminare, tra cui abbiamo: l'intervista libera (adottata all'inizio della ricerca per reperire informazioni e instaurare un clima di collaborazione), l'analisi di documenti (bilanci annuali del lavoro dei SerT), l'osservazione diretta (presenza di un osservatore alla vita quotidiana lavorativa);  strumenti di indagine diretta, tra cui abbiamo: le mappe cognitive (rappresentazione sintetica, espressa con un grafico, che riporta i modi con cui i singoli operatori collegano una serie di risultati del loro lavoro con una serie di cause; le mappe cognitive individuali sono servite da base per costruire una mappa cognitiva comune attraverso la quale sono stati esplicitati gli elementi importanti su cui poi si è potuto discutere per mettere in luce le ragioni di certi legami, il significato 35 in questo senso di assunti inconsci che sono il risultato di una sorta di automatismo comportamentale: vale a dire che le logiche di fondo che hanno dato origine ai comportamenti che i membri dell'organizzazione mettono in atto oggi non sono immediatamente accessibili. Ciò che viene trasmesso ai nuovi membri sono gli assunti cristallizzati in concrete pratiche di pensiero e di azione. Si formano così nel tempo dei "paradigmi culturali" cioè insiemi strutturati di assunti che sono tra loro collegati e che formano un cluster coerente, che costituisce un punto di riferimento per l'orientamento della azione organizzativa. La cultura dell’organizzazione è caratterizzata allo stesso tempo da stabilità e mutamento; infatti, le soluzioni e le pratiche operative tendono a sopravvivere ai problemi che le hanno generate ma c’è anche il fatto che una linea operativa abbia avuto successo aumenta la probabilità che tale linea sia scelta in futuro per problemi simili o anche per problemi che sembrano simili anche se in realtà non lo sono. C'è un doppio filtro di selezione che permette ad alcune linee di azione di trasformarsi in assunti culturali:  in primo luogo hanno maggiori probabilità di sopravvivenza le soluzioni che si dimostrano capaci di far ottenere prestazioni più efficaci ed efficienti e queste soluzioni durano fino a quando offriranno risultati giudicati positivi;  in secondo luogo esiste in tutti i gruppi sociali un secondo tipo di apprendimento centrato sulla riduzione dei livelli d'ansia prodotti dal presentarsi di un problema da risolvere; in questo caso la soluzione adottata sarà in funzione della sua capacità di ridurre i livelli d'ansia. Sarà, quindi, più probabile la persistenza di una cultura che, avendo preso a difendersi dall'ansia con determinati comportamenti, tende a riprodurli, anche se non sono più ragionevolmente efficaci o efficienti. Eppure le organizzazioni sono capaci di mutare i propri assunti culturali e in generale possiamo dire che solo in situazioni che si presentano come eccezionali e critiche, si possono maggiormente verificare cambiamenti nei paradigmi culturali. In queste situazioni, secondo Schein, può divenire massima l’influenza del leader o del fondatore, soprattutto nella logica di tipo psicodinamico che è sottesa alla sua impostazione, il leader ha il particolare ruolo di offrire all’organizzazione la sicurezza di cui ha bisogno per intraprendere la ricerca di soluzioni più efficaci. 2.2. Cultura, stili di comportamento, rappresentazioni sociali Nella visione di Schein non è difficile riconoscere tracce d altri approcci al comportamento organizzativo: ad esempio la dinamica del rapporto tra formale e informale, l’idea che alla base delle scelte dei dirigenti vi sia una sorta di “filosofia di vita”, un modo di concepire la natura umana e i comportamenti degli individui (come suggeriva Mc Grgor) o anche l’enfasi attribuita al ruolo del leader sottovalutando contemporaneamente i legami di reciproca influenza tra dirigenti e subordinati. Un altro punto interessante è dato dalle somiglianze rintracciabili tra il concetto di cultura organizzativa e quello di rappresentazione sociale introdotto da Moscovici. Le rappresentazioni sociali si presentano come una forma di conoscenza semplificata del mondo, accettata da un gruppo sociale e causa ed effetto di specifici comportamenti. Le rappresentazioni sociali influenzano il comportamento e questo, nello stesso tempo, poiché si costruisce nell'interazione sociale, influenza il modo di rappresentarsi le cose. I punti in comune tra rappresentazioni sociali e cultura organizzativa sono:  sono entrambi prodotti dell'esperienza di individui inseriti in gruppi sociali. Sono processi di costruzione della realtà che si creano all'interno delle interazioni sociali e che consentono di creare uno strumento di comprensione di intervento sull'ambiente;  danno entrambi rilievo alla prospettiva longitudinale di analisi, ovvero riguardano interpretazioni della realtà che si costruiscono, si mettono alla prova e si modificano attraverso la comunicazione tra i membri del gruppo;  riducono l'estraneità e aumentano la familiarizzazione e questo permette di ridurre l'ansia per situazioni nuove che non si conoscono;  entrambi si basano sulla nozione di condivisione ed esistono in quanto esiste un gruppo sociale che ne è portatore. Ma poiché si tratta di attività cognitiva dei singoli, occorre definire quanto deve essere condivisa una rappresentazione o un insieme di assunti per divenire un modo condiviso di vedere e di spiegare la realtà e non solo una semplice somma di immagini e opinioni individuali. 36 È difficile arrivare ad individuare gli elementi che costituiscono una specifica cultura, perché spesso è possibile solo coglierli in modo olistico, “sentire” la presenza di un certo clima, ma non riuscire ad analizzarlo analiticamente. La cultura si esprime in assunti, valori, sistemi di convenzioni, credenze, aspettative, linguaggi, rituali, consuetudini; è un fenomeno profondo, di difficile comprensione. Schein era consapevole di questo limite ma secondo lui questa difficoltà di risalire agli elementi fondati di una cultura può essere affrontata attraverso alcune strategie:  studiare le tattiche con cui vengono socializzati i nuovi membri dell'organizzazione rispetto ai modi corretti di percepire, pensare, sentire e agire;  analizzare le reazioni del sistema rispetto all'evento critico, che impedisce di utilizzare delle risposte routinarie, in particolare chiedendo ai membri di esplicitare le loro spiegazioni delle azioni che compiono o hanno compiuto in risposta all’evento inusuale;  analizzare le risposte dei nuovi arrivati, per esaminare tutte le situazioni percepite come sorprendenti o non comuni, situazioni che potrebbero costituire la spia di andamenti non più rilevati come strani dai membri con maggiore anzianità organizzativa. 2.3. Un approccio prevalentemente clinico Il concetto di cultura organizzativa è stato usato in prevalenza per scopi essenzialmente gestionali più che di ricerca. Uno dei motivi è senz'altro la difficoltà di rendere operazionali – e quindi ripetibili – le diverse accezioni del concetto e i diversi elementi che lo compongono. Questo ha indubbiamente portato ad una grande frammentarietà delle ricerche e anche al fatto che il pubblico che se ne è interessato maggiormente è fatto essenzialmente da manager e da responsabili delle organizzazioni, che sono sicuramente più interessati all'utilità percepita che alla validità dei metodi proposti. È andata quindi aumentando la distanza tra i contributi specificatamente di ricerca e riflessione e quelli tesi a rendere più efficace il controllo manageriale sugli ambienti organizzativi: i due obiettivi non sono necessariamente antitetici ma le preoccupazioni sottostanti sì. Esiste comunque un ampio filone di ricerca che, pur nella frammentazione e nella prevalenza degli interessi applicativi, ha prodotto interessanti risultati. Fra gli altri si possono ricordare quelli che hanno preso in considerazione l'esistenza di multipli livelli di cultura, capaci di spiegare la non omogeneità delle organizzazioni intese come gruppi sociali e in grado di dar conto delle differenze tra i diversi gruppi che compongono le organizzazioni stesse. Si fa quindi sempre più strada la questione relativa all'esistenza di più culture all'interno dello stesso organizzazione. Questo da un lato ci riporta l'idea di organizzazione come terreno d'incontro tra attori con scopi, valori e interessi non necessariamente coincidenti. Accettare l'idea che esista una sola cultura organizzativa vorrebbe dire identificare l'organizzazione come un'entità a se stante. Accettando però che esistano più livelli di cultura in un'organizzazione o anche più culture nella stessa organizzazione, si pone il problema di come distinguerle. 2.4. Tipi ideali di cultura organizzativa Non esiste al momento un unico modello teorico soddisfacente di cultura organizzativa. Una proposta interessante è quella di Ebers (1995) che propone un modello con quattro tipi ideali di cultura organizzativa:  la cultura organizzativa legittima, che è caratteristica di organizzazioni pubbliche e delle istituzioni, contesti dove è difficile fare una valutazione dei risultati, ma che sono sotto gli occhi di pubblico e utenti. Il fondamento dell'attività dei membri sta nei sistemi di norme che regolano i processi organizzativi e la base dell'adesione individuale sta nell'identificazione con all'organizzazione - con i suoi valori, norme, obiettivi - oppure si tratta di un'adesione favorita da varie forme di pressione al conformismo. Questo tipo di cultura sopravvive se mantiene un'accettabile concordanza, di tipo ideologico, con le norme e i valori dell'ambiente di riferimento;  la cultura organizzativa efficiente è tipica di organizzazioni orientate al conseguimento di risultati che è possibile valutare. La caratteristica principale è rappresentata dalle finalità operative comuni, mentre l'adesione individuale è regolata soprattutto da sistemi di premi e sanzioni; 37  la cultura organizzativa tradizionale, caratteristica di gruppi stabili con basso turnover, in cui la materia prima sono i valori e le credenze dei membri del gruppo, dove c'è condivisione di esperienze passate e attesa di condivisione del futuro, di significati tra i membri. La base dell'adesione individuale sta in un processo di interiorizzazione degli orientamenti culturali da parte dei membri. In questa cultura sono molto apprezzati gli atteggiamenti di fiducia reciproca e l'impegno di lunga durata nei confronti del gruppo;  la cultura organizzativa utilitaristica dove i membri del gruppo pongono attenzione al conseguimento di un'equa ripartizione sia del contributo che ciascuno è chiamato a dare, sia delle ricompense che ne ottiene. La negoziazione tra interessi diversi è uno dei processi principali e tende a fissare contratti di tipo psicologico e sostanziale che regolano lo scambio tra i singoli e il gruppo. È una cultura tipica di gruppi di piccole dimensioni dove è possibile attraverso un'interazione ripetuta, la soddisfazione di interessi differenti, altrimenti non perseguibili. Valori comuni ai singoli membri e coinvolgimento personale anche se non sono esclusi non sono assolutamente necessari o tipici di questa cultura. Ebers identifica anche quattro condizioni che fanno prevedere l'insorgersi e il mantenersi di una cultura unitaria e coesa:  che tutti i membri affrontino tendenzialmente gli stessi problemi;  che esista una rete di comunicazione che tenda a collegare tutti i membri del gruppo;  che tutti i membri tendano a definire in modo analogo in cosa consiste il comportamento appropriato in situazioni date;  che tutti i membri tendano a dare la stessa definizione di quali siano i comportamenti consensualmente accettati. Inoltre, Ebers classifica le culture anche a seconda del loro grado di stabilità: afferma che hanno maggiori probabilità di durare stabilmente le culture di tipo legittimo e di tipo tradizionale, poiché risultano meno dipendenti da fattori e interessi contingenti, come invece accade per quelle di tipo efficiente e utilitaristico.
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