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riassunto regie teatrali mara fazio, Sintesi del corso di Storia del Teatro e dello Spettacolo

riassunto dei 10 capitoli del libro regie teatrali per l'esame di teatro e spettacolo moderno e contemporaneo II

Tipologia: Sintesi del corso

2021/2022

Caricato il 30/01/2022

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Scarica riassunto regie teatrali mara fazio e più Sintesi del corso in PDF di Storia del Teatro e dello Spettacolo solo su Docsity! RIASSUNTO REGIE TEATRALI PRIMO CAPITOLO La messinscena prima del regista La regia come pratica artistica riconosciuta e il regista come artista responsabile dell'intera concezione dello spettacolo teatrale si affermano in Europa negli ultimi decenni dell'Ottocento, intorno al 1870. La gestazione che porta alla creazione della regia inizia molto prima, nella seconda metà del Settecento in Francia e in Germania ed è un processo lento e contraddittorio. I primi sintomi coincidono con il momento in cui a teatro, il testo letterario, la declamazione e la parola perdono la centralità assoluta e crescono di importanza l'attività rappresentativa, ciò che si fa rispetto a ciò che si dice. Il teatro viene visto come esperienza condivisa, azione di uomini vivi dinanzi ed altri uomini vivi. Il régisseur era un attore di esperienza, il più anziano della compagnia, una specie di direttore di scena attivo già nel Settecento, nei grandi teatri pubblici. Il metteur en scène compare più tardi, nell'Ottocento, quando muta la società: il pubblico da aristocratico diventa borghese e lo spettacolo è diventato ormai un'industria, anche grazie ai nuovi strumenti come la luce elettrica. Inizia ad esserci il bisogno di un coordinatore che garantisca l'unità. Il metteur en scène mette ordine nel lavoro del régisseur; si può dire quindi che la regia nasca quando al régisseur si sostituisce il metteur en scène. La nascita del regista è anche una lontana conseguenza della battaglia e romantica che abbatte il sistema retorico e codificato del Classicismo, dà spazio all’individuo e all'interpretazione soggettiva (moltiplica i personaggi, promuove i frequenti cambi di scena) e innesta una complessità che porta progressivamente alla creazione della regia. COSA ACCADEVA PRIMA? -500: in Italia, Inghilterra e Francia le prime compagnie di attori professionisti usano il sistema dei ruoli e del repertorio, prettamente individualistico, basato sull' isolamento. Il sistema dei ruoli era antitetico all'idea comunitaria e collettiva di regia, fondata sull'armonia espressiva di tutti gli elementi. Ogni attore recitava un insieme di ruoli di una stessa categoria, nei quali si specializzava. -600: in Francia i generi teatrali vengono rigidamente suddivisi e la spettacolarità e la scenografia diventano una prerogativa del teatro musicale (opéra). Nei teatri riservati alla prosa la scena era fissa, l'azione e il movimento erano ridotti al minimo, i personaggi erano pochi e ciò che contava era il testo. Gli attori recitavano in proscenio, con attitudini e inflessioni vocali strettamente codificate. Il coordinatore era il capocomico, spesso primo attore e a volte autore (come Molière). La messinscena era relativamente statica e il compito dell'attore-direttore era semplicemente quello di amalgamare la recitazione degli attori che si preparavano separatamente. La pratica delle prove si riduceva a pochi giorni prima del debutto. -700: in Italia e in Francia la specializzazione è la qualità più richiesta dell'attore; il compito degli attori era quello di recitare le scene e non interpretare un personaggio, ognuno si preparava ed esercitava per conto proprio. Troviamo spesso la presenza dell'autore alle prove e a partire dalla metà del secolo la tendenza a un'interpretazione meno codificata rispetto agli stereotipi classici. I PRIMI PROTO REGISTI -Voltaire: si interessava non solo al testo, ma anche a tutti gli aspetti della messinscena: sceglieva gli attori e le opere da mettere in scena e dirigeva le prove. Dopo il 1726 (esilio forzato in Inghilterra in seguito all’affare Rohan), Voltaire aveva iniziato a sostituire il récit e la conversazione, incrementando l'azione e la dimensione spettacolare nella messa in scena della tragedia, riempiendo la scena di figure secondarie e movimenti d'insieme (come Shakespeare). Le sue tragedie contengono didascalie dettagliate, descrizioni di elementi e movimenti che dovevano venire integrati all'azione, implicando spesso scene simultanee. Nelle messinscene delle sue tragedie c'erano comparse che impersonavano cortei di schiavi e soldati e scene lussuose da grand spéctacle. Eliminò i lampadari a candele sull’avanscena creando l'effetto notte e fece sì che nel 1759 gli spettatori, che in Francia ingombravano il palcoscenico, abbandonarono la scena. -Beaumarchais: si interessava con minuziosa attenzione alla rappresentazione delle proprie opere (note sui costumi). Il suo dramma Eugénie inizia con un lunga didascalia che metteva in pratica le idee di Diderot sulla recitazione muta e sui tableaux dramatiques. -Goethe: diresse per molto tempo il teatro di corte di Weimar dove tutto dipendeva da lui: la scelta del repertorio, degli attori e del loro modo di recitare. Era contro il naturalismo selvaggio dello Sturm und Drand e il naturalismo borghese di Lessing. Cercò di reintrodurre l'abitudine di recitare in versi alessandrini, che i tedeschi recitavano su imitazione dei francesi. Goethe curava le prove anche se erano di lettura a tavolino. Fu influenzato dalle proprie idee estetiche: all'attore virtuoso contrapponeva l'armonia tra le varie parti e il lavoro di insieme. Voleva trasferire sulla scena immagini visive in continuo movimento, scena e recitazione dovevano interagire come la cornice e il quadro che doveva essere un quadro festivo. Il carattere di festa della rappresentazione teatrale a cui Goethe teneva particolarmente era assicurato dalla collaborazione delle varie componenti dello spettacolo. Dirà: <<Quando la poesia, la pittura, il canto e l'arte della recitazione agiscono insieme in una stessa serata, è una festa>>. Per combattere la moda corrente, cioè il repertorio basso, chiamò Schiller, che il 3 dicembre 1799 si trasferì a Weimar. Entrambi volevano integrare una drammaturgia idealistica e alta e condividevano l'importanza data alla messinscena. Divenne consigliere e aiutante di Goethe in tutte le questioni riguardanti il teatro e spesso lo sostituiva quando era in viaggio, anche alle prove. Il 12 ottobre 1798 venne inaugurata la nuova sede del In Inghilterra un'altra proprietà della regia, cioè il lavoro di coordinamento, viene anticipata da Henry Irving attore e direttore del Lyceum Theatre di Londra. Si occupava personalmente della preparazione degli spettacoli, curandone tutti i dettagli, utilizzando in particolare effetti di luce, figurazioni mute e pantomimiche e curando con precisione le scene di massa e soprattutto l'insieme. Il contributo più esplicito al riconoscimento della regia come arte viene dal mondo dell'opera lirica. E’ Wagner che ha la presa di coscienza per realizzare qualcosa di nuovo. Anticipa l'idea di regia perché ha chiara l'idea di unità della messinscena, teorizza il teatro come spettacolo d'arte totale, in cui il testo non ha preminenza sulla musica, è qualcosa che esiste solo nel momento in cui viene prodotto sotto gli occhi degli spettatori e diventa percettibile ai sensi. Nobilita l'aspetto rappresentativo e spettacolare, scarta tutto ciò che può distogliere l'attenzione dello spettatore sull'azione, come l'individualità dell'interprete. E’ contro una gestualità esagerata e poco naturale; l’attore è un mezzo figurativo che fa parte della composizione di un quadro, il cui ruolo era tracciato nettamente e in cui non poteva arbitrariamente rompere l'armonia. Per Wagner il piacere dello spettatore era legato alla percezione simultanea di tutti gli elementi dello spettacolo. Tuttavia la sua teorica si scontra con una pratica deludente. L'unità desiderata veniva attuata solo in parte, lasciando fuori la realizzazione scenica troppo realistica e allo stesso tempo finta per fondersi con la musica. Wagner spegne la luce in sala e nasconde l'orchestra, elimina le arie, ma non è ancora in grado di inventare una nuova idea di scenografia poiché non riesce a eliminare la pesantezza dei macchinari e neanche le abitudini teatrali degli interpreti. Nell'ultimo decennio dell'Ottocento nell'opera lirica italiana nascono le disposizioni sceniche che derivano dal livret de mise en scène. La loro funzione era di fissare per ciascuna opera un modello canonico dello spettacolo sul piano dell'interpretazione musicale, della dimensione gestuale, dei movimenti delle scene e dei costumi, aderente alla concezione degli autori, da loro approvato e tale da poter essere ripreso in qualsiasi teatro. Esisteva un'unica messa in scena corretta, con cui tutti dovevano misurarsi. Le indicazioni delle disposizioni sceniche erano presenti nei bozzetti delle scene e dei figurini dei costumi. Ma anche sul piano drammatico musicale le disposizioni erano ricche di indicazioni circa lo stile specifico del canto, le modalità della dizione, il rapporto tra voce e orchestra. Con la nascita e l'affermazione della regia e l'imporsi della libera interpretazione dell'opera, la fortuna delle disposizioni sceniche declinarono. Erano una contraddizione eloquente: erano nella direzione opposta al regista perché frenavano e controllavano le diverse componenti dello spettacolo, ma allo stesso tempo erano una prova di quanto fosse cresciuto il ruolo della messinscena. Ormai il regista era una figura matura e la regia era un'arte nuova e del tutto europea. La regia sarà in primo luogo lavoro di insieme, coordinamento delle varie componenti dello spettacolo, mettere d'accordo tutte le voci e gli strumenti espressivi. E’ molto simile al lavoro del direttore d'orchestra, ma il grande regista però sarà sempre un interprete che aiuterà a penetrare meglio nel testo per scoprire volti e sfaccettature. La nascita della regia si intreccia al progetto di un teatro diverso di una riqualificazione e rifondazione del lavoro teatrale, affinché ridiventi un'arte con un principio ordinatore, che sottragga la scena al caso, all'istinto, al caos e al disordine, imprimendo invece studio, disciplina, scienza e padronanza delle leggi basilari come tutte le arti. SECONDO CAPITOLO Il duca di Meiningen e il Giulio Cesare di Shakespeare Il primo metteur en scène fu un militare appassionato di teatro e di archeologia, proprietario di un teatro di corte, intriso nel clima positivista e scientista della seconda metà del XIX secolo. Si trattava di Georg duca di Meiningen, una piccola città della Turingia. Seppe tradurre nei suoi spettacoli la precisione archeologica in precisione registica. La sua compagnia (i Meininger) era omogenea, formata da 70 attori, in cui operò una redistribuzione dei poteri all'interno degli elementi rappresentativi e mise in pratica un modo di lavorare corale. Attraverso le sue tournée, che si estesero in 38 diverse città europee, per oltre 17 anni, il duca gettò le basi della regia moderna. Nel 1866 Georg era asceso alla guida del ducato che era stato di suo padre, ma aveva subito dimostrato di voler abdicare a ogni a ogni ambizione politica, per occuparsi del proprio teatro di corte. Fin da ragazzo aveva avuto un'inclinazione per tutto ciò che era artistico e lasciò che il padre lo escludesse dalla vita politica. Quando il ducato passò nelle sue mani applicò al lavoro artistico la disciplina militare che aveva respirato in famiglia. La Germania sognava fin dai tempi di Lessing un Teatro Nazionale tedesco e il duca sembrava incarnare quel sogno unitario, regalando alla Germania un nuovo teatro d'arte che da lì a qualche anno avrebbe contribuito a diffondere all'estero l'immagine del Reich. Diede il via a riforme fondamentali per il successo della sua impresa teatrale: sciolse l'Opera di corte e ne fece affluire i fondi al teatro di posa, affiliò il proprio teatro a gruppi che recitavano Shakespeare, dedicandosi inizialmente a un repertorio quasi esclusivamente shakespeariano e seppe scegliersi validi collaboratori. Il più stretto fu Ludwig Chronegk, consigliere di corte ed ex attore, che divenne il suo regisseur: eseguiva sul palcoscenico le sue idee e metteva in pratica i suoi suggerimenti, si occupava di tutti i risvolti pratici dello spettacolo e seguiva la tournée in ogni dettaglio. Il duca era un regista despota, infatti instaurò nel suo teatro un inflessibile e severo metodo di lavoro, tipico della disciplina prussiana, da reggimento. L'arte era l'unica legge: non consentiva assenze, infrazioni, chiacchiere, isterie vezzi da primo attore. Gli attori dovevano sapere la parte a memoria, indossando il costume, se qualcuno non era non era presente rischiava il licenziamento. IL GIULIO CESARE Uno degli spettacoli più celebri nella compagnia Meininger fu il Giulio Cesare di Shakespeare in repertorio già dal 1867. Shakespeare era considerato dai tedeschi un autore nazionale, ma fino ad allora il Giulio Cesare in Germania era stato poco rappresentato. I Meininger invece recitarono Shakespeare come un'opéra, con grandi masse in scena, effetti di luce elettrica, effetti tout court. Il protagonista venne scelto per la sua somiglianza con le illustrazioni del dittatore romano e il duca si diresse a Roma per controllare l'esatta posizione del luogo dell'azione (il foro) e discuterne con il direttore delle collezioni d'arte del Vaticano Pietro Ercole Visconti, che gli procurò una serie di schizzi presi dal vero. Insieme ad altri provenienti dalla collezione del museo di Saint Germain a Parigi, costituirono la base della scenografia dello spettacolo; l'impatto visivo fu la cosa essenziale. Il 1° maggio 1874 il Giulio Cesare nella traduzione tedesca di Schlegel debuttò in tournée a Berlino nel teatro della Schumannstrasse. Prima del debutto, il duca aveva fatto visionare lo spettacolo ad un docente di storia romana, Hermann Kochly, dell'università di Heidelberg. Il pubblico berlinese fu sconcertato dalle novità dello spettacolo: il sipario si aprì alle sette in punto, su una scena che riproduceva plasticamente, con scientifica esattezza tipografica l'architettura della Roma di Cesare, il foro (distrutto durante la guerra civile) appariva in fase di ricostruzione. Negata la simmetria neoclassica, cancellato il vincolo prospettico, l’impianto scenico appariva obliquo, asimmetrico, con traiettorie sghembe, diversi punti di fuga. A parte il fondale dipinto,le scene erano plastiche, tridimensionali, praticabili e gli arredi e gli oggetti erano autentici: statue e capitelli di marmo, colonne di legno e di gesso, scale, stucchi e rilievi. Anche i costumi erano stati disegnati dal duca in base a studi antiquari. Gli attori non recitavano in proscenio, ma in tutto il palcoscenico illuminato di luce elettrica, potevano arretrare sul fondo, voltare le spalle alla platea, ma non superavano mai la linea della ribalta, ignoravano la presenza del pubblico e non guardavano mai la sala buia. Gli spettatori si trovarono di fronte una compagnia di complesso, a una messinscena corale dove il livello qualitativo della recitazione era uniforme, i ruoli secondari erano ben recitati come quelli dei primi attori, le comparse erano curate con la stessa attenzione ai dettagli dei protagonisti. Accanto agli attori compariva in scena la folla, che si muoveva con una varietà e verità sorprendenti. Ogni comparsa aveva un ruolo, un trucco, un mestiere, un atteggiamento personale. L'effetto era il prodotto di ripetute prove, durante le quali le comparse venivano divise in diversi gruppi diretti da attori della compagnia. Quando nel primo atto Cesare entrava in scena, in contrasto con quanto avveniva di solito, la folla del popolo romano non rimaneva in secondo piano, come sfondo sulle tribune, ma veniva integrata agli attori protagonisti. I tribuni Flavio Marullo si muovevano in mezzo alle comparse, a volte venivano nascosti e travolti. Lo spettacolo terminava con una tempesta: pioggia torrenziale, tuoni e fulmini ottenuti con proiezioni elettriche. Il duca non si limitò a correggere Shakespeare, appellandosi all'autorità di Plutarco, il quale aveva riportato la morte del dittatore nella curia di Pompeo (mentre Shakespeare aveva erroneamente l’assisinio al Campidoglio). Volle che la statua di Pompeo fosse issata sul palcoscenico con tutto il piedistallo, e che i cospiratori vi si raggruppavano intorno in modo che risultasse strettamente integrata all'azione. Per lui la naturalezza irrappresentabile. Ma l’accoglienza della stampa fu trionfale. Un anno prima la pièce era stata proibita sulle scene russe e Tolstoj si era accontentato di pubblicare il suo dramma in un'edizione popolare, che però vendette molto. Quindi la prima del Théâtre Libre era una prima mondiale. Antoine fu il primo direttore di teatro in Francia che osava presentare la traduzione integrale di un'opera straniera, rispettando lo spirito e salvaguardando soprattutto i meriti scenici, senza adattarla secondo l'ottica delle scene parigine. Il pubblico si misurava con una drammaturgia straniera, che doveva anche servire da modello per i giovani autori di teatro francese. Fra lo scrittore straniero e il pubblico francese non c'era più un intermediario, ci si rendeva conto della tecnica di una drammaturgia diversa, che nasceva dall'osservazione della realtà. La potenza delle tenebre fu giudicata un successo attoriale. La recitazione era divenuta naturale. Gli attori non non uscivano più dal quadro scenico per parlare alla sala, agivano come se fossero dentro una stanza, ignorando il pubblico, non indossavano abiti lussuosi. Non fingevano, ma anzi interagivano, lavoravano insieme gli uni con gli altri, muovendosi come creature umane, personaggi comuni. Al Théâtre Libre si recitava come nella vita, c’era il vissuto, la varietà, le sfumature della vita moderna borghese e popolare. Antoine aveva insegnato agli attori ad apprendere la naturalezza, a portare in scena tutto ciò che si osservava nel quotidiano. Il quaderno di regia di quest’opera non ci è pervenuto, ma l'analisi di altri quaderni di Antoine ci consente di capire il suo metodo di lavoro e individuare gli elementi di novità: ● la scena era obliqua, asimmetrica ● il fondale era dipinto, ma le scene non erano convenzionali, generiche, erano personali, create appositamente per le proprie messinscena (elemento fondamentale per la nascente regia) ● mobili, finestre, oggetti, porte, maniglie, lampade erano autentici, servivano per dare vita all’ambiente (<<E’ l’ambiente che determina il movimento dei personaggi>>). La scena diventa indispensabile all’opera teatrale, come la descrizione nel romanzo. Erano anche fondamentali per la recitazione naturale degli attori, aiutavano gli interpreti a non restare impalati, a fare sempre qualcosa, a muoversi come uomini comuni, restituendo l'impressione della vita quotidiana ● Suddivide l'impianto scenico in settori numerati, dissemina i suoi quaderni di frecce e annotazioni che indicano il movimento degli attori in relazione allo spazio dell'intero palcoscenico. Il fine di Antoine è quello di imprimere sulla scena un movimento continuo, regolato e codificato nello spazio e nei tempi. ● Reciprocità nel modo di recitare degli attori, il loro interagire, l'intento di creare un tessuto gestuale. I gesti corrispondono a precise battute o a singole parole del testo, che vengono sottolineate in modo da costruire un racconto organico. Quello che manca nei quaderni di regia del Théâtre Libre è l'interpretazione psicologica dei personaggi. Il lavoro si concentra sul movimento scenico, tant'è che lo riconoscerà anche il suo avversario Lugné-Poe, animatore del Théâtre de l’Ouvre. Il lavoro sul movimento si perfezionò nelle scene di massa, ciò si vedrà nell'allestimento de I tessitori di Hauptmann, dove ci saranno molte comparse che recitavano e mimavano i loro personaggi senza forzare le note e senza distogliere l'attenzione dal quadro generale. Lo spettatore trovava sempre un dettaglio significativo che indicava la situazione e il carattere in ogni angolo della scena. Il Théâtre Libre sollecita gli altri teatri parigini, sia quelli privati che quelli pubblici, i quali seguirono il suo esempio nel rinnovamento generale del repertorio e nella recitazione, a favore di un teatro più impegnato e influendo anche sull'evoluzione dei gusti del pubblico. Fu il primo esempio di scena all'avanguardia, sperimentale, dotata di mezzi materiali rudimentali, ma di eccellente livello artistico. Nell'aprile 1895 il Théâtre Libre viene definitivamente chiuso. Nel 1897 Antoine dirige un nuovo teatro sul boulevard de Strasbourg che porta il suo nome: Théâtre Antoine. La strategia del nuovo teatro è quella di consolidare e rendere popolari gli sforzi del Théâtre Libre . Inizia rinnovando la sala: rimuove il lampadario centrale che impediva agli spettatori di vedere il palcoscenico, elimina la buca del suggeritore e le baignoires grillées, impone su una scena privata gli autori di nuova generazione, anche simbolisti. La mise en scène è di priorità assoluta, tant'è che nel contratto di Mosnier ci sono delle clausole significative, secondo le quali non si può modificare la mise en scène e l'interpretazione dei ruoli. Un chiaro esempio del minuzioso metodo di lavoro di Antoine è la messinscena della Terra rappresentata al Théâtre Antoine il 21 gennaio 1902. È uno spettacolo di realismo stupefacente, addirittura vennero portati sul palco animali vivi e nel cahier de mise en scène compaiono indicazioni nuove. ● Antoine si prende molta più libertà per quanto riguarda l'ambiente e i movimenti scenici, sostituendo spesso le didascalie dell'autore con altre lunghe didascalie di sua mano. ● I personaggi sono tratteggiati secondo connotazioni psicologiche ricorrono appunti relativi agli stati d'animo ● Riporta interventi sul dialogo per renderlo più colloquiale, molte battute sono cancellate e riscritte in un tono più gergale ● Ci sono note dettagliate relative alla durata dei singoli atti relativi, alla musica, ai suoni e ai rumori. Il quinto atto è più corto e alterato rispetto all'originale. Sembra quasi che Antoine voglia correre verso il finale (la scena finale vede il protagonista andare di porta in porta chiedendo del pane per poi morire di fame sui bordi della strada). Antoine sembra preoccupato di imprimere sempre più velocità, una velocità quasi cinematografica che sarà visibile anche nella messinscena di Au téléphone. Nel 1906 Antoine viene nominato direttore dell'Odéon. Qui si propone di mettere in scena i classici e le opere di Shakespeare, recitando il teatro integralmente senza tagli o adattamenti, scrivendo l'opera nel contesto del tempo e rappresentandola con maggiore esattezza possibile e con uno stile animato. L'esperienza dell’Odéon fallisce economicamente e nel 1914 Antoine lascia la direzione del teatro e il suo lavoro di regista teatrale, per dedicarsi prima al cinema e poi all'attività giornalistica come critico teatrale e cinematografico. Antoine non ha inventato la regia, ma è stato un riformatore e ha applicato la drammaturgia del naturalismo alle abitudini teatrali in parte già acquisite sui teatri dei boulevards per le pièces bienfaites. Il tentativo di portare il naturalismo a teatro, con Antoine, ha contribuito alla nascita della messa in scena moderna in Francia e a imporre la regia come arte autonoma. Antoine è stato il primo praticien du théâtre, che intellettualizza il lavoro teatrale. Inoltre la mise en scène non è più solo pratica, ma è anche coordinamento e sottomissione di tutti i dati dello spettacolo all'unità di impressione dell'insieme. Antoine sarà il modello per le generazioni future. QUARTO CAPITOLO Stanislavskij dal Gabbiano di Cechov al sistema Stanislavskij, prima di fondare nel 1898 con Danchenko il teatro d'arte di Mosca, ha vent'anni di esperienza teatrale. Dal 1877 al 1887 è stato attore e coordinatore degli spettacoli Circolo Alekseev, e per i successivi 10 anni fu attore principale e direttore della Società d'arte e di letteratura (gruppo amatoriale di attori fondato). Così ha acquisito la professionalità come regista (la sua prima regia è del 1891) e ha un'idea chiara sui compiti del metteur en scène e in rapporto a quelli dell'autore e dell'attore. Diventò un grande regista grazie all'incontro con Cechov, poiché attraverso di lui Stanislavskij mette a punto la sua idea di regia come arte di narrare, illustrare la vita degli uomini. Il 17 dicembre 1898 va in scena Il gabbiano. Il dramma non metteva in scena le vicende di un eroe principale, ma rappresentava un gruppo di famiglia in una casa e nel giardino adiacente. Stanislavskij anima quello spazio In ogni dettaglio. Come Chekhov aveva inventato una nuova drammaturgia corale, Stanislavskij, inscenando il testo mette a punto l'arte della regia come arte scenica sinfonica, che non richiede più un attore, ma attori. Stanislavskij fin da allora mette al centro gli attori, la recitazione. Per il dramma stende un dettagliatissimo piano di regia preventivo, che chiama quaderno di regia. È una vera e propria sceneggiatura teatrale, molto simile a quella del cinema. Nei suoi quaderni riporta a sinistra il testo di Cechov, scena per scena, e a destra in corrispondenza di ogni scena, una didascalia che prende 10 volte lo spazio di una battuta. Stanislavskij amplifica, definisce, rafforza le cose che il testo di Cechov suggerisce. Segna dettagli relativi allo spazio, all'ambiente, i mobili, gli accessori, gli oggetti della vita quotidiana, gli spostamenti degli attori sul palcoscenico, i movimenti, azioni, gesti. Stanislavskij definisce le sfumature psicologiche, gli stati d'animo interiori: le intonazioni della voce, le pause, i silenzi, gli sguardi. Particolare attenzione viene data agli oggetti da cui la scena viene letteralmente invasa, e alla loro manipolazione da parte degli attori. Gli oggetti <<non solo polarizzavano l'attenzione dello spettatore, contribuendo a creare la giusta atmosfera, ma erano anche molto utili agli interpreti che nel vecchio teatro erano fuori dal tempo e dallo spazio>>. All'epoca, in Russia gli attori erano soliti recitare come tenori, non dialogavano tra di loro, ma declamavano il testo. Stanislavskij, grazie ai testi di Cechov, e sull'esempio dei Meininger, che aveva visto in occasione della loro seconda tournée russa nel Stanislavskij pensa che, attraverso il corpo, l'attore possa agire sull'anima, il processo verso il personaggio comincia dalle azioni fisiche. L'attore deve farsi un disegno generale del ruolo, individuare le circostanze date, scomporre il disegno in diverse sezioni, e per ogni sentimento del suo ruolo individuare un compito ponendosi la domanda: cosa farei io attore, se mi trovassi in circostanze analoghe a quella del personaggio? Individuato un compito, dovrà trovare l'azione capace di assolverlo, per raggiungere la la reviviscenza. Il metodo delle azioni fisiche non rivoluziona nella sostanza il fine del sistema di Stanislavskij, poiché c’è sempre l’intersezione di due vite parallele: la vita interiore dell'attore e quella del personaggio. L'attore deve ritrovare al di là della parola il vissuto, il “sottotesto”, seguendo un processo di smontaggio e montaggio che è lo stesso di molti anni prima. L'attore deve a questo punto svolgere un lavoro artistico simile a quello del direttore d'orchestra, che spiega ogni singolo movimento della sinfonia, conduce ogni parte fino alla conclusione, l'attore è il direttore di sé stesso. Vive il tempo, la psicologia di ogni singolo segmento del ruolo, usando tutti gli strumenti psichici e fisici che possiede, arrivando a rivivere in maniera chiara, senza sforzo, anche i passaggi da un umore all'altro. L'importante è l'interazione tra fisico e psichico. Stanislavskij vuole aiutare gli attori a creare esseri umani reali. Negli Stati Uniti si diffondono le idee elaborate da Stanislavskij nel Primo Studio. In Unione Sovietica, dopo il 1934 Stanislavskij viene imbalsamato come maestro del realismo socialista. Nel contempo iniziano ad esserci contrapposizioni editoriali tra lo Stanislavskij russo (Il lavoro dell’attore su sé stesso e Il lavoro dell’attore sul personaggio) e quello americano (La mia vita nell’arte), vista anche la guerra fredda. Negli anni 70 in Europa, Jerzy Grotowski si fa erede del metodo delle azioni fisiche di Stanislavskij che viene riconosciuto grazie al successo indiretto delle sue idee: il concetto di laboratorio teatrale e lavoro dell'attore su se stesso, indipendentemente dalla messa in scena e anche dal personaggio. QUINTO CAPITOLO Appia e il Tristano e Isotta di Wagner Appia (come Craig) fu un teorico per necessità, perché le convenzioni della pratica scenica del suo tempo respinsero o resero difficile l'immediata realizzazione delle sue idee. Ha contribuito a mettere in luce l'esigenza dell'unità delle componenti teatrali che fino allora erano separate (testo, scena, attore) rendendo necessaria la figura di un coordinatore, un regista. Ha dato il suo contributo alla definizione e alla legittimazione della regia moderna attraverso la riflessione sul Wort-Ton-Drama di Wagner. Adolphe Appia era figlio di un medico fondatore della Croce Rossa e nipote di un pastore protestante. Nel 1882 inizia a studiare musicologia a Lipsia e assiste per la prima volta a un'opera wagneriana a Bayreuth: Parsifal. Rapito dalla drammaticità della musica, riconosce lo spettacolo del futuro. Grazie all'alleanza della parola e del suono Wagner, secondo lui, era riuscito a estrarre dalla musica la massima espressività. Appia era affascinato dalle innovazioni del teatro: l'orchestra nascosta, la platea ad anfiteatro, il buio in sala durante la rappresentazione.Ciò che non lo convintceva erano le scene, i costumi e l'uso della luce che rimanevano convenzionali. Egli comprende che molti degli equivoci e dei problemi. che erano alla base della difficile accoglienza del dramma wagneriano, dipendevano dall’irrisolta realizzazione scenica. L'azione drammatica e la musica facevano rivivere il mito, ma restavano estranee alla forma rappresentativa, che era realistica. La soluzione di questo problema segnerà tutta la carriera di Appia. Per Wagner il teatro non era più un quadro destinato a mettere in luce il talento vocale o drammatico degli interpreti, ma era il luogo in cui si recitava un dramma dal contenuto mitico, pertanto la scena aveva un fine preciso: doveva contribuire a creare l'illusione, la visione della realtà rappresentata. Uno degli espedienti wagneriani più efficaci era l'uso frequente dei cambi di scena a vista, il cui scopo non era quello di stupire lo spettatore, quanto piuttosto di non interrompere la continuità poetica dell'opera, per instaurare l'unità temporale. Appia osserva che il teatro realistico ha portato nell'arte scenica qualche progresso, ma si tratta di tentativi rivoluzionari in una cornice errata, che conducono soltanto o a un lusso esagerato o a un'eccessiva semplificazione, che trasforma l'opera teatrale in un passatempo letterario. Ciò è dato dalla convenzione della pittura che è refrattaria a qualunque forma di sviluppo. Inoltre, Appia critica la recitazione dei cantanti wagneriani. Condanna il cantante “all'italiana” che si rivolgeva al pubblico con gesti ridicoli e che doveva essere in grado di dare ad ogni ruolo una realtà di vita concreta. Per Appia la recitazione realistica strideva con la potenza suggestiva e il carattere impalpabile della musica, che raccontava una vicenda mitica e trasportava lo spettatore in un mondo ultraterreno. C’era un contrasto evidente tra espressione musicale ed espressione gestuale, cioè tra musica e attore. Gli elementi fenomenici predominavano su quelli espressivi. La contraddizione basilare degli allestimenti wagneriani stava nel conflitto irrisolto fra la dimensione metafisica espressa dalla musica e il realismo della rappresentazione teatrale. Le storie raccontate da Wagner non sono storie reali, ma appartengono al mito (saghe nordiche). La sua musica evoca un mondo di emozioni infinitamente più intenso della vita di tutti i giorni. Secondo Appia, Wagner aveva trovato una dimensione metafisica che solo la musica poteva esprimere, ma non un’adeguata trasposizione scenica. Avendo deciso di dedicarsi alla riforma della messa in scena del dramma wagneriano, nel 1889 Appia va come volontario prima al teatro di corte di Dresda e poi al Burgtheater e all'Opera di Vienna, per studiare sul campo le possibilità della scenografia, della scenotecnica e dell'illuminazione. Nel 1891 scrive la messa in scena completa dell'Anello del Nibelungo e realizza disegni per le scene di tutta la teatrologia. Nel 1895 pubblica a Parigi, in francese, La mise en scène du, drame wagnérien. Nel 1899 pubblica in Germania La musica e la messa in scena aggiungendovi in appendice, alcune nozioni preliminari per la messa in scena dell'Anello e uno studio dell'allestimento di Tristano e Isotta insistendo sul contrasto tra régisseur e metteur en scène. Appia scriverà che il metteur en scène aveva il compito di <<dirigere il gioco delle convenzioni prefissate>> assumendo il ruolo di un <<dispotico istruttore [...] a spese dell’attore, la cui indipendenza va definitivamente stroncata>>. Appia comincia a studiare la messinscena di Tristano e Isotta, cercando di risolvere la distorsione tra visuale e sonoro. L’azione drammatica dell’opera è un’azione interiore, in cui la lotta tra interiorità ed esteriorità è tematica nel testo. Tristano e Isotta, in conflitto col mondo esteriore, bevono una pozione che credono mortale, ma che si rivelerà essere un filtro d’amore che li infiamma reciprocamente di desiderio. Il regista deve restituire la visione che i personaggi hanno del dramma, per i quali il mondo è un’allucinazione, un sogno spettrale. Appia vuole ridurre il materiale figurativo, sostituendolo con un uso espressivo della luce, capace di creare un'atmosfera astratta che possa tradurre il conflitto tra mondo esterno e mondo interno, tra il piano della realtà e inconscio, in contrasto fra luce e ombra. I ATTO: tolda di una nave. Isotta, principessa irlandese, è destinata allo zio di Tristano, Marke, il re di Cornovaglia. Tristano, il suo amato, la conduce su un vascello dal futuro consorte, ma lei sempre più inquieta, gli propone di bere un filtro magico che li porterà alla morte. Non sa che la sua ancella, Brangania, versa nelle coppe un filtro d’amore. I due, che sentono la morte vicina, si confessano la reciproca passione. Quando si risvegliano, il vascello è arrivato nel porto. Appia in questo atto riduce l’illustrazione figurativa e l’elemento descrittivo. Per rivelare la vita esteriore che viene vissuta in modo tragico usa la luce: Isotta si nasconde nella sua tenda per sfuggire alla realtà. La tenda separa la vita esteriore dall’espressione del suo mondo interiore. La luce en plein air del mondo esteriore, che si intravede quando la tenda si apre, contrasta con la penombra dove i personaggi sono nascosti. II ATTO: parco del castello del re Marke, notte. Il re è a caccia con il suo seguito e nel mentre Isotta attende Tristano. La ragazza esegue il segnale concordato, cioè spegnere la fiaccola. Tristano arriva e i due si abbracciano appassionatamente, benedicendo il filtro d’amore, finché non arriva Melot che li ha traditi e ha condotto con sé il re e i cortigiani. Quando si alza il sipario lo spettatore vede solo una fiaccola brillare al centro del palcoscenico. Abituandosi progressivamente all’oscurità, gli spettatori cominciano a distinguere il contorno delle cose. Quando Isotta spegne la fiaccola, il mondo materiale sparisce e la scena prende un’uniformità chiaroscura in cui l’occhio si perde senza essere interrotto da alcuna linea. Tutto si perde nell’oscurità. Lo spettatore, così, perde il suo tradizionale ruolo di testimone e viene trascinato nel mondo interiore dei due protagonisti. Il fondo della scena si illumina e si scorge Marke. Il mondo materiale riaffiora. In piena luce, Kurvenal irrompe in scena per avvertire Tristano che è stato tradito. e di renderla il più teatrale possibile. Lo spazio che Craig aveva disposizione era una sala da concerto dotata di una scena semicircolare, con un grande podio costituito da una piattaforma aggettante e altre piattaforme complementari che si sollevano verso il fondo. Grazie a delle travi e a delle cantinelle, Craig trasformò la sala in un palcoscenico teatrale, senza celetti e senza quinte, limitato ai lati da due tele sospese dello stesso colore del fondale. Eliminò la tradizionale luce della ribalta e costruì un ponte di luci che rischiarava il palcoscenico dall'alto, aggiunse anche due proiettori in fondo alla sala, che illuminavano il volto degli attori passando per il pubblico. Gli interpreti erano dei dilettanti, solo il tenore e il primo ruolo femminile erano dei professionisti. Questa scelta era dovuta alla mancanza dei mezzi economici, ma era anche legata a una ragione precisa: l'avversione di Craig per lo star system. Egli comprese che gli attori dilettanti sarebbero stati più disponibili ad accogliere il lavoro del regista, erano più duttili, più aperti alle sperimentazioni e adatti a un lavoro in comune. Per tre sole repliche ci furono tre mesi di prova: questo fu il modo di affermare l'importanza della fase preparatoria dello spettacolo e legittimare l'idea del teatro come pratica artistica, e non commerciale. Una pratica che Craig che prese da Irving era la cura dettagliata e preordinata di ogni aspetto dello spettacolo: Craig non disprezzava i risvolti tecnici e gli aspetti materiali. Le sue note di regia, estremamente meticolose, presentano lunghi elenchi di oggetti, costumi, posizioni, movimenti. Craig ereditò da Irving la precisione e la professionalità, ma applicate a uno stile teatrale del tutto opposto. Irving seguiva il realismo descrittivo, mirava alla ricostruzione storica. Craig era preciso nel metodo, nella chiarezza delle intenzioni, ma non nel particolare. Preferisce lo sfumato che crea l'atmosfera, suggerisce il mistero. Non era importante che l'intrigo di Didone e Enea fosse debole, perché più che al libretto Craig si ispirava direttamente alla musica. Ogni scena dell'opera era tradotta in un quadro che trasferiva in visione l'atmosfera drammatica suggerita dalla musica. Scene, costumi, luci, colori erano perfettamente in armonia tra loro. Immettendo il colore sulla scena inglese, Craig fece grande uso della combinazione del chiaroscuro e del contrasto. La centralità attribuita all'elemento visivo gli derivava dalla sua formazione pittorica; era infatti influenzato da Turner, Whistler e dall'arte giapponese da cui prese due elementi essenziali: l’insistenza sulla linea obliqua e l'uso simbolico della luce. Non segnava i movimenti e le sue indicazioni di regia sul libretto, ma sullo spartito. Lo spettacolo si rivolgeva alla sensibilità dello spettatore. Privi di indicazioni psicologiche, i suoi quaderni erano lo strumento di lavoro di un artista visivo. Vi si trovavano disegni, dettagliate indicazioni sui ritmi e sui tempi scenici, sfumature, contrasti di colore, esatte definizioni di toni di luce, filtri, note relative ai costumi, schizzi dei movimenti scenici. DIDONE E ENEA -I ATTO: lo spettatore si trovava all'interno del palazzo reale, davanti a un lungo traliccio intrecciato di fiori e piante rampicanti, su tutta la larghezza della scena. Al centro, il trono della regina con i suoi cuscini scarlatti era sormontato da un baldacchino retto da quattro piccole colonne slanciate. Il fondale non era più dipinto e prospettico, ma era una stoffa tra il blu e il viola dai contorni invisibili. La scena finale era impegnata da una luce giallastra che cadeva dall'alto. -II ATTO: le streghe, con il volto coperto da maschere (disegnate e dipinte anch'esse da Craig), si riunivano in concilio per chiamare la rovina degli amanti. La scena si svolgeva nella penombra. Nel 1901, Didone e Enea fu replicato al Coronet Theatre di Londra, con qualche ritocco. La regia di questa opera prelude all'idea del regista come creatore assoluto, del fare del regista un artista. Craig dava un esempio concreto di come fosse possibile riqualificare il lavoro teatrale sul palcoscenico. Si trattava di un'arte sobria e discreta, che faceva uso di materiali poveri, il ruolo dell'attore veniva ridimensionato a favore della equivalenza armonica tra le varie componenti dello spettacolo. Il regista era il responsabile dell'intero progetto visivo, mentre lo scenografo doveva creare l'atmosfera, ideare un paesaggio volutamente irreale, ideale. Il linguaggio espressivo era enormemente semplificato, la scena suggeriva significati. Dalla prosa e dal naturalismo si passava alla poesia e al simbolismo. Era fondamentale l'uso della luce: l'illuminazione veniva ora dall'alto, e c'era un sistema di illuminazione per scorci improvvisi e toni di colore che preludeva lo studio “a raggi a macchie” (Amleto al teatro d'arte di Mosca). La luce era un elemento artistico, espressivo, creativo e soprattutto il colore era utilizzato in maniera simbolica, aveva un valore e una funzione nel dramma. Didone e Enea è il primo di sei spettacoli che Craig mette in scena tra il 1900 e il 1903 con un gruppo di attori dilettanti. Per un breve periodo collabora con i teatri professionali di Londra, ma le condizioni lo deludono e nel dicembre 1904 viene invitato dal Conte Kessler a Berlino. Nello stesso anno una sua esposizione di disegni, bozzetti scenici, litografie, paesaggi in stile giapponese fa il giro della Germania riscuotendo molto successo. Inizia a collaborare con Otto Brahm al Lessing Theater di Berlino, per le scene e i costumi della Venezia salvata di Thomas Otway nella traduzione di Hugo von Hofmannsthal. Ma i due avevano una concezione teatrale troppo diversa e Craig abbandona l'impresa. A Berlino pubblica un testo in tedesco, in cui esprime la contraddizione del teatro a lui contemporaneo e annuncia i suoi temi caratteristici: la distanza qualitativa tra il régisseur e il metteur en scène, l'incompatibilità di naturalismo e simbolismo e l’incongruità della scenografia realistica. A Berlino, Craig matura la polemica nei confronti di chi nascondeva dietro motivazioni tecniche e commerciali la propria incomprensione verso le ragioni dell'arte e si volge verso la teoria. Lo scritto berlinese era l'anticipazione de L’arte del teatro, il saggio pubblicato contemporaneamente in Inghilterra e in Germania nel 1905. Scritto sotto forma di dialogo, Craig teorizzava la necessità della figura del regista come creatore assoluto e la necessità da parte sua di conoscere concretamente tutte le attività, le tecniche, le pratiche che formano l'arte della scena. L'artista teatrale doveva essere in grado di realizzare lui stesso disegni, le luci e movimenti scenici. Per Craig ci volevano 5 anni di pratica come attore e due anni di esperienza come régisseur. La realtà teatrale era un insieme visivo, ogni elemento agiva sui sensi e sulla fantasia dello spettatore. Nel 1907, a Firenze, Craig comincia a disegnare i primi screens. Pannelli rettangolari snodabili, in grado di assumere configurazioni e posizioni diverse in relazione alle diverse situazioni poetiche del dramma, consentendo infinite possibilità di movimento. Saranno l'emblema della scenografia simbolica di Craig. Nello stesso anno pubblica un saggio teorico L'attore e la supermarionetta, dove parla dell'utopia dell'attore perfetto, dotato di una semplicità ultraterrena. La supermarionetta era figura dal significato ambiguo: espressione del desiderio di un attore puro e prefigurazione di un teatro meccanico, inumano. Nel 1908, Craig comincia a pubblicare a Firenze i primi numeri di “The Mask”, una rivista dedicata all'arte del teatro, che diresse per vent’anni. Nello stesso anno fu invitato da Stanislavskij, a mettere in scena insieme al teatro d’arte di Mosca, l’Amleto di Shakespeare. La concezione di Craig di uno spettacolo essenziale, di un simbolismo puro e di un’atmosfera di sogno, si dimostra inconciliabile con quella di Stanislavskij e del surrealismo psicologico. Nonostante ciò, lo spettacolo, che debuttò il 8 gennaio 1912, ebbe successo. Da quel momento, Craig interruppe per sempre il suo rapporto con la pratica del teatro. Si ritirò prima a Rapallo e poi in Francia, dove morì nel 1966 lasciando molti libri e un fondo di documenti teatrali. Gordon Craig ha contribuito a riqualificare l'arte del teatro e le sue idee fanno parte della coscienza dell'uomo di teatro contemporaneo. SETTIMO CAPITOLO Reinhardt e il Sogno d'una notte di meezz’estate di Shakespeare Il 31 gennaio 1905, a Berlino sul palcoscenico girevole del Neues Theater am Schiffbauerdamm, il giovane Max Reinhardt mise in scena, con le musiche di Mendelssohn, il Sogno d'una notte di mezza estate di Shakespeare. Ad eccezione della scena iniziale e di quella finale delle nozze, nel testo di Shakespeare, il bosco è lo scenario dell'intera commedia (rappresenta la terra che nutre, da cui tutto ha origine, in cui tutto si nasconde e tutto si trova). È il bosco ad avere il legame più stretto con i tre gruppi che agiscono nella commedia: per gli spiriti rappresenta l'elemento naturale, per gli innamorati il luogo della fuga, per gli artigiani il punto di incontro dove fare le prove di un dramma. Quando si alzava il sipario si sentiva scorrere un ruscello, tra le nuvole splendeva la luce della luna e si intravedeva un bosco che era vivo, vero, con prati e alberi. Il tappeto che ricopriva il palcoscenico sembrava di muschio. I tronchi, i rami, le cortecce, le foglie degli alberi erano come veri (grazie a un lavoro con tela di imballaggio, legno e colla). Con lo stesso sistema, Reinhardt aveva ricoperto la superficie piatta del pavimento di legno con piccoli rilievi a forma di colline e con un tipico procedimento simbolista, veniva spruzzata sulla scena l'essenza di abete che si diffondeva immediatamente, anche nello spazio riservato agli spettatori. Al suono dello scherzo di Mendelssohn gli elfi, non vestiti più convenzionalmente, ma interpretati da ragazze seminude coperte solo di veli verdi, si tenevano per mano e giravano da una parte all'altra delle colline e tra gli alberi. Tra i fili di una rete invisibile, erano appese e si muovevano delle lampadine che il pubblico berlinese. Non piaceva più a Berlino, dove infuriavano le lotte politiche. La partecipazione del pubblico al teatro subì un’incrinatura: Reinhardt capì di non essere più il padrone incontrastato del suo pubblico. Per dialogare con la nuova massa, trasformò il Zirkus Schumann nel Grosses Schauspielhaus, il Teatro dei 5000 (grande scena a forma di anfiteatro, senza sipario, senza quinte, senza quasi scene, l'attore mescolato agli spettatori e il pubblico stesso trascinato dentro). Ma fu un fallimento. Lo accusarono di leggerezza, in tempi difficili e anche di frivolezza. Reinhardt, che non poteva vivere senza un pubblico complice e che non voleva cambiare la sua filosofia di teatro e di vita, si trasferì nella politica e barocca Salisburgo. Qui, insieme a Hugo von Hofmannsthal, nel 1920 realizza la sua idea di un teatro popolare interclassista, che non aveva potuto creare a Berlino. Il festival voleva essere un fattore di coesione tra popoli, la città stessa venne trasformata in una festa. I Festspiele realizzarono in modo completo l’analogia fra teatro e gioco: si attua una momentanea sospensione della vita sociale, non si era più di fronte al pubblico, ma con il pubblico. Trionfa una seconda realtà e il tempo e lo spazio teatrali si insinuavano nel tempo e nello spazio reali. Anche a Salisburgo il repertorio era vasto e molteplice, ma il mito prese il posto della storia che trionfava invece a Berlino nel teatro politico (Jedermann diventò l'emblema del Festival). Nel 1924 la Germania uscì dall'inflazione e ritrovò la stabilità economica e politica grazie agli aiuti americani. Reinhardt tornò a Berlino e aprì un nuovo teatro, il Die Komodie, sul Kudamm, dove rappresentò Sei personaggi in cerca d'autore di Pirandello. La città, però, era irrequieta e non c'era più il rapporto con il pubblico di un tempo. Nel 1928 Berlino entra in una fase politica che diventava più difficile ogni anno. Si crea un nuovo realismo, il Neue Sachlichkeit, erano gli anni di Piscator e di Brecht. La politica si radicalizza, il nazismo era in ascesa. La realtà storica schiaccia di nuovo la concezione di teatro di Reinhardt. Il 27 febbraio 1933, durante le prove generali del Gran Teatro del mondo, il Reichstag venne incendiato e Hitler andò al potere. Reinhardt, che era ebreo, fu costretto all'esilio. Il 1° giugno 1933, a Firenze mise in scena il Sogno d'una notte di mezza estate nel Giardino di Boboli, con attori italiani. Nel 1938 Reinhardt si trasferisce negli Stati Uniti. A Hollywood apre una scuola di teatro; era felicemente stupito di trovare tanti attori di talento e ne attribuì la causa alla mescolanza etnica. Alla fine della sua carriera ci fu di nuovo il Sogno di Shakespeare. Lo mise in scena in un teatro all'aperto di Los Angeles e al cinema, in un'edizione che sembra anticipare Walt Disney (primo film hollywoodiano di genere non naturalistico). Ma qui la sua concezione teatrale si scontrò con il capitalismo. In America tutto era nelle mani degli impresari e lo star system rendeva impossibile il lavoro artigianale e corale. Reinhardt progettò un festival californiano, ma il progetto fallì (<<non ci si può aspettare lo sviluppo dell'arte tridimensionale del teatro, in una città come Los Angeles>>). Nel 1943 Max Reinhardt muore a New York. Fu il maestro dell’immedesimazione con l'altro, dello stabilire le relazioni umane. Fu un regista di attori, che amava gli attori. Insegnò loro a esistere e ad esprimersi nel rapporto reciproco, tra di loro e col pubblico e aiutò molti a trovare sé stessi. Aveva la capacità di estrarre da ciascuno il lato più segreto e nascosto di sé, tant'è che venne definito “una casa di salute per attori”. Come scrisse Alexander Moissi riusciva a <<lavorare con le persone umane come se fossero il più nobile dei materiali creati da Dio>>. Ed è soprattutto questo l'insegnamento che ha lasciato alle generazioni teatrali future. OTTAVO CAPITOLO Mejerchol’d e Il revisore di Gogol’ La carriera di Mejerchol’d regista inizia con la scontentezza di Mejerchol’d attore al Teatro d’Arte di Mosca. Nel 1898 era allievo di Danchenko alla scuola d’arte drammatica di Mosca. Mejerchol’d interpretò il ruolo nervoso e insofferente di Treplev, nella prima edizione de Il gabbiano di Cechov. La scuola di Stanislavskij sarà un’esperienza fondamentale per la sua formazione registica, poiché imparerà che l’attore è l’anima del teatro. Col tempo, iniziò a manifestarsi in lui una certa inquietudine. Gli pareva che il naturalismo introdotto da Stanislavskij come correttivo della teatralità artificiosa, avesse chiuso le porte al mistero. I metodi del Teatro d’Arte impedivano allo spettatore di completare l’illusione con l’immaginazione. L’eccesso di particolari e il voler mostrare tutto gli sembravano un tradimento nei confronti di autori come Cechov. Mejerchol’d era incompatibile con il naturalismo: ragionava in termini musicali, ritmici. Nel 1902 fonda una sua compagnia e comincia a recitare in provincia con un repertorio che comprendeva anche nuovi autori contemporanei più difficili: Maeterlinck, Schnitzler, Hamsun. Mejerchol’d li mette in scena secondo nuovi metodi non naturalistici. Purtroppo questa esperienza si rivelò complicata. Aveva bisogno di sperimentare e così, convinse Stanislavskij ad aprire una succursale del Teatro d’Arte, il Primo Studio, dove fece i primi esperimenti di un teatro “convenzionale”. Mejerchol’d lasciava gli attori liberi di provare, di proporre, passando solo in seguito ad armonizzare in scena le varie parti. Il lavoro teatrale era un’opera collettiva e il compito del regista consisteva sia nell’equilibrare tutto ciò che gli altri creatori avevano creato liberamente, sia nel sentire il ritmo interiore dell’opera e saperlo restituire attraverso la plasticità corporea. Sperimentò anche una nuova maniera di recitare: chiedeva agli attori di scandire le parole freddamente e alla dizione andava integrata una recitazione plastica, che non corrispondeva alle parole, ma in un certo senso le completava. All’inizio di questa visione si succedono diverse fasi sperimentali. La prima nacque in opposizione al naturalismo, in linea simbolista. C’era la stilizzazione, gruppi e macchie di colore, musica, effetti luminosi usati al posto della scenografia, la recitazione era imprecisa, allusiva. La scena doveva concentrare tutta l’attenzione del pubblico sui movimenti degli attori. Le figure sulla scena erano disposte come negli affreschi e nei bassorilievi, lo spazio scenico era ridotto o all’orlo della ribalta o addossato al fondale. Gli attori si muovevano di profilo, con gesti solenni, impassibili, in un contegno statuario, davanti a dei drappeggi grigi che nascondevano i muri del palcoscenico. La recitazione era priva di fuoco e Mejerchol’d sceglieva dei costumi in modo che le figure sembrassero ricamate o dipinte sopra i pannelli, come nei quadri di Klimt. Queste erano tutte cose che Mejerchol’d derivò da Maeterlinck, ma era anche evidente l’influsso del cinema muto. Nell’autunno del 1906, l’attrice Vera Komissarzevskaja, che dirigeva un teatro a San Pietroburgo già da due anni, chiamò Mejerchol’d come regista, che accettò l’incarico. Il 10 novembre 1906 andò in scena Hedda Gabler di Ibsen. Ignorando volutamente le didascalie, Mejerchol’d rinunciò a rappresentare nei dettagli il ricco ambiente norvegese e creò una scena impressionista che dava l’idea di una fredda ricchezza in un clima autunnale. Un fondale rappresentava una baia e all’interno c’erano mobili bianchi, tappezzerie blu e oro, personaggi vestiti di costumi dai colori simbolici (macchie variopinte). Gli attori entravano e uscivano dalle quinte laterali con calcolata economia dei gesti, movimenti lenti, ritmici, con mimica semplificata (lunghi silenzi, sguardi prolungati, pose statuarie). Il 18 dicembre mette in scena Nora. Mejerchol’d era completamente indifferente all’interpretazione psicologica dell’attrice, infatti apprezzò solamente la scena della tarantella. Nei drammi di Maeterlinck (Soeur Béatrice, Pelléas et Mélisande), chiese agli attori di recitare a voce basse, quasi cantando, e di muoversi con gesti scanditi, con ritmo monotono, tendendo all'immobilità. La concezione teatrale di Mejercjol’d e quella della Komissarzevskaja erano incompatibili; l’attrice sentiva soffocato il suo talento. Così i due si separarono. Intanto, Mejerchol’d andava avanti e capiva che, eliminando la ribalta e il sipario, con l’intento di portare l’attore in mezzo al pubblico, si riscopriva il proscenio. Si era accorto che la prossimità dello spettatore non tollerava un attore dal pathos affettato e privo di scioltezza corporea. Capì che la stilizzazione impoveriva la pienezza della vita mostrandone un unico aspetto. Abbandonò i semitoni e la gestualità statuaria e riscoprì il teatro teatrale delle tradizioni classiche, popolari (greco, elisabettiano, giapponese e la commedia dell’arte) nelle quali c’era l’aspirazione all’illusione. L’attore sapeva di essere solo con la sua voce, i suoi gesti e la sua mimica nell’esprimere il pensiero del drammaturgo. Lo spettacolo clou di questa sua fase fu il Don Giovanni di Molière, il 9 novembre 1910, al Teatro Alexandrinsky di San Pietroburgo. Infatti, Mejerchol’d era stato invitato da Teljakovskij a lavorare come attore e regista con la compagnia del Teatro Alexandrinsky, dove ci restò per 11 stagioni (1908-1914). Nel Don Giovanni, con le musiche di Rameau e le scene di Golvin, Mejerchol’d si concentrò sull’aria, lo stile, la teatralità al tempo di Molière, ricreandoli liberamente sul palcoscenico e nella sala. Mostrò al pubblico l’eleganza e il lusso della corte di Luigi XIV dove lavorava Molière e al tempo stesso, la sua libertà inventiva che, utilizzando l’azione in proscenio, rispondeva all’aridità dei metodi di Corneille ispirati alla corte. Eliminato il sipario, la scena era visibile al pubblico. Venne tolta anche la buca del suggeritore ed era stata sostituita con due piccole nicchie ai due lati della scena dove sedevano due suggeritori in parrucca e costumi d’epoca. Contemporaneamente, in quegli anni Mejercol’d lavorava a San Pietroburgo con lo pseudonimo di Dottor Dappertutto (personaggio demoniaco dei Racconti di Hoffmann), prima al cabaret (La casa degli intermezzi), in teatrini di parodie e dal 1913 al 1917 allo Studio-scuola di via Borodinskaja, dove approfondisce i procedimenti della commedia all’italiana (maschere, clownerie metafisica, travestimenti, illusività del gioco). Allo studio la parola resta nell’ombra, poiché contano la mimica, il virtuosismo acrobatico degli attori, la scaltrezza del circo. Era un teatro di pantomime, azioni fisiche, di velocità e carriera che lo attende. Ad un certo punto un gendarme annuncia l'arrivo del vero revisore è tutta l'alta società provinciale si fissa in una scena muta di sbigottimento. Nella locandina dello spettacolo, Mejerchol'd appariva coautore di Gogol. Mejerchol’d aveva ristrutturato interamente la pièce facendone una sintesi dell'opera completa di Gogol, in particolare delle Anime morte, il cui tema era analogo a quello del Revisore: l’apparenza della vita che nasconde un abisso di vuoto e di nulla. Con Il revisore parlava della Russia di Nicola I, rivelando con spietato sarcasmo il senso simbolico nei temi sociali. Meyercord, però, nella sua messa in scena rendeva il testo di bruciante attualità. I personaggi alludevano alla capitale, avevano il tono e la sicurezza degli abitanti di una grande città (il governatore era un generale aitante, sua moglie era molto affascinante, Chlestakov era un avventuriero di classe e pareva un ambiguo personaggio di Hoffmann, Ossip era un giovane scaltro, unico personaggio positivo). Mejerchol’d introdusse altri nuovi personaggi supplementari che servivano a formare i dialoghi, eseguivano intermezzi pantomimici commentando l'azione o incarnavano altri personaggi che duplicavano i temi dei protagonisti del Revisore, erano dei prolungamenti dei personaggi principali. La commedia era divisa in 15 episodi perché così corrispondeva meglio al modo di percezione dello spettatore moderno e permetteva di mettere l'accento sull'azione teatrale. La scena aveva come fondale una parete semicircolare con 15 porte a due battenti, di lucido compensato rosso. A destra e a sinistra due pannelli simmetrici prolungavano il dispositivo scenico verso la sala, riducendo la profondità della scena in modo da concentrare l'azione sul proscenio. Le 3 porte di centro si aprivano come un solo portone lasciando passare delle piattaforme arredate con mobilio e con gli interpreti in attitudini pietrificate. Le pedane, inclinate, ricordavano i palcoscenici dei teatrini dei commedianti da fiera del XVI e XVII secolo. Creò così, una visualità frammentaria e molta precisione nei dettagli. Le piattaforme rimandavano ai primi piani del cinema. L’azione era compatta e concentrata in un piccolo spazio che richiedeva all'attore un'agilità eccezionale. Infatti doveva essere cosciente dei suoi movimenti e nello stesso tempo stare attento al ritmo generale per non spezzare l'unità della frase musicale e scenica. L'azione era costruita su due assi portanti: sul proscenio si illustrava la commedia del potere, mentre gli oggetti mobili sulla scena servivano da supporto per l'attore e insieme avevano una funzione simbolica. Le persone in confronto apparivano esili, in modo da suggerire un'atmosfera di angustia. Il modo di recitare degli attori era sinfonico, diverso dall'egocentrismo narcisistico dell’attore ottocentesco. Tutto era costruito secondo un principio musicale: le battute andavano dal pianissimo forte fragoroso e la musica saturava le parole. SCENA FINALE: il palcoscenico era vuoto. Dietro le porte era in corso un banchetto, passavano persone con tovaglioli, bicchieri di vino, eccetera. D'un tratto arrivava il gendarme che annunciava l'arrivo del vero revisore. Tutte le porte si spalancavano simultaneamente. In piedi su delle piccole pedane che formavano un'unica piattaforma a forma di ventaglio, stavano raggruppate delle figure che guardavano sbigottite, impietrite dal terrore. Sembravano uomini vivi, ma invece erano manichini. In Russia, la risonanza della messinscena del Revisore fu senza precedenti e ricordò le polemiche e i dibattiti che si erano accesi quando l'opera era stata pubblicata 90 anni prima. Lo spettacolo rimase in cartellone per 12 anni, fino al 1938. La messa in scena del Revisore non è soltanto un esempio di ciò che Mejerchol’d intendeva per teatro convenzionale, ma è una perfetta realizzazione della concezione musicale che Mejerchol’d aveva del teatro. La musica vi era presente come realtà, come esempio e come metafora. Abituandosi a provare in musica, gli attori imparavano a calcolare e organizzare esattamente il proprio tempo, apprendendo a concentrarsi e a disciplinarsi. L'attore a un certo punto poteva anche fare a meno del sottofondo musicale. Un uguale esercizio andava fatto disponendo il proprio corpo in relazione allo spazio, utilizzando palcoscenici di forma variabile, limitati. L'attore sacrificava se stesso all'unità delle insieme. La coscienza del tempo dava agli attori l'energia, il senso di responsabilità in ogni prova, in ogni replica nei confronti del proprio ruolo. Altrettanto importante il tempo era per il regista che <<doveva sentirlo senza guardare l'orologio>>. Forse anche il grottesco di Mejerchol’d era un effetto della sua spiccata sensibilità musicale. Negli anni che seguirono, gli spettacoli più notevoli furono La cimice e Il bagno di Majakovskij e La signora delle camelie con Zinaida Rajch (sua moglie). Dopo il 1934, al primo congresso pan unionista degli scrittori, si dichiarò la sovranità del realismo socialista, condannando tutte le tendenze artistiche non figurative. Crebbe così la difficoltà di Mejerchol’d con il regime sovietico. Nel 1936 a Mosca venne accusato di formalismo cosmopolita, ma lui difese le proprie idee, il diritto di sperimentare, il valore della ricerca formale. L’8 gennaio 1938 il Teatro Mejerchol’d fu chiuso per decreto. In tutta Mosca c’era solo un solo uomo disposto ad aiutarlo: il suo vecchio amico Stanislavskij, che gli offrì di lavorare come regista d'opera. Ma lo stesso anno Stanislavskij morì. Nel giugno 1939 Mejerchol’d venne invitato una seconda volta a fare pubblicamente autocritica, ma rifiutò. Quarantotto ore dopo venne arrestato. La sua seconda moglie di Zinaida Rajch fu trovata assassinata nel suo appartamento. Giudicato e condannato a morte, Mejerchol’d fu ucciso con un colpo di pistola alla nuca il 2 febbraio 1940. Fino al 1956 il suo nome rimase pressoché sconosciuto in tutta la Russia. Oggi Mejerchol’d è considerato il più grande regista del 900. Non si può rinchiudere meglio in un'unica formula, non è stato autore di un'invenzione, ma di tutte le invenzioni possibili. Il suo cammino si spiega con il terrore di ripetersi e di cadere nella routine. Per lui la vitalità era racchiusa nei contrasti, nell'intreccio degli opposti. Persino l'andamento della sua carriera registica potrebbe venire interpretato come un segno della sua sensibilità musicale. Ciò che ha lasciato alle generazioni future è immenso. Molte sono caratteristiche del teatro povero: la cultura delle prove, la tendenza a spostare l'attenzione del testo al mondo dell'autore, la riscoperta della commedia dell'arte e del teatro giapponese, la capacità di parlare agli occhi dello spettatore, l'importanza della sperimentazione per rinnovare il teatro, la centralità del movimento scenico e l'idea che l'attore sia l'anima del teatro. Come Craig, Mejerchol’d sapeva che sulla scena è necessario conoscere e saper fare tutto. NONO CAPITOLO Piscator e Oplà noi viviamo! di Toller Erwin Piscator, per molto tempo, fu un teorico del Teatro politico, libro scritto nel 1929 per difendersi dall’accusa di formalismo che circolava negli ambienti di sinistra tedeschi, e pubblicato nel 1930. Il suo teatro è interessante soprattutto per il lato tecnologico e multimediale, poiché capì che funzionava per le masse proletarie del suo tempo, ma continua a funzionare per la società di massa di oggi. Piscator ha capito con grande anticipo che le trasformazioni storiche esigevano un linguaggio artistico basato su una concezione più accelerata del tempo e più ampia dello spazio, sulla centralità del movimento. Anche lui ha colto il primato della visione rispetto alla parola, Inserendo il cinema nel teatro, utilizzando il film per innovare la scena. Ha dato vita a una nuova drammaturgia, non più incentrata sulla parola recitata, ma sul regista. Tramite il film-documentario ha allargato lo spazio ristretto della scatola scenica, mettendo in contatto la finzione nella vicenda teatrale con le vicende reali del mondo, e tramite la tecnica del collage e del montaggio ha impresso alla rappresentazione teatrale un andamento non più naturalistico, ma ritmico, rapido, fatto di alternanze e contrasti. Tra il 1918 e il 1919 Piscator fa due esperienze fondamentali per la sua vita: fa amicizia con gli inventori del fotomontaggio (Grosz e Heartfield) e si iscrive al Partito Comunista. Sarà proprio l’intreccio fra queste due componenti (marxismo e un linguaggio alternativo) che costituirà il suo tratto distintivo. Dal 1919 Piscator dà vita al Proletarische Theater, nei quartieri operai di Berlino, con attori professionisti e con Heartfield come scenografo. Voleva accantonare l'Arte e l'estetica e mettere il teatro al servizio della propaganda politica, facendone uno strumento della lotta di classe. Ma l'organo del Partito Comunista (Rote Fahne) attacca la sua attività. Nel 1924 la Germania inizia la sua stabilizzazione economica, grazie agli aiuti degli USA del Piano Dawes (inizia quindi l’americanismo). In quel periodo la Volksbuhne affida a Piscator la regia di Fahnen di Paquet, che aveva drammatizzato lo sciopero degli operai anarchici di Chicago e il processo contro di loro. Pscator lo rende il simbolo delle lotte degli operai in generale, con evidente allusione all'attualità, e trasforma la messa in scena in un reportage: -il titolo della pièce e una breve introduzione storica venivano proiettati su uno schermo che scendeva a mezza altezza del proscenio -i personaggi apparivano uno dopo l'altro su uno schermo -un narratore recitava in versi il prologo - i cantori popolari raccontavano alla folla delle fiere avvenimenti sensazionali indicando con un bastone le immagini su un telone dipinto dialogo degli attori e la pièce. Utilizza dissolvenza e montaggio (cinema). Film didattico, che comunicava dati obiettivi, attuali e storici, illustrava l'argomento del dramma e lo amplificava nello spazio e nel tempo, impediva che i fatti apparissero come avvenimenti isolati. SECONDO FILM: utilizzando il montaggio, mescolò spezzoni di materiale documentario preso negli archivi di stato e sequenze girate dal suo collettivo di lavoro. Ottenne un confronto scioccante fra immagini e situazioni discordanti che si succedevano con ritmo incalzante e opposizione brutale. Dietro la scena erano collocati dei proiettori per diapositive le cui immagini arredavano le piccole scatole sceniche (mobili, muri, tappezzerie). Film drammatico che si inseriva nello sviluppo dell'azione, la accelerava, e ne anticipava la conclusione, veniva proiettato fra le scene teatrali o simultaneamente sulle stesse scene. TERZO FILM: ambientato in un hotel, mentre sotto la cupola un telegrafista captava le notizie di tutto il mondo, le proiezioni fisse che provenivano dal retropalco facevano diventare i piccoli palcoscenici delle stanze dell'hotel, in ognuna delle quali avveniva qualcosa di particolare. Il contesto storico e sociologico mondiale era messo a confronto con diversi destini individuali. Film di commento che accompagnava l'azione coralmente, si rivolgeva direttamente allo spettatore, criticava, accusava, citava dati importanti talvolta facendo propaganda diretta. Il film contrastava con le proiezioni fisse, le scene recitate con le scene filmate. Il principio del montaggio era presente a tutti i livelli. La presenza del film, che lacerava continuamente l'illusione mettendo in risalto artificialità della rappresentazione teatrale, rendeva particolarmente difficile il lavoro degli attori che impararono a recitare in modo diverso. L'elemento più interessante del suo lavoro è il suo metodo, il modo in cui egli ha attuato questa contaminazione (collage e montaggio). Da entrambi Piscator apprende a parlare attraverso l'associazione, la comparazione, il confronto poiché sa che da questi nasce l'idea. Il montaggio di linguaggi diversi avveniva senza soluzione di continuità con un ritmo incalzante, come anche la musica di Meisel. L'elemento fondamentale era la dinamica, il movimento. Il collage e il montaggio avevano qualcosa in comune con il metodo della dialettica materialista per la quale tutto esiste solo in quanto si trasforma. Il primo spettacolo aprì l'era di una sperimentazione estremamente concertata in cui Piscator amplificò l'utilizzazione del cinema. Per il decimo anniversario della Rivoluzione d'ottobre, nel 1927, Piscator mise in scena uno spettacolo sulle origini e le forze motrici della rivoluzione russa: Rasputin, i Romanov, la guerra e il popolo di Tolstoj. Il dramma era rappresentato su una gigantesca sfera rotante, con ponti, scale e passaggi. Davanti allo spazio dove recitano gli attori era sospeso un pannello di garza trasparente incorniciato dall'arco di proscenio per la proiezione delle grandi scene cinematografiche. Piscator usò il film di commento come proiezione del dramma nell'avvenire. Mise a confronto i personaggi scenici e il loro futuro destino. Nel 1928 portò in scena Le avventure del buon soldato Svejk, romanzo incompiuto di Hasek. Si trattava di una gigantesca raccolta di aneddoti e di avventure che ruotavano intorno al protagonista che durante la Prima Guerra Mondiale, veniva continuamente sballottato da una parte all'altra del fronte prendendo le cose così sul serio da rendersi ridicolo. La sua obbedienza finiva col distruggere la logica stessa della guerra. Piscator trasformò il piano fisso del palcoscenico in una superficie mobile installandovi due tapis roulant che si muovevano in modo contrario. La distribuzione dei fatti poteva seguire fedelmente quella del romanzo e le battute erano quelle originali. Nello stesso anno fu costretto per motivi economici a cedere il teatro. Nel 1929 tentò di aprirne un altro e a settembre mise in scena Il mercante di Berlino di Mehring, una descrizione critica e satirica dell'inflazione al cui centro agiva un mercante ebreo delle province orientali. Anche qui utilizzò i nostri continui. Un mese dopo la borsa di New York crollò e iniziò la crisi anche in Germania, la quale si riversò sul mondo del teatro (drastiche riduzioni delle sovvenzioni statali). Mentre nasceva la Repubblica di Weimar, la seconda Piscator-Buhne ebbe fine, ma il gruppo rimase unito e decise di mettere in scena un testo che trattava un problema scabroso, la legge sull'aborto, cioè § 218. Frauen in Not di Carl Credé. Le prove ebbero luogo in un appartamento in affitto. Piscator riproduce in scala ridotta e con i modi del teatro povero il principio del montaggio dialettico che aveva realizzato mettendo a contrasto scene e film. Divise l'area scenica in due per ottenere un contrasto visivo tra scene diverse. Per coinvolgere il pubblico dispose fra gli spettatori i personaggi che non erano direttamente interessati, in modo che gli attori potessero interrompere l'azione dicendo le loro battute, così che il dialogo normale diventasse una discussione tra scena e platea. Nel 1931 fu invitato in Unione Sovietica, dove girò La rivolta dei pescatori di Santa Barbara dalla novella di Anna Seghers. Tra il 1943-1937 fu il presidente della Lega teatrale internazionale rivoluzionaria. Quando Hitler salì al potere, si trasferì a Parigi e poi negli USA. Nel 1940 a NY creò il Dramatic Shop, una scuola di teatro fondata all’interno della New School for Social Research. Con gli allievi della scuola Piscator, pur attenuando l'aspetto politico, riprese gli esperimenti interrotti a Berlino dal nazismo. Le produzioni per il Dramatic Shop miravano alla partecipazione del pubblico in modo aggressivo. Nel 1951, minacciato dal maccartismo, rientrò in Germania dove lavorò per più di 10 anni come regista ospite in vari teatri tedeschi, cimentandosi in nuovi interessanti esperimenti sull'uso della luce. Nel 1962 venne nominato sovraintendente della Nueue Freie Volksbuhne, che diresse fino alla morte (1966). Nell’ultima fase nel suo lavoro si dedicò al dramma documentario: Il vicario, Sul caso di J. Robert Oppenheimer, L'istruttoria. Brecht fu probabilmente il solo a riconoscere a Piscator un ruolo adeguato nel teatro contemporaneo. Del suo retaggio fa parte anche l'influenza sul Living Theatre di Beck e Malina, sia per elementi formali (struttura costruttivista del Frankenstein) sia per scelte sostanziali, atteggiamenti analoghi nei confronti del teatro e del mondo. Piscator costituisce uno dei casi in cui la cultura tedesca di emigrazione ha stabilito un ponte tra l'Europa prebellica e gli Stati Uniti del dopoguerra. Egli ha capito con anticipo il crescente interesse per la l'attualità da parte delle nuove generazioni, oggi il presente è totalitario. DECIMO CAPITOLO Brecht e Madre coraggio Bertolt Brecht inizia la sua formazione in Baviera, dove era nato, negli anni dell'espressionismo. Ben presto se ne distaccherà, in quanto non gli piace tutto ciò che è tipicamente tedesco. Per lui saranno molto importanti Frank Wedekind, per la sua spavalderia e Karl Valentin, da cui impara a “pensare al rovescio”. Dopo un breve periodo giovanile come spettatore e critico di giornali di provincia, inizia il suo approccio al teatro come scrittore di drammi. Questa rimarrà la sua attività principale, solo negli ultimi anni si dedicherà alla regia nel suo teatro. Era contrario alla ricerca spasmodica dell'effetto, convinto dall’inefficacia dell'emozione immotivata nello spettatore. Brecht cerca fin d'allora nel teatro il piacere della ragione, il divertimento intelligente. Per lui un autore teatrale doveva stimolare nel pubblico un atteggiamento indagatore, interessato. Tra il 1918 e il 1923 scrive i suoi primi drammi: Baal, Tamburi nella notte, Nella giungla della città. Nel 1924 ha i primi approcci con il mestiere di regista. Mette in scena ai Kammerspiel di Monaco la riduzione che aveva scritto con Feuchtwanger di Vita di Edoardo II di Marlowe. Karl Valentin assistette alle prove, dando qualche consiglio a Brecht. Durante la metà degli anni Venti si trasferisce a Berlino, negli anni dell’americanismo. Così si appassiona allo sport di massa, alle corse ciclistiche e in particolare alla boxe. Di fronte al cambiamento sociale entra in crisi la forma tradizionale del dramma, infatti Brecht si accorge che la vecchia struttura drammatica non bastava più. Nel 1925 scrive Un uomo è un uomo, in cui tratta del rimontaggio tecnico di un uomo per trasformarlo in un altro con un determinato scopo illegale. Nel 1926 Goebbels diventa il Gaultier di Berlino ed è in quel periodo che Brecht si avvicina al marxismo e alla sociologia. Da quel momento lo scopo del suo teatro diventa politico. Brecht non oppone propaganda a propaganda, è indotto proprio dallo stile dei metodi della pubblicità hitleriana a sviluppare un nuovo sistema critico nell'affrontare il teatro e la vita. Vuole esercitare l'arte dello smascheramento, opporre alla suggestione la ratio. Brecht sviluppa il concetto di popolare, cioè riuscire comprensibile alle vaste masse, riprendere e arricchire il modo di esprimersi, accogliere, consolidare e correggere il loro punto di vista. Così nel 1926 nasce il teatro epico. Lo spettatore non deve avere un piacere passivo, non legato a un sentimentalismo partecipe, ma critico. In questo modo bisogna rinunciare all’immedesimazione che dai tempi di Aristotele viene considerata connaturata all'opera teatrale. Nasce una nuova forma drammatica basata sulla “rinunzia allo charme”. Il 31 agosto 1928 al Theater am Schiffbauerdamm, con la regia di Engel e Brecht, va in scena L'opera da tre soldi. Lo spettacolo fonde le tendenze del teatro di Weimar: divertimento e politica. Rifacimento di un’opera settecentesca inglese, era la storia di una banda di gangster, ladri, finti mendicanti londinesi raccontata alternando le scene recitate con “songs” le cui parole ironiche venivano cantate dagli attori a contrasto con l'atmosfera melodica e piacevole della musica di Kurt Weill. Brecht sperimenta nella costruzione del dramma una nuova tecnica che si fondava sul principio di provocare: Nel 1949 mette in scena con Engel, Madre coraggio, scritto nel 1938. Il dramma, chiamato “cronaca” da Brecht, si ispira alle Histories di Shakespeare ed è ambientato durante la guerra dei Trent’anni. Racconta di una donna che gestisce uno spaccio viaggiante tra il 1624 e il 1636. TRAMA: Anna Fierling, madre di tre figli, cerca di guadagnarsi da vivere seguendo gli eserciti cattolici e protestanti, vendendo ai soldati merce di tutti i generi. Visto che i soldati in quei tempi duri sono le uniche persone che hanno i soldi per comprare le sue cose la guerra le porta buoni affari. Ma la guerra le porta via anche i suoi tre figli, lasciandola sola. Gli unici a trarre vantaggio dalla guerra sono la Guerra stessa e i potenti che l'hanno scatenata per loro interesse. Essa simboleggia il destino della povera gente che dà ai potenti la possibilità di muovere delle guerre. Madre Coraggio riparte in cerca di nuove fortune. I personaggi vengono schiacciati da circostanze storiche che non comprendono o non si curano di comprendere, la stessa protagonista è il primo esempio di questa cecità. Il dramma era stato rappresentato a Zurigo nel 1941, ma il pubblico e la critica non sembravano aver capito ciò che Brecht aveva voluto dire. Madre Coraggio era stata vista come una donna che non riusciva a proteggere i suoi figli dalla fatalità della guerra. E’ di fronte a questo equivoco, per rendere chiaro agli spettatori il senso della vicenda, che Brecht decide di mettere personalmente in scena il dramma insieme a Engel e con Helen Weigle nel ruolo della protagonista. <<Se madre coraggio non capisce è il pubblico che deve capire>>. Perché il pubblico possa capire e importante che non si immedesimi nel personaggio, bisogna dare una lezione di straniamento innanzitutto nel modo di recitare dell'attrice, ma anche in tutte le altre componenti della messa in scena: luci, titoli, canzoni, scenografie. Lo spettacolo che Brecht porta in scena nel 1949 al Deutsches Theater di Berlino Est e che entra nel repertorio del Berliner Ensemble, verrà visto negli anni successivi da tutto il mondo, è uno spettacolo dimostrativo, un esempio di teatro epico. I collaboratori di Brecht scrissero un "Modelbuch" (libro modello di lavoro) nel quale era documentato lo spettacolo dall’inizio alla fine. Ma il modello non viene creato per fissare il modo dell'esecuzione, ma la sua evoluzione. ogni modello deve essere considerato a priori incompiuto, poiché non è fatto per risparmiare il pensiero ma per stimolarlo. Madre Coraggio è suddiviso in 12 scene: -ogni scena è preceduta da un titolo che spiega in anticipo l'azione allo spettatore e viene proiettato sul siparietto o i titoli a caratteri cubitali in grosse lettere nere scendono dall'alto sopra le scene. In entrambi i casi, lo scopo era quello di rinunciare coscientemente agli elementi drammatici della tensione e della sorpresa per eccitare la capacità conoscitiva dello spettatore -il palcoscenico vuoto del prologo veniva trasformato di volta in volta in una località a particolare, con elementi concreti - i materiali erano quelli del XVII secolo: tela da tenda, travi di legno tenute da corde. Brecht voleva che materiali fossero realistici -l'unico elemento fisso era il carro della vivandiera. Il carro, in cui tutto indicava che aveva percorso una lunga strada, era un incrocio tra un veicolo militare è un bazar. Nel corso della storia si trasformava molte volte, ma non usciva mai di scena. All'inizio era fitto di merce appese e tirato da due figli, alla fine il carro era brandelli e la Coraggio lo tirava da sola. -il palcoscenico era illuminato a giorno, la luce era uniforme e incolore per non creare l'atmosfera. Le sorgenti luminose erano visibili - la musica era stata scritta da Dessau e Brecht nel 1946. Era composta da 10 canzoni, alcune marce, un breve preludio e un finale in cui erano riassunti i tre diversi i temi delle marce. Il brano principale era la canzone di Madre Coraggio tratta da un'antica melodia francese. La musica non aspirava ad essere orecchiabile, perché Brecht voleva lasciare qualcosa da fare al pubblico, nel senso che l'orecchio doveva unificare le voci e le melodie. Ogni volta che si doveva cantare una canzone che non nasceva dall'azione, veniva fatto scendere dal soffitto un emblema musicale (tromba/tamburo) e alcune lampade illuminavano gli esecutori che erano disposti sul palco di proscenio in modo da essere visibili al pubblico. Questo espediente serviva a dare distacco alla musica rispetto all'azione reale, rendere visibile il passaggio al piano musicale, in modo che si producesse la certezza che esse fossero degli inserti e che non nascessero dall'azione -Brecht raccomandò agli attori di recitare basandosi sull'osservazione del mondo. Tutto si basa sul materiale raccolto, nel corso del tempo, osservando molte persone. Per ottenere un modo di recitazione realistico era necessario combattere <<il temperamento teatrale che si sfoga in declamazione altisonante o artificiosamente posata, copre le passioni del personaggio con le passioni dell'attore e rappresenta il tentativo di eccitare il pubblico con la propria eccitazione>>. Il modo di recitare di Helen Weigle divenne un modello per tutti gli attori. Per ottenere un effetto realistico, la donna usava in tutto il dramma un intonazione dialettale, quella della Germania del Sud. Aveva movimenti sobri, semplici, chiari. Alla mimica sostituiva il comportamento, il gesto significativo che non era mai casuale ma sempre pensato. -ogni gesto e ogni oggetto era scelto con cura. L’importanza data dal dettaglio viene condivisa da Brecht, ma con un altro significato: anziché invadere la scena come avveniva nel teatro del naturalismo, bisogna isolare e mostrare il dettaglio, illuminandolo con chiarezza eccessiva. Nel teatro epico tutti i dettagli andavano riprodotti con cura amorosa La Weigle abbassa il personaggio della Coraggio, mostrando una madre incorreggibile. Una madre che sperava di salvare dalla guerra se stessa e i suoi figli guadagnandoci sopra. Con un semplice con un semplice gesto (far sentire al pubblico lo scatto con cui chiudeva la borsa di pelle in cui teneva il denaro, anche nelle situazioni più difficili) la Weigle contribuiva a rappresentare la guerra non più come un destino, ma come una cosa concreta, una somma di impresa affaristiche grandi e piccole, e a fare del proprio personaggio non una vittima, ma una complice, anche se inconsapevole, della guerra. Tramite comportamenti come questo la sua cecità veniva smascherata e il fine cui mirava Brecht veniva raggiunto. Non era importante che la Coraggio capisse il suo errore, ma che lo capisse lo spettatore. Brecht si raccomandava che gli scenari, gli accessori e i costumi dei personaggi fossero presenti fin dall'inizio delle prove. Inizialmente era tutto lento, solo in una fase successiva venivano stabiliti il ritmo e la durata delle scene. Sorsero molti malintesi sul significato dello straniamento brechtiano. Lo straniamento non consiste nel lasciar freddo lo spettatore raffreddando l'attore, il teatro epico non rinuncia assolutamente alle emozioni. Brecht condanna il sentimento, ma solo quello irrazionale, automatico, dannoso. Consiglia agli attori di utilizzare l'immedesimazione nel corso delle prove per poi abbandonarla nella rappresentazione, in modo da mostrare allo spettatore che anche l'attore racconta la storia. Giorgio Strehler studiò molto Brecht, facendo compiere al teatro Italiano un prodigioso salto di qualità. Il 10 febbraio 1956 Brecht assistette al Piccolo Teatro di Milano alla rappresentazione dell'Opera da tre soldi con la regia di Strehler, che gli piacque moltissimo. Gli ultimi mesi della sua vita li dedicò alle prove di Vita di Galileo. Se il teatro oggi non nasconde più la sua natura lo dobbiamo a Brecht, il quale ha capito che il Novecento è il secolo del disincanto, della scienza, dello sguardo velato dall'ironia. Brecht ha lasciato un grande retaggio, basti pensare al film Dogville di Lars von Trier, alla recitazione straniata di Nanni Moretti o al teatro di Brook che ha molto del disincanto e della sobrietà che Brecht chiamava straniamento. Lo straniamento brechtiano è molto di più di una tecnica teatrale, è una filosofia, è uno sguardo fondamentale del 900. Brecht è stato un maestro nell'arte dello smascherare e può ancora aiutarci a sollecitare nuovi pensieri, nuovi sentimenti e a salvaguardare il senso critico.
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