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Riassunto "Psicologia delle organizzazioni e delle istituzioni", Sintesi del corso di Psicologia Delle Organizzazioni

- L'istituzione e le istituzioni - Dizionario di psicosociologia - Lo spietato repertorio della contemporaneità + Appunti

Tipologia: Sintesi del corso

2022/2023

In vendita dal 12/04/2024

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Scarica Riassunto "Psicologia delle organizzazioni e delle istituzioni" e più Sintesi del corso in PDF di Psicologia Delle Organizzazioni solo su Docsity! INTRODUZIONE La psicologia nasce con lo scopo di disciplinare una mole di fatti, esperienze, che in caso contrario non avrebbero trovato collocazione. L’obiettivo delle civiltà è quello di rendere naturale ciò che invece è culturale, ovvero di trasformare in “naturale” il proprio modo di vedere le cose. Questi sistemi culturali sono sistemi chiusi, che hanno come obiettivo quello di giustificare le proprie stesse affermazioni. PSICOLOGIA, ORGANIZZAZIONE E ISTITUZIONE sono costrutti che sono l’esito di una sedimentazione di conoscenze, a loro volta conseguenza di scelte culturali che hanno dato peso ad alcuni aspetti e non ad altri. Il concetto di organizzazione non può essere disgiunto dal concetto di istituzione: i due concetti sono complementari. Se dobbiamo fare un’esemplificazione, organizzazione e istituzione rappresentano i due modi diversi in cui la stessa cosa viene vista, a seconda del punto di vista di riferimento. L’istituzione va intesa come la dimensione sommersa e latente dell’organizzazione. Immaginiamo l’organizzazione come qualcosa che sta “sopra la superficie dell’acqua”, e l’istituzione come qualcosa che sta sotto. Organizzazione e istituzione si trovano in un rapporto di sovrapponibilità, per cui possiamo cogliere aspetti che si presentano anche contemporaneamente. Questa dinamica tra organizzazione e istituzione è fondamentale, poiché dà senso e risposta a tutti i fenomeni di eccesso, mancanza, contraddizione, malfunzionamento, che in qualsiasi organizzazione possiamo riscontare. In organizzazioni e istituzioni esistono dinamiche che non funzionano come devono o che, per funzionare come devono, producono delle alterazioni. Due aspetti sono in una relazione dinamica perché tra essi c’è un gioco di forze contrapposte (conflitto). Tra organizzazione e istituzione c’è una contrapposizione di forze. L’organizzazione ha a che fare con alcuni aspetti che nel corso della storia sono stati considerati prevalenti rispetto ad altri. Storicamente, l’organizzazione era lo stato di cose che si veniva a costituire quando un corpo veniva a comporsi di organi che ne garantivano la realizzazione. L’organizzazione è la prima struttura organizzata su cui l’uomo ha posato lo sguardo. In questa accezione, l’organizzazione – da intendere come l’insieme di organi di cui un corpo è dotato per poter vivere – coincide con lo Stato. Col tempo, organizzazione è diventato dare significato ad una serie di cose che sono utili a far funzionare una struttura che serve ad ottenere dei risultati, che possono essere oggetti o servizi. Si è passati, dunque, da ORGANIZZAZIONE COME CORPO E STATO, ad ORGANIZZAZIONE COME STRUTTURA, insieme di parti, dispositivi, atti a produrre attraverso uno specifico funzionamento, dei risultati (un prodotto, materiale o immateriale). Quest’ultimo è il senso contemporaneo che attribuiamo al concetto di organizzazione. Questo tipo di definizione apre ad uno spettro di fattispecie ampissimo. Non parliamo più di stato, ma di azione. Organizzare qualcosa deve avere uno scopo, deve proiettarsi in un tempo futuro con l’obiettivo di determinare dei risultati (proposizione che allude ad un’azione). Persone che si mettono insieme con l’obiettivo di condividere elementi culturali, saperi, conoscenze costituiscono relazioni secondarie (ad esempio le associazioni). Le relazioni primarie sono di natura informale e sono molto connotate affettivamente, inoltre lo spettro della relazione è molto ampio (registri affettivi, simbolici ecc. molto ampi). Le relazioni secondarie si stabiliscono sulla base di un ruolo (insieme delle aspettative che sono destinate ad un soggetto nel momento in cui questa persona esiste nel mondo). Quando i ruoli secondari sono prevalenti, ci avvisano dell’esistenza di un’organizzazione. Relazioni secondarie sono relazioni formali. Più l’organizzazione è complessa e ha un suo versante istituzionale, più la dimensione del ruolo diventa complessa e interpretabile. L’organizzazione produce qualcosa. La comunità non è un’organizzazione, nonostante vi si producano tante cose. Lo scopo di una comunità è la sua sopravvivenza, a differenza dell’organizzazione, il cui scopo è la produzione di qualcosa. L’organizzazione può essere definita da alcuni criteri, che una volta individuati ci dicono di che organizzazione stiamo parlando: 1) Ha delle finalità; 2) Trattandosi di un insieme di parti, deve stabilire delle regole (le regole organizzative sono in buona parte arbitrarie). Queste parti, meccaniche o composte da individui (gruppi), non interagiscono in modo estemporaneo, bensì sulla base di regole formali che rispettano quei ruoli e quelle relazioni secondarie citate prima; 3) È costituita da gruppi di persone che si specializzano, sono sottoposti a ruoli, rispettano delle regole. L’individuo da solo è solo una parte dell’ingranaggio; 4) Ha una sua razionalità, ovvero rispetto ad un obbiettivo, ci diamo delle regole, stabiliamo dei ruoli e produciamo quel dato servizio; 5) Ha una storia ed è destinata a finire. Può rigenerarsi, ma i principi originari di quella organizzazione finiranno. Le organizzazioni che vogliono sopravvivere alla storia devono modificare le loro finalità. Chiunque faccia parte di un’organizzazione deve far parte di quelle che sono le narrazioni interne di un’organizzazione (miti, riti, leggende, valori impliciti), ma entra a far parte automaticamente di queste narrazioni, a differenza dell’ingresso in quelli che sono ruoli secondari, il che è più formale. Le narrazioni trasformano sempre più l’organizzazione in un’istituzione. La dimensione istituzionale ha a che fare con l’irrazionale. Le istituzioni sono al tempo stesso sistemi che, rispetto ai propri appartenenti, producono fonti di angoscia stabile rispetto alle quali determinano i sistemi di protezione contro le angosce stesse. L’istituzione in sé da sola non esiste, ma le diamo sempre un’organizzazione – che permette di ridurre i motivi di angoscia. Cominciare a parlare di “storia dell’organizzazione” coincide col passaggio dall’organizzazione all’istituzione. L’organizzazione esiste solo se ha un senso, ovvero è vitale, abitata da miti, “discorsi prevalenti”, rappresentazioni e narrazioni condivise. Essa è contemporaneamente “atto di forza” – in riferimento alla sua arbitrarietà – e “fragile”, questo perché l’organizzazione sopravvive solo se viene naturalizzata, ossia accreditata al di là del dato di realtà, diventando incontestabile. Questi ultimi aspetti organizzativi sono diventati oggetto di analisi a partire dagli studi di Mayo degli anni ’30, sostituendo la visione tayloristica di inizio secolo. In questo senso l’organizzazione assume sempre più il significato di “sistema sociale” e sempre meno quello di sistema di organi e azione orientato alla produzione di qualcosa di specifico. È un tutto organizzato, relativamente chiuso, che assolve a funzioni sociali quali l’integrazione, la riproduzione, la formazione, la socializzazione, l’educazione, la cura ecc. Assume, rispetto ai soggetti che la compongono, un ruolo primario e una funzione di coesione sociale e tenuta.  Si passa quindi dall’organizzazione come sistema d’azione  all’organizzazione come sistema sociale. Parlare di organizzazione in questi termini significa effettuare quel passaggio che ci porta a parlare di istituzione. Definizione possibile di istituzione  amalgama di:  dimensioni affettive (hanno a che fare con la questione dell’inclusione, del legame, della propria valorizzazione anche in termini narcisistici – tutti questi aspetti non hanno chiaramente nulla di razionale);  ideologiche (hanno a che fare con la realizzazione di paradigmi, idee, valori, codici, modi di stare nel mondo normalizzati, proposti in termini più assertivi di quanto non sia necessario e in maniera netta rispetto alle alternative, per la sopravvivenza stessa dell’organizzazione);  e organizzative. L’istituzione in un’ottica psicosociologica è da concepire quale dinamica istituente-istituito.  L’istituente è un fenomeno che ha a che fare con un processo, nello specifico con un processo di trasformazione sociale. I processi di trasformazione sociale sono per loro natura rivoluzionari e devono essere originariamente orientati a principi di libertà o liberazione da quelli che sono i codici vigenti in quel determinato periodo storico.  L’istituito è il tradimento dell’istituente e rappresenta l’ineluttabilità. È la fase di stato/di stabilizzazione di quella che prima era una fase istituente. Qualsiasi fenomeno istituente ad un certo punto deve imporsi una struttura, un apparato. Il passaggio dall’istituente all’istituito è un passaggio burocratico. La burocratizzazione è l’apice di un processo che designa la morte del principio istituente. Il passaggio dall’istituente all’istituito avviene tendenzialmente seguendo fasi specifiche. L’analisi istituzionale studia 3) Il terzo insieme di difficoltà non riguarda più il pensiero dell’istituzione come oggetto o come non-sé nel soggetto, ma l’istituzione come sistema di legami in cui il soggetto è parte interessata e costituente. Pensare l’istituzione esige l’abbandono dell’illusione monocentrista, l’accettazione che una parte di noi stessi non ci appartenga in proprio, anche se <<là dove c’era l’istituzione, può risultare qualcosa dell’Io>> entro i limiti del nostro appoggio su ciò che, a partire da essa, ci costituisce. A causa di tali difficoltà e della posta in gioco che le sostiene, nelle istituzioni viene prodotto uno sforzo costante per costruire una rappresentazione dell’istituzione. La maggior parte delle rappresentazioni sociali dell’istituzione costituiscono un modo per medicare la ferita narcisistica, per circoscrivere l’angoscia del caos, per giustificare e mantenere i costi identificatori, per sostenere le funzioni degli ideali e degli idoli. Tale lavoro collettivo di pensiero assolve ad una delle funzioni capitali delle istituzioni, cioè quella di fornire rappresentazioni comuni e matrici identificatorie: dare uno statuto alle relazioni tra la parte e il tutto, legare gli stati non integrati, proporre oggetti di pensiero che hanno un senso per i soggetti cui la rappresentazione è destinata e che generano pensieri sul passato, il presente e il futuro, indicare i limiti e le trasgressioni, assicurare l’identità, drammatizzare i movimenti pulsionali ecc. Entriamo nella crisi dei tempi moderni quando sperimentiamo che le istituzioni non assolvono più alla loro funzione principale di continuità e di regolazione. Le scienze umane nascono dalla rimessa in causa di quell’idea per cui l’uomo non è più la misura di tutte le cose, ma è attraversato e manipolato da forze di maggiore portata: l’economia, il linguaggio, l’inconscio, l’istituzione. Le istituzioni non sono più immortali delle civiltà che esse sostengono. L’ordine che esse impongono non è immutabile, i valori che proclamano sono contraddittori ed essere negano ciò che le fonda. Una scoperta del genere non è senza rischi: ne scontiamo gli effetti nell’intoppo delle funzioni metapsichiche delle istituzioni e, di fronte alle loro deficienze, le attacchiamo perché ci sentiamo traditi, consegnati al caos, abbandonati da essere. Siamo costretti quindi a ripensare continuamente l’istituzione, perché l’istituzione non si oppone più all’irruzione del caos, perché è cambiato il nostro rapporto pratico con le istituzioni. In un marasma del genere facciamo esperienza della follia comune, della nostra parte folle nascosta nelle pieghe dell’istituzione. Tali sofferenze e tale patologia sono uno dei passaggi per una moderna conoscenza della dimensione psichica dell’istituzione. Esse ci pongono di fronte prima di tutto all’angoscia suscitata dall’aumento di energia slegata e messa in moto dalla disaggregazione dell’istituzione, che rivela così la propria funzione di legame. Non possiamo pensare tale livello della funzione psichica dell’istituzione al di fuori dell’esperienza sconvolgente del suo fallimento. In questo percorso, abbiamo scoperto di avere oscillato tra due illusioni e di esserci sforzati di iscriverle nella storia:  la prima è che l’istituzione sia fatta per ciascuno di noi personalmente;  la seconda è che essa sia proprietà di un maestro anonimo, muto e onnipotente. Al tirare delle somme, l’istituzione ci pone di fronte ad una quarta ferita: si tratta ancora di una ferita narcisistica, dopo quelle che le scoperte di Copernico, Darwin e Freud hanno inflitto all’idea dell’uomo, decentrandolo dalla sua posizione nello spazio, nella specie e nella propria idea di sé. Si è dovuto ammettere che la vita psichica non è centrata esclusivamente su un inconscio personale che sarebbe una specie di proprietà privata del singolo soggetto. Una parte di lui, che lo mantiene nella sua stessa identità, e che compone il suo inconscio, non gli appartiene in proprio, ma alle istituzioni alle quali egli si appoggia e che su tale appoggio si reggono. La scoperta dell’istituzione non è soltanto quella di una ferita narcisistica, ma anche quella dei benefici narcisistici che dalle istituzioni sappiamo trarre. IL PROBLEMA DELL’ISTITUZIONE NEL CAMPO DELLA PSICOANALISI La difficoltà a concepire psicoanaliticamente l’istituzione psicoanalitica ha a che fare con le difficoltà che saltano fuori quando sentiamo di articolare il rapporto dell’istituzione con i processi e le formazioni dell’inconscio, con le corrispondenti soggettività e con gli spazi psichici comuni che essa presuppone e forma. Concepire psicoanaliticamente l’istituzione psicoanalitica significa scoprire nel campo del lavoro psicoanalitico quanto dell’inconscio e dei suoi effetti è legato dagli analisti nell’istituzione che essi fermano e reperirne gli effetti nella pratica e nella teoria. Accanto a questa difficoltà, esiste una difficoltà specifica a dotare di uno statuto teorico e metodologico un oggetto la cui consistenza non si prova nel quadro paradigmatico della cura tipo. A quali condizioni si può sostenere che l’istituzione in quanto tale può essere oggetto teorico e concreto della psicoanalisi? Una specifica difficoltà a iscrivere l’istituzione come un possibile oggetto del campo della psicoanalisi deriva dal fatto che essa, in rapporto a tale campo, è oggetto eterogeneo e che essa obbedisce a leggi proprie del suo ordine. UNA FORMAZIONE DELLA SOCIETÀ E DELLA CULTURA L’istituzione è prima di tutto una formazione della società e della cultura; essa ne segue la logica. Istituita dalla divinità o dagli uomini, l’istituzione si oppone a quanto è stabilito dalla natura. L’istituzione è l’insieme di forme e di strutture sociali istituite dalla legge e dal costume: essa regola i nostri rapporti, ci preesiste e s’impone a noi, si iscrive nella permanenza. Ogni istituzione è dotata di una finalità che la identifica e la distingue, e le differenti funzioni a lei devolute si ordinano grossomodo nelle tre grandi funzioni riconosciute da G. Dumézil alla base delle istituzioni indo-europee: 1) le funzioni giuridico-religiose: 2) le funzioni difensive e di attacco; 3) le funzioni produttive-riproduttive. È su tale trittico che l’istituzione fonda la propria permanenza e costituisce per i propri soggetti lo sfondo di continuità sul quale s’iscrivono i movimenti della loro storia e della loro vita psichica. Occorre poi aggiungere due importanti distinzioni:  La prima, stabilita da C. Castoriadis (1975), oppone ed articola l’istituente e l’istituito. Tale opposizione assume senso nel quadro di un’analisi in cui l’accento viene posto, al di là del ruolo socio-economico dell’istituzione, sul modo di essere in cui essa si offre, ossia quello simbolico. L’immaginario è la capacità originale di produrre e di mettere in opera dei simboli che, nell’ordine sociale, sono legati alla storia ed evolvono. In tal senso, l’immaginario è l’attribuzione di significati nuovi a simboli già esistenti. L’immaginario ha un carattere <<bifido>>, sociale e individuale. L’immaginario individuale o radicale preesiste e presiede a qualsiasi organizzazione, persino la più primitiva, della pulsione. È a un fondo di rappresentazioni originarie che la pulsione attinge “in partenza” la propria “delega per la rappresentazione”. L’immaginario sociale sta all’origine dell’istituzione e alla base dell’alienazione. L’alienazione è il momento in cui l’istituito domina l’istituente, è l’autonomizzazione e il predominio nell’istituzione del momento immaginario che trascina l’autonomizzazione e il predominio dell’istituzione rispetto alla società. Tale autonomizzazione dell’istituzione suppone sempre anche che la società viva i propri rapporti con le proprie istituzioni sulle modalità dell’immaginario, in altre parole, non riconosce nell’immaginario delle istituzioni il proprio prodotto. L’immaginario sociale non è immutabile, è autore e motore della storia. Il sociale-storico è un prodotto dell’immaginario sociale.  La seconda distinzione oppone e articola istituzione e organizzazione. L’organizzazione avrebbe un carattere contingente e concreto, disporrebbe non di finalità, ma di mezzi per raggiungerle. Bleger propone di considerare l’organizzazione come la disposizione gerarchica delle funzioni in un insieme definito. Si starà perciò attenti alla sinergia tra istituzione e organizzazione e alla loro potenziale conflittualità. Bleger sottolinea tuttavia una tendenza generale dell’organizzazione a emarginare l’istituzione. UNA FORMAZIONE PSICHICA L’istituzione non è solo una formazione sociale e culturale complessa. Assolvendo alle sue funzioni, essa realizza alcune funzioni psichiche molteplici per i singoli soggetti, nella loro struttura, nella loro dinamica e nella loro economia personale. Essa mobilita investimenti e rappresentazioni che contribuiscono alla regolazione endopsichica e che assicurano le basi dell’identificazione del soggetto nell’insieme culturale; essa costituisce lo sfondo della vita psichica nel quale possono essere deposte e contenute alcune parti della psiche che sfuggono alla realtà psichica. L’istituzione assolve a funzioni metadifensive di fronte alle angosce psicotiche che in parte essa mobilita e che tratta per il proprio fine. La stessa vita psichica suppone l’istituzione, e questa è parte della nostra psiche. Freud per primo ne enuncia il principio e lo illustra in numerosi testi, in particolare in Totem e tabù e in Psicologia delle masse e analisi dell’Io. Freud sostiene la tesi che l’inconscio è costituito in parte dalla trasmissione intergenerazionale delle formazioni e dei processi psichici. L’ipotesi della psiche di massa spiega non soltanto la continuità della vita psichica, la trasmissione delle tracce, ma la stessa formazione dell’inconscio: <<Anche la repressione più violenta è costretta a lasciare spazio a moti sostitutivi deformati e alle reazioni che ne conseguono. Ma se le cose stanno così possiamo formulare l’ipotesi che nessuna generazione sia in grado di nascondere alla generazione successiva processi psichici di una certa importanza>>. Perché tale trasmissione possa avvenire, Freud postula che ciascuno di noi possieda nel proprio inconscio un apparato per significare/interpretare, per raddrizzare e correggere le deformazioni che gli altri imprimono all’espressione dei loro movimenti affettivi. Parallelamente, l’opera mostra come si forma l’istituzione originaria della società umana: memoria e memoriale dell’assassinio di fondazione, strutturazione dei legami di appartenenza mediante identificazione al totem, instaurazione del tabù, trasmissione del racconto per via mitica e attraverso l’apparato per interpretare e significare i costumi, le cerimonie, i precetti e le rappresentazioni costituite dopo l’uccisione originaria. In un testo del 1920-21, Freud scrive: <<La contrapposizione tra psicologia individuale e psicologia sociale o delle masse, contrapposizione che a prima vista può sembrarci molto importante, perde, ad una considerazione più attenta, gran parte della sua rigidità. La psicologia individuale verte sull’uomo singolo e mira a scoprire attraverso quali modalità egli persegua il soddisfacimento dei propri muti pulsionali; eppure, solo raramente, in determinate condizioni eccezionali, la psicologia individuale riesce a prescindere dalle relazioni di tale singolo con altri individui. Nella vita psichica del singolo l’altro è regolarmente presente come modello, come soccorritore, come nemico, e pertanto, in quest’accezione più ampia ma indiscutibilmente legittima, la psicologia individuale è al tempo stesso, fin dall’inizio, psicologia sociale>>. Qui si potrebbero richiamare altri passi fondamentali che sottolineano il doppio statuto dell’individuo che Freud annota nel suo testo del 1914 Introduzione al narcisismo: <<L’individuo conduce effettivamente una doppia vita, come fine a sé stesso e come anello di una catena di cui è strumento, contro, o comunque indipendentemente dal suo volere>>. Freud mostra che questi due statuti comunicano: il narcisismo primario si appoggia sul narcisismo della catena familiare, intergenerazionale, istituzionale. Il problema dell’appoggio qui è centrale, cioè del doppio appoggio della realtà psichica sui suoi due lati, corporale e istituzionale. L’istituzione precede il singolo individuo e lo introduce nell’ordine della propria soggettività predisponendo le strutture della simbolizzazione: mediante la presentazione della legge, l’introduzione al linguaggio articolato, la disposizione e le procedure per acquisire punti di riferimento identificatori. Ma l’istituzione è anche lo spazio estroiettato di una parte della psiche: essa è insieme dentro e fuori, col doppio statuto psichico dell’incorporato e del deposito; essa sta sullo sfondo del processo, ma non può essere indifferente al processo stesso. È per questi diversi aspetti che il soggetto è soggetto dell’istituzione e che l’istituzione consiste in una doppia funzione psichica: di strutturazione e di ricettacolo dell’indifferenziato. Un’altra area di lavoro e di ricerca viene aperta dalla considerazione dello spazio psichico proprio della vita istituzionale. Si deve ammettere che per compiere le sue funzioni specifiche, non psichiche, l’istituzione deve mobilitare formazioni e processi psichici e che specialmente quelli che essa contribuisce a formare o che riceve in deposito (e che in tal modo essa determina) saranno sollecitati in modo del tutto particolari. Il concetto di apparato psichico di gruppo permette di pensare la strutturazione specifica della realtà psichica nel rapporto del soggetto singolo con l’insieme intersoggettivo di cui fa parte e a cui dà consistenza. Si organizzano pertanto due livelli logici che l’analisi deve prendere in considerazione e di cui deve render conto: quello della realtà psichica del singolo soggetto e quello della realtà psichica emergente come frutto del raggrupparsi. Freud ci ha introdotto a tale cammino a più riprese. La prima, nel 1914, nel testo sul narcisismo, in cui propone la concezione di Ideale dell’Io. L’Ideale dell’Io, scrive Freud, schiude importanti prospettive per la comprensione della psicologia delle masse. Oltre al suo aspetto individuale, questo Ideale ha un aspetto sociale: esso è anche l’ideale che accomuna una famiglia, un ceto, una nazione. La prospettiva appena tracciata non oppone per principio l’individuo e l’istituzione. Essa mira piuttosto a cercarne le articolazioni negli spazi psichici e a reperirvi gli effetti dell’inconscio. Ciò induce a non localizzare l’inconscio nel solo spazio del singolo soggetto, ma nei luoghi in cui si producono i passaggi costitutivi della realtà psichica. ALCUNE FORMAZIONI E ALCUNI PROCESSI ETEROGENEI A ben vedere, se consideriamo che proprio sotto questo riguardo la prevenzione della sofferenza si è rivelata più che mai fallimentare, ci viene il sospetto che anche qui ci sia lo zampino della natura invincibile che in questo caso sarebbe rappresentata dalla nostra stessa costituzione psichica>> (Il disagio della civiltà). L’opinione più diffusa, tuttavia, è che la civiltà sia responsabile della nostra miseria e che dovremmo abbandonarla per ritornare allo stato primitivo che ci assicurerebbe maggior felicità; e Freud si chiede perché si sviluppa tale punto di vista ostile alla civiltà e alle sue istituzioni. Prima di rispondere, egli si preoccupa di caratterizzare che cos’è una civiltà. Essa si forma grazie alla capacità dell’uomo di assoggettare la terra e di coltivarla a proprio servizio, di instaurare la proprietà, l’igiene e l’ordine. Una civiltà, poi, si riconosce dal fatto di valorizzare le produzioni intellettuali, scientifiche e artistiche compresa la religione in quanto costituisce un insieme di formazioni ideali. Una civiltà si caratterizza, infine, per il modo in cui vengono regolati i rapporti degli uomini tra di loro: tali rapporti sono molteplici e vari e il problema è quello di definire in che cosa consiste un rapporto civilizzato. Freud avanza quindi la seguente ipotesi: <<Potremmo forse cominciare a chiarire che l’elemento di civiltà è contenuto nel primo tentativo di regolare le relazioni sociali. In mancanza di tale tentativo le relazioni sociali sarebbero soggette all’arbitrio dei singoli, e cioè il più forte fisicamente deciderebbe secondo i suoi interessi e moti pulsionali. Nulla muterebbe se questo individuo ne incontrasse un altro ancora più forte. La vita umana associata è resa possibile solo ad un patto: che più individui si riuniscano e che tale maggioranza sia più forte di ogni singolo e tale da restare unita contro ogni singolo>>. Psicologia delle masse e analisi dell’Io aggiunge un’altra dimensione: il gruppo attraverso il quale si effettua il passaggio dall’uno al molteplice e dalla pluralità all’insieme si basa sull’identificazione di ciascuno con un capo, e secondariamente di ciascuno dei membri del gruppo tra loro. In tutte queste risposte si va disegnando la necessità della rinuncia. La nostra civilizzazione è costruita sulla repressione delle pulsioni e sulla rinuncia: <<Ogni individuo ha rinunciato a una parte dei suoi averi, del suo potere assoluto e delle tendenze aggressive e vendicative della sua personalità; da questi apporti ha avuto origine il patrimonio comune di beni materiali e ideali della civiltà. Oltre la necessità vitale, hanno indotto i singoli individui a questa rinuncia i sentimenti derivati dall’erotismo, per i propri familiari>>. Il disagio della civiltà mette in evidenza una seconda linea di riflessione che riguarda le compensazioni e il contratto ottenuti in cambio della costrizione e della rinuncia. <<L’uomo civilizzato ha barattato una parte della sua possibilità di felicità per un po’ di sicurezza>>. In tale scambio, il passaggio dalla pluralità al gruppo è decisivo. Esso forma la base della vita in comune. Freud scrive: <<Il potere di questa comunità si oppone allora come “diritto” al potere del singolo che vinee condannato come “forza bruta”. Questa sostituzione del potere della comunità a quello del singolo è il passo decisivo verso la civiltà. Rinuncia pulsionale e avvento delle comunità di diritto hanno una funzione e un significato nello spazio psichico singolo e nello spazio psichico del gruppo istituzionale. Egli ci descrive allo stesso tempo la base psichica della fondazione giuridica dell’istituzione e dell’affiliazione legittima dei suoi soggetti. Tutte le istituzioni sono dotate di un sistema interpretativo della legge fondamentale attraverso cui vengono posti e risolti alcuni dei rapporti tra le esigenze pulsionali degli individui e la salvaguardia dell’interesse comune, tra la violenza dell’abuso di potere comunitario e l’esigenza della realizzazione di certi desideri inconsci. LA PERMANENZA, L’AFFILIAZIONE E IL SOSTEGNO DEL SINGOLO SOGGETTO NELL’ESSERE- INSIEME: IL CONTRATTO NARCISISTICO L’istituzione deve essere permanente: in tal modo assicura alcune funzioni stabili necessarie alla vita sociale e alla vita psichica. Non solo l’istituzione deve essere stabile, ma lo scambio sociale e i movimenti che l’accompagnano richiedono di essere stabilizzati dalla sua funzione. È la funzione dell’istituito. L’origine divina dell’istituzione le assicura potenza, legittimità, permanenza assoluta. L’istituzione è di diritto divino. All’origine della società, per i suoi soggetti, l’istituzione è immortale. La comunità assicura a ciascuno la sicurezza della legge solo nella misura in cui ognuno prende il proprio posto e contribuisce al suo mantenimento e al suo sviluppo. Noi non rinunciamo mai al narcisismo ed è questo ad assicurare la continuità delle generazioni e dei gruppi, a fondare l’identità di filiazione e di affiliazione. Freud sottolinea la doppia esistenza dell’individuo, in quanto persegue il proprio fine e in quanto membro di una catena alla quale è assoggettato senza intervento della sua volontà. Tale doppio statuto narcisistico non definisce in primo luogo una relazione (di accordo o di opposizione) tra l’intrapsichico e il gruppale, ma una bipolarità interna che disegna la possibile divisione di ciò che, in ciascuno di noi, è singolarità e gruppalità. L’istituzione si fonda su questo doppio statuto del narcisismo e su queste formazioni intermedie che è il caso di chiamare trans-psichiche nella misura in cui sostengono il rapporto necessario tra il soggetto singolo e l’insieme. Sono tre le idee da tener presenti: 1) La prima è che l’individuo è fine a sé stesso e nello stesso tempo membro di una catena a cui è assoggettato; 2) La seconda idea è che i genitori fanno del figlio il portatore dei propri sogni di desiderio non realizzati e che il narcisismo primario di quest’ultimo si appoggia su quello dei genitori, proprio come è attraverso loro che il desiderio e il narcisismo delle generazioni che li hanno preceduti hanno sostenuto, positivamente o negativamente, la loro venuta al mondo. Ogni neonato viene dunque investito di questa amissione di assicurare la continuità narcisistica della generazione. 3) La terza idea è che l’Ideale dell’Io è una formazione comune alla singola psiche e agli insiemi sociali (famiglia, istituzioni, nazioni). Il concetto di contratto narcisistico generalizza queste proposizioni e spiega, sotto questo aspetto, i rapporti correlativi dell’individuo e dell’insieme sociale: ogni nuovo venuto deve investire l’insieme come portatore della continuità e reciprocamente, a tale condizione, l’insieme fa la sua parte per l’elemento nuovo. Sono questi i termini del contratto narcisistico: esso esige che ogni singolo soggetto prenda un certo posto offerto dal gruppo e significato dall’insieme delle voci che, prima di ciascun soggetto, ha tenuto un certo discorso conforme al mito fondatore del gruppo. Il contratto narcisistico è implicato nella fondazione, ossia nella morte. Il mito parla dell’origine, fornisce una matrice di identificazione e un codice, per quanto precario, per affrontare la relazione con l’inconscio. Quando l’istituzione non sostiene più il narcisismo dei suoi soggetti – quando, ad esempio, il compito primario dell’istituzione li espone ad attacchi e a pericoli violenti – di ritorno viene attaccata l’istituzione. In simili situazioni indecise vengono utilizzate frequentemente due vie di uscita: il ricorso all’azione psicosomatica o all’azione ideologica, di solito una si verifica in mancanza dell’altra. Dal contratto narcisistico derivano altre fonti di sofferenza. Il contratto narcisistico va inteso quale assimilazione del soggetto nei ranghi dell’istituzione; ossia assoggettamento dell’individuo che in cambio riceve un ancoraggio al mito donativo dell’istituzione stessa; ossia investimento del figlio della missione di assicurare la continuità narcisistica attraverso le generazioni in cambio di un posto nell’istituzione stessa. I TRABOCCHETTI DELL’ISTITUZIONE: PATTO DENEGATIVO, <<PASSARE SOTTO SILENZIO>>, E TAPPARE IL NEGATIVO Il patto denegativo è la formazione intermedia generica che, in ogni legame, vota a un destino di rimozione, di diniego, di sconfessione, o mantiene nell’irrappresentato e nell’impercettibile tutto ciò che metterebbe in causa la formazione e la conservazione di tale legame e degli investimenti di cui è oggetto. Si può dunque considerare il patto denegativo come uno dei correlati del contratto di rinuncia e della comunità di realizzazione del desiderio e del contratto narcisistico. Si tratta di un patto inconscio, di un accordo tra i soggetti interessati mediante la creazione di un consenso destinato ad assicurare la continuità degli investimenti e dei benefici legati alla struttura del legame (coppia, istituzione), e a mantenere gli spazi psichici comuni necessari alla sussistenza di certe funzioni ancorate nell’intersoggettività o in forme di raggruppamento più specifiche: funzione dell’ideale, organizzazione collettiva dei meccanismi di difesa. Tale ricerca della concordia appare quindi come la negativizzazione della violenza, della divisione e della differenza che ogni legame comporta: il patto fa tacere i differenti; per questo si tratta di un patto il cui enunciato non viene mai formulato. Accordo tacito su un dire che divide, è e deve restare inconscio. Il patto stesso è rimosso. Le istituzioni si fondano così su alcuni organizzatori inconsci e su formazioni miste che assicurano, ai soggetti e ai loro legami, gli investimenti, le rappresentazioni, le soddisfazioni di desiderio e le difese di cui hanno bisogno in tale rapporto. Esse si fondano anche su qualcosa di irrappresentato e su un silenzio radicale – che non va confuso con il non detto. Essa si fonda, nell’assenza, sugli anelli mancanti alla catena delle rappresentazioni e delle collocazioni che essa organizza e che formano il suo rilievo. Dunque, il patto denegativo va inteso come il non detto comune, quale negazione di ciò che implicherebbe la possibilità di distruzione dei legami. Deve essere abitato dalla necessità di nascondere tutto ciò che invece potrebbe distruggere questi legami. Non ci riferiamo solo ad aspetti di rinuncia pulsionale o di sacrificio. Ci riferiamo ad aspetti più profondi e strutturali che possono minare la natura fisica della persona, ovvero aspetti legati alla violenza. Il patto denegativo ha a che fare con quello che in ambito della psicologia individuale (in ottica psicoanalitica) è la rimozione. Dove è necessario porre delle norme di divieto, significa che la formazione intermedia del patto denegativo non sta funzionando. Come tutte le formazioni intermedie, non può essere separato dagli altri in modo assoluto. Tutte le formazioni si presentano simultaneamente. Il patto denegativo nasconde aspetti più o meno distruttivi rispetto alla tenuta dei legami sociali all’interno dell’istituzione stessa, e nasconde la natura catastrofica della fondazione istituzionale come monito che i cittadini non utilizzino nuovamente questi strumenti (Totem e tabù). Rouchy parla del “passare sotto silenzio” – da non confondere col patto denegativo – quale sistema di mascheramento dell’irrappresentabile, attraverso il “positivo” dell’istituzione. Non tutto quello che non si può dire è stato “rimosso”. Non c’è un meccanismo di difesa a sua volta inconscio che tiene nascosto qualcosa. Non tutto ciò che è inconscio è inconscio perché qualcosa ci dice che dobbiamo tenerlo nascosto. Ci sono alcune cose che non giungono alla coscienza in quanto irrappresentabili. Si parla di inconscio non convalidato, cioè tutto quello che non possiamo rendere consapevole perché non abbiamo fatto esperienza sufficiente di ciò che può generare quella conoscenza o esperienza rispetto al contenuto di cui stiamo parlando. Il modo di trattare l’irrappresentabile non nasce da una dimensione conflittuale (mentre tutti i meccanismi di difesa nascono da questo). Per l’istituzione è sufficiente stabilire il positivo – da intendere come ciò che si manifesta, esiste e ha senso discutere, potendo essere accertato scientificamente - dell’istituzione stessa. Il manifestarsi attraverso norme, dispostivi ecc. porta a negare tutte le altre forme, senza negarle. La riproposizione di una storia istituzionale nelle generazioni, di forme specifiche, automaticamente esclude altri modi di immaginare le cose che si fanno e come si fanno. Tutte queste formazioni intermedie che svolgono questa delicata funzione vanno a sedimentare nella struttura inconscia delle istituzioni, da immaginare come un soggetto. Se fosse un soggetto, l’istituzione avrebbe un inconscio. Rouchy immagina questo inconscio come sedimento di tutte le formazioni intermedie, che allude al fondamento dell’inconscio individuale e istituzionale che si fonda sull’ inconscio di un’altra istituzione. Tutti i miti fondativi hanno a che fare con delle rotture. Nella struttura psichica inconscia di un’istituzione c’è una verità: il darsi di quella forma istituzionale non è avvenuto perché degli elettori democraticamente lo hanno deciso, ma si tratta di un vero e proprio “assassinio”. Tanto più l’esperienza istituzionale precedente è dissimile da quella che si vuole proporre, tanto più veementemente vengono proposti i nuovi paradigmi della nuova istituzione. LA STRUTTURA PSICHICA INCONSCIA DELL’IST ITUZIONE La struttura psichica inconscia dell’istituzione è il risultato della strutturazione di queste formazioni bifaccia che tengono insieme i soggetti dell’istituzione e determinano, secondo le modalità causali proprie dell’inconscio, i processi psichici specifici che vi si sviluppano. Tale struttura precede ogni singolo soggetto e ogni istituzione si appoggia sulla struttura inconscia di un’altra istituzione. Questa doppia genealogia dell’inconscio merita, in un successivo lavoro, uno sviluppo più approfondito. Essa comanda l’organizzazione, ogni volta particolare, della rimozione, del rimosso e dei suoi derivati nella topica intrapsichica e in quella transoggettiva. È contro l’emergere di tale rimosso, e contro il riconoscimento di tale inconscio che per il sentimento dell’Io viene esternalizzato in modalità alienanti nell’istituito, che si stabiliscono le difese proprie dell’esistenza istituzionale e che si mantiene l’ignoranza della posta in gioco. Di qui trae origine la sofferenza dalla e nella istituzione. 3. SOFFERENZA E PSICOPATOLOGIA NELLE ISTITUZIONI SOFFERENZA DELLE/NELLE ISTITUZIONI È attraverso la sofferenza e la psicopatologia che si sviluppano nelle istituzioni che veniamo a conoscere questi processi e queste formazioni. È possibile distinguere tre fonti di sofferenza che nelle lamentele o nell’indicazione della causa appaiono intrecciate: una è inerente al fatto istituzionale stesso; l’altra ad una particolare istituzione, alla sua struttura sociale, alla struttura inconscia che le è propria; la terza alla configurazione psichica del soggetto individuale. Distinguiamo inoltre la sofferenza legata alla vita stessa, conseguenza delle restrizioni, delle costrizioni, delle disillusioni che accompagnano lo stare insieme. Essa dipende dalla divisione del soggetto stesso, dal divario tra l’oggetto e il desiderio, dall’angoscia, dal rapporto del soggetto con la verità. L’esperienza di lacerazione con cui la si sperimenta nell’organo psichico è appunto quella dello scarto, che rende il soggetto estraneo ad una parte di sé stesso e minacciato da ciò che in lui stesso è altro e dissigilla la sua integrità. Questa sofferenza porta ad un lavoro psichico, in particolare tramite lo sviluppo di meccanismi di difesa e il tentativo di realizzare soddisfazioni superiori. La mancanza di meccanismi di difesa e di sublimazione sfocia nella distruzione LA SOFFERENZA ASSOCIATA ALL’INSTAURAZIONE E AL MANTENIMENTO DELLO SPAZIO PSICHICO Nell’istituzione, lo spazio psichico si assottiglia con il prevalere dell’istituito sull’istituente, con lo sviluppo burocratico dell’organizzazione a scapito dei processi, con la supremazia delle formazioni narcisistiche, repressive, tese al diniego, difensive, che sorreggono l’istituzione contro un ambiente ostile, o nella strategia di dominio di certi suoi soggetti o quando una parte di essi si trova minacciata dall’emergere di forme elementari della vita psichica. Il divario tra la cultura dell’istituzione e il funzionamento psichico indotto dal compito è alla base della difficoltà di instaurare o di mantenere uno spazio psichico di contenimento, di legame e di trasformazione. Abbiamo già fatto una distinzione tra le difficoltà per l’istituzione di farsi carico della realtà psichica dei soggetti e la difficoltà che deriva dalla incapacità dei soggetti, nei periodi di cambiamento profondo, di ristabilire in sé stessi un appoggio sufficiente una buona istituzione affidabile nel momento in cui quella di cui sono membri mette in agitazione la struttura inconscia dei loro legami. Il pensiero, già naturalmente inibito nelle istituzioni altamente organizzate, arriva a perdere il proprio oggetto, fino a che non viene ristabilita, mediante appoggio su un’istituzione <<interna>> abbastanza forte, la funzione di contenimento. Una parte degli elementi psichici fino a quel momento non rappresentabili e non legabili in una attività di pensiero e di associazione può quindi essere trasformata. Si possono stabilire di nuovo i contratti narcisistici e giuridici, il patto denegativo, la comunanza nella realizzazione del desiderio. Sono il segno che lo spazio psichico è ristabilito. L’istituzione protegge così i propri soggetti dall’angoscia del cambiamento catastrofico. La catastrofe è inerente ad ogni cambiamento che mette in causa l’integrità e la continuità di un sistema. Alcuni meccanismi difensivi proteggono da tali cambiamenti. L’ideologia è una di queste difese dal cambiamento catastrofico. Essa tuttavia non ha efficacia assoluta e finisce così che capita un crollo che obbliga ad un cambiamento vitale: ora conosciamo meglio gli effetti delle rotture ideologiche sui singoli soggetti e sui gruppi, il risorgere, dapprima impensabile, di angosce paranoidi molto profonde, i ricorsi deliranti o psicosomatici che ne costituiscono il frutto contro cui l’ideologia era stata fino allora una protezione, con l’appoggio della gestione gruppale dei meccanismi difensivi nei riguardi del cambiamento catastrofico. Esistono altri modi di gestione gruppale dei meccanismi di dofesa contro il cambiamento catastrofico: per esempio quello che Bion chiama <<l’establishment>>, i cui meccanismi mirano a fare in modo che in un’istituzione i pensieri nuovi siano controllati, padroneggiati, limitati e banalizzati da parte dell’istituzione per porsi a servizio di ciò che Bion stesso chiama la menzogna mentre, al tempo stesso, l’istituzione trasmette l’idea nuova, deformandola e trasformandola. L’istituzione non è soltanto della realizzazione immaginaria dei desideri rimosso, ma è anche il luogo e l’occasione dell’organizzazione delle difese da tali desideri. Essa produce inoltre alcune difese specifiche contro ciò che metterebbe in pericolo la sua esistenza o il rapporto dei suoi soggetti con il compito primario che li riunisce. Essa, infine, assicura alcune difese contro angosce la cui origine e la cui fonte non sembrano direttamente legate al fatto istituzionale. In questo senso partecipiamo a istituzioni che ci offrono certe difese contro le nostre angosce. Qualunque sia l’istituzione, succede che essa espone i propri membri ad esperienze troppo angoscianti, senza fornire loro, di contro, esperienze sufficientemente soddisfacenti e in primo luogo meccanismi di difesa utilizzabili dai membri per proteggersi da tali angosce. Incapaci di offrire tale appoggio metadifensivo, le istituzioni vengono perciò attaccate dai membri la cui angoscia aumenta senza risorse possibili ponendoli di fronte ad una sofferenza intensa, inestricabile, catastrofica. IN SINTESI, SOFFERENZA DELLE/NELLE ISTITUZIONI. IN CHE SENSO? L’istituzione in sé non soffre. Soffrono le persone che vivono in essa, e soffrono del rapporto che ciascuno di loro intrattiene con l’istituzione in definitiva, l’istituzione sofferente è quella interna ai soggetti. Ogni istituzione è capace di una presa sul soggetto, ovvero di attecchirlo psichicamente, nella mente e nella coscienza. In generale le fonti di sofferenza sono legate:  All’istituzione in sé, con i suoi vincoli, le sue fonti di disillusione (si vedano le formazioni intermedie, che garantiscono una pace sociale, la possibilità di creare dei legami o di accedere tramite processi di assimilazione a ranghi di ruolo dentro l’istituzione con il contratto narcisistico, ma inevitabilmente pongono anche delle limitazioni anche molto severe alla libertà. Stare dentro un piano dele genere implica inevitabilmente un piano di malessere, che può essere connessa anche ad una sorta di disillusione, qualora il malessere sovrasti i vantaggi interni all’istituzione stessa).  Al prevalere dell’inestricabile, ossia dell’indifferenziazione tra soggetto e istituzione. Le formazioni intermedie, i vincoli, i divieti, le norme e le regole implicite ed esplicite che seguiamo, post-producono un certo tipo di malessere rispetto al quale ognuno di noi può interrogarsi. Ci sono delle circostanze legate alla dimensione inestricabile per cui l’inestricablità ha a che fare con l’omogeneizzazione della propria posizione rispetto agli altri membri dell’istituzione o alle altre parti dell’istituzione. Meno differenziazione c’è tra i soggetti, più c’è una comunanza in termini di rappresentazioni, immaginario, modo di sentire ecc., più è inestricabile la distinzione rispetto a quell’istituzione. La persona non si distingue dalle altre (confusione, mancanza di senso, non identità).  Al tentativo di superare l’indifferenziazione tra soggetto e istituzione, ristabilendo i confini tra sé e l’altro. Kate’s la chiama sofferenza radicale, perché è il momento in cui la persona si accorge che c’è qualcosa che. Non va e non si sente libera di esprimersi, pur sentendosi legittimo e non sentendosi incompatibile rispetto all’istituzione. A qualcuno può venire l’esigenza, se ne ha sufficientemente coraggio, di distaccarsi. Significa esporsi alla violenza temuta.  Al prevalere di stati passionali, ossia di un’angoscia intensa di tipo prepsicotico in cui vengono messe in gioco le funzioni di contenimento e difese in termini di frammentazione psicotica, legata al fantasma di una catastrofe che finisce per annullare il funzionamento delle formazioni intermedie. Se la dimensione dell’inestricabile continua a prevalere, la minaccia esterna o interna non si riesce a contenere e la paura di soccombere prende il sopravvento, il rischio è che l’istituzione si ammali gravemente e incontri sati passionali quasi febbrili, deliranti. Quello che si sente minacciato ma di fatto si realizza è la tenuta del legame sociale. Il paradosso è che per paura che l’istituzione soccomba, si mettono in atto operazioni che hanno la finalità di demolire quelle formazioni. Intermedie. Ogni tipo di abuso, la riemersione di ciò che è stato negato, diventa possibile. L’attentato al legame sociale, alla tenuta delle relazioni, diventa una possibilità operativa. Mettendo insieme questi tipi di sofferenza, in cui i processi di omogeneizzazione, confusione, amalgama istituzionale diventano sempre più evidente, l’autore individua dei casi particolari.  Disturbo della fondazione e della funzione istituente: c’è troppa o troppo poca istituzione (scarsi ideali istituzionali e scarso aggancio in termini di disillusione). Effetti: impoverimento dell’illusione istituzionale, della dimensione ideale, immaginaria, quindi debolezza del contatto narcisistico e del senso di appartenenza, quindi scarsa o nulla disponibilità al sacrificio e all’impegno.  Un altro elemento di disturbo è legato alla realizzazione del compito primario, un motivo essenziale che guida un’istituzione o organizzazione di lavoro. Il disturbo è legato alla presenza di dispositivi (compiti) che soppiantano o affiancano pericolosamente quello principale, ad esempio quello di proteggere tanto gli utenti quanto gli operatori. Se la necessità di sicurezza e protezione prevale, il compito primario viene messo in pericolo, in quanto molti compiti primari richiedono l’incontro con la sofferenza e le difficoltà. o Questo fenomeno riduce l’ingaggio narcisistico (scarso apporto narcisistico); o Attacco alla messa in comune dei desideri. Ha a che fare con la costituzione di gruppi di lavoro, anche meno formalizzati, che si rendono sempre più coesi sulla base dell’avere in comune uno specifico desiderio motivante. La situazione in cui un compito primario viene soppiantato da compiti secondari porta al decadimento di questa messa in comune.  Un altro disturbo è il disturbo associato all’instaurazione e al mantenimento dello spazio psichico: l’istituto prevale sull’ istituente. Se l’istituito – la dimensione burocratica di mantenimento di una struttura organizzativa – prevale o sostituisce la dimensione istituente, viene a mancare la motivazione prima dell’ingaggio dei singoli appartenenti all’istituzione stessa, e quindi quello spazio psichico condiviso, l’apparato psichico di gruppo e tutte quelle formazioni psichiche che garantiscono un senso di appartenenza. Un indicatore di questo tipo di malessere è la burocratizzazione. Rigidità narcisistiche, repressive, denegative: viene repressa la dimensione creativa tipica di tutte quelle funzioni produttive che hanno bisogno di impattare delle novità, dei cambiamenti. Sono rigidità che investono l’intera comunità istituzionale. La rigidità narcisistica fa riferimento al fatto che, nel momento in cui alcuni poteri nell’istituzione prendono il sopravvento, questi assolvono anche a microfunzioni narcisistiche localizzate. Si determina un ostacolo allo sviluppo di processi che alimentano i l legame, il contenimento e il cambiamento. Consideriamo anche la difesa ideologica contro il cambiamento, percepito come catastrofico. Le sue funzioni secondarie diventano quella primaria, e l’istituzione finisce con l’essere un’istituzione che deve garantire la sua sopravvivenza secondo i protocolli e i moti determinatisi nel corso del tempo, e non può più quindi adempiere al compito primario. Si possono costruire diverse posizioni di tipo ideologico per evitare che questo avvenga (ricordare l’effetto Muhlmann – in cui la profezia della fase istituente viene tradita –, il principio di falsificazione, o anche l’establishment descritto da Bion). Com’è possibile accogliere un cambiamento in un’organizzazione/istituzione che ha adottato una modalità burocratizzata di funzionamento che sovrasta il compito primario? Prendendo gli elementi di cambiamento, integrandoli affinché possano diventare coerenti con lo stato delle cose. Establishment in termini di processo, attraverso il quale alcune forme di innovazione vengono non semplicemente tradite, ma prese in giro, tradite nella maniera più vile, affinché possano essere mistificate attraverso processi di mistificazione ricondotti a quello che già esiste. L’ISTITUZIONE SECONDO EUGÈNE ENRIQUEZ Secondo Enriquez, l’istituzione svolge un ruolo di rigenerazione e regolazione sociale, quindi di sopravvivenza della comunità. Sopravvivenza e comunità vanno di pari passo (l’obiettivo di una comunità è quello di sopravvivere). Essa ha la pretesa di assolvere ad una funzione pacificatrice, organizzando uno spazio simbolico e normativo che permette l’emersione di pulsioni (sublimate e metaforizzate) e di fantasmi a sostegno del progetto ideale dell’istituzione. Le pulsioni non vanno azzerate, ma metaforizzate (sono metafora di qualcos’altro) e sublimate (progetti insani o di rottura rispetto ai legami sociali vengono trasformati in qualcosa di accettabile e governabile). L’istanza pacificatrice, se prende il sopravvento, può degenerare in una velleità dell’eros che nega – in una comunanza di diniego (siamo portati ad accettare che le cose vadano in un determinato modo) - ogni forma di differenziazione, cambiamento, creatività, criticità, realizzando uno spazio comune omogeneo e di fatto mortifero. Inoltre, l’istituzione ha un rapporto strutturale, ineluttabile, con la violenza: sul piano fondativo (qualsiasi istituzione nasce dalla violenza); sul piano legale (divieti, ingiunzioni, sensi di colpa, sacralizzazioni ecc.); sul piano delle dinamiche interpersonali e di gruppo (proiezione, scissione, dinamiche ingroup/outgroup, attacco al legame, paranoia ecc.). L’istituzione, nel suo ruolo di pacificazione, può essere intesa come un insieme di sistemi:  Culturali: ossia di valori e di norme, di pensiero e di azione (aspettative relative a cosa fare/pensare e chi, cosa e come farlo/pensarlo);  Simbolici: miti, riti, eroi, narrazioni con funzione unificatrice, di garanzia e di senso;  Immaginari: quale promessa di soddisfazione degli impulsi narcisistici e di protezione dai fantasmi di dissoluzione/frammentazione. In un simile quadro istituzionale, quali forme di malessere si presentano?  Incontro con l’arbitrio: violenza, assenza di significati, repressione, censura, rabbia distruttiva);  Eccesso di divieti: classica rigidità educativa, rimozione completa o quasi dei pattern pulsionali, senso di colpa, conformismo, rischio di proiezioni e rotture violente;  Deficienza di livelli: Io Ideale al posto dell’Ideale dell’Io, immediatezza rispetto all’altro e alla propria soddisfazione, impossibilità di accedere al senso di colpa;  Labirinto di divieti: norme serializzate ma incoerenti, incapaci di fornire un referente identificatorio stabile (personalità narcisistiche o oscillanti). In ogni caso, i <<pazienti>> di oggi appaiono disadattati, disorientati, incapaci di formulare richieste di cura adeguate, di desiderare, bisognosi di guida, esposti alla violenza di pulsioni mortifere, di odio. L’ANALISI DELLE ISTITUZIONI CHE RIVELA IL CARATTERE PARADOSSALE 1. Da un lato si tratta di luoghi pacificati, espressione di un mondo che funziona sotto norme interiorizzate e in cui regna se non proprio un consenso perfetto, almeno un accordo sufficiente ad intraprendere e portare avanti un’opera collettiva. A differenza delle organizzazioni, che hanno come scopo la produzione delimi, numerata e datata di beni o di servizi e che si presentano come contingenti (ad esempio, un’impresa può nascere o morire senza che tale nascita o scomparsa abbia grandi conseguenze sulla dinamica sociale), le istituzioni, nella misura in cui danno inizio a una specifica modalità di rapporto sociale in cui tendono a socializzare e a formare gli individui seguendo un pattern specifico e nella misura in cui si propongono di far durare un certo stato, giocano un ruolo essenziale nella regolazione sociale Queste istituzioni sono popolate da individui che per natura occupano posizioni asimmetriche. L’istituzione terapeutica non deroga a tale asimmetria. Anch’essa pone da un lato i medici, gli infermieri ecc. e dall’altro i clienti che possono essere definiti come oggetti delle loro tecniche. Esse però presentano una modalità di esistenza particolare: se nelle altre istituzioni i rapporti sono asimmetrici solo per un certo tempo, se quindi il figlio può diventare padre, l’allievo maestro ecc., se tutte le altre istituzioni prendono l’individuo di forza e gli assegnano un posto che non ha mai chiesto (il bambino non sceglie la propria famiglia, l’allievo la propria scuola, il soldato il proprio esercito), lo stesso non avviene per le istituzioni di cura. In queste, la relazione asimmetrica resta permanente e gli individui curati non diventeranno mai membri attivi di tali istituzioni. Inoltre, essi esprimono tutti, più o meno esplicitamente, una domanda di guarigione. Sono pazienti che vengono per ricevere un aiuto, un’assistenza. Arrivano pieni di speranza e pronti alla sottomissione, ma anche con le loro esigenze e la loro possibilità di rivolta e di violenza.  Incontro l’arbitrario. Sono esseri che nella loro vita hanno incontrato l’arbitrio e non una legge strutturante. Vengono da un’esperienza di eccesso: in qualche caso eccesso di contatti erotici, di amore invadente, di attaccamento inglobante, di botte ecc. che li hanno fatti vivere in situazioni di carenza affettiva insopportabili. Non hanno avuto la possibilità di confrontarsi né con limiti e divieti spiegati, accettabili e quindi strutturanti né con un amore positivo in grado di favorire la progressiva autonomia della loro personalità. Non sono stati posti in condizione di vivere la rimozione necessaria alla costituzione di un soggetto vivente che è sempre il segno che l’istanza rimovente ha marcato la sua presenza, la sua attenzione e il suo interesse affettivo nei confronti di colui sul quale interviene. Se avesse avuto luogo, una rimozione del genere avrebbe creato cultura e linguaggio e avrebbe aperto la porta della sublimazione. Non possono quindi porsi come soggetti della cultura e possono indurre soltanto una rimozione arbitraria che impedisce la fantasmatizzazione e l’avvio di un senso. Può essere in gioco un’altra determinazione: l’assenza di qualsiasi discorso di rimozione da parte dei primi educatori. In tali condizioni, i pazienti non hanno avuto modo di confrontarsi con l’odio e la repressione. Se la rimozione è dell’ordine del divieto e del linguaggio, la repressione è dell’ordine della censura e della violenza. In tal caso, nessuna struttura significativa può essere costituita. Ciò che viene istituito è una mancanza di speranza associata ad un aumento di angosce di morte, un’assenza di forma, un’impossibilità di accedere al desiderio e a volte addirittura un odio mortale per il desiderio. In entrambi i casi, gli individui vivranno la perdita del senso e della possibilità di costruire un senso. La richiesta di questi pazienti è provocata sia da un eccesso che da un difetto di proibizioni, quando non si tratta dell’impossibilità di ritrovarsi e di definirsi nel labirinto dei tanti divieti loro imposti senza alcuna gerarchia.  L’eccesso di divieti. Così lo vivono i pazienti che hanno subito un’educazione rigida in cui non si tratta soltanto di trasgredire il divieto, ma di considerare ciò che esso indica con orrore, come espressione del demoniaco nascosto in ogni essere. Quando capita una cosa del genere si assiste ad uno sviluppo del senso di colpa, derivante dall’angoscia davanti al ritiro d’amore, dall’angoscia davanti al Super-Io (indispensabile alla creazione e alla permanenza della civiltà) tale da indurre, mediante la rinuncia quasi completa alla soddisfazione delle pulsioni, livelli di tensione intollerabile. Si ha a che fare con individui incapaci di seguire il programma del principio di piacere, che non sanno più amare, adatti ad un lavoro minuzioso, pronti a sacrificarsi ad un ideale e lieti di sottomettersi agli obblighi morali, incapaci di desiderio poiché esso non può essere dissociato dal piacere. Soggetti socialmente istituiti, che vivono nello spazio sociale e corrono un rischio calcolato del loro spazio psichico o che l’hanno nutrito esclusivamente di divieti, sono morti a sé stessi perché sono sia incapaci di porsi in questione e di dubitare che di porre in questione e di trasformare il mondo in cui devono vivere. Sono incapaci di creatività. Finché non avvertono il bisogno dell’istituzione terapeutica o formativa, finché non provano qualche frattura nella loro corazza si accontenteranno di vivere come morti viventi e di far pagare al loro ambiente, alla loro famiglia ecc. Essi potranno solo esercitare la loro volontà di controllo facendo piegare gli altri sotto il peso delle loro esigenze e riversando su di loro le proprie pulsioni aggressive. Molto spesso diventano esseri pieni di odio e persecutori. Basta che avvenga un’incrinatura (in particolare provocata da un rigetto cui non sono preparati: una messa da parte, un divorzio, un rifiuto da parte dei figli ecc.) e di colpo si sentono perseguitati, non capiscono più quello che sta succedendo e oscillano tra la follia e l’idea del suicido. Possono vivere livelli di tensione così elevati da riversare fuori in un colpo solo l’energia troppo a lungo repressa e da fare ciò che non avevano mai osato sognare ed avevano sempre imputato ai loro avversari: sentono montare dentro emozioni di cui non si ritenevano capaci e vengono a chiedere aiuto. Terapeuti e formatori conoscono bene individui del genere, il cui problema è quello di non aver potuto ammettere e accettare di tener conto dei propri conflitti e della propria sofferenza e che funzionano sotto l’egida di un’ideologia protettiva che impedisce loro di vivere e di pensare. Conformisti, gente sociale e non di cultura sono sempre alla mercé di una rottura a cui non sanno far fronte.  La deficienza di divieti. La civiltà moderna favorisce la fioritura di individui abbandonati a sé stessi, per i quali i genitori non sono serviti da punto di riferimento perché, vivendo essi stessi in una situazione di smarrimento o impotenza psicologica, sono stati incapaci di enunciare i divieti strutturanti. Individui di questo tipo sono sprovvisti di Super-Io e di Ideale dell’Io. Se gli individui che hanno sofferto di un eccesso di divieti sono mossi da un senso di colpa insopportabile, questi al contrario sono inadatti al senso di colpa e al rimorso. Non avendo subito alcuna rimozione funzionano sul registro della ricerca della soddisfazione immediata. Soffrono violentemente di non aver mai trovato dei punti di appoggio, ma non lo sanno. Dovrebbero imparare a soffrire per passare dalla condizione di esseri in sofferenza a esseri di sofferenza, cioè esseri capaci di pensare e di agire.  Il labirinto dei divieti. Se per certi aspetti la nostra civiltà esprime la mancanza di divieti strutturali, per altri essa moltiplica i divieti e gli obblighi carici di arbitrarietà. Gli individui si trovano presi in una serie di norme non gerarchizzate che impediscono agli individui di avere un punto di appoggio. Così vengono sballottati da una norma all’altra, da norme ufficiali a norme non ufficiali, da norme di solidarietà a norme di individualismo. Come potrebbero riconoscervisi? Più la civiltà si differenzia e meno promulga leggi univoche, più l’individuo perde i propri riferimenti identificatori, la sua identità viene messa in causa ed è costretto a processi di riorganizzazione della personalità. Le uniche soluzioni per gli individui sono il ripiegamento su di sé (la personalità narcisistica) e la scelta di una norma valorizzata temporaneamente (che serve da ideale e detta legge alla vita) che sfocia nella creazione di quella che potremmo chiamare personalità oscillanti. La caratteristica essenziale di personalità di questo tipo è compulsione all’impegno e al disimpegno, al sovrainvestimento e al controinvestimento, senza rimessa in questione radicale e senza cambiamento intero. Bruciano ciò che hanno adorato, adorano ciò di cui si facevano beffe, passano da illusione a illusione sempre sicuri di stare nella verità. Personalità narcisistiche e oscillanti non chiedono aiuto perché sono incapaci di interrogarsi. Solo quando la loro tranquillità viene intaccata si risveglia in loro il dubbio e cominciano a vacillare. Questi sono i meno attraversati dalla pulsione di morte, proprio perché sentono crescere dentro di sé l’angoscia di vivere. Essi si presentano come individui disadattati, spezzettati poiché il principio unificatore viene meno, attraversati dalla pulsione di morte degli altri che hanno interiorizzato e che rivolgono contro sé stessi e/o contro il loro ambiente, spinti dall’odio per sé e per gli altri e a volte privi di qualsiasi desiderio. Il loro stato di impotenza dovuta alla situazione di cataclisma che hanno vissuto li spinge sull’orlo del caos, sul quale possono oscillare (delirio) o sprofondare. Il loro psichico è in pericolo di morte. L’ÉQUIPE CURANTE Questi individui incontrano <<operatori sociali>> che li prendono in carico all’interno di un’istituzione che funziona secondo i criteri già definiti in precedenza. Dobbiamo dunque chiederci da cosa sono motivati questi operatori nei loro rapporti coi pazienti.  Esseri marginali. Questi esperti sono degli esseri marginali. Se la società contemporanea è una società di produzione e un luogo in cui ciascuno è sollecitato nella propria capacità di decidere da sé, a dominare ed entrare in competizione, tutte queste persone non si interessano né alla produzione, né alla decisione o al potere, quindi a tutto ciò che costituisce l’essenza di questa società. Essere marginale significa comportarsi in modo non congruente con il sistema sociale e prendersi a cuore ciò che ad esso poco importa. Tuttavia, la compiacenza per la propria azione e l’interesse per il proprio ruolo può condurre il terapeuta a instaurare un processo di derealizzazione.  Persone esse stesse preoccupate per i loro problemi psichici. Questi esperti sono stati essi stessi preoccupati per i loro problemi psichici risolti male o in modo sufficiente. È constatato che il terapeuta continua il lavoro di esplorazione della propria psiche nel rapporto coi suoi pazienti.  Esseri in cambiamento. Infine, il terapeuta percepisce l’individuo come un essere in cambiamento che vive dei suoi conflitti, delle sue contraddizioni e del tentativo di trattarli. Desidera favorire nell’altro un processo di scoperta della verità che lo costituisca e lo istituisca. IL FUNZIONAMENTO ISTITUZIONALE I fantasmi e i progetti dei terapeuti si iscrivono in un funzionamento istituzionale che concorre al dispiegarsi del lavoro della morte. L’istituzione è un luogo in cui si sfiorano diversi tipi di addetti alla cura che occupano statuti e ruoli teoricamente stabilizzati e tra i quali si annodano rapporti di potere.  L’ideologia egualitaria. Le istituzioni vivono sotto il riparo di un’ideologia egualitaria. Ognuno degli operatori sociali ha nel suo campo un ruolo terapeutico. La cooperazione si pone come una necessità, ma appena affermata è subito smentita. Ogni specialista, infatti, può soccombere al desiderio di pensare che i progressi del paziente sono dovuti unicamente alla tecnica specifica da lui utilizzata, per la quale l’azione degli altri è solo un ostacolo. Gelosia e rivalità si manifestano sia per quanto riguarda le tecniche che per quanto riguarda il problema: chi è il <<proprietario>> del malato? Le istituzioni risolvono la questione creando delle sedute di lavoro comune sui casi problematici e sedute per regolare il lavoro di squadra che hanno per fine la risoluzione dei conflitti che potrebbero sopravvenire. Significa fare poco caso ai differenti poteri esercitati dai diversi operatori: la parola di alcuni può avere maggior peso istituzionale di quella di altri, la parola degli anziani più di quella dei nuovi. Questi rapporti di potere rendono difficile il trattamento dei casi chiamati in causa. Le vere questioni vengono raramente affrontate perché se ciò avvenisse potrebbero saltare fuori conflitti che metterebbero in causa la sicurezza e l’identità di ciascuno.  Il fantasma dei primi fondatori. In questi tipi di insiemi si aggira un fantasma, quello dei primi fondatori e dell’involucro mitico da loro forgiato che ha permesso la fondazione dell’istituzione. Tale fantasma gioca un quadruplice ruolo: o esprimere che nei tempi primordiali esisteva un gruppo molto unito, senza problemi interni e che sapeva quello che voleva perché era mosso da un progetto coerente; da qui il crescere di un senso di colpa nei nuovi che non arrivano a mostrarsi degni di tali antenati; o mantenere il potere dei fondatori, quando continuano ad essere presenti nell’istituzione, che persistono nel presentarsi e nel voler essere presi come poli ideali e riferimenti identificatori; anche se, tenendo conto dell’evoluzione dell’istituzione, il mito o l’ideologia da loro proposta ha qualche probabilità di occultare la realtà della situazione presente; o non rimettere in causa il progetto iniziale, che mostrerebbe le falle o le incongruenze presenti fin dall’inizio e che stanno all’origine delle difficoltà presenti. o favorire le storie, le leggende, le voci più folli che attestano da una parte la presenza sotterranea di una scena primaria insopportabile, riprodotta con delle aggiunte di carattere drammatico, dall’altra la perpetuazione di una serie di <<crimini>> diversi passati sotto silenzio, che una volta evocati si rivelano avvenimenti irrisori che però sono serviti a dare un andamento tragico all’insieme della vita istituzionale. Tutti questi elementi (colpevolizzazione, potere, difficoltà di cambiamento, colpe inconfessate) fanno dell’istituzione una grande macchina che incontra la più grande difficoltà ad abbandonare i luoghi di origine per preoccuparsi dei problemi quotidiani da risolvere.  L’autonomizzazione della vita fantasmatica. Ciò che in realtà è il prodotto storico delle idee, dei sentimenti, degli atti posti dai membri dell’istituzione, non viene riconosciuto in quanto tale e finisce per vivere di una vita fantasmatica autonoma e costituire un involucro protettivo e angosciante insieme, che emana ingiunzioni alle quali è impossibile disobbedire. L’istituzione diventa un <<artefatto>> che guida la condotta dei suoi membri. L’istituzione non è altro che ciò che essi ne fanno. Di conseguenza, gli individui provano dei sensi di colpa ogni volta che diventano creativi perché hanno la sensazione di trasgredire valori sacralizzati ai quali aderiscono o dei quali hanno paura. Le due soluzioni che restano loro sono semplici: o obbediscono a tali ingiunzioni vivendole come proprie benché esterne (anche se a volte le hanno interiorizzate); o aggirano le regole e si comportano in modo diverso dal previsto, ma senza osarlo dire per la paura di essere giudicati negativamente: si stabilisce quindi il segreto, un segreto pesante sempre sul punto di essere scoperto. Quando parlano di ciò che fanno non solo non dicono la distruzione, segno dell’odio per la forma vivente e quello della distruzione dell’unità-identità, segno di amore per la varietà. Le istituzioni – in particolare le istituzioni di cura – ossessionate dalla morte psichica, volendo evitarla corrono il rischio di vedere in Thanatos soltanto la faccia demoniaca del tutto reale e di cederle tutto il campo da investire. Se però esse accettano di non intimidirsi davanti alla morte possono avere una possibilità di far sorgere la vita. Autorizzare significa <<dare autorità>> o riconoscere a qualcuno la facoltà di fare legittimamente qualcosa, e permettergli in tal modo di realizzarlo. Ciò suppone l’esistenza di una relazione di subordinazione o di dipendenza, di un rapporto gerarchico tra colui che dà l’autorizzazione e colui che la sollecita e la riceve. La concezione dell’autorità è collegata ad un pensiero arcaico, ampiamente diffuso nella nostra cultura. Secondo l’etimologia (auctoritas, da auctor derivato da augere: aumentare, far crescere), l’autorità è prerogativa dell’autore, di colui che crea, genera. Da qui l’idea che ogni autorità alla fine venga da Dio. La contropartita di questa teoria pratica è l’ipotesi a lungo sostenuta da una psicologia biologica che incoraggiava il mito del “capo nato”. Pur non essendo evidente, è frequente il rapporto con la sessualità: la genitalità spinge in questa direzione. A livello di rappresentazioni semplificate, vi sono quelli che si presume possiedano naturalmente l’autorità e quelli che ne sarebbero sprovvisti. In generale, il concetto sembra principalmente ancorato nell’area della psicologia, o meglio della psicoanalisi e della psicologia sociale. Le problematiche dell’autorità e dell’autorizzazione interessano innanzitutto degli individui, delle persone, dei soggetti, dei gruppi nelle loro inter-relazioni asimmetriche, più ancora simboliche che funzionali. Negli spazi educativi per l’infanzia o l’adolescenza (famiglia, scuola), predomina come accezione più diffusa quella dell’”accordare un permesso”. Ma quest’uso maschera una problematica ancora più essenziale per l’antropologia, l’educazione e lo sviluppo del soggetto: quella dell’autorità psichica arcaica, elaborata secondo gli psicoanalisti fin dalla preistoria. Dai loro punti di vista, junghiani, freudiani o lacaniani hanno sottolineato la pregnanza delle figure parentali archetipiche nella costituzione dell’apparato psichico, attraverso le sue istanze raffigurate come Es, Super-io e Io, e le trasformazioni transferali che ne derivano a livello dei sostituti di questi “modelli”, così investiti di “contenziosi” fantasmatici. In questa prospettiva, la conquista dell’identità dipende dal gioco dei processi d’identificazione radicati nella dipendenza. Michel Lobrot e Gérard Mendel sostengono che l’umanità abbia preso coscienza, lentamente, del fatto che l’autorità era l’ostacolo essenziale alla sua liberazione e che bisognava distruggerla. Si deve quindi spezzare questa catena e congedare l’uomo primitivo. Da parte sua, Misumi (1985), volendo costruire una teoria più obbiettiva della leadership, arrivava ad un analogo atteggiamento di esclusione. I concetti di autorità e potere gli sembrano talmente polisemici da non poter più essere considerati come elementi su cui fondare un’analisi scientifica rigorosa delle realtà che potrebbero descrivere. Due “fattori”, “P” (performance) e “M” (manutenzione, cura), possono sostituire questi termini troppo ambigui. Ne scaturirà una tipologia, che potrà essere sostenuta anche da un’elaborazione statistica, “fattoriale”, di un numero molto elevato di dati empirici (tipi: PM, pm, Pm, pM). Indipendentemente dalla questione della leadership, certi aspetti di tali posizioni appaiono contestabili. Il vero problema sembra essere quello del passaggio dalla rappresentazione psico-arcaica dell’autorità alla rappresentazione di un approccio, di un processo d’autorizzazione, intesi come capacità sempre in via d’acquisizione, raggiunta sia attraverso il lavoro e gli effetti complessi dell’educazione che con l’esperienza di vita, del diventare sé stesso, co-autore di sé stesso l’autorizzazione dei soggetti in formazione diventa la meta essenziale dell’impresa educativa e terapeutica. L’autorizzazione è su un versante più esplicitamente soggettivo e psicologico, cioè che corrisponde, sul versante socio-economico, all’autonomia. Per tutti questi motivi, questo concetto conserva la sua utilità e non può più essere confuso con la questione della devoluzione del potere, che resta ad esso estranea. Ma questa problematica contraddittoria che interessa contemporaneamente il rapporto con la legge e la sua necessaria trasgressione, suppone il superamento del fantasma legato alle origini (autogenerazione) e la negazione solamente magica di ciò che vi si oppone. Il concetto di autorizzazione può anche assumere delle forme più impersonali. la consuetudine sarebbe autorizzata dall’uso e l’impunità autorizzerebbe il crimine. Si è comunemente autorizzati dalla legge, talvolta da un atto d’imperio di un sovrano ad entrare in possesso di certi beni, a far valere certi diritti. L’aggettivo autorizzato/a indica sia chi ha ricevuto l’autorità e la esercita, sia chi ha ottenuto un’autorizzazione, nel senso del permesso. La persona autorizzata evoca anche l’idea di competenza, già legata al concetto di autorità. Si può rilevare una certa parentela di senso tra autorizzare e istituire. Allo stesso modo, sussiste confusione di senso tra i significati dei termini “potere” e “autorità”. L’autorità dello Stato o del governo, evocano esplicitamente delle persone (giuridiche), ma, poiché indicano delle entità, interessano piuttosto la problematica sociologica e politica del potere, in senso più funzionale. La potenza, invece, a partire da una polisemia che rimanda a delle metafore meccaniche o a delle analogie biologiche (sessuali), lascia intravedere più agevolmente le sue radici immaginarie e fantasmatiche, sempre legate al destino delle pulsioni e alle loro trasformazioni. L’autorità sarà allora definita come il potere di farsi rispettare e obbedire, quello di comandare e decidere. In quest’ottica si pone la questione dell’autorità dei genitori, del maestro, dell’insegnante, del formatore nella relazione educativa. Anche qui si deve distinguere dalla relazione di potere, con cui interferisce costantemente. L’insegnante, il formatore ecc. assolvono a varie funzioni nel quadro di sistemi più o meno definiti. Lo fanno in quanto agenti o attori. A questo proposito essi esercitano delle competenze, delle capacità, dei poteri che devono usare e di cui rischiano d’abusare, contravvenendo in tal modo alle leggi civili o penali. È preferibile riservare l’uso della parola “potere” a questi aspetti organizzativi e istituzionali delle loro funzioni. L’intelligibilità di queste dipende soprattutto da un’analisi socio-politica (organizzativa e istituzionale). Ma queste stesse persone sono ancora, in quanto figure d’autorità, oggetti di desiderio, di manifestazioni transferali, di proiezioni e di investimenti affettivi più o meno inconsci attraverso le “domande” dei loro interlocutori. Oltre le loro funzioni e i loro status formali, riempiono ancora e giocano più informalmente dei ruoli. Essi devono diventare, in questo senso, autori. La chiarificazione di tali processi rientra piuttosto in un’ottica psicoanalitica. Questi non sono per nulla gli stessi processi, meccanismi psicologici e psicosociali, le stesse rappresentazioni del determinismo che si trovano messe in atto nell’uno o nell’altro versante di questa relazione complessa. In quest’ottica, l’autonomia ricercata dei soggetti in formazione nell’organizzazione educativa rappresenta il versante più oggettivo, dichiarato in termini di diritto, più strutturato, più sociale, mentre i processi d’autorizzazione psicologici, se non psicosociologici, rappresenterebbero piuttosto un versante intersoggettivo e soggettivo. In fin dei conti l’autonomia, attraverso le sue connotazioni biologiche ed economiche, concorda meglio con le idee di spazio e di territorio, mentre l’autorità e l’autorizzazione restano inscritte in una temporalità-durata, una storia e una memoria. Non sembra pertanto che possano essere comprese negli stessi paradigmi. Si tratta di epistemologie che vanno distinte. Quando gli psicoanalisti, nell’ambito della loro esperienza vissute e nel corso della loro formazione parlano di abilitazione, si tratta sia d’autorizzazione personale e di valutazione, sia di riconoscimento da parte degli interlocutori (a livello micro e meso-sociale, entro dei “noi”, e a livello più istituzionale e quindi macro- sociale). Il concetto di comunità e le teorie che vi si ricollegano possono apparire interessanti e necessarie per una psicosociologia che lavora spesso all’interno di organizzazioni o di gruppi collocati entro strutture istituzionali, ma anche trasversalmente alle varie realtà organizzative e istituzionali. Più avanti elencheremo alcune ragioni che hanno spinto ad abbandonare il termine <<comunità>> in Francia. Il termine <<comunità>> indica un insieme i cui elementi sono collegati tra loro da ciò che hanno o fanno in comune: dei genitori per una fratria, una contrada per i suoi abitanti, una lingua, una storia, degli interessi, dei beni, delle leggi, un impegno morale, politico, religioso, una guerra. Di per sé, la parola comunità non precisa ciò che è comune; non precisa neanche quali tipi di relazioni o di emozioni sono collegate a questo comune, a questa appartenenza all’insieme. Gli usi del termine <<comunità>> non distinguono esplicitamente tra reale e virtuale: la comunità come aggregazione concreta (una famiglia, i monaci di un convento ecc.); la comunità come sistema di relazioni o di status (i fans di una star, le comunità scientifiche); le comunità potenziali o virtuali di internet o quelle della specie umana. Studiando le nozioni riprese dalla sociologia rurale per indicare le unità di villaggio, Nicole Eizner (1974) critica in modo particolare l’uso del termine “comunità” per confusioni che ingenera e per le connotazioni ideologiche. Uno dei punti centrali a cui si collega questo uso è il riferimento a un’immagine idealizzata della società contadina che comporta, per l’autore, cinque punti: 1. L’idea di un “noi” sociale armonioso, pacifico, che implica che ciascuno abbia il proprio posto r che ciascuno, dal proprio posto, agisca per il bene comune; 2. L’idea di una forte interazione e di una grande ricchezza di relazioni sociali; la comunità è il contrario della solitudine. L’individuo è inserito, ha delle radici, è preso in carico e sostenuto in ogni momento della sua esistenza; dualismo iniziale a favore di una posizione molto più analitica che moltiplicava le variabili. In conclusione, rispetto a quello che può essere definito come il paradigma comune dei fondatori (Tonnies, Durkheim, Weber) si può arrivare ad una posizione sintetizzabile in cinque punti. 1. È necessario abbandonare lo schema evoluzionista. Questo sarebbe valido per gli ultimi secoli solo a condizione di escludere dall’orizzonte: il movimento operaio, il progetto comunista che sostiene una società senza classi e un’associazione pacifica in cui il libero sviluppo di ciascuno è la condizione per il libero sviluppo di tutti, i socialisti utopici, il nazismo ecc. 2. Max Weber, nella sua riformulazione del pensiero di Tonnies, in cui si oppongono “comunitarizzazione” e “societarizzazione”, senza rinunciare a considerarli come concetti sostanziali, ha indicato una strada per trattarli soprattutto come processi dinamici. 3. Si possono considerare comunitario e societario non come caratteri storicamente in successione, ma come due dimensioni di ogni raggruppamento umano. Ogni sistema d’azione comporta una componente relazionale eventualmente produttrice di identità; ogni sistema di relazioni, ogni situazione di riunione o di vicinato è potenzialmente produttrice di azione. 4. È da rifiutare l’idea per cui in ogni raggruppamento in cui la dimensione comunitaria sarebbe più forte, meno elevato sarebbe il grado di societarizzazione e di individualismo, e viceversa. Si può avanzare invece l’ipotesi inversa per gli ultimi due secoli: più si è affermato l’individualismo, più i sono sviluppate le preoccupazioni, le riflessioni relative ai contenuti comunitari e le manifestazioni concrete di processi comunitari. Per quanto si conservi questo dualismo rivisto e la relativa dialettica, è possibile rintracciare, nella storia delle società, dei momenti in cui la loro opposizione tende a sviluppare le due dimensioni e altri momenti in cui le due dimensioni vengono meno con ripercussioni teoriche. 5. Il fatto di descrivere una situazione o degli avvenimenti utilizzando i due concetti, messi in contrapposizione da Tonnies, costituisce già una interpretazione che raggruppa in un approccio olistico un insieme di componenti e di variabili. soltanto la loro scomposizione analitica permette di valutare in quale misura l’interpretazione stessa sia giustificata o debba essere contestata. Lo studio del conflitto deve prendere in considerazione tutti quegli scontri nei quali si cerca di conservare o far valere vantaggi e interessi di varia natura – economici, politici, simbolici, immaginari o affettivi – che riguardano pertanto proprietà, denaro, potere, prestigio, sapere e altro. I conflitti esprimono rapporti di forza tra esigenze contraddittorie che si contrappongono in modo manifesto o latente, diretto o indiretto: conflitti intrapsichici, interpersonali, all’interno dei gruppi o tra i gruppi sociali. Giochi, competizioni e dibattiti sono forme attenuate di conflitto. Nelle manifestazioni estreme, come la guerra, si esprime l’odio dell’avversario, la volontà di annullarlo a livello psichico, fisico o sociale. un’altra questione concerne lo scarto tra gli studi sociopolitici sul conflitto e quelli psicologici. Se si considera il conflitto dal punto di vista psicologico come riferito solo alla realtà intrapsichica, si può dire che si manifesta quando, nel soggetto, si oppongono istanze interiori contrarie. Non deriva da uno scontro tra individui o gruppi ma si inscrive nell’intimità del soggetto, a livello dei rapporti tra istanze psichiche. In un’altra prospettiva alcuni studi sociologici e politici individuano nel potere il nodo centrale del conflitto. Secondo Touraine (1986), il conflitto sociale compare quando si introduce il tema del potere. L’autore definisce il potere come la capacità di un attore di dominare i rapporti sociali all’interno di un sistema sociale, in particolare la ripartizione dei beni sociali come l’autorità, il reddito e l’educazione. In questo caso la polarizzazione di interessi e di esigenze implica una pluralità di soggetti, nel senso che la distribuzione di beni o le preclusioni che ne derivano rinviano sempre ai rapporti con l’altro. La distinzione tra il campo della psicologia e quello di altre scienze sociali non impedisce che si riconosca l’importanza della realtà psichica nello studio dei conflitti tra individui e collettività. Con queste considerazioni ci si propone di sottolineare che l’analisi psicosiociologica del conflitto presuppone un approccio interdisciplinare. In effetti, la considerazione dei fenomeni psichici e affettivi non è estranea alle dimensioni politiche. La trama nascosta della vita intima del soggetto non potrebbe essere intessuta fuori da un contesto sociale. Inoltre, si potrebbe aggiungere che l’inconscio gioca un ruolo essenziale nell’insieme dei comportamenti umani che segnano la vita politica di tutte le istituzioni. CONFLITTO E ORGANIZZAZIONI SOCIALI Gli studi sociologici sul conflitto si collocano secondo due concezioni della società e delle sue istituzioni: da un lato, quella che tenta di disegnare la vita sociale secondo i principi dell’armonia e dell’equilibrio; dall’altro, quella che considera il conflitto – e con esso il cambiamento o le rotture dei legami sociali – come elemento intrinseco e necessario alla dinamica sociale. Nel primo caso, il conflitto è visto come una perturbazione del sistema sociale. Se l’equilibrio e l’armonia costituiscono lo stato normale dei sistemi sociali e se i conflitti sono segni di una perturbazione o di uno squilibrio funzionale, è necessario ricercarne le cause a livello “meta-sociale” (problemi psichici, per esempio), individuare cioè cause estrinseche alla società. Da questa ipotesi derivano due conclusioni problematiche: prima di tutto, derivando da uno squilibrio, il conflitto presupporrebbe il passaggio da una patologia individuale a una patologia sociale; inoltre, ogni conflitto sarebbe il segno di un’anormalità o di una perturbazione che deve assolutamente reprimere. La prospettiva struttural-funzionalista differisce da quella psicosociologica, soprattutto nella modalità di richiamare spiegazioni di natura psicologica. Riconducendo ogni possibile contestazione a disordini affettivi individuali, l’approccio funzionalista riconosce la possibilità di una patologia sociale solo quando il conflitto appare come la conseguenza di patologia psicologiche. Diversa è l’ipotesi proposta da altre correnti sociologiche (Marx, Sorel, Stuart Miller ecc.), secondo cui ogni gruppo e ogni sistema sociale sono essenzialmente messi in movimento da conflitti. L’esistenza del conflitto è anzi auspicabile, in quanto indica l’unica via percorribile per il cambiamento e lo sviluppo sociale. Il Dizionario di politica (Bobbio et. al) richiama anche un terzo approccio al conflitto, che potrebbe essere collocato in una posizione intermedia: la prospettiva funzionalista di Merton. Rispetto a essa, tra le argomentazioni proposte dai vari studiosi può essere interessante riprendere l’analisi di Dahrendorf (1961). Secondo questo autore, Merton ammette l’esistenza dei conflitti come risultanti da strutture sociali, ma li identifica come disfunzioni, forze distruttive e perturbatrici del sistema. Non afferma che i conflitti impediscono il funzionamento sociale, ma sostiene che contribuiscono a un non-funzionamento dei sistemi. Il concetto di disfunzione chiarisce poco l’esistenza dei conflitti, poiché Merton non risponde alla domanda di fondo: che cos’è il non-funzionamento delle società? D’altro canto, Merton propone una “tipologia delle modalità di adattamento individuale” alle strutture sociali. Tra le cinque modalità di adattamento, le prime quattro sono al servizio stesso del funzionalismo: conformismo, innovazione, ritualismo, protesa. La quinta, l’atteggiamento di rinuncia (retreatism), che si ricollega a disprezzo dei valori sociali e rifiuto dei mezzi istituzionali, comporta, più delle altre, una forte densità ideologica. Nonostante Coser critichi il funzionalismo, finisce per farvi riferimento in modo essenziale nella sua analisi dei conflitti sociali, perché sostiene che portando a varie disgregazioni, essi sono “funzionalmente positivi” e possono permettere di ristabilire l’unità dei sistemi sociali. In questo senso ogni scarico di tensione tra elementi ostili avrebbe una funzione stabilizzatrice, così come la mutua dipendenza dei gruppi in conflitto impedirebbe la disintegrazione del sistema. Dahrendorf sottolinea che questa tesi riduce i conflitti alla loro funzione di integrazione. I conflitti sono “funzionali” nel senso che, grazie all’essere espressi e trattati, possono contribuire ad una evoluzione necessaria delle norme e delle strutture dell’organizzazione: possono facilitarne l’adattamento all’ambiente circostanze, ridurre le tensioni psicologiche e interpersonali risultanti dalla inadeguatezza delle risposte che danno ai bisogni individuali. Questa problematica è presente in modo più o meno esplicito in tutta una corrente della psicologia sociale fondata sull’ipotesi che i conflitti potevano essere considerati come segnali che rinviano a problemi di formazione, di comunicazione, di autorità o allo scontro tra stereotipi sociali. Le obiezioni sollevate da Dahrendorf mettono in luce un nodo centrale rispetto allo studio dei conflitti. È necessario distinguere integrazione da interazione. Ogni conflitto infatti suppone un’interdipendenza (sarebbe una sorta di interazione) delle parti in lotta. A questo proposito, Touraine (1986) parla di una relazione antagonista tra due o più unità di azione, ciascuna avente i propri conflitti, che costituiscono gli elementi di un sistema e l’unità di un campo. Non esistono conflitti tra unità di azione o tra attori sociali che non appartengono ad uno stesso sistema (ad es. non esistono conflitti tra casalinghe tedesche e giocatori di scacchi peruviani, perché tra questi due gruppi non vi è alcuna relazione). Il conflitto tra datori di lavoro e lavoratori, invece, implica un’interdipendenza tra i due gruppi e anche se a volte permette negoziazioni soddisfacenti per ambedue le parti, non significa che tra loro si arrivi ad un’integrazione, una cooperazione. I conflitti non hanno una funzione definita, nel senso di promuovere il cambiamento e lo sviluppo sociale o di provocare guerra, violenza, rotture del legame sociale. attribuire al conflitto una funzione positiva o integrativa, significa ignorare la sua natura essenzialmente ambivalente, significa sottrargli il suo intrinseco contenuto di incertezza, perfino di minaccia. Il pensiero funzionalista trascura sempre la domanda essenziale: chi determina ciò che è normale e legale? qual è la buona struttura sociale, il buon governo? Chi conserva il potere di decidere ciò che conviene alle istituzioni, alle società ecc.? Non porsi questi interrogativi lascia aperta la via ad ogni forma di autoritarismo. ANTROPOLOGIA DEL CONFLITTO Alcuni modi di dire del linguaggio corrente che riguardano i rapporti tra individui e gruppi, li inscrivono nel sogno antistorico dell’armonia, o nella retorica dell’integrazione o della coesione. Ciò rimanda ad un aspetto per molti versi desiderabile dei rapporti sociali e della dinamica intrapsichica; rischiano tuttavia di escludere la realtà del conflitto, la negano o semplicemente la vedono come dannosa per la vita sociale e come un male da evitare. Ci si può chiedere da dove provenga l’ideologia che esalta l’armonia, l’integrazione o l’equilibrio come l’unico destino auspicabile per individuare gruppi, istituzioni. La psicoanalisi ha sempre visto nel conflitto un elemento costitutivo dell’essere umano, ma ha anche messo in luce i meccanismi con cui si cerca di evitarlo. Per Freud, il conflitto è sempre sotteso alla dinamica psichica: conflitti topici (che riguardano l’Es, il Super-io, l’Io ideale, l’Ideale dell’Io), conflitti tra pulsioni (istinti di autoconservazione, di vita, di morte, Eros e Thanatos). Si declina secondo diverse prospettive: conflitto tra desiderio e difesa, conflitto tra istanze, conflitti tra pulsioni, conflitti edipici. Conflitti in cui non soltanto si confrontano desideri in contrasto, ma questi affrontano il divieto. L’angoscia legata a questi conflitti suscita la rimozione, elemento costituente della psiche. Ma i conflitti perdurano nei fantasmi, le loro tracce si ritrovano nei sogni, negli atti mancati, nei sintomi, nei problemi comportamentali. La rimozione dei desideri sarebbe un elemento strutturante dell’essere umano e questo sarebbe, con la sua complessità, il prodotto della rimozione. Freud ha trasposto queste analisi a livello sociale e ha sviluppato la problematica del conflitto nei gruppi e nelle società. In Totem e tabù, la violenza di un padre primitivo è opposta al desiderio incestuoso dei figli, che a seguito del passaggio all’atto, viene trasformato in senso di colpa e in sottomissione a regole sociali che assicurano la coesione. Nel Disagio della civiltà, si spiega come il processo di civilizzazione esiga che gli uomini rinuncino in parte alla soddisfazione dei loro desideri, li canalizzano e li sublimino. In Psicologia delle masse e analisi dell’Io si mette in evidenza il modo in cui rivalità e divisioni tra i membri di un gruppo possono essere superate con dei processi di idealizzazione e/o di identificazione con una persona o un’idea centrale. Anzieu (1984) interpreta la vita di gruppo come un sogno, luogo in cui a livello immaginario si possono soddisfare i desideri, ed è un sogno di unità che presuppone armonia, coesione, assenza di conflitto. Da qui il concetto di illusione gruppale, che spiega certi momenti di euforia fusionale in cui tutti i membri del gruppo si sentono bene insieme e sono contenti di essere un buon gruppo. Dal punto di vista dinamico, questo sarebbe un tentativo per tenere insieme desiderio di sicurezza e di unità da una parte, angoscia di frammentazione e minaccia di perdita dell’identità personale nella situazione di gruppo dall’altra. Il conflitto si presenta come un dato ineluttabile della vita individuale e collettiva: compone la trama strutturante della dinamica sociale; entra in tutti gli interstizi dell’avventura umana. Nei rapporti interpersonali, dal momento in cui due individui interagiscono, si presentano l’uno all’altro nelle loro differenze. Sembra poco probabile, perfino impossibile, che i loro pensieri, desideri, interessi ecc. coincidano. Ogni membro di un gruppo deve dimostrare la sua utilità e fedeltà alla causa del gruppo affermando il proprio valore, la propria specificità rispetto agli altri. Rispetto ad altre collettività, ogni gruppo deve anche consolidare la propria forza e anche il senso dell’azione, a costo della propria sopravvivenza, affermandosi su altri gruppi. Molti studi sul conflitto confermano la sua universalità in ogni epoca storica e in tutti i raggruppamenti umani. Il carattere radicale del conflitto, e dunque la sua universalità, nelle sue dimensioni psichiche, politiche, antropologiche o esistenziali, appare come un dato essenziale dei racconti sulle origini e dei miti sulla creazione dell’uomo. APPROCCI PSICOSOCIOLOGICI AL CONFLITTO La teoria e la pratica psicosociologica sono attraversate anch’esse da un conflitto tra due approcci: uno lo interpreta come una patologia o una disfunzione, l’altro lo vede come un fenomeno intrinseco alla struttura sociale e alla realtà psichica. 1. Nell’approccio funzionalista, il conflitto è visto come una perturbazione del sistema, di ordine esogeno (patologia) o endogeno (disfunzione). Gli obiettivi perseguiti sono il ristabilimento o il mantenimento di acquisita, ma per l’individuo che agisce entrambe più o meno inconsciamente, anche la cultura è data. Tra i contributi che possono essere citati, risulta efficace un brano di Thomas Mann. Secondo lui, civiltà e cultura sono termini contrari che costituiscono una delle diverse manifestazioni dell’eterna opposizione che contrappone Spirito e natura. la cultura non è l’opposto della barbarie, ma spesso non è che uno stato selvaggio in grande stile. La civiltà invece è ragione, luce, Spirito. Non si potrebbe oggi aderire senza riserve a simili argomentazioni. Con riferimento al linguaggio quotidiano, si può ricordare ancora qualche altra accezione:  la cultura fisica, che significa forza e allenamento individuale e/o collettivo delle capacità fisiche e sportive;  la cultura in senso più estetico, che indica attività culturali popolari o di élite artistiche;  la cultura come educazione dell’uomo di mondo, che permane anche se si dimentica ciò che si è appreso negli studi o nell’esperienza personale;  la cultura che dà la scuola. Tutti questi significati si riferiscono più o meno a contenuti elevati, ma esistono anche culture più mondane. LE ACCEZIONI SCIENTIFICHE Prima che gli sia attribuita la dignità di concetto scientifico, dal Medioevo al XIX secolo, il concetto oscilla tra lo stato di cultura coltivata e l’azione di coltivare il suolo e lo spirito. Lo sviluppo della sociologia e dell’etnologia come discipline scientifiche, alla fine del XIX secolo, dà maggiore consistenza e organicità al concetto di cultura. Due antropologici, Edward Burnett Tylor e Franz Boas, l’uno in una prospettiva universalista, l’altro più particolarista, contribuirono a fornire dei primi elementi di definizione che diverranno in seguito “canonici”: “La cultura o civiltà, intesa nel suo ampio senso etnografico è quell’insieme complesso che include la conoscenza, l’arte, la morale, il diritto, il costume e qualsiasi altra capacità e abitudine acquisita dall’uomo come membro di una società. Boas, fondatore dell’etnografia, si oppone a Tylor pur mantenendo la definizione di cultura proposta da quest’ultimo. Entrambi combattono le posizioni precostituire preesistenti tendenti a fare comparazioni e a definire gerarchie, fondate su delle concezioni di disuguaglianza delle razze in una prospettiva di antropologia fisica. Almeno dal punto di vista del metodo, si è agli inizi di ciò che si chiamerà in seguito antropologia culturale., con un fondamento e una portata più epistemologica. Si tratta di ciò che in seguito resterà il progetto comune alle prospettive antropologiche ed etnologiche, o etnografiche, e agli approcci etnometodologici: rendere conto, in modo descrittivo e non più normativo, della diversità e insieme dell’unità dell’essere umano attraverso le sue forme sociali. Va sottolineata l’assenza dell’idea di cultura tra i fondatori dell’etnologia francese. La nascita di una sociologia, quella di Durkheim, incline all’imperialismo, la mette in ombra privilegiando il concetto di società. La sociologia francese, di cui l’etnologia resta per vari decenni un ramo laterale, conserva il termine civiltà, più universale e normativo, lasciando ai margini il concetto di cultura. Lucien Lévy-Bruhl, fondatore dell’etnologia in Francia, si interessò allo studio delle culture primitive e si interrogò sulle differenze di mentalità tra i popoli. Il concetto di mentalità non è molto distante dal significato etnologico del termine cultura, ma non viene introdotto nel vocabolario etnologico dell’epoca. La scuola americana “cultura e personalità” si distingue per aver messo al centro i legami tra gli individui e le loro culture. Si tratta di comprendere come gli esseri umani incorporano e vivono le loro culture. Anche se conserva una certa indipendenza, la cultura non è concepita, da questi antropologi, come una realtà in sé, esteriore agli individui. Appare più come uno stile comune che segna i comportamenti di coloro che condividono una medesima appartenenza. Con Edward Sapir si tratteggia così una teoria, che segnerà il culturalismo, dando ampio spazio alla psicoanalisi antropologica, ma invertendo l’impostazione inizialmente proposta da Freud (la cultura non è una proiezione della libido, è la libido che viene messa in forma dalla cultura). È necessario menzionare anche i lavori americani e francesi degli anni ’50, che si occupano dell’acculturazione (processo complesso di contatto culturale attraverso cui delle società o dei gruppi sociali assimilano o si vedono imporre dei tratti o degli insiemi di tratti provenienti da altre società). PSICOLOGIA SOCIALE E PSICOSOCIOLOGIA Le correnti più interazioniste dell’antropologia culturale si avvicinano a prospettive più esplicitamente psicosociali. Queste sono infatti a loro connesse sia per quanto riguarda l’esplorazione di ciò che avviene a livello sociale intermedio sia per quanto riguarda l’approccio clinico, ovvero la psicosociologia, e le richiamano nelle diverse attività (interventi, consulenze, formazione ecc.) e nelle teorizzazioni dei concetti di cultura, di sottocultura e di acculturazione. L’ottica psicosociale considera il gioco delle interazioni che dà rilievo al “noi” del gruppo o della comunità. In questo senso essa costituisce il gruppo come uno degli ambiti della dinamica del cambiamento culturale. la maggior parte dei trattati di psicologia sociale, i classici e quelli degli ultimi decenni, si riferisce esplicitamente ad un’idea di cultura che tendono ad affinare e complessificare a partire da un approccio più clinico, più intersoggettivo, al legame sociale. L’ANTROPOLOGIA STRUTTURALE In Francia, un’altra scuola, detta strutturalista, fondata da Claude Lévi-Strauss (1958), riprende il tema della totalità culturale sotto un’altra angolatura. Anche se il pensiero strutturalista si rifà in origine ai lavori dell’antropologia culturale americana, se ne distanzia risolutamente cercando nella sincronia il superamento dell’approccio particolaristico. Si tratta di ricercare delle invarianti (proibizione dell’incesto, particolarmente) che sono presenti in tutte le culture attraverso diverse configurazioni. Si ritorna in tal modo ad un tesoro culturale comune, a categorie e a strutture inconsce dello spirito umano, agli universali, agli a-priori di tutta la società umana. LE CRITICHE E LA RELATIVIZZAZIONE DEL RELATIVISMO CULTURALE Conviene relativizzare il “relativismo culturale”. È necessario ritornare al suo uso originale, il solo accettabile scientificamente, che ne fa un principio metodologico ancora oggi operativo. In questa prospettiva, ricorrere al relativismo culturale significa postulare che al tempo stesso il culturale tende verso la coerenza e verso una certa autonomia simbolica che gli dà il suo carattere originale singolare; e che non si può analizzare un tratto culturale indipendentemente dal sistema culturale a cui appartiene e che può, da solo, dargli senso. Ma sono anche i modi della conoscenza e le rappresentazioni che noi diamo della scienza, i paradigmi in funzione dei quali osserviamo, leggiamo, descriviamo e interpretiamo i fenomeni, che devono cambiare e che conviene rivisitare (Morin). Questi termini – civiltà e cultura – ci sembra che rimandino a ciò che Paul Ricoeur designa come logica del doppio senso (ciò che non è sorprendente riguardo a delle funzioni e dei ruoli multipli che si assegnano loro). La loro portata non si comprende veramente se non a partire dal loro reticolo interdisciplinare (sociologia, storia, psicologia sociale, psicologia, economia, etnografia ecc.), reso ancora complesso dalle vedute e dagli scopi romantici, ideologici, etici, assiologici, in altri termini dalle divisioni del mondo entro cui si inscrivono. LA CULTURA IN QUANTO DIALETTICA DEL SOCIALE E DELLE PERSONE Il concetto di cultura che abbiamo fin qui delineato esige un’intelligenza (ovvero una modalità di conoscenza elaborata, che non dipende da fattori biologici, e che è pertanto culturale) propriamente dialettica, che accetta il gioco delle contraddizioni come sorgente della sua dinamica per poter essere compresa e accettata come realtà distinta e tuttavia interdipendente, sempre radicata nelle soggettività che la supportano che contribuiscono all’elaborazione. La cultura è una caratteristica comune a tutti gli uomini organizzati in società e tuttavia ogni cultura oppone le sue particolarità rispetto alle altre, fino a dare spazio alle singolarità. L’umano crea la propria cultura, che gli sarà trasmessa a monte e che trasmetterà a sua volta, a termine dell’apprendimento, a valle. L’uomo vive nello spazio che egli trasforma in funzione dei suoi bisogni, ma esiste nel tempo che rimane per lui irreversibile. La sua coscienza si sviluppa nel cuore medesimo della sua soggettività e non diviene veramente sé stesso se non a partire dal riconoscimento dell’altro, compreso lo straniero che è in lui, sole origini possibili di una assunzione dei limiti implicanti il lutto dei fantasmi iniziali di potenza e di dominio. In questo, il sociale è il richiamo necessario di un riconoscimento pratico e formale dell’intersoggettività e dell’alterità, mentre lo psichico prova angosce, ma anche gli arricchimenti dovuti alle alterazioni. Contraddizioni tra l’identità e l’alterazione, la stabilità e il movimento, la permanenza e il cambiamento. Così come le lingue, che ne sono l’emanazione e la traduzione, le culture, o meglio le civiltà, diventate statiche, sono quelle che sono effettivamente morte. La cultura può essere considerata come durevole, relativamente stabile e in perpetua evoluzione. La cultura è molto più elaborata che costruita. Si apprende a scuola e all’università, ma anche per contagio, per simpatia ed empatia esperienziale, che si chiama anche acculturazione. È forse attraverso questa articolazione originale di sociale e psichico, di biologico e razionale, che si sviluppa in dialogie, più congiuntive che disgiuntive, che la bestia umana crea veramente significati. Nel pensiero occidentale, verso la seconda metà del XIX secolo, si assiste al superamento di una soglia ideologica, filosofica e metodologica. Fino a quel momento la conoscenza dell’uomo si è costituita nell’ambito della filosofia, tende alla morale, rientra nella conoscenza di Dio e resta pertanto subordinata alla metafisica. il distacco da questa impostazione della problematica è avviato dagli stessi filosofi. Si aprono dei dibattiti attorno a:  i rapporti tra conoscenza del mondo e conoscenza di sé e tra conoscenza di sé e conoscenza delle masse;  un cambiamento di prospettiva nel modo di concepire l’osservazione della natura, del mondo, del passaggio dalla natura alla cultura;  la sperimentazione che autorizza l’accesso a modelli esplicativi e interpretativi nuovi. Si tratta di porre fine al dualismo materia-coscienza (Pavlov), di costruire una scienza dell’uomo che conduca al di là di ciò che è cosciente (Freud). Si delineano due direzioni che perseguono lo stesso fine, che hanno la stessa preoccupazione di scientificità, la stessa esigenza epistemologica e aprono la strada a due modelli di riferimento, due modelli che marcheranno fortemente le posizioni psicosociologiche nelle loro scelte metodologiche e nei loro orientamenti rispetto al “gruppo”. Da un punto di vista metodologico, l’approccio antropologico e l’approccio psicosociologico convergono sia rispetto agli strumenti di osservazione e di analisi che rispetto alla definizione di un oggetto come il piccolo gruppo o gruppo ristretto. Il gruppo è considerato attraverso l’osservazione diretta e partecipata di piccole unità sociali (villaggio, quartiere, famiglia) in un’ottica qualitativa (approccio clinico). È a partire da monografie, da studi di situazioni di gruppi singoli, che si tenta di scoprire le caratteristiche generali della vita sociale. All’esigenza di rinnovamento epistemologico si unisce un’esigenza politica ed etica di ridefinizione dei fondamenti del legame sociale. la necessità di comprendere ciò che determina i rapporti degli uomini tra loro si inscrive nel contesto di una crisi identitaria e sociale. L’oggetto “gruppo” ricolloca le rappresentazioni che lo costituiscono in termini di definizione di metodo e di intenzione. La posizione psicosociologica assume come doverosa la partecipazione all’evoluzione del legame sociale, nell’affermazione dei diritti di cittadinanza (Enriquez). Il gruppo diventa oggetto di un lavoro psicosociologico come luogo di trasmissione (temporalità), di differenziazione (identità e sinergie), di rottura dei legami e di trasformazione (creazioni). Lo psicosociologo è chiamato a questo:  il gruppo, la gruppalità gli offre uno spazio di complessità crescente, nella misura in cui la usa scelta di fondo è quella della consapevolezza;  l’oggetto gruppo mette in gioco, mette in atto, mette in parole tutte le opposizioni e le contraddizioni di una umanità sempre minacciata, sempre agli inizi, tutta la miseria del mondo e l’intensità di un amore che tutto sommato non saprebbe uccidere ciò che ama. L’OGGETTO-GRUPPO IN PSICOSOCIOLOGIA Rinunciando ad una definizione esaustiva del termine “gruppo”, si cercheranno di individuare alcune caratteristiche rilevanti dal punto di vista della psicosociologia. Dall’italiano antico groppo o gruppo, il termine è portatore di un significato in tensione. Come prima accezione può essere inteso come “nodo”, “assemblaggio”, qualche cosa che riunisce, lega tra loro molteplici elementi e può essere anche ciò che trattiene, che imprigiona: qualche cosa che lega e/o immobilizza. Charles H. Cooley (1909) introduce il termine di gruppo primario. Il gruppo primario si definisce come un’entità osservabile composta da persone che condividono valori e credenze. Le persone sono o possono essere in relazione le une con le altre e quindi in un legame di interdipendenza. I membri di un gruppo primario creano essi stessi le regole di scambio necessarie per durare nel tempo attraverso una condivisione di valori, obiettivi e sfide. Questo criterio di differenziazione propone una prima delimitazione dell’oggetto gruppo, in funzione del fatto che ciascun elemento possa essere in rapporto diretto con tutti gli altri elementi di uno stesso insieme; d’altra parte,  l’esistenza di cesure tra i gruppi informali di lavoratori e i gruppi imposti dalla direzione;  l’importanza reale ma relativa delle condizioni materiali in riferimento al riconoscimento da parte degli altri e alla stima di sé stessi;  lo spostamento di questa domanda di riconoscimento su altri oggetti nella misura in cui non trova soddisfazione in seno all’organizzazione;  l’importanza del sentimento di appartenenza per generare sicurezza e motivazione. Una delle raccomandazioni che Mayo fa alla direzione è quella di introdurre un counseling per la gestione dello stress e il miglioramento del benessere delle persone, con lo scopo di accrescere il loro rendimento. STUDIO SPERIMENTALE SULLA LEADERSHIP E LA VITA IN GRUPPO È una ricerca che fa parte dei lavori di Lewin e dei suoi collaboratori. Condotta tra il 1939 e il 1940, essa è riportata da Lippitt e White. La prospettiva sociopolitica che l’anima è chiaramente esposta nella definizione dell’oggetto della ricerca. Si tratta di capire sperimentalmente quali siano gli effetti di differenti stili di comando sul clima sociale. Si riunisce un numero adeguato di bambini di 11 anni e vengono costituiti quattro “club”, a partire da una scelta selettiva che permetta un’omogeneizzazione di un grande numero di variabili: livello intellettuale, comportamenti sociali, socializzazione, energia fisica, motivazioni, interesse per le attività proposte, coesione relazionale identica in ciascuno dei quattro gruppi, identità del contesto e delle attrezzature materiali. La leadership è+ esercitata in modo che ciascun sottogruppo abbia di volta in volta gli stessi animatori. Gli obiettivi della ricerca riguardano:  la sperimentazione in quanto tale, nei suoi aspetti metodologici;  lo studio di tre tipi di leadership: democratica, autoritaria, laissez-faire;  la spiegazione dei processi di gruppo in conseguenza del passaggio da un tipo di comando ad un altro;  come i vissuti di climi sociali differenti nel quadro della ricerca siano regolati da ambiti di comportamento nei gruppi di appartenenza. I risultati di questa ricerca mettono particolarmente in evidenza i rapporti tra tipi di leadership e aggressività di gruppo e all’interno del gruppo da una parte e, dall’altra, l’aggressività del gruppo diretta verso l’esterno. L’aggressività è più forte con i leader autoritari e laissez-faire. Si manifesta con reazioni che vanno dall’apatia (interiorizzazione dell’aggressività) a esplosioni di aggressività (capri espiatori, aggressioni verso i gruppi esterni). La leadership democratica libera energia creativa e autonomia costruttiva. Il leader prende una posizione di alleanza partecipativa non simmetrica. Facilita la comunicazione, la ripartizione dei ruoli tra i membri del gruppo, le prese di decisione in comune e regole le tensioni d’ordine emotivo e affettivo. Dopo questo esperimento, la leadership è diventata oggetto di numerosi lavori e ricerche applicate ai problemi dello stile di comando e di direzione e più in generale alla funzione di animazione in gruppo. INTERROGATIVI POSTI DALLA TEORIA DELL’INCONSCIO ENTRO UN APPROCCIO PSICOSOCIOLOGICO ALLA SITUAZIONE DI GRUPPO Un elemento distintivo centrale per dare alla psicosociologia il nome che porta è collegato ad un modo specifico di intendere il gruppo. È a partire da questo particolare modo di accostarlo che è possibile rinvenire ciò che sia sul piano teorico che pratico alimenta le acquisizioni di un approccio centrato sul gruppo primario, il gruppo ristretto, il piccolo gruppo. La teoria freudiana va richiamata per il concetto centrale di dinamico e per il superamento dell’opposizione individuo/gruppo. In un testo del 1916, Una difficoltà della psicoanalisi, Freud evoca “tre ferite narcisistiche”: cosmologico (Galileo), biologica (Darwin), psicologica (Freud). La scoperta dell’inconscio (terza ferita) riapre la problematica del “conosci te stesso” socratico. Rinunciare alla speranza di accedere direttamente alla comprensione di ciò che siamo si accompagna alla scoperta dell’importanza, per il divenire umano, della precocità biologica e della vita pulsionale. È riconoscere l’estrema dipendenza dall’altro ed è aprirsi ad un destino pulsionale legato totalmente all’accesso al simbolico, la cui sola porta di ingresso passa attraverso una triangolazione, ovvero passa da un altro separato da sé. Si potrebbe parlare di una ferita psicosociologica nella misura in cui l’alterità appare costitutiva del soggetto. Anziché soffermarsi sulle definizioni, si tenterà di evocare la dinamica dei movimenti nell’oscillazione permanente tra due poli opposti, una dinamica in tensione conflittuale. Si può ipotizzare che questa dinamica che tenta di rendere conto della vita psichica si ritrovi nei gruppi in cui ciascuno vive e cresce e che essa formi la trama dei legami interpsichici, e fornisca una delle chiave di comprensione dei processi di gruppo. OSCILLAZIONE DINAMICA TRA MANCANZA E VUOTO: PRESENZA-ASSENZA DELL’ALTRO Nella situazione gruppale, l’oscillazione si verifica tra:  il polo distruttivo dell’isolamento che provoca la noia;  il polo vivo, che è apprendimento di qualcosa che manca, che è al tempo stesso sofferenza e movimento d’amore (bisogna che l’altro manchi perché si sviluppi l’attenzione all’altro). Nel gruppo l’insieme del gioco di presenze e assenze risuona a livello primario. Il solo fatto di essere in presenza di qualche cosa di vivo provoca una interazione immediata di ordine energetico. Le attività ritmiche sono alla base della relazione tra gli uomini. I rapporti tra i partecipanti vengono analizzati dal punto di vista di un maggiore o minore grado di affrancamento dalla ricerca depressiva anaclitica dell’oggetto d’amore. I movimenti nel gruppo oscillano tra posizioni di ritiro libidinale che provoca momenti di marasma in cui ciascuno si perde, il gruppo si svuota, e posizioni di forte investimento libidinale che danno spazio ad una presenza in cui l’altro non è considerato soltanto per colmare il vuoto. Contro il movimento verso l’isolamento, si manifesta la capacità di essere soli in presenza dell’altro. L’uso fecondo della solitudine nella situazione di gruppo è in rapporto diretto con lo sviluppo di conoscenze, con una creatività gruppale in termini di rinascita, con il dispiegarsi di un polo che alimenta a partire dalla stima di sé il gioco creativo del riconoscimento e delle riconoscenze. IL LUOGO DEL GRUPPO, TRA LEGAME SOCIALE E “IDENTITÀ ASSASSINE” Freud postula l’esistenza di un legame inscindibile tra sviluppo psicologico individuale, storia e cultura. Il totem che i membri di un gruppo assumono permette loro l’accesso al mondo del sacro. Il totem è l’antenato del gruppo, il suo spirito protettore e la sua base identitaria. Emerge il concetto di identificazione, il cui primo modello è l’identificazione con il padre che autorizza lo scostamento dal rapporto arcaico con la madre. Si costruisce il primo modello del legame affettivo e sociale. il gruppo può essere considerato come il luogo in cui si realizza una situazione di identificazione, nella misura in cui esso si riproduce per ciascuno un’identificazione con il padre nella figura del capo. Questi, collocato nella posizione di Ideale dell’Io, si propone per ciascuno come oggetto comune. Si può allora sviluppare un duplice processo attraverso l’identificazione condivisa per uno stesso ideale e l’identificazione che si produce di riflesso dei membri del gruppo tra loro. Dato che nessuno è l’oggetto d’amore unico del capo, egli è tenuto a dare ugualmente a tutti il suo amore, creando il legame di identificazione degli uni con gli altri. Il gruppo primario offre uno spazio-tempo teso tra la minaccia di ritrovarsi invischiato nelle specularità immobilizzanti e l’apertura verso delle visioni plurali che sostengono un processo di identificazione secondaria e proprio per questo diretta verso l’Ideale dell’Io. Questo implica la condivisione gruppale di un patto di obbedienza alla legge che richiede il sacrificio della pulsione per una realizzazione di sé attraverso la strada della sublimazione. Dalla parte del polo distruttivo (narcisismo primario), il gruppo sollecita il ritorno a fissazioni pre-edipiche, il funzionamento scisso, le complicità perverse, il blocco sull’Io Ideale. Dalla parte del polo fertile (narcisismo secondario), il gruppo si propone come luogo in cui si fa l’esperienza di un incontro sconvolgente, a rischio di cambiamento, entro le necessarie distinzioni di amore e odio. Il concetto di identificazione è centrale rispetto alla nascita del legame sociale e rimanda al processo di idealizzazione. Le forze contrarie contrappongo le relazioni di invidia a quelle di gratitudine (Klein). L’invidia è differente dalla gelosia: è caratterizzata dalla volontà di distruggere nell’altro ciò che entro sé stessi non esiste. La Klein propone il concetto di identificazione proiettiva come fantasma che agisce là dove il soggetto introduce la sua persona in tutto o in parte all’interno dell’oggetto per nuocergli, possederlo, controllarlo. Rispetto ai processi di gruppo letti alla luce dei concetti di identificazione e di idealizzazione si manifesta l’opposizione tra processi di scissione e ambivalenza. La scissione funziona sia sul piano intrapsichico che interpsichico e intergruppale. I gruppi costituiscono la loro identità su un’identità di caratteristiche che li escludono dalla società (colore della pelle, religione ecc.). la violenza subita giustifica a sua volta un “diritto alla violenza”. Nell’ambivalenza, l’altro non è né completamente buono né completamente cattivo, né totalmente amato né totalmente odiato. Il funzionamento del gruppo mette alla prova le capacità di tollerare il dubbio, la sospensione, la discontinuità, senza che venga meno il sentimento di continuità d’esistere. UNA POSTA IN GIOCO ETICA: LA PAROLA NEL GRUPPO E LA PAROLA DEL GRUPPO La dinamica relazionale permette di vedere e intendere la tensione in tutti i rapporti umani e il suo sviluppo tra:  movimenti di dominazione, gusto per la strumentalizzazione, lotte strategiche basate su un’intelligenza manipolativa, patti narcisistici;  movimenti di alleanza. L’insieme interattivo gruppale offre giochi relazionali multipli in cui si contrappongono rapporti di dominio- sottomissione e rapporti di sostegno. Nelle relazioni di dominio e controllo, le differenze di collocazione, status, funzione, sono deviate in vista soltanto del rinforzo narcisistico per cui l’altro è strumentalizzato. La relazione di sostegno implica invece che ognuno possa trovare una propria collocazione e che da qui si possa avere la trasmissione della legge che dà accesso al simbolico attraverso una duplice metafora:  materna: nutrire, prendersi cura dell’altro perché cresca;  paterna: offrire appoggio, trasmettere l’interdetto, il divieto, perché l’altro si distacchi, si separi. Si può assumere l’ipotesi che, nella diversità delle situazioni di gruppo, si ritrovino in varie forme la forza e l’intensità di scommesse giustificate ed esaltate da obiettivi potenti (dimensioni politiche), la gioia suscitata dall’intelligenza che costruisce strategie per superare ostacoli e contrarietà incontrati nel raggiungimento di questi obiettivi, i piaceri e le gratificazioni del saper fare tattico e del ricorso a strumenti con notevoli poteri. Il senso dell’azione, la ricerca di conoscenze sul funzionamento di gruppo dipendono dalla posizione etica che definisce le finalità. Ci possono essere dei discorsi sull’etica che sono giustificativi e difensivi a posteriori. La gruppalità rimanda alla verifica di una finalità in atto. APERTURE E TENSIONI TRA RAPPORTI DI RECIPROCITÀ E DI ASIMMETRIA Freud fonda la sua teorizzazione su una particolare concezione epistemologica e metodologica dell’osservazione, della sperimentazione e dell’interpretazione, una concezione che collega analisi, conoscenza e azioni. Tale posizione porta Freud a non separare normale e patologico, individuo e gruppo, apparato psichico e legame sociale. Porta anche a lavorare per chiarire i processi e per distinguere tra apertura di definizioni rigide e destrutturazione. Da questo punto di vista, il gruppo, come abito di conoscenza, di analisi e di azione per gli psicosociologi, si sperimenta al di là dei dispositivi, e, se si segue l’approccio freudiano, il gruppo permette l’apprendimento dei processi. È importante osservare i fenomeni di gruppo, la gruppalità. Il lavoro dell’analista è quello di sostenere la creazione di uno spazio del gruppo, di rinforzare in esso la condivisione degli Ideali dell’Io su cui stabilire l’identificazione gruppale, di approfondire le comunicazioni tra i membri del gruppo e con il conduttore. il riferimento alla dimensione inconscia problematizza i rapporti con l’autorità. L’analista si allea con la finalità del raggiungimento di autonomia da parte del soggetto e permette che emergano delle convinzioni e delle credenze che indicano ciò che è ripetizione. Enid e Michael Balint sono all’origine di ricerche e applicazioni notevoli basate sull’analisi in gruppo del controtransfert in vista di cambiamenti nei comportamenti. È a Ferenczi che si deve l’elaborazione e la presa in considerazione del controtransfert come elemento decisivo della cura analitica. L’originalità dell’approccio sta nell’utilizzazione della situazione gruppale per lo studio del controtransfert come metodo di formazione. Si differenzia dal gruppo di terapia in cui si lavora a livello di transfert latente e di resistenze, e dal gruppo di formazione in cui le interpretazioni dell’analista si mantengono al solo livello di transfert manifesti. Si tratta di permettere ai partecipanti di esplorare i loro controtransfert faccia a faccia con i loro pazienti. Il conduttore del gruppo si applica per facilitare le modalità di espressione e di ascolto in modo che il livello esplicativo sparisca progressivamente per lasciare posto alle incongruenze tra realtà interiore, intenzioni giustificative, modelli, posizioni difensive e relazionali, pluridimensionalità di interpretazioni. Ciò su cui si potrà lavorare sarà la capacità di riconoscere i propri limiti, gli errori, senza che vengano fatti circolare giudizi moralizzatori e squalificanti. di istituzionalizzazione e perde un po’ della sua radicalità. Authier spinge oltre il ragionamento e spiega questo deterioramento con il principio di falsificazione. Quando un’idea dà buoni risultati, le si dà una configurazione sociale, la si istituzionalizza, ma allo stesso tempo le si fa perdere il senso. Authier propone una rottura filosofica totale con il pensiero del potere costituito. Per questo potere, l’esistere, l’entrare nella storia, significa costruire sempre più in grande, imporsi controllando sempre più lo spazio e il tempo. A questi “distruttori del pianeta”, Authier oppone la saggezza del popolo anonimo che capisce che occupare il minor spazio durante il più breve tempo possibile corrisponde a comprendere l’articolazione tra interesse individuale e interesse generale. Egli dimostra, attraverso l’esempio degli automobilisti la cui disciplina collettiva negli ingorghi del traffico assicura un controllo massimo, che si raggiungono interessi individuali rendendo tutti più consapevoli degli interessi collettivi. In particolare, la critica che egli rivolge alla teoria dell’istituzionalizzazione di Lourau può essere sintetizzata in alcune proposizioni. Secondo Lourau l’istituzionalizzazione è un processo costante e generale nel gioco istituzionale: Authier pensa invece che il principio di equivalenza sia osservabile unicamente nelle società dove la conquista del potere è presentata come il solo modo di socializzazione possibile; egli formula l’ipotesi che questa modalità sia già superata perché distruttiva di umanità e che il buon popolo funzioni già oggi secondo un’altra logica; l’evoluzione (per cui il gruppo soggetto, nella sua forza istituente, dà vita a un’istituzione per mezzo di un processo di istituzionalizzazione che sempre tradisce la profezia iniziale) non può essere considerata come inevitabile. Molti spazi sociali attuali mostrano un tipo di relazioni in rete che superano la logica della costruzione piramidale del potere. Nella prospettiva di Authier, si può anche osservare un altro modo di produzione istituzionale diverso da quello proposto dalla teoria di Lourau. Per Authier, nuove istituzioni spesso nascono dall’incontro di più istituzioni che scoprono che esiste una dilatazione o una sfaldatura nel tessuto istituzionale rispetto ai bisogni sociali. Le istituzioni sono in effetti collegate tra loro. Quando emerge un bisogno sociale che non può essere soddisfatto, si prende l’iniziativa di fondare un nuovo ambito istituzionale. Secondo Lourau il fatto che le istituzioni si incontrino e si incrocino e arrivino a formare delle organizzazioni ha per effetto che il processo di istituzionalizzazione (invecchiamento delle forme istituzionali) investe tutto il sistema sociale (principio di equivalenza). Lo Stato è un’istituzione centrale in questa rete. Secondo Authier, accanto ad una genesi sociale per cumulazione, vi è anche un’altra logica nel sociale: quella delle reti, che si attivano solamente nella fase istituente e si dissolvono poi, senza cercare di tradurre in un istituito rigido l’efficacia del momento istituente. All’istituzionalizzazione ineluttabile, Authier oppone l’emergenza istituente che sfocia in un fenomeno che è quello dell’autodissoluzione. È questa una questione studiata dalla corrente dell’analisi istituzionale e che ha particolarmente appassionato Lourau, in particolare sotto l’aspetto della dissoluzione delle avanguardie. Vi sono gruppi che, consapevolmente, si oppongono all’effetto Muhlmann e decidono, in modo deliberato, di sciogliersi, di autodissolversi. Si tratta di un fenomeno collegato al processo di istituzionalizzazione. L’ANALISI ISTITUZIONALE E GLI INTERVENTI NELLE ORGANIZZAZIONI E NELLE ISTITUZIONI L’analisi istituzionale è contemporaneamente una teoria dei gruppi, delle organizzazioni e delle istituzioni, ma anche un metodo di intervento e di analisi all’interno di organizzazioni che operano in vari ambiti (educazione, lavoro sociale, imprese industriali). L’analisi istituzionale utilizzata per intervenire in varie situazioni è la socioanalisi. È il dispositivo che permette di analizzare come si confrontano l’istituente e l’istituito. Per realizzare un’analisi di un’associazione, di un istituto o di un’impresa, l’istituzionalista si affida a degli analizzatori eventi che nascono spontaneamente: movimenti ampi o piccoli incidenti della vita quotidiana. l’analizzatore può anche essere costruito dal professionista che interviene nella prospettiva della socioanalisi. L’analizzatore è importante perché rivela lo scarto esistente tra due o tre percezioni conflittuali della situazione. Il lavoro analitico consiste nell’elaborare il materiale che l’analizzatore produce per far emergere l’implicito dietro ciò che appariva come esplicito. L’intervento è in sé stesso un disturbo delle routine istituite. Emerge e viene espresso il non detto, fino allora soffocato. Un’altra caratteristica dell’analisi istituzionale in situazioni di intervento è l’importanza del coinvolgimento di chi interviene. Il ricercatore istituzionalista si considera direttamente parte attiva del dispositivo di analisi: fa parte dell’oggetto che studia. Se non c’è l’assunzione di questa posizione, chi produce conoscenze produce soprattutto “atti mancati”. Arrivando in una situazione di cui non sa granché, chi interviene si trova a essere collocato dal gruppo/cliente in una storia, in uno scenario che ignora ma deve decifrare. La posizione attribuita a chi interviene dai membri del collettivo cliente permette di esplorare lo scenario istituzionale nel quale si giocano i rapporti interni all’organizzazione in cui si svolge l’analisi. L’analisi istituzionale d’altro lato è stata in relazione con una riflessione sull’autogestione. Si possono concepire forme di vita sociale nelle quali funziona una trasparenza dei processi di potere? È questa una questione centrale dell’elaborazione teorica dell’analisi istituzionale. Le resistenze all’autogestione sono oggetto di un lavoro di elaborazione teorica. Nella socioanalisi, l’idea di autogestione si applica alla negoziazione collettiva rispetto al tempo e allo spazio dell’intervento. Il modo in cui ogni partecipante propone di orientare le modalità collettive di lavorare esprime lo spazio che occupano i diversi attori. L’ambito privilegiato dall’analisi istituzionale è stato tradizionalmente quello di interventi realizzati da qualcuno che dall’esterno interviene in istituzioni che formulano una richiesta: dal 1980 gli istituzionalisti hanno sviluppato una specifica riflessione sulle modalità con cui può essere condotto un intervento dall’interno (nel luogo di lavoro in cui si è abitualmente inseriti) e sulle forme che esso può assumere. Questa collocazione interna si ricollega alla psicoterapia istituzionale, alla pedagogia istituzionale e all’autogestione pedagogica. Negli ultimi anni l’analisi istituzionale si è avvicinata alla corrente delle storie di vita. Costruendo delle biografie individuali o collettive, ci si orienta verso un’antropologia istituzionale. IN SINTESI: L’organizzazione esiste solo se ha un senso, ovvero è vitale, abitata da miti, “discorsi prevalenti”, rappresentazioni e narrazioni condivise. Essa è contemporaneamente “atto di forza” – in riferimento alla sua arbitrarietà – e “fragile”, questo perché l’organizzazione sopravvive solo se viene naturalizzata, ossia accreditata al di là del dato di realtà, diventando incontestabile. Questi ultimi aspetti organizzativi sono diventati oggetto di analisi a partire dagli studi di Mayo degli anni ’30, sostituendo la visione tayloristica di inizio secolo. In questo senso l’organizzazione assume sempre più il significato di “sistema sociale” e sempre meno quello di sistema di organi e azione orientato alla produzione di qualcosa di specifico. È un tutto organizzato, relativamente chiuso, che assolve a funzioni sociali quali l’integrazione, la riproduzione, la formazione, la socializzazione, l’educazione, la cura ecc. Assume, rispetto ai soggetti che la compongono, un ruolo primario e una funzione di coesione sociale e tenuta.  Si passa quindi dall’organizzazione come sistema d’azione  all’organizzazione come sistema sociale. Parlare di organizzazione in questi termini significa effettuare quel passaggio che ci porta a parlare di istituzione. Definizione possibile di istituzione  amalgama di:  dimensioni affettive (hanno a che fare con la questione dell’inclusione, del legame, della propria valorizzazione anche in termini narcisistici – tutti questi aspetti non hanno chiaramente nulla di razionale);  ideologiche (hanno a che fare con la realizzazione di paradigmi, idee, valori, codici, modi di stare nel mondo normalizzati, proposti in termini più assertivi di quanto non sia necessario e in maniera netta rispetto alle alternative, per la sopravvivenza stessa dell’organizzazione);  e organizzative. L’istituzione in un’ottica psicosociologica è da concepire quale dinamica istituente-istituito.  L’istituente è un fenomeno che ha a che fare con un processo, nello specifico con un processo di trasformazione sociale. I processi di trasformazione sociale sono per loro natura rivoluzionari e devono essere originariamente orientati a principi di libertà o liberazione da quelli che sono i codici vigenti in quel determinato periodo storico.  L’istituito è il tradimento dell’istituente e rappresenta l’ineluttabilità. È la fase di stato/di stabilizzazione di quella che prima era una fase istituente. Qualsiasi fenomeno istituente ad un certo punto deve imporsi una struttura, un apparato. Il passaggio dall’istituente all’istituito è un passaggio burocratico. La burocratizzazione è l’apice di un processo che designa la morte del principio istituente. Il passaggio dall’istituente all’istituito avviene tendenzialmente seguendo fasi specifiche. L’analisi istituzionale studia proprio la dinamica tra istituente e istituito, tra implicito e razionale, tra gruppi soggetto e gruppi oggetto, attraverso la partecipazione del consulente alle dinamiche organizzative, questo perché il consulente viene immediatamente coinvolto in una storia e connotato affettivamente. Il processo di istituzionalizzazione – passaggio da istituente a istituito – ha a che fare con il fallimento della profezia (effetto Muhlmann) e con il principio di equivalenza (Lourau). Nel momento in cui la spinta del processo istituente viene meno e si trasforma in fatto istituito, anche laddove si riesce a sovvertire completamente il paradigma preesistente, in realtà gruppi, iniziative di tipo istituente vengono di fatto assimilati a quello che esisteva già (si tratta di meccanismi di assimilazione e accomodamento). In sostanza, ciò che è istituente deve adeguarsi agli schemi preesistenti. Il fallimento della profezia ha a che fare con questa promessa di un futuro luminoso che viene tradita. Il principio di falsificazione (Authier e Hess) indica qualcosa di simile, nello specifico una falsificazione o negazione rispetto a quello che era precedentemente stato promesso. Alternative all’istituzionalizzazione  auto-dissolvimento dell’avanguardia (è quello che succede quando il processo istituente fallisce). Il significato, la funzione e il ruolo del lavoro per i singoli e nella società sono al centro del dibattito della comunità scientifica. Alcuni studiosi hanno previsto l’imminente “fine del lavoro”, e il progressivo indebolimento dell’ideologia del lavoro come “valore”. Altri non mancano di sottolineare che il lavoro rimane comunque il motore principale dell’integrazione e della coesione sociale e che l’identità e la realizzazione personale trovano un forte sostegno proprio nel riconoscimento sociale derivante dal lavoro. Il lavoro non nasce con quell’economia di mercato che lo ha trasformato in un’entità astratta scissa dal suo contenuto quasi fosse una merce che si può scambiare avendo come contropartita un salario. Il lavoro salariato non è la totalità del lavoro: il lavoro domestico, il lavoro volontario, il lavoro sindacale, politico ecc. rappresentano esempi che suggeriscono la necessità di una distinzione tra lavoro e impiego. Per affrontare il tema del lavoro entro una prospettiva più ampia può essere utile analizzare l’origine etimologica della parola lavoro: questo termine viene dal latino tripalium che significa strumento di tortura. Pertanto, nel suo significato arcaico il termine lavoro è associato allo stato di colui che soffre, che è tormentato. Attualmente questo significato si è evoluto, ma la dimensione della costrizione permane attraverso il concetto di sforzo: non c’è lavoro senza che l’attività comporti una mobilitazione di energia, una tensione verso un obiettivo. Lo sforzo è orientato ad uno scopo, e l’attività si sviluppa in funzione di questo scopo, della sua rappresentazione. Inoltre, l’attività di lavoro ha un carattere fondamentalmente sociale: non può essere un’attività che si esaurisce in sé stessa, solitaria e che risponde solo ad un bisogno di soddisfare dei desideri individuali. Il lavoro si svolge con gli altri, per gli altri, è subordinato a degli scopi collettivi, è organizzato, coordinato, indirizzato, gestito. Quindi è luogo di conflitti, di confronti. Il lavoro implica un continuo confronto con il reale, il reale psichico, il reale dei rapporti sociali. Tra lavoro sognato e lavoro prescritto, l’attività rappresenta sempre quel singolare incontro tra un soggetto e una situazione concreta; incontro nel quale l’altro è sempre presente. Il lavoro è la scena dove in modo simultaneo e dialettico si giocano il rapporto con sé stessi, il rapporto con gli altri e il rapporto con il reale. IL LAVORO COME USO DI SÉ STESSI Il ruolo che ha il lavoro nella costruzione o nella decostruzione del soggetto pone il problema dell’articolazione tra la rappresentazione di sé stessi e l’esperienza del lavoro attraverso le modalità dell’uso di sé stessi. L’espressione di Yves Schwartz (1992) <<uso di sé>> gioca sull’equivocità del termine uso di sé stessi. Se in un primo significato l’uso è innanzitutto quello che gli altri vogliono fare di noi mettendo così l’accento sulle dimensioni socio-storiche del lavoro, il secondo significato rimanda all’uso che si fa di sé stessi nella ricerca della realizzazione personale. Il mondo con cui si articola il rapporto tra i due significati, e si costruisce un dinamico equilibrio tra i due poli contraddittori non è certo senza effetti sulla rappresentazione di sé stessi. Questa dualità nell’uso di sé stessi rimanda all’incontro tra una storia singolare e un contesto sociale. Occorre sottolineare che tale incontro non può essere letto unicamente come un adattamento, come l’interiorizzazione di un processo a senso unico. Il soggetto non apprende secondo il modello della spugna, come se non dovesse fare altro che assorbire il sociale. Non si tratta di un adattamento all’ordine esistente ma della costruzione di una capacità di mettere in discussione questo ordine. Questa dualità nell’uso di sé stessi va messa in relazione con la molteplicità delle concezioni del lavoro che si presentano spesso contrapposte. Se si sottolineano per esempio gli aspetti positivi l’accento viene messo sul contributo essenziale che il lavoro dà alla vita comune, sulle possibilità che esso offre alla realizzazione personale sul piano sociale: se associato alla creazione, alla libertà, il lavoro è l’attività attraverso cui l’uomo, trasformando concepire gli uomini come semplici “rotelle” dell’impresa. Ponendo l’accento sulle relazioni affettive, sulle norme prodotte dai gruppi, sull’organizzazione come sistema sociale, questi studi mirano ad una umanizzazione del mondo della produzione senza necessariamente rimettere in discussione i principi su cui si basa la divisione sociale del lavoro. A partire dal momento in cui il lavoro si svuota dei suoi significati e quando i membri dell’impresa sono tenuti separati dalle tecniche che essi stessi usano, dal sapere che manipolano, dalla cultura della quale vivono, non resta più come realtà che la struttura organizzativa e le istituzioni che la fondano. Ma di fronte all’esperienza del lavoro e delle smentite del reale quella realtà non può che mostrare il suo volto di maschera. La relazione con l’organizzazione viene mediata dal lavoro anche se il discorso organizzativo tende ad occultare questo terzo elemento a vantaggio della costruzione di una relazione duale che favorisca l’identificazione, l’adesione attraverso l’instaurarsi di un’egemonia del pensiero. Lavorare implica uscire dal discorso, riconoscere su che cosa il discorso fallisce, poiché a quel punto non si tratta più di parlare, di rappresentarsi, ma di fare e di mettere alla prova ciò che resiste sia all’ordine simbolico che alle produzioni immaginarie. DALL’ATTIVITÀ ALL’AZ IONE Il lavoro non è soltanto organizzato dalle direzioni e dai funzionari. È riorganizzato da coloro che lo razionalizzano sia per rispondere alle esigenze del reale che per liberarsi dai rapporti sociali di dipendenza e di controllo contenuti nelle prescrizioni. Questa riorganizzazione è una costruzione collettiva che si raggiunge attraverso scelte e decisioni per regolare le attività individuali e inscriverle in un corpo di regole condivise e in un quadro comune di significati. Il collettivo di lavoro è lo spazio entro il quale si sviluppa questo lavoro di riorganizzazione. Il collettivo è allo stesso tempo un gruppo di produzione e di lotta. Nella misura in cui si devono risolvere in comune dei problemi di organizzazione del lavoro, i cui diversi aspetti si richiamano l’un con l’altro, gli operai formano necessariamente delle collettività elementari che non trovano riscontro in un nessun organigramma dell’azienda. La mobilitazione soggettiva, in questo lavoro collettivo, è resa possibile grazie ai riscontri che ciascuno ha rispetto al proprio contributo al raggiungimento degli obiettivi comuni. Ciò permette a ciascuno di accedere e di contribuire ad un mondo comune in cui l’attività non è solo attività produttiva ma azione. La lotta per conquistare la propria autonomia, per preservare un margine di libertà nel lavoro, presuppone sia un’attività su sé stessi (lavoro di soggettivazione) sia un’azione comune intesa come prassi, come pratica sociale. L’esperienza dell’autonomia è quella di acquisire del potere sulla propria attività. Se lavoro e azione sono concetti distinti non per questo sono dissociabili. Lavorare non è solo dedicarsi ad un’attività. È anche stabilire delle relazioni con gli altri, impegnarsi in forme di collaborazione e di scambio, inserirsi entro una suddivisione di ambiti e di compiti, confrontare i punti di vista e i modi di fare, sperimentare e fornire visibilità alla capacità e alle risorse di ciascuno, trasmettere sapere e saper fare, valorizzare la singolarità. È infine l’essere in grado di lasciare la propria impronta sul proprio ambiente e sul corso delle cose. Il mantenere uno spazio di lavoro per sé e il riconoscimento della specificità della propria attività presuppone il cooperare con gli altri. L’azione è sinonimo di prendere un’iniziativa, intraprendere: non è possibile svilupparla nella solitudine. L’essere isolato è privato della capacità di agire. E agire assieme permette di avere accesso ad un ruolo sociale, permette la presa di distanza dalla propria storia personale in funzione di attività che collegano ciascuno agli altri e che riguardano il mondo comune. L’azione presuppone l’inserimento in un contesto sociale costruito su interessi condivisi, che costituiscono qualcosa che sta tra le persone e perciò può metterle in relazione e unirle. La concezione dell’azione, inseparabile dalla parola, è l’attività che permette di accedere alla vita pubblica, alla comunità dei cittadini. È in questo spazio che gli uomini possono distinguersi e manifestare la loro individualità. Gli esclusi dal lavoro sono esclusi da questo spazio. Ciò che fonda il senso dell’unicità dell’identità profonda è proprio il suo appoggiarsi su un altro ordine, comune e pubblico. Gli ostacoli e gli impedimenti all’attività sono anch’essi una privazione del potere dell’azione, e la sofferenza che ne deriva contribuisce ulteriormente alla diminuzione della potenza d’agire. Essere privati del lavoro significa essere amputati delle condizioni necessarie sia alla costruzione della propria identità che alla costruzione del vivere assieme. LE TRASFORMAZIONI DEL LAVORO A partire dagli anni ’80 del secolo scorso le esigenze del lavoro sono cresciute. Anche se nel frattempo le risorse necessarie per rispondere a queste esigenze si sono ridotte. Questo doppio processo di appesantimento dei vincoli e di fragilizzazione degli individui genera una marginalizzazione progressiva dei salariati sia all’esterno che all’interno del mondo del lavoro. La flessibilità è divenuta uno dei maggiori assi della strategia delle imprese e permette di riversare sui salariati le restrizioni imposte dall’incertezza dei mercati e dalle esigenze della competitività. La flessibilità interna si traduce in profonde trasformazioni dell’organizzazione del lavoro che contribuiscono a renderlo sempre più precario; quella esterna, dal canto suo genera una riduzione degli organici, lo sviluppo dei subappalti e la precarietà dell’impiego. Paradossalmente, mentre le esigenze di produttività si accrescono si nota una tendenza generale all’aumento della dequalificazione. La crescente precarizzazione del lavoro e dell’impiego, così come l’intensificazione dei ritmi e dei carichi produttivi, contribuiscono ad una decostruzione del mondo del lavoro e ad una crisi del riconoscimento delle attività di lavoro. In questo contesto, l’ideologia manageriale cui si fa ricorso per mobilitare i salariati, gioca sulla diffusione del culto dell’eccellenza che alimenta le illusioni dei desideri narcisistici e tende anche a offrire dei miti capaci di sostituirsi ad una realtà sempre meno esaltante. Attualmente il mondo del lavoro è percorso da un lato da un processo di riduzione dei contenuti simbolici e dall’altro da un approccio gestionale al lavoro sempre meno coinvolto nel confronto con il reale e a ciò che sfugge al controllo. la distanza rispetto al lavoro concreto si amplia man mano che l’immaginario sociale guadagna terreno e lascia ciascuno solo, alle prese con l’organizzazione e i suoi rappresentanti. L’impresa dovrebbe essere una comunità omogenea e consensuale. Il mito di una unione fraterna non riesce a nascondere le differenze di interesse, di responsabilità, di funzione, degli uni e degli altri. Non copre la violenza dei rapporti competitivi, i guasti prodotti da una maggiore pressione su ciascuno, la crescita delle devianze manageriali di ogni genere, l’umiliazione e l’emarginazione. Lo sfaldamento dei gruppi di appartenenza indebolisce le capacità di resistenza. Questi gruppi giocano un essenziale ruolo di mediazione tra l’individuo e l’organizzazione, tra il soggetto e la sua azione. La diluzione della pregnanza del mestiere a vantaggio di una maggiore mobilità, polivalenza e adattabilità porta ad una più elevata indeterminatezze delle funzioni e ad un indebolimento dei punti di riferimento connessi all’inserimento nel mondo del lavoro. Il diffondersi di una maggiore individualizzazione nei criteri di remunerazione e di gestione delle carriere si iscrive nello stesso movimento, anche se lo si presenta come una promozione dei valori della realizzazione personale. Lo slittamento dal concetto di qualifica a quello di competenza intesa come attributo personale, capacità operativa e relazionale, conferma una sorta di naturalità delle differenze e cancella le dimensioni collettive e organizzative dell’esperienza professionale. L’insieme di questi cambiamenti favorisce lo sviluppo di relazioni d’impresa di tipo duale, non mediati e privi di riferimenti a quella terza parte (l’istituzione, la legge, la comunità professionale, il collettivo di lavoro) che permette lo scarto, la presa di distanza, il pensiero critico e la parola vitale. Riaffermare il ruolo del lavoro reale all’interno dello spazio pubblico e interessarsi non solo alla soggettività ma anche all’attività dei lavoratori, permette di rovesciare il silenzio sul lavoro e sottoporre alla prova di realtà i sistemi di rappresentazione che tendono a nascondere ciò che è al centro dell’esperienza di lavoro: la ricerca della nostra umanità, all’incrocio di esigenze pulsionali, esistenziali e di determinismi sociali. La parola <<organizzazione>> è una parola che è comparsa solo in tempi relativamente recenti per indicare un’entità specifica, un’entità sociale diversa dal gruppo, dalla comunità o dalla società. Il termine è solitamente accompagnato ad un altro: organizzazione sociale, organizzazione del lavoro, organizzazione del tempo. si riferisce pertanto più che ad un oggetto, ad uno stato o ad un’azione (l’azione di organizzarsi), che presuppone dei soggetti individuali o collettivi. IL CONCETTO DI ORGANIZZAZIONE Il termine organizzazione deriva da organo, che indica un mezzo, uno strumento. Per estensione è stato applicato alle diverse parti del corpo umano, considerate come strumenti, e nel XVIII all’organismo preso complessivamente: cioè ad un essere vivente provvisto di organi. Organizzare significava inizialmente (a partire dal secolo XV) dotare di un corpo di organi e in seguito di dispositivi (morali o psichici). L’organizzazione indicava quindi uno stato, quello dell’essere organizzato, adatto alla vita. è solo negli anni della Rivoluzione francese che il termine comincia a staccarsi dal campo della biologia e da quello della psicologia e della morale (dove l’organizzazione individuava un modo di essere) per allargarsi al campo istituzionale e assumere un significato politico; organizzare è fare in modo di dotare un istituto o un’impresa di una struttura, di una Costituzione. Con l’inizio del secolo XX, con la parola organizzazione non si intenderà solo lo stato di un organismo sociale, i suoi dispositivi interni e neppure soltanto l’azione necessaria ad attribuirli, ma l’organismo sociale stesso, cioè le forme associative organizzate e l’insieme delle persone che ne fanno parte. L’organizzazione rinvia sempre necessariamente ad un essere o ad un insieme vivente. Non esiste in sé e per sé: si tratta sempre dell’organizzazione di quell’insieme, di quel gruppo, di quell’individuo, dello stato che rende questo e quello in grado di funzionare efficacemente. Il termine organizzazione è stato infine applicato all’organismo o allo stesso insieme sociale organizzato e non più specificamente al suo stato e all’azione con cui lo si raggiunge. Solo molto più tardi, all’inizio del XX secolo, il concetto di organizzazione si specializza e viene attribuito unicamente a entità di dimensioni intermedie, cioè ad unità funzionali costituite da livelli gerarchici diversi, da personale di categorie diverse e da sistemi di comunicazione complessi. Questa concezione sviluppata inizialmente da Taylor e applicata all’organizzazione del lavoro e alla gestione (1913) è sfociata più tardi negli USA, in numerose teorie dell’organizzazione che si sviluppano contemporaneamente alle crisi generate nelle aziende dalla Depressione. L’ORGANIZZAZIONE COME UNITÀ SOCIOLOGICA E COME MESSA IN ATTO L’organizzazione è definita come un insieme di persone e di gruppi associati che mettono in comune risorse e strumenti per realizzare obiettivi di produzione di beni o servizi o per perseguire finalità di tipo culturale. Uno dei tratti principali che caratterizza le organizzazioni è la loro specializzazione. Esse si definiscono a partire da progetti di azione e non in relazione a progetti di vita come succede per le comunità sociali sempre collegate ad un territorio o a vincoli di parentela. La partecipazione dei loro membri non è totale, ma relativa alla parte che giocano nel funzionamento dell’organizzazione. Le comunità invece non possono tollerare la multiappartenenza, che sentono come un tradimento. A differenza delle comunità, la cui finalità primaia è di preservare la propria esistenza, le organizzazioni hanno senso solo se sono capaci di realizzare i compiti che sono stati loro attribuiti o che si sono date, se sono in grado di esercitare le funzioni assunte nella società per tutti il tempo in cui esse sono ritenute necessarie. Ciascuno in tal modo è obbligato a esercitare il ruolo assegnato: non è possibile che faccia qualsiasi cosa, quando e come vuole. In altre parole, il compito comune è suddiviso tra i membri o tra gruppi di membri in altrettanti compiti specifici e interdipendenti. Fondare un’organizzazione è un atto che implica un soggetto, che apre un campo di possibili (in termini di realizzazioni, di relazioni di collaborazione) ovvero che crea un ambito intermedio tra qualche cosa di certo, sicuro e qualche cosa di imprevedibile: un ambito che è caratterizzato dal fatto che in esso tutto non è possibile (sarebbe il regno dell’anarchia, dell’assenza di regole o di limiti) e nulla è assicurato o garantito (né la collocazione di ciascuno, né la salute o l’educazione, né l’amore, il sostentamento o la sicurezza) diversamente da quanto si vuol far credere nelle comunità sociali (come la famiglia) in cui prevale la fantasia che l’amore prevarrà sempre. In sintesi, l’organizzazione si può definire in base a quattro criteri principali:  la finalità, che corrisponde a d una funzione nella società;  le regole che definiscono comportamenti e relazioni;  i criteri che definiscono la divisione del lavoro;  una storia che implica un inizio e una fine. REGOLE E RAPPRESENTAZIONI L’organizzazione si struttura ed esiste grazie a delle regole, per loro natura arbitrarie e quindi umane. La loro legittimità non è fondata su valori o su una autorità trascendente, universale, religiosa, morale o funzionale. Le regole sono la traduzione della volontà di alcuni uomini e donne che in una realtà concreta si associano liberamente per vivere insieme, per lottare contro tutto ciò che minaccia la loro esistenza, per definire le basi di una convivenza civile (intesa come condizione di produzione spirituale, fondata su una lingua, su dei costumi e delle convenzioni) che reggano le relazioni tra i singoli, sostituendosi alla legge del più forte. Tutto questo costituisce la specificità del fatto organizzativo, ciò che gli conferisce forza, ma anche che sottolinea la sua fragilità. Le organizzazioni sono mortali in quanto sono vive: non saranno mai una protezione contro la morte, a meno che non si trasformino in istituzioni mortifere. Riconoscere il carattere arbitrario delle regole significa accettare che la loro legittimità è umana, che sono sempre in cambiamento e in discussione, che sono attraversate da dubbi e da contraddizioni, occasioni di scambi e di dibattito; equivale ad accettare che le relazioni tra persone non sono Il termine <<potere>> presenta diverse accezioni: potere, come verbo, indica la possibilità di esercitare alcune facoltà (es. posso camminare), a volte anche la proprietà di un oggetto (il potere illuminante di una lampada), ma denomina anche una manifestazione della vita collettiva, che consiste nella capacità di imporre una volontà ad altri. Le situazioni, gli attori coinvolti, i principi su cui si fonda, le modalità di applicazione possono variare all’infinito e portano a distinguere vari tipi di potere. Il potere non può essere disgiunto dalla relazione e dalla cooperazione. È connesso alla vita, ma ha a che fare con la morte. È desiderato e subito, è visto accanto alla repressione o alla libertà, è oggetto privilegiato di ambivalenze. Ha molti sinonimi che nelle loro diverse sfumature esprimono varie dimensioni implicate: autorità, dominio, potenza, influenza, e il loro contrario: sottomissione, subordinazione, dipendenza, obbedienza ecc. Il potere si afferma sempre nei confronti di un’inerzia o di una resistenza presunta e, per piegarle al proprio ordine, suppone un’opposizione tra due polarità. Appare come un’energia applicata a elementi da sottomettere. L’idea di energia forse viene da una confusione con la forza: il potere può impiegare la forza o sentirsene privato quando gli vengono a mancare le forze sulle quali si appoggia, ma non bisogna confondere il potere con i mezzi che impiega. È per questa ragione che il potere non dipende dal numero: un pugno di uomini al potere può governare delle moltitudini. Il potere utilizza molti mezzi: la forza, la persuasione, la seduzione, la legge, il costume. I bisogni di sicurezza, stabilità, amore, direttive sono alleati del potere, che risponde a delle attese e a delle domande, tanto quanto genera frustrazione, odio e rivolta. L’instabilità del potere, che fa sì che esso sia sempre da conquistare, da elargire o da conservare, dà corso a strategie condotte senza respiro per assicurarsi almeno qualche zona di tranquillità. Dato che detenere il potere esalta il narcisismo e procura privilegi e vantaggi psicologici e materiali ben oltre la necessità funzionale, è naturale conservarlo con tutti i mezzi ed evitare di esserne spossessati. Nella storia delle società, il potere, con i suoi legami con la dimensione religiosa, ha sempre fatto parte dell’area del sacro. Il potere è comunque una necessità legata alla prassi, all’operare; non si può concepire nessuna cooperazione, immaginare un’azione che impegni collettivamente, senza stabilire delle priorità, una divisione del lavoro, cioè un’attribuzione di compiti interdipendenti ma subordinati gli uni agli altri secondo un ordine che non è indifferente. Il potere è necessario all’azione collettiva e questa genera a sua volta potere. Resta aperto il problema di sapere secondo quali criteri il potere può essere preso, distribuito, diviso, conservato o restituito e quali saranno i suoi confini nel tempo e nello spazio. La problematica del potere si trova a tutti i livelli, dal gruppo fino alla società passando per le organizzazioni. Le relazioni tra gli individui sono attraversate dal potere: che siano istituzionali (relazioni medico-paziente), spontanee o casuali (relazioni amicali), non sono mai completamente libere da riferimenti a status e norme sociali. Il potere ha una dimensione religiosa e politica, ma anche economica. La consistenza reale degli effetti del potere non deve mascherare la sua dimensione immaginaria. In qualche modo, il potere poggia sulla fede di coloro che si sottomettono perché credono che i loro rappresentanti tengano le chiavi della loro sicurezza e della loro felicità. Il discorso è lo strumento principale del potere: non solo ordina, stabilisce il corso delle cose, ma è il discorso che giustifica il potere, che ricama sulle sue pretese capacità, promette un avvenire radioso, migliore. Il discorso, disegnando figure ideali, serve a nutrire l’immaginario e a gonfiare la speranza. Il lato immaginario del potere mette in luce la sua dimensione psicologica; il potere è inscritto nello psichismo sin dalla nascita. L’immaturità prolungata del bambino lo consacra per lungo tempo alla dipendenza e lo abbandona al potere di coloro che lo allevano. Secondo le teorie psicoanalitiche, lo psichismo del bambino si struttura in relazione alla triangolazione edipica, dove, alla potenza fantasmatica della madre, segue l’autorità del padre, minaccia di castrazione e figura della Legge. È difficile non vedere in questo padre simbolico un’incarnazione del potere. Nella sottomissione il bambino interiorizza i divieti, apprende le regole e i codici, prova attraverso le strade dell’identificazione e riflettere a sua volta un’immagine ideale del potere. L’adulto, divenuto capace di sublimazione e di autonomia, conserverà sempre vivo in sé stesso gli scenari fantasmatici che lo legano alle figure paternali, li proietterà nelle situazioni sociali che gli ricorderanno in varia misura una struttura familiare. Il bisogno di amore e protezione lo disporrà alla dipendenza e alla sottomissione, così come la sua ambivalenza lo poterà alla ribellione e all’omicidio. Il capo è un’incarnazione del potere, ma ne è l’emanazione (il potere è un attributo della sua persona o del suo linguaggio), il rappresentante designato, il portavoce di un’entità (il popolo) vera detentrice del potere. Freud (1921) attribuisce il legame sociale, che riunisce gli individui della massa e li porta ad un’azione comune, all’esistenza di una guida o di un capo. Questi si pensa che ami tutti i membri della comunità d’un amore uguale. Per compiacerlo, i singoli si uniscono e si sostengono fra loro e mettono in lui il loro ideale dell’Io che, re-introiettato, li rende uguali gli uni agli altri. La descrizione di Freud corrisponde alla descrizione del capo carismatico a cui si attribuiscono doti eccezionali, che collocano il suo potere su un piano molto affettivo e quasi religioso. Il carisma è la caratteristica della figura del padre o dell’eroe edipico vendicatore e conquistatore. Altri poteri possono essere assunti secondo vie giuridiche e legislative. La democrazia sembra, nelle società avanzate, il regime più equilibrato perché i poteri sono separati e i rappresentanti sono eletti, essendo teoricamente veri depositari del potere i cittadini che ad essi si sottomettono. La realtà non si conforma mai ai principi e la passione del potere è tale che tutte le strategie e tutte le manovre sono utilizzate per conquistarlo e conservarlo in qualsiasi modo. Ciò che si verifica nelle società, si ritrova nei gruppi e nelle organizzazioni, ponendo tuttavia problemi specifici. Il potere, nei piccoli gruppi, è stato studiato a partire dalla leadership. Lewin e i suoi allievi (1935) hanno condotto ricerche su differenti tipi di leader (autoritario, democratico, laissez-faire) per paragonare i diversi climi che essi inducono e i relativi effetti sugli individui, le relazioni e le produzioni. Ne è uscita vincente la conduzione democratica. POTERE E ORGANIZZAZIONE Le organizzazioni e le istituzioni sono ambiti privilegiati per l’esercizio del potere. Non possono essere istituite, svilupparsi e socializzare i propri membri senza riferirsi ad una parola superiore che offra loro legittimità, per quanto aleatoria e arbitraria questa possa essere, e che permetta il loro funzionamento e la loro dinamica. Ogni istituzione è la faccia invisibile dell’organizzazione: le fornisce un senso e un ancoraggio storico. L’istituzione che si fonda su un sapere teorizzato, considerato indiscutibile, che ha forza di legge, deve essere interiorizzata nei comportamenti concreti, nelle regole di vita assunte nella quotidianità. È per questo che essa ha origine sempre a partire da una persona centrale: che si tratti di Dio, del padre di famiglia, di un maestro o di un capo militare, le istituzioni pongono sempre il problema del potere. La scena del visibile è occupata dalle organizzazioni, cristallizzazione storica delle istituzioni, ed è a livello delle organizzazioni che si individuano le diverse forme e figure del potere. Max Weber è il primo che ha tentato di stabilire una tipologia del potere nelle organizzazioni e ha descritto le forme del potere carismatico e burocratico. A partire dall’opera di Weber, sono state definite altre modalità di potere, che hanno preso il nome di potere cooperativo, tecnocratico e strategico. CULTURE ORGANIZZATIVE Le culture di tipo burocratico e carismatico vengono nominate per prima per ragioni di tipo storico: il primo a parlarne è stato Weber, che fece un approfondimento di quelle che sono state le più famose organizzazioni culturali fino a quel periodo. Prevalentemente, queste organizzazioni erano di tipo culturale e burocratico, sistematizzate per prime perché sono state le prime con cui è entrato in contatto. Dopo la II guerra mondiale, il fermento culturale, soprattutto in ambito psicosociologico, è cresciuto, c’è stata una maggior vivacità in termini di approfondimento politico, sociologico, psicologico e in Francia, con la psicosociologia, si sono studiati e approfonditi altri tipi di modelli culturali nelle organizzazioni. Si parlerà infatti di culture organizzative, che nel frattempo si andavano affermando (cooperativa, strategica, tecnocratica). Hanno a che fare con i nuovi di tipi di aziende e organizzazioni aziendali che si andavano determinando. Per ciascuna delle culture organizzative, facciamo riferimento a criteri che ci permettono di comprenderne meglio il funzionamento. Carismatica Burocratica Cooperativa Tecnocratica Strategica Valore dominante Obbedienza Norma Partecipazione Competenza Successo Leader Il leader è un polo identificatorio, un Ideale dell’Io. Leader megalomanico- paranoide. Garante Facilitatore Manipolatore razionale “Uccisore freddo”. Normalmente partecipativo Obiettivi reali Lavorare per il capo e soddisfare i suoi bisogni di realizzazione Svolgimento del compito Mobilitazione delle risorse individuali Realizzazione efficace ed efficiente Vincere (individualmente) collaborando (apparentemente) Decisioni Centralizzate. Ciò che vuole il capo Assenti Decentrate. Vicine al problema Sulla base della competenza. Delega controllata Decentrate ma vincolate nel breve periodo Dinamiche interpersonali Emulazione verticale e competitività orizzontale Formalità e impersonalità Informalità Cooperazione Responsabilità Gestione del conflitto Anaffettività Competizione Manipolazione di variabili con valore comunicativo e valoriale, e mistificazione (rendere appetibile ciò che non lo è) Istanze di personalità privilegiate Dipendenza Sicurezza e riduzione delle tensioni Riconoscimento di sé e dell’altro. Affiliazione Controllo Narcisismo Isterismo Quando si devono prendere vere decisioni, ciascuno dovrà riferirne preventivamente ai suoi superiori: da qui la lunga durata dei processi di decisione, la saturazione dei livelli più alti e la lentezza della decisione. comportamento conformista ed obbedienza immediata sono la regola. Il funzionario burocratico deve mantenere una stretta separazione tra vita privata, dove è consentito avere sentimenti ed emozioni, e vita pubblica, dove è prescritto un atteggiamento esclusivamente razionale. POTERE E CULTURA COOPERATIVA Nella cultura cooperativa, il valore dominante è la partecipazione. Il leader è formalizzato. La leadership non è mai rigida e la funzione del leader è quella di facilitatore. Il leader è un pari tra i pari, che media, permette uno scambio più chiaro. I conflitti in una cultura cooperativa sono all’ordine del giorno. Questi non devono essere messi a tacere, ma devono essere facilitati rispetto alla loro espressione. Rende più facile l’espressione delle proprie istanze e la comunicazione dei conflitti esterni. Gli obiettivi reali riguardano la mobilitazione delle risorse individuali. L’individuo in quanto istanza individualistica è sullo sfondo, ma le persone contano, non per i loro bisogni narcisistici di visibilità, ma rispetto alle loro specifiche capacità, le risorse che possono mettere in campo per la cooperativa, per l’organizzazione. Le loro caratteristiche ed ambizioni devono essere riconosciute, e mediati rispetto a quelle che sono le esigenze collettive. Le risorse individuali vanno privilegiate in funzione del compito organizzativo. Per funzionare, le cooperative dovrebbero essere relativamente piccole. Dinamiche interpersonali: informalità, cooperazione, responsabilità, gestione del conflitto. Proprio perché le decisioni non sono prestabilite, ma vengono concordate e modificate in base a ostacoli e limiti che si vengono a proporre di volta in volta, le responsabilità vengono cambiate di volta in volta. L’affiliazione va intesa non come affiliazione di tipo carismatico al capo. L’affiliazione è legata alla mission. Per quanto le istanze soggettive siano evidenti e poco filtrate in una cultura cooperativa, esiste un accordo tra i membri rispetto ad alcuni valori condivisi. Affiliazione a valori condivisi dentro la cooperativa. La norma condivisa sta al di sopra del mio desiderio. E poi c’è l’Es, il mio bisogno di primeggiare, essere riconosciuto e visibile. Si attivano Es, io e super-io. Gli aspetti problematici riguardano fusionalità, difficoltà nella gestione dell’ansia e dei rischi, ma anche la difficoltà in termini di efficienza (problema di tipo più strutturale). Se c’è conflittualità, è chiaro che la percezione della violenza, l’ansia, il contatto con l’altro, generano stati d’animo rischiosi o percepiti come tali. La fusionalità è legata alla partecipazione. Il riconoscimento è un altro elemento caratterizzante della cultura cooperativa. La fusionalità non diventa un problema in sé. La coesione è un valore positivo, ma se la coesione è particolarmente incoraggiata, rischio di non riconoscere più le differenze individuali (omogeneizzazione). Processi di omogeneizzazione nei gruppi aperti e democratici proteggono da dimensioni conflittuali, ma è un rischio, perché può essere rassicurante ma al contempo alienante rispetto all’individualità. L’idea di un potere cooperativo o di una leadership condivisa è stata enunciata per la prima volta da Barnard e teorizzata da Likert. In questo caso il leader è vicino ai suoi uomini con i quali stringe rapporti umani il più possibile autentici. Tende a sviluppare con loro rapporti di lealtà e confidenza. Crede nella loro intelligenza, nelle loro competenze, ma anche nel loro intuito. È capace di evolversi e di cambiare parere quando i suoi collaboratori gli prospettano un’altra visione di un problema e soluzioni più efficaci. È pronto a difendere i suoi collaboratori quando la gerarchia superiore rimprovera loro degli errori, se è convinto che essi abbiano cercato di fare del loro meglio. si occupa della loro formazione e del loro perfezionamento, perché desidera che ciascuno possa sviluppare come lui le proprie potenzialità. Crede nella funzione educativa del capo. Non è geloso della propria autorità, la condivide volentieri, la delega spesso, consulta i collaboratori. Le decisioni importanti investono tutto il gruppo (decisione collettiva). Assume le responsabilità che gli sono state affidate e non le scarica sui membri del gruppo. Ha la capacità di mettersi in discussione, sa che la sua soggettività è direttamente implicata nelle sue azioni. Si interroga su sé stesso e sulle sue capacità e fa in modo che l’organizzazione che dirige formi una comunità. Non una comunità di diniego fondata sul patto denegatorio (Kaes) che elude i problemi che potrebbero mettere in discussione la coesione del gruppo, ma una comunità in cui i disaccordi e i conflitti possono esprimersi e in cui i compromessi devono essere elaborati in vista di una soluzione che privilegi il bene comune. Il capo cooperativo sa che i gruppi più efficienti sono quelli che non schiacciano le personalità specifiche di ciascuno e che consentono che ci sia spazio per la libido narcisistica e per la libido gruppale. POTERE E CULTURA TECNOCRATICA La cultura tecnocratica si sviluppa prevalentemente nella fine degli anni ’70-80, in cui le grandi conflittualità della cultura di tipo cooperativo, le grandi aperture inefficienti della cultura cooperativa, in un periodo in cui c’era anche un cambiamento di visione economica del mondo, hanno generato la necessità di orientarsi in senso più tecnico. Dobbiamo immaginare la cultura tecnocratica non solo come evoluzione della cultura cooperativa ma anche della cultura carismatica, sempre un po’ presente anche oggi. Tutte le volte che elementi emotivi prendono il sopravvento sull’azienda si hanno conseguenze negative in termini di produttività. Si è visto ad un certo punto nella luce della tecnica la soluzione a questi problemi. Attraverso le competenze tecniche si sarebbero appianate tutte le difficoltà. Il valore dominante è la competenza, ma qui non parliamo di mobilitazione di risorse individuali né dello svolgimento del compito. L’idea della competenza è quella che ci sia la persona migliore a svolgere un determinato compito. Il leader è un manipolatore razionale. Presunzione di controllo attraverso l’Io. Questo tipo di potere, che assomiglia al potere cooperativo nella misura in cui tutti sono chiamati alla definizione degli obiettivi e dei valori dell’organizzazione, si è imposto dopo la II guerra mondiale. Il potere tecnocratico è quello esercitato dal tecnocrate. Questi, da un lato, è esperto in una disciplina moderna e affermata (economia, finanza, informatica ecc.), aperta ad un grande avvenire e suscettibile di costruire un motore di crescita, d’altro lato è un uomo di sintesi che possiede conoscenze sufficienti di discipline che padroneggia solo in parte per essere in grado di utilizzarle al meglio e per poter coordinare gli specialisti. Egli ha potere sul sapere degli altri. Il capo tecnocratico agisce raramente da solo: più spesso fa parte di una tecnostruttura che riunisce gli altri grandi esperti delle differenti funzioni e delle diverse linee di produzione dell’organizzazione. La sua parola è ascoltata perché pronunciata in nome della scienza e della tecnica. Il tecnocrate appare più umano del burocrate. Prima di tutto perché lavora in gruppo e fa partecipare i suoi collaboratori alla definizione degli obiettivi (ma è più direttivo del leader cooperativo) e poi perché il suo scopo è di contribuire al benessere degli altri – sia dipendenti che clienti – vantandosi di conoscere meglio di loro cosa può farli davvero felici. Tende a delegare molta responsabilità e controlla i risultati. Domanda la partecipazione di tutti. Ammette le idee e i suggerimenti dei collaboratori se gli sembrano utili alla riuscita dell’insieme. Sa anche utilizzare le tecniche delle relazioni umane per manipolare a livello intellettuale e psicologico e per integrare la massima parte dei lavoratori. Se però le sue decisioni a un certo punto non appaiono più pertinenti, il suo astro può declinare e viene sostituito, dato che la tecnocrazia rivendica di essere una meritocrazia razionale. POTERE E CULTURA STRATEGICA È il potere che tende a diffondersi nel mondo attuale. Stratega non è solo chi occupa il grado più alto della gerarchia, ma tutti coloro che operano nel processo di lavoro. Chiunque può esserlo, non serve più la legittimazione derivante dall’appartenenza ad una élite di classe o ad una élite intellettuale. Deve continuamente sperimentarsi in un universo sempre più competitivo che lo mette costantemente alla prova e quindi deve conoscere bene le motivazioni, i sentimenti, i processi inconsci dei collaboratori per farli lavorare in una équipe affiatata e per ottenere il massimo da ciascuno di loro. Oltre alle competenze tecniche (che non devono essere così elevate come per il tecnocrate), lo stratega deve possedere i metodi migliori per sedurre i collaboratori. Deve essere loro vicino pur mantenendosi esigente. Forma con loro una vera famiglia. Tuttavia, se un collaboratore sbaglia o sembra indispensabile, se ne separerà senza problemi. Il suo ruolo è soprattutto quello di coordinare le attività di ciascuno. Deve pertanto intrattenersi regolarmente con i suoi uomini, prendersi cura del loro morale anche se li mette in uno stato di stress. Quando la leadership dello stratega viene meno o adotta strategie sbagliate, deve lasciare il posto assumendosi la responsabilità del proprio fallimento. IL POTERE E LA MORTE Ogni potere ha uno scopo esplicito per la costruzione di un mondo. Viene legittimato dalla sua funzione essenziale per il raggiungimento degli scopi dell’organizzazione. Se esige obbedienza, è sempre per permette all’organizzazione e ai suoi membri di ottenere i risultati desiderati. Esiste però anche un volto mortifero del potere. l’immagine del potere per il comune mortale è spesso associata a quella della morte: campi di concentramento, genocidi, schiavitù ecc. Il potere ha spesso la maschera dell’oppressione, della violenza. Il potere indica separazione fra coloro che dominano e coloro che eseguono gli ordini. Coloro che comandano hanno sempre la tendenza a impedire ogni rivolta contro l’ordine stabilito in cui sono ben installati. Gli altri devono organizzarsi, lottare fino alla morte per tentare di far prevalere i loro desideri e interessi. Il potere porta ad assoggettare attraverso il controllo della parola. Chi parla in modo sovrano si fa ascoltare e seguire dagli altri. Quando la parola assillante e soffocante non basta pi+, interviene la repressione diretta sulle persone. Il potere è sempre vicino alla megalomania, se non alla paranoia o alla perversione che fa sì che gli uomini siano trattati come strumenti. Il potere dispotico è così perché si nutre del sangue delle sue vittime o dell’umiliazione degli uomini. Il dispotismo è la posizione più stabile e più intrinsecamente presente nelle società umane. Il potere è sempre manifestazione di una volontà di potenza che poggia su un’impotenza reale: il desiderio di compensare questo sentimento d’impotenza che continuamente rinasce, dà slancio all’ennesima potenza al desiderio di essere l’unico, di dominare pienamente, di trarre la propria forza e di provarla nella negazione dell’esistenza degli altri. Il soggetto è l’essere umano con un nome, collocato dentro uno spazio e in un tempo, in cui si costituisce come originale e singolare, complesso e conflittuale; è un essere che aspira a realizzarsi e a mantenersi in un’unità coesa e in una continuità coerente, essere avido di godimento, che si scontra con la sofferenza e rivendica un riconoscimento e condivisione, responsabile e alienato. Questo soggetto è apparso nella storia quando è stato attribuito un valore qualitativo unico e irripetibile all’individuo. In passato, era il gruppo la sola entità valorizzata, i singoli avevano solo in merito di farne parte e il dovere di occuparvi il proprio posto. È stato attraverso il ‘cogito ergo sum’ che il soggetto comincia ad essere visto come entità che conosce. I filosofi antichi non nutrivano grande interesse per la singolarità dell’individuo, non erano attratti dall’introspezione dei sentimenti. Si era interessati più che altro a proporre dei modelli che permettessero di accedere alla conoscenza del mondo e dello spirito, scoprendone i principi e deducendo regole di vita collettiva ed individuale. Nemmeno con il cristianesimo, che ha introdotto l’idea della colpa individuale perpetuando l’idea dell’ereditarietà del peccato, l’individuo è stato dotato di una identità singolare. La singolarità era sempre ricollocata nell’universalità. Il soggetto moderno si manifesta a poco a poco come passione per l’interiorità, attenzione alle risonanze soggettive e al modo in cui queste contribuiscono alla comprensione di sé. A questa nuova visione dell’uomo ha contribuito la letteratura romantica, con un forte riferimento al concetto di inconscio che la fenomenologia e la psicoanalisi avevano posto al centro dei loro approcci filosofici e scientifici (pensiamo, ad esempio, a Flaubert e a Proust). Il soggetto, intenzionato e complesso, diventa lo strumento privilegiato di un modo di comprendere il reale, un universo che non può pensarsi senza la sua presenza. Le scienze umane che si definiscono cliniche (psicologia, sociologia, psicologia sociale) hanno in seguito cercato di comprendere che cosa ne sia il soggetto nella relazione. Attraverso il soggetto e attraverso ciò che dice e lascia scoprire di sé, si scoprono dei processi generali che possono contribuire una scienza dell’uomo. CONCETTI AFFINI E DISTINTI Il soggetto non è riducibile all’individuo: l’individuo è un’entità numerica, il soggetto è un’identità che ha un carattere unico e singolare. La persona è un individuo inscritto nella temporalità, con una storia: ha qualità proprie, può essere conflittuale, ma è sempre consapevole e dunque è capace di porre al riparo le proprie incongruenze dietro delle maschere, per esercitare i ruoli che si sceglie nelle interazioni. Le dimensioni inconsce della soggettività sfuggono alla persona. I concetti di autore, attore e agente si declinano a varie distanze al concetto di soggetto.  Agente: è il più lontano, definito soltanto dalle funzioni, dai compiti e dalle competenze, dal posto che occupa nella macchina organizzativa insieme agli altri agenti.  Attore: è un agente in versione più umana, più inserito nei rapporti sociali, dotato di iniziativa e di una pseudo-responsabilità: si avvicina al soggetto, ma l’attore esercita un ruolo entro un contesto definito da altri; può improvvisarsi autore ma non lo è; è responsabile in realtà soltanto della sua parte e nessuno è interessato a sapere di lui qualche cosa di più (ad esempio, qualcosa riguardante il suo inconscio).  Autore: è un soggetto considerato dal punto di vista della responsabilità; segna un inizio, un’origine e l’assume nella propria storia. Non coincide con il soggetto, ma è una delle dimensioni con cui si individua il soggetto: infatti, è colui che è in grado di riconoscersi nel corso della propria esperienza e dei propri atti, di darsi un nome in una continuità che riassume la sua storia e i suoi cambiamenti. Responsabilità, temporalità, intenzionalità, immaginario e progetto sono concetti che si collegano tra di loro. L’intenzionalità rimanda al soggetto fenomenologico, colui che dà significato all’esperienza, colui grazie al quale si costituisce il mondo che tende ad esistere, a vivere e a fare. Ci si avvicina a quello che in termini psicoanalitici viene chiamato Ideale dell’Io: il soggetto si proietta sul mondo, lo inventa e inventa sé stesso. Il soggetto progetta quello che sarà, capace di ricordare il passato, pur collocandosi rispetto al futuro: è l’immaginario che rielabora ciò che è disparato ed eterogeneo per aggregare e riunire vari elementi nel corso del tempo ed entro una sufficiente coerenza. La soggettività è l’attributo naturale del soggetto, ma non ne costituisce l’unica caratteristica esaustiva: è costituita da stati di coscienza, da un vissuto in cui prevalgono le dimensioni affettive e immaginarie, a spese SOGGETTO SOCIALE Il soggetto sociale riconduce ad una prospettiva clinica e nelle dinamiche dell’intersoggettività. Gli individui sono continuamente impegnati in scambi e attività per trasformare la realtà e colmare la mancanza. Le interazioni e cooperazioni non escludono il conflitto, ma strutturano delle unità sociali più o meno ampie, più o meno organizzate e stabili (gruppi, organizzazioni, istituzioni, società). Le unità sociali hanno significato per chi ne fa parte, quando ci si riconosce in pratiche comuni, quando ci si può intendere e condividere una storia. Ogni membro, in quanto soggetto, partecipa all’elaborazione di un senso e di una identità collettiva, che a loro volta alimentano la singolarità. Si può parlare di soggetto sociale quando si costituisce un’unità che ha significato. L’unità sociale non coincide col soggetto sociale: molte unità sociali restano artificiali e coercitive, e i membri ne sono parte senza avere la percezione o la possibilità di avere anche una minima responsabilità. Restrano estranei ai fini e sfugge loro il senso delle loro azioni. L’unità significativa invece accomuna i singoli che cercano di costruire insieme e di condividere non solo un atto, ma una storia, dei valori, un progetto. Il soggetto sociale si esprime con la prima persona plurale: il “noi” che dichiara l’esistenza di legami di solidarietà, la soggettività nell’unità sociale. Il soggetto inteso come multiplo è diviso da due punti di vista: da ciò che si mette in comune di inconscio e dalla diversità che è sempre presente. Se il soggetto può avvalersi di una unità organica reale, il soggetto sociale è condannato all’immaginario e l’unità, al simbolico. Non va dimenticata la forza dei transfert, delle proiezioni ed identificazioni che legano e slegano continuamente il soggetto sociale. LO SPIETATO REPERTORIO DELLA CONTEMPORANEITA’ L’oggetto trattato è rappresentato dalla deriva sociopatica nella civiltà contemporanea. Quello che sta succedendo, le modalità e le ragioni di tale deriva, continuano ad apparirci “normali”. Non tutto ciò che è normale però è sano. A sostegno di questa impostazione, McDougall (1978), in ambito psicoanalitico, ha introdotto il concetto di normopatia, per indicare la tendenza di alcuni pazienti ad un conformismo irriflessivo. Il paziente normopatico è colui che risponde adeguatamente al modello ideale di un buon paziente, che sostiene il lavoro analitico, interpreta, associa, puntuale, rispettoso, ma poco capace di porre un qualche tipo di riflessione o analisi rispetto a sé. Una figura piatta. Preoccupazione di fondo: scivolamento in una psicologia “positiva”, deterministica, a-dialogica; a-personale Il conformismo non è un’emergenza degli ultimi anni, ma l’escalation alla normalità sta acquisendo progressivamente una connotazione sociopatica. Il concetto di sociopatia è contiguo ai concetti di antisocialità e psicopatia.  Disturbo Antisociale di Personalità  disprezzo per gli altri sin dall’infanzia o prima adolescenza; difficoltà ad adeguarsi alle norme sociali; disonestà; manipolazione; impulsività; sconsideratezza; irritabilità e aggressività; incapaci di rimorso e senso di colpa;  Psicopatia  ne parla Cleckley (1941). Una personalità psicopatica si caratterizza per la tendenza stabile alla manipolazione e al disprezzo degli altri, all’insensibilità, all’egocentrismo, alla disonestà, al grave difetto dell’empatia, del senso di colpa e della capacità di entrare in intimità con l’altro. Può manifestare modalità interpersonali sadomasochistiche fondate sul potere. Queste caratteristiche sono compatibili con i criteri DSM del disturbo antisociale, ma se ne aggiungono altre: la tendenza al calcolo utilitaristico, all’evitamento strategico della violenza, alla buona integrazione sociale e a ricoprire con una certa frequenza ruoli di vertice.  Sociopatia  ne parla Hare (1993). La normopatia sociopatica è una psicopatia dozzinale, favorita da un sistema di valori che neutralizza le opportunità di coltivare l’empatia e i sentimenti prosociali, attraverso dispositivi individualistici e spesso mortificanti. Il successo adattivo della persona normalmente sociopatica non può essere considerato un indicatore di salute psichica né di benessere. Uno psicopatico può essere antisociale ma può anche non esserlo. Qual è la cornice epistemologica di riferimento? Lo strutturalismo costruttivista di Bourdieu, un sociologo francese (psicosociologo, anni 60-70). La sua formazione è parallela allo sviluppo della psicosociologia. Si occupa di sociologia, ma è molto attento a come si sviluppano le culture e conduce studi etnografici rispetto a popolazioni esotiche. Prova a costruire un modello di interpretazione di come si sviluppano e trasmettono le culture, che tenga conto di aspetti strutturalisti e costruttivisti. Lo strutturalismo fa riferimento all’oggetto, il costruttivismo al soggetto. Lo strutturalismo fa riferimento a quella prospettiva interpretativa del mondo, della realtà, delle società e delle culture, che dà prevalentemente credito e tende a spiegare i fenomeni della società e delle culture attraverso la rappresentazione di strutture che vengono trasmesse e che dall’esterno vengono immesse nella cultura e nei moti dell’individuo. L’idea che ci sia una struttura universale della famiglia, ad esempio. Lo strutturalismo prevede l’esistenza di strutture astratte che vengono prima del soggetto, che attraversano gruppi e comunità e le informano dall’esterno, e che vengono tramandate attraverso la trasmissione di motivi culturali. In ambito psicologico, diversi autori sostengono un’altra visione del mondo e lo sviluppo delle culture, che è quella costruttivista. Mentre nello strutturalismo la persona conosce il mondo attraverso strutture predeterminate che assume fin dall’infanzia, nel costruttivismo si sostiene l’attitudine e la capacità del soggetto di costruire la propria idea del mondo e i propri sistemi di conoscenza del mondo. Strutturalismo rispetto all'oggetto, laddove l'oggetto è inteso come struttura, la struttura predeterminata, la rappresentazione astratta di un'idea che viene assimilata dal soggetto. Il costruttivismo invece da prevalenza appunto al soggetto che, in quanto attore protagonista di un atto di conoscenza, costruisce il suo mondo. Questa diatriba è irrisolvibile Bourdieu in particolare, ha immaginato un modo di concepire i processi di conoscenza dei soggetti, che tenessero conto di entrambi gli aspetti, attraverso una serie di concetti, soprattutto il concetto di habitus. Habitus: conoscenza prassiologica. È la struttura che viene introiettata con un atto per così dire di violenza, sin dai primi anni di vita, che permette attraverso una serie di norme, codici, categorie di tipo relazionale, sociale, concettuale ecc. di conoscere il mondo. Tutti questi strumenti di conoscenza vengono dall’esterno, dall’ambiente culturale in cui il bambino è collocato. L’habitus è l’abito che viene confezionato e consegnato al soggetto al momento della nascita, è un “corredo”. Significa dare un’impronta al soggetto affinché possa conoscere il mondo attraverso dei dettami che hanno a che fare con la dimensione culturale, quell’insieme di azioni, pensieri, modi che stabiliscono la connessione tra l’individuo e il suo ambiente. Bordieu parte da questo presupposo strutturalista. L’individuo ha una profonda quota di potere costruttivo (conoscenza prassiologica: la prassi attraverso cui il soggetto conosce il mondo parte inevitabilmente da categorie interpretative dei fenomeni che sono esogene, estranee, imposte dall’esterno), in quanto una volta che apprende questi dispositivi non li riproduce in maniera pedissequa, stolta, irriflessiva, ma dentro i vincoli dei dispositivi stessi ha sempre la possibilità di elaborarli, manipolarli, emanciparsi da essi, certo sempre entro certi limiti. Tuttavia, attraverso la pratica di queste categorie la persona ha la possibilità di verificare gli effetti di questa conoscenza, capire quanto sono adeguati per il suo sviluppo e per l'adattamento della relazione con il mondo stesso e modificare quegli assunti, che sono tipici dell'habitus, dando una caratterizzazione personale a quell'abito. È l'esperienza quella che governa tutto. Questa conoscenza prassiologica che altera e rielabora un habitus può accadere soltanto attraverso l'esperienza. Non è attraverso un processo di riflessione astratto che noi facciamo una rivoluzione rispetto all'habitus ma attraverso l'esperienza. È l'esperienza, cioè la pratica di questi dispositivi esogeni, che permette di verificare la loro adeguatezza nell'equilibrio tra le aspettative del mondo e i bisogni personali, e questo è molto soggettivo sennò tutti faremmo le stesse cose. Quindi l'esperienza è l'elemento di mediazione tra la dimensione oggettiva e quella soggettiva; quella oggettiva è strutturata e strutturante, dice Bourdieu, nel senso che la dimensione oggettiva ha a che fare con l'imposizione, il primato dell'habitus, dei dispositivi appresi, strutturata perché viene prima dell'individuo, e questo vale per tutti, la struttura viene prima. È l'esperienza, cioè la pratica di questi dispositivi esogeni, che permette di verificare la loro adeguatezza nell'equilibrio tra le aspettative del mondo e i bisogni personali, e questo è molto soggettivo sennò tutti faremmo le stesse cose. Quindi l'esperienza è l'elemento di mediazione tra la dimensione oggettiva e quella soggettiva; quella oggettiva è strutturata e strutturante, dice Bourdieu, nel senso che la dimensione oggettiva ha a che fare con l'imposizione, il primato dell'habitus, dei dispositivi appresi, strutturata perché viene prima dell'individuo, e questo vale per tutti, la struttura viene prima. Nella seconda metà del ‘900, lo strutturalismo viene superato dal post-strutturalismo. Il post-strutturalismo, più che concepire le strutture come entità neutre o più o meno universali che governano dall’esterno il nostro modo di concepire le cose, le immagina in termini più prettamente politici. Finiscono di essere entità innocenti e diventano dispositivi di potere. Ogni individuo, dentro i vincoli dei dispositivi interiorizzati, ha sempre la possibilità di elaborarli, manipolarli ed emanciparsi da essi. Ha una profonda quota di potere costruttivo. Attraverso la pratica il soggetto ha la possibilità di verificare le conseguenze di queste conoscenze e di modificare quegli assunti tipici dell’habitus dandovi una caratterizzazione personale. È l’esperienza che governa tutto. L’esperienza è l’elemento di mediazione tra la dimensione oggettiva (strutturata e strutturante) e quella soggettiva (individuativa). Le strutture sono strutturate perché vengono prima, strutturanti perché hanno la funzione di dare una forma e struttura al soggetto, che però ha la possibilità soggettivamente di individuarsi. Cornice post-strutturalista: la realtà va intesa quale esaltazione di specifici punti di vista imposti da una parte (egemone) sulle altre (subalterne). Tali punti di vista determinano l’ordine simbolico, culturale, immaginario (Enriquez), gli strumenti e i dispositivi nei quali siamo immersi (Foucault), favorendone una rappresentazione di tipo naturale (Douglas).  Enriquez (1988) definiva “sistema di pensiero e di azione”, un'armatura strutturale che si cristallizza in una certa cultura, ovvero un'attribuzione di posti, ruoli e condotte, più o meno stereotipate, in abitudini La forma assunta dalla civiltà nel tempo della globalizzazione è una forma caratterizzata da fattori predisponenti alla normopatia sociopatica: la desoggettivazione, la proliferazione pseudotecnica, il declino dell ’autonomia. In essa si rinnovano continuamente alcuni contenuti che assumono la fisionomia di veri e propri valori. Doppiopesismo  cioè tendenza a valutare comportamenti e opinioni in senso positivo o negativo, non in base ad argomentazioni valide, ma a seconda della personalità o del partito politico che li esprime, e queste manifestazioni rientrano per lo più in una orbita della “lamentela”, perché grazie all’era digitale, tutto è accessibile in ogni momento e in ogni angolo del mondo, senza alcuno sforzo, fatica, pigiando solamente un tasto e ciò viene mal visto: infatti, è qui che si individua il primo e più pervasivo dispositivo valoriale dell“ ’onnidispositivo globalitario”, l’ipocrisia. 1. Ipocrisia (deroghe, annullamento della funzione supergegoica, mistificazione); 2. Flessibilità (strategica, esaltazione del rapporto di forze); 3. Comunicazione (menzogna mediatica, stupidità implicita); 4. Seduzione (illusione narcisistico-onnipotente, cortocircuito eccitazione-frustrazione). Al giorno d’oggi non vi è più il sistema della punizione (se fai questo verrai punito), né limiti determinati e determinanti posti realmente a monito. Tuttavia, il sistema di potere dominante esiste ancora, e si è dotato di un efficace apparato capace di mantenere un ordine che ha univocamente stabilito: il potere della frustrazione. Esso non nasce dal divieto o dall’imposizione, ma dalla seduzione esercitata da un immaginario che ripropone continuamente un’illusione narcisistico-onnipotente, che produce in tempi rapidissimi un corto circuito tra spinte pulsionali e frustrazione delle stesse. Permanendo il modello illusorio, tali frustrazioni non possono evolvere in un progetto più realistico. Il soggetto può soltanto ricadere in una spinta effimera al soddisfacimento immediato. Il dispositivo emozionale della seduttività, valore ormai caratterizzante dell’uomo contemporaneo, costituisce un tratto definitivo della sua identità, che ne determina un’attitudine irriflessiva ad agirlo o subirlo. La caratteristica essenziale del lavoro – quello che noi «abbiamo», «cerchiamo», «offriamo» – è di essere un’attività che si svolge nella sfera pubblica, un’attività richiesta, definita e riconosciuta utile da altri che, per questo, la retribuiscono. È attraverso il lavoro remunerato (e in particolare il lavoro salariato) che noi apparteniamo alla sfera pubblica, acquisiamo un’esistenza e un’identità sociale (vale a dire una «professione»), siamo inseriti in una rete di relazioni e di scambi in cui ci misuriamo con gli altri e ci vediamo conferiti diritti su di loro in cambio di doveri verso di loro. Proprio perché il lavoro socialmente remunerato e determinato è il fattore di socializzazione di gran lunga più importante – anche per coloro che lo cercano, vi si preparano o ne sono privi – la società industriale si considera come una «società di lavoratori» e, in quanto tale, si distingue da tutte quelle che l’hanno preceduta. Vale a dire che il lavoro sul quale si fondano la coesione e la cittadinanza sociale non è riducibile al «lavoro» in quanto categoria antropologica o in quanto necessità per l’uomo di prodursi la sussistenza «col sudore della propria fronte». Il lavoro necessario alla sussistenza, infatti, non è mai stato un fattore di integrazione sociale. È stato piuttosto un principio di esclusione: coloro che lo svolgevano sono stati considerati esseri inferiori in tutte le società premoderne. Essi appartenevano al regno naturale, non al regno umano. Erano asserviti alla necessità, dunque incapaci dell’elevazione spirituale e del disinteresse che rendeva idonei a occuparsi degli affari della città. NARCISISMO NORMALE La figura del “narcisista normale” dell’era contemporanea è ben lontana dall’icona potente e cinica della letteratura classica: il narcisista normale non è come il classico narcisista che conosciamo, è invece un divoratore seriale di status symbol. Uno status symbol è un elemento caratteristico dell'aspetto e del comportamento (spesso l'acquisto di un oggetto pregiato, costoso o raro o l'ostentazione di uno stile di vita) che tende a mostrare esteriormente che il possessore appartiene a un determinato status sociale, ovvero che ha raggiunto un certo livello di gusto, di cultura, di ricchezza o di potere. L’impazienza, l’irrequietezza, la suscettibilità, l’anedonia, l’abulia costituiscono il repertorio d’astinenza di questo “campione contemporaneo”, che viene sintetizzato come tossiconarcisista. La diffusione delle dipendenze si manifesta nel disorientamento di chi si rifugia in nicchie regressive d’esperienza, in una dimensione d’illusoria autonomia adolescenziale, e ciò accade soprattutto nelle dipendenze da realtà virtuale. La dimensione immaginaria della vita digitalizzata costituisce lo scenario in cui la persona può dispiegare le proprie illusioni narcisistiche. Quale soggetto abita la civiltà globalizzata e liberista contemporanea? La psicopatogenesi della sofferenza, collocata sommariamente nel cluster B del DSM, ricalca le condizioni antropologiche, culturali e sociali che determinano le derive della sggettività tossiconarcisistica. Vediamo come in una sana relazione primaria, la capacità del genitore di contenere e trasformare l’angoscia del bambino, stabilisce le basi della sua futura capacità di mentalizzazione e auto contenimento. La funzione riflessiva viene appresa da quella dei genitori (Fonagy). La compromissione di questa relazione primaria (eccessiva distanza o eccessiva aderenza all’angoscia del bambino), determina:  Sfiducia nell’interpretazione nella conoscenza dell’altro, ossia sospettosità. Io mi devo fidare di quello che immagino degli altri. La fiducia si basa sull’interpretazione di punti di vista, principi, intenzioni che l’altro può avere. Questa fiducia è fondamentale per la convivenza civile. Se questa fiducia manca, l’alternativa è la sospettosità. Se non posso basarmi sull’intuizione e l’interpretazione, pretenderò che l’altro sia completamente trasparente e dunque sarò sospettoso se questa trasparenza se non mi sarà data.  L’adozione del sé alieno e percepito come ostile attraverso l’identificazione proiettiva, ossia il controllo. Se percepisco la madre come ostile, non sintonizzata, non capace di provvedere alle mie necessità, con cosa potrò identificarmi? Con quella roba lì. Quindi svilupperò, io bambino, un’identificazione con un soggetto che non percepisco come capace di sostenere la mia angoscia, ma ostile, alieno, distante. L’adozione di questo sé alieno attraverso id e poi id proiettiva determinerà un comportamento di tipo controllante.  La sfiducia nella propria autonomia, ossia la dipendenza (emotiva), quando devo perennemente interrogare l’altro. Sospettosità, controllo e dipendenza corrispondono all’armamentario tossico-narcisistica. È ragionevole assimilare il sistema antroposociale vigente ad un genitore alieno e alienante e/o completamente appiattito rispetto alla dimensione del bambino/soggetto della contemporaneità? È ragionevole identificare in una relazione siffatta lo scambio tra il sistema culturale e il potere vigente rispetto al cittadino contemporaneo, che da una parte è trattato in modo alienato attraverso tutta una serie di processi di alienazione (incapacità del cittadino di controllare i propri oggetti, alienazione consumistica, alienazione da sé attraverso il ricorso all’immagine, rappresentazioni di tipo bidimensionale di sé), e dall’altra parte è costantemente compiaciuto sulla base delle proprie pulsioni più elementari di oggetti messi a disposizione del cittadino stesso. Da una parte la distanza, l’incapacità di mantenimento, dall’altra un compiacimento superficiale. In entrambi i casi non facciamo un buon servizio ai processi di socializzazione, di formazione sociale del cittadino. La funzione riflessiva è alla base dei processi di mentalizzazione, capacità di immaginare stati emotivi degli altri e di sé stessi, le cause dei comportamenti. Questa capacità si sviluppa a partire da quella attitudine relazionale materna. Se questo non accade, tutto ciò non accade. La fiducia si trasforma in sfiducia. Sospettosità e controllo possono attivare potenti circuiti paranoici. La paura di soccombere (essere profondamente ferito narcisisticamente) e invidia, generano il bisogno di compiacimento e rassicurazione. Se non posso fidarmi dell’altro perché non è trasparente, avrò dell’altro una rappresentazione negativa e l’altro sarà un mio competitor, oggetto potenziale di invidia. Questo amplifica ulteriormente un’istanza di compiacimento. Da qui la smania per la trasparenza (Han, 2012) quale istanza primitiva fondata sulla pretesa (Carli e Paniccia, 2003). La trasparenza è secondo Han la spia di questa sfiducia all’interno delle comunità, che non si fidano più delle dimensioni di opacità, discrezione, segretezza, viste con sospetto, non in ragione di una verifica della regolarità dei fenomeni ma sulla base del sospetto e della pulsione di scoprire lo scandalo. Il concetto di trasparenza riprende il concetto di pretesa di qualche anno prima, una delle diverse neo-emozioni (organizzatori affettivi primitivi della realtà). Gli organizzatori affettivi servono a muoverci nel mondo a partire da un’istanza originaria, primitiva. Molte persone non sono capaci di andare al di là di questa categoria di azione primitiva (bene-male). Lo sviluppo affettivo ha a che fare con la capacità di articolare queste categorizzazioni così primitive. Quale deriva culturale e sociale ha dato il via al sistema antropologico contemporaneo (Ehrenberg, 2010)? Questo tipo di deriva sembra avere origine nella perversione della cultura protestante (Ehrenberg). A partire dal dopo guerra negli Stati Uniti questa cultura ha incontrato lo sviluppo economico, sociale, culturale. Emotivismo (cultura emotivista – il fatto di sentire dia vere emozioni, istanze, malesseri, inizia ad assumere un valore per una cultura in cui prima questo era irrilevante in quanto c’erano principi religiosi che inquadrano i cittadini fin da quando nascevano). La sensibilità individuale era prima inesistente, negli anni 60 comincia a diventarlo. Società del disagio. Il rafforzamento delle basi narcisistiche individuali come premessa di benessere non può che andarsi a schiantare contro un muro. Ciò non ha alcuno slancio progettuale ed evolutivo, perché la realtà, i limiti, le differenze, il fallimento narcisistico esistono e sono inevitabili. Fare un lavoro di tipo culturale e psicoterapeutico orientato a questo tipo di cultura non può che portare ad uno stato di malessere. Non più la sofferenza dell’uomo di inizio 900 legato alla coercizione e al desiderio rimosso che portava a scompensi pulsionali in termini psicosomatici, ma un altro tipo di malessere, di tipo esistenziale, di chi immaginava di poter affermare sé stesso ma non ci è riuscito. TUTTO È DISPOSITIVO E SACRO Una prospettiva sulla cornice capitalistica:  Il capitalismo può essere inteso quale religione priva di dogma e totalmente culturale (Benjamin, 1921). Secondo Benjamin il capitalismo funziona come una religione autonoma, riproduce sé stesso attraverso il culto del consumismo.  Il culto del consumo non redime mai (assenza di dogmi), ma replica incessantemente i propri codici (culto assoluto). Sans treve e sans merci. L’uomo è perennemente esposto alla ripetizione e rinnovamento della sua colpa.  I fautori del capitalismo, in un’ottica prevalentemente liberista, ne sostengono l’ineluttabilità (ricordiamo il “there is no alternative” di Thatcher), quale determinazione di un ordine (catallassi) da agevolare con argomenti autogiustificatori. L’individuo-soggetto nella cornice capitalistica:  È imprigionato nel luogo del sacro (Agamben, 1995), ossia interdetto all’uso profano/comune degli oggetti, ormai concepiti esclusivamente quali merci della religione neoliberista.  Tali oggetti, consacrati quali merci (di esse fanno parte anche il lavoro, le relazioni, le sensazioni, le immagini, l’intrattenimento, il cibo, progetti di vita, nascita, morte ecc.), smettono di essere cose comuni e assumono il valore di offerte sacrificali per l’uomo-consumatore, quale divinità a cui si concede credito ad oltranza.  Il credito è destinato alla perpetuazione del culto del consumo, che rinnova la colpa del dio-uomo- consumatore, perennemente in debito.  La cultura del credito è la cultura dell’offerta sacrificata. Dare credito significa dare qualcosa, destinato alla perpetuazione del culto del consumo.  Il dio-uomo-consumatore è escluso dall’agone politico, dalla possibilità di azione, relegato nella sua gola al sacro, ormai (tossico)dipendente dagli oggetti del mercato.  Qual è allora la colpa dell’uomo? La sua ingordigia. Troppo legato al consumo, all’avidità. La sua incapacità di riscatto, di sottrarsi al proprio ruolo di consumatore. Apice della contraddittorietà di questa cultura. Una prospettiva sull’accusa ultra-tecnocratica contemporanea:  Il dio-uomo-consumatore, posto nella sua bolla, osserva, guarda, attraverso il suo speculum digitale, il mondo, per scandalizzarsi e compiacersi.  Attraverso lo speculum sa tutto e non a niente.  Può conoscere i dati, i fatti – sempre parzialmente – e può cogliere strategicamente alcune opportunità e qualche rischio immediati. Non può coglierne tuttavia: o gli aspetti etici, che siano cioè estranei al vantaggio economico; o le connessioni e implicazioni che richiedano una buona capacità riflessiva: chi è afflitto da una difficoltà di mentalizzazione è una difficoltà sulla capacità di riflettere, cioè intuire e comprendere le motivazioni proprie e degli altri, su piani che non sono immediatamente operativi; o la rinuncia implicita ad ogni forma di conoscenza teorica per interpretare i dati (dataismo): se mi affido ai dati non ho bisogno di impostazioni teoriche. Ciò significa che i dati non vanno interpretati. In qualsiasi studio ci sono tesi, disegni di ricerca, interpretazione dei risultati. Dobbiamo far riferimento a conoscenze meta-operative cioè non legate all'indagine fatta; QUALE PROSPETTIVA ALTERNATIVA? CREDITO IN BIANCO (oblatività) -> generosità gratuita.  Iscrive chi riceve nell'ordine dei creditori e non debitori. Il dono che deve essere ricambiato implica una forma di assoggettamento dell'altro. "io ti ho dato una cosa e tu non sei stato grato". Invece dovremmo immaginarci una società in cu non esistono debitori ma solo creditori, in cui l'oblatività è ritrovata. La cultura del credito ha a che fare con scambi in cui c'è sempre chi vince e chi perde. Nel credito in bianco c'è parità.  Apre al registro affettivo condiviso del pentimento, penitenza (umiltà) -> in una cultura del credito bianco, non è che esente dalle ingiustizie, abusi, violenze. Anzi si offre disarmata a questo tipo di autorità. In una cultura improntata al credito, abusare della generosità disinteressata espone la persona al senso di colpa.  Da nuova prospettiva al concetto di tradimento -> il tradimento in un’ottica di scambio economico è chi si comporta male (non ha pagato, non ha saldato i suoi debiti). in ottica del credito bianco il tradimento è "puro", non in senso della colpa inscrivibile in ottica economica. Traditore è chi tradisce la fiducia in maniera gratuita. Solo gli psicopatici potrebbero fregarsene di questo ragionamento, tutti gli altri con un minimo di coscienza ci pensano due volte prima di tradire.  Rinuncia alle manipolazioni estortive intimidatorie o seduttive -> “io ti do qualcosa ma un giorno se io avrò bisogno tu dovrai esserci”. La cultura del credito bianco propone registri seduttivi: io non ti impongo di fare una cosa, ma ti metto nelle condizioni di desiderarla e a tal punto da non poter fare altro. Sono due modi di manipolare dell'altro, che non ha molte scelte, e il potere è la capacità di condizionare le scelte dell'altro. Una cultura del genere si espone poco a questa manipolazione. Ognuno è libero.  Concepisce la fiducia come principio e non come fine -> la fiducia non si guadagna, ma si dà, in bianco. Una fiducia guadagnata è un fenomeno blandamente istruttivo, non mette l'altro nella possibilità di scegliere cosa fare. Se tu non fai ciò che dico io, paghi pegno. Nella cultura in bianco la fiducia si dà e si deve avere il coraggio di sostenere le conseguenze. QUALI SONO LE DERIVE DELLA SOFFERENZA PSICHICA? Se la sofferenza psichica è subordinata alle strutture biologiche e culturali, lo sono anche le forme di cura. Non c’è cura e benessere se non in un sistema culturale che riconosce i concetti di cura, di benessere e un set di criteri corrispondenti. Nessun clinico è mai stato o sarà mai neutro e neutrale, né la sua parzialità potrà essere ritenuta quella giusta. I paradigmi scientifici, anche se appaiono “migliori” scientificamente, questo non è il motivo del loro successo. Chi lavora con l’umano dovrebbe sempre tenere conto dei propri limiti e mantenere uno sguardo critico e bidirezionale, sulla propria tesi e su quella altrui, tenendo conto della relazione che si viene a creare tossico- narcisista, prototipo contemporaneo, ossia la prepotente diffusione di fenomeni di dipendenza e di narcisismo. Dipendenza e narcisismo non si presentano sistematicamente assieme, ma si alimentano reciprocamente, in un modo neuropsicologico efficace e persistente. La dinamica tra queste due dimensioni - storicamente ben nota e classicamente individuata in quelle coppie in cui uno dei partner dipende affettivamente dall’altro, che a sua volta ne abusa o lo controlla per il proprio piacere - è sempre più diffusa. Alcune figure del malessere più specifiche:  urgenza del controllo: urgenza del controllo in termini di possesso di qualsiasi aspetto più o meno microscopico dell'altro, dove l'altro può essere una persona o qualsiasi fenomeno. Questa idea di controllare tutto attraverso la categorizzazione di aspetto oggettificati, produce delirio di divinazione. Un atteggiamento del genere rende le persone incapaci di riflettere su sé stessi. Possesso, delirio di divinazione, inattingibilità del Sé.  urgenza della vendetta: scaturigine anti-istituzionale, disvalori manipolativi, reazioni del soggetto improntate a illusione, delusione, amarezza, umiliazione, tirannia contro sé stessi. Un’istituzione affidabile predispone attrezzature simboliche e materiali che alleggeriscono il soggetto ad essa subordinato, affinché non tutta la responsabilità del suo destino sia sulle proprie spalle. Al contrario, l’anti-istituzione attuale è inaffidabile. In essa, la dimensione organizzativa occupa tutti gli spazi, in un delirio razionalizzante. L’anti-istituzione è inaffidabile perché esplicita minuziosamente i suoi innumerevoli protocolli NON a garanzia del soggetto, ma per giustificarne di nascosto l ’esposizione ad attacchi a tradimento, tipici di un regime elettivamente seduttivo, competitivo ed efficientistico.  il tempo maledetto: il tempo deve essere concepito in termini produttivi, funzionalistici. Appiattimento narrativo, superficialità, stereotipie; inconsistenza della memoria; inconsistenza del futuro: coazione legata al circuito eccitazione-frustrazione che genera senso di impotenza e inutilità. Cosa fare? Opporsi alla processione tossicomanica di oggetti/obiettivi/azioni immediatamente soddisfacenti che ostacolano la sedimentazione biopsichica del cambiamento. ERIKSON. MORATORIA PSICOSOCIALE Fasi più o meno lunghe in cui il giovane potesse esplorare le proprie motivazioni e attitudini, facendo esperienze, attraversando incertezze e ripensamenti, relativamente libero da impegni prescritti. Nei casi estremi succede che la persona si prende troppo tempo, senza alcun obiettivo specifico (sta solo perdendo tempo inutilmente). Oggi viviamo in un tempo maledetto. Il debole tossiconarcisista che cerca di sfuggire alla morte, ne percepisce l’arrivo nel ticchettio dell’orologio. Non va sprecato neanche un minuto, va ottimizzato, protocollato e destinato al raggiungimento dell’obiettivo. A partire dall’evidenza clinica, è possibile individuare alcune caratteristiche riconducibili ad una forma di patologia del tempo, di un tempo che viene negato. L’individuo che ne soffre ha una proiezione di sé nel passato, nel presente e nel futuro, priva di vitalità e immiserita. LA PSICOTERAPIA DELLE PSEUDOTECNICHE La psicoanalisi freudiana ha costituito in passato ciò che le terapie comportamentali rappresentano oggi, cioè dispositivi vincenti e funzionali al mantenimento della soggettività all’interno della struttura capitalistica in cui si sono sviluppate. Propongono entrambe pratiche e principi destinati a restituire cittadini ben adattati, a partire dai criteri di guarigione: nel primo caso quello di saper amare e lavorare, nel secondo quello più complessivo di funzionare. L’interpretazione intesa come dispositivo simbolico che connette un fenomeno ad una causa legata esclusivamente ad una struttura culturale preordinata (es: psicanalisi) va definita <<pseudointerpretazione>>. Quale psicoterapia (non) praticare in relazione alle emergenze contemporanee? Intanto va ricordato che la psicoterapia è un dispositivo colpevole e assoggettante. Storicamente, sia le terapie analitiche che quelle prescrittive sono volte all’adattamento del soggetto allo status quo delle comunità in cui operano. La normalità non è la guarigione. Limite delle terapie analitiche è la fede nell’apprendimento funzionale o l’insediamento di un sistema simbolico-categoriale costituito da significati che dovrebbero soppiantare i nuclei nevrotici. Il limite delle terapie prescrittive (cognitivo-comportamentali) riguarda la fede nell’apprendimento funzionale o insediamento di un protocollo oggettivo e oggettivamente (determinismo clinico). In entrambi i casi, il trattamento dei pazienti avviene come se fossero degli stereotipi.  Dinamica tra adattamento e disadattamento: ripristinare o meno e in che misura il tossiconarcisismo del dio-consumatore affinché possa essere riassunto nel luogo sacro;  E ancora: attenzione alle questioni che appaiono scontate ma sono sostanzialmente equivoche: comptio evolutivo, valorizzazione del conflitto, psicologia positiva ecc. Il terapeuta dovrebbe realizzare una relazione terapeutica in prospettiva maturativa, né elaborativa né riparativa. Una terapia si propone quale metadispositivo che funzioni da incubatore del pathos affettivo tra terapeuta e paziente, e non confonde la conoscenza di sé con la guarigione. Uno psicoterapeuta, che si preoccupi seriamente della propria efficacia, deve occuparsi delle frustrazioni e degli insuccessi verso cui andrà incontro. Il metadispositivo viene inteso come un dispositivo (duale o gruppale) il cui funzionamento è fondato sulla disponibilità di chi ne fa parte a discutere di quel che accade al suo interno. Il metadispositivo è vulnerabile, profano, vicino alla vita comune; incubatore di trasformazione maturativa; che minimizza gli scarti. Metadispositivo inteso come azzardo metodologico, caratterizzato da un alto grado di vulnerabilità . In ciascun metadispositivo vigono i principi di funzionamento e le categorie del linguaggio condivisi nel contesto culturale in cui l’esperienza si realizza. È impossibile immaginare un metadispositivo assoluto, non influenzato dalla cultura di riferimento. Il metadispositivo può disporre di una forza trasformativa, al massimo delle sue possibilità, ma non è un trattamento, né l’unico responsabile del cambiamento. Nell’eterno circuito tra la conservazione e la trasformazione, l’habitus è il primo polo ad essere prevalente.  Habitus: insieme di predisposizioni e schemi di pensiero, frutto di condizionamenti sociali, attraverso cui guardiamo al mondo e prendiamo decisioni. Accettiamo che ogni dispositivo di cura è un dispositivo, intenzionante, al quale il paziente può opporsi senza essere liquidato con categorie preconcette. Bisogna quindi porre attenzione ai preconcetti che saturano la conoscibilità dei fenomeni: drop-out, progetto terapeutico, valore simbolico del denaro ecc. La dimensione patica è da intendere come:  esperienza primaria della vita emotiva che attraversa l’uomo ben prima che egli possa procedere ad una sua simbolizzazione;  il dato sconcertante del sé che incontra la propria carne, in un sofferto attraversamento che definiscono “passività originaria”. Quel che più contraddistingue la dimensione patica è la sua vocazione relazionale. Vocazione che non è ancora intenzione, data la sua essenziale passività. La dimensione patica è intrinsicamente “incomunicativa” sul piano dell’intenzione del sé nel mondo, quel piano che opera invece attraverso il logos. Ma patico NON vuol dire muto. L’accordo che lega gli attori del metadispositivo esprime una disponibilità non illimitata, ma nemmeno prestabilita, alla condivisione dei piani affettivi. Se non è il logos a parlare, è il pathos a farlo, l’unità elementare della relazione con l’altro. Se non è il logos a parlare è il pathos a farlo, in un linguaggio eidetico (che riguarda l’essenza), il cui segno si avverte nello spazio della soggettività e vibra in quello della relazione. Il metadispositivo costituisce un presupposto in cui il pathos possa risuonare tra i soggetti che ne fanno parte. La vulnerabilità del metadispositvio non è sinonimo di fragilità. Ciò che è vulnerabile è flessibile, può essere riparato, ripensato e sopravvivere al contatto diretto con l’altro. Un dispositivo fragile è quello che scoraggia il clinico dal proseguire la sua professione dopo i primi insuccessi. L’unica prospettiva del clinico che decida di proseguire cercando semplicemente di accomodare la fragilità dei suoi dispositivi, è quella di ridurne la vulnerabilità, mantenendoli a sua insaputa fragili. Una clinica così “nuda” come può essere presidiata? Sono due i fattori che ci permettono di garantire al metadispositivo una struttura essenziae, ma non volatile una vulnerabilità funzionale è sostenibile se vengono stabilmente presidiati entrambi gli aspetti:  Attenzione ai confini del metadispositivo. Il presidio dei confini non può essere inteso nei termini di quell’armamentario diretto a difendere pregiudizialmente l’asimmetria del terapeuta. in una prospettiva di alleggerimento dei parametri sacri, i corpi (fisici e mentali) di chi vive il metadispositivo hanno solo bisogno di mantenere le condizioni necessarie per praticare una relazione che consenta un motivante equilibrio tra coinvolgimento e autonomia. Affinché questo accada, la psicoterapia – intesa nei termini di metadispositivo – deve avere una durata finita, sia pure non definibile a propri, e i contatti extradispositivo non devono mai ledere il principio motivante di cui sopra. Che vengano meno i confini della seduta o che sia la terapia ad essere sconfinata, vengono meno i presupposti e le aspettative affettive. La potenza del dispositivo diventa routine e aumenterebbe il livello di dipendenza fisiologica e patologica. Gli orizzonti di paziente e terapeuta sono complementari ma mai coincidenti. La trascuratezza dei confini determina la loro dissoluzione e la compromissione del metadispositivo.  Generosità dell’azione clinica. Si fa riferimento all’impegnativa disposizione degli attori dell’azione clinica a prendere consapevolezza e condividere i propri piani emotivi in un accordo che li coinvolga reciprocamente, sebbene con prospettive e responsabilità differenti. Intanto, va definito il quadro in cui ciò si inserisce, ossia quello della relazione capace di disvelare la dimensiona analogica, oggi relegata sullo sfondo della lettura dei fatti psichici; una dimensione fatta di tempi morti, noia, speranza, disillusione, tentativi su tentativi ecc. Accettare questo registro vuol dire tollerare il senso di fallimento senza scappare via. Azione terapeutica:  Assecondare e intervenire sulla dinamica conservazione-cambiamento;  Focus sulle attitudini e direttrici evolutive del paziente, riconoscendo i momenti di maturazione dello stesso;  I momenti di maturazione costituiscono i punti di squilibrio tra la disposizione interna al soggetto (in cambiamento) e l’ambiente esterno, la struttura che non muta;  Entra qui in gioco la sapienza e la generosità del clinico, chiamato ad intuire il percorso più consono al soggetto, adattivo o disadattivo, sfruttando le quote malate o ripristinando quelle sane. UNA PSICOTERAPIA ANT IPSICOLOGICA Come può la psicoterapia uccidere la psicologia?  Accettando di ridimensionare, per quanto possibile, categorie che narrativamente condizionano e dirigono il processo di cura in una ri- soggettivazione dell’altro in funzione adattiva  Accettando l’irriducibilità di esperienze, che ci vengono raccontate o che viviamo direttamente nel rapporto con il paziente, che ci lasciano impotenti.  Accettando l’indeterminazione, rivalutando la pazienza, non la rinuncia.
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