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riassunto regimi totalitari, Appunti di Storia

Il concetto di totalitarismo e le sue caratteristiche principali, con un focus su nazismo, fascismo e comunismo. Viene inoltre analizzata l'Unione Sovietica, con particolare attenzione alla pianificazione economica e alla politica di Stalin. Il testo si concentra sulle dinamiche interne ai regimi totalitari e sulle loro conseguenze sulla società e sull'economia.

Tipologia: Appunti

2020/2021

In vendita dal 03/07/2022

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Scarica riassunto regimi totalitari e più Appunti in PDF di Storia solo su Docsity! IL TOTALITARISMO: COMUNISMO, FASCISMO, NAZISMO I REGIMI TOTALITARI Il totalitarismo si distingue dalla dittatura perché c’è un controllo totale dello Stato anche nella società civile, soprattutto attraverso la propaganda. Hannah Arendt fu la prima ad accomunare nazismo e stalinismo cogliendo gli elementi comuni che si basavano sul controllo della massa indifferente alla politica e reclutando esecutori apatici e ignari della più brutali atrocità; il fascismo viene considerato un totalitarismo imperfetto a causa della presenza di re e Chiesa. Caratteri del totalitarismo: ● il totalitarismo prevede la costruzione di un'ideologia (lo stalinismo è coerente il nazismo no perché punta all’emotività e non alla razionalità) tale da permettere una rilettura del mondo, della realtà e della storia attraverso i propri criteri (rilettura facile dei problemi). Il cittadino del regime totalitario subisce condizionamenti fisici e psicologici affinché aderisca completamente a tale ideologia, che è posta alla base dell'educazione delle nuove generazioni; ● la vita politica è interamente controllata da un partito unico, che permea di sé, con i propri uomini e le proprie organizzazioni, lo Stato; ● il capo del regime è un dittatore carismatico, depositario dell'intero potere dello Stato; ● il totalitarismo legittima le proprie azioni mediante un uso sapiente dei mezzi propagandistici di massa; ● le masse sono tenute in costante mobilitazione attraverso una serie capillare di organizzazioni che condizionano la gestione del tempo di lavoro e del tempo libero; ● l'economia è sottoposta al controllo dello Stato; ● la contestazione del regime è resa impossibile da un sistema organizzato di repressione. L’UNIONE SOVIETICA La rivoluzione russa perse la sua guida nel 1924, alla morte di Lenin, ma già l’anno precedente forti scontri interni avevano agitato il Partito comunista sovietico. Lenin fu infatti gravemente ammalato durante tutto il 1923 e tra i suoi collaboratori si accese la lotta per la successione, strettamente legata al dibattito sulla direzione da imprimere alla rivoluzione e al Paese. Emersero due portatori di un pensiero politico diverso: ● Trockij sosteneva che ci fosse bisogno di una rivoluzione permanente che esportasse il comunismo nell’europa occidentale (era più vicino a Lenin); ● Stalin desiderava il socialismo in un solo Paese, la Russia, che doveva consolidare il comunismo ponendosi come modello alternativo al capitalismo (considerato da Lenin rozzo, brutale). Stalin riuscì ad avere la meglio sull’opposizione trockista, che era arrivata a denunciare il suo segretariato come una dittatura impostasi sulla democrazia operaia della rivoluzione. Trockij fu oggetto di una virulenta campagna denigratoria e fu deposto dal comando dell’esercito; nel 1927, all’apice dello scontro politico, fu espulso dal partito e due anni dopo mandato in esilio: non rientrò più in Unione Sovietica e fu assassinato in Messico da un sicario nel 1940. Il comunismo di guerra fu abbandonato perché i contadini producevano solo per sé e non potevano commerciare, con la Nep invece si poteva commerciare. Nell'intento di invertire la tendenza alla collaborazione con i Nepmen, cioè quanti si erano avvantaggiati della Nuova politica economica, Stalin ricorse alla Gosplan, una Commissione statale per la pianificazione. Nel 1927 il segretario comunista affidò alla commissione la stesura di un piano d'intervento quinquennale, con l'obiettivo di trasformare l'economia sovietica da agricola a industriale perché si riteneva che L’Unione Sovietica dovesse essere al passo con l’industrializzazione occidentale e anche superarla, potendosi così ritenere al sicuro da ogni minaccia esterna. Per raggiungere il suo obiettivo, Stalin articolò tre piani quinquennali di produzione, al termine dei quali l'economia avrebbe dovuto essere rigidamente centralizzata. Il primo piano quinquennale dell'economia sovietica fu messo in atto negli anni 1928-1932. Dal 1928 al 1940, la programmazione dello sviluppo dell'Urss fu guidata dal Gosplan, che decideva quali beni dovevano essere prodotti, in quali quantità e da quali fabbriche, in quali proporzioni per il mercato interno e per l'esportazione, a partire da quali risorse e materie prime, secondo una valutazione preventiva degli interessi generali della collettività. Il piano di industrializzazione fu un successo: alla fine degli anni Trenta l’Unione Sovietica era diventata la seconda potenza industriale del mondo. L’industria fu tuttavia orientata in modo quasi esclusivo ai settori pesanti, perciò non produceva sufficienti beni di consumo e il potere di acquisto degli operai era molto scarso a causa della compressione dei salari: il loro tenore di vita era, di conseguenza, molto basso. L’agricoltura rimase invece arretrata dal punto di vista tecnico e continuò a produrre meno di quanto sarebbe stato necessario a soddisfare il fabbisogno alimentare del Paese. Anche quando la collettivizzazione delle campagne fu completata e ogni opposizione dei contadini vinta, la produzione agricola rimase inadeguata. Sia le aziende agricole che quelle industriali, d'altronde, erano poco innovative; mancando la competizione interna e sul mercato internazionale, non si presentavano validi motivi per ammodernare i processi produttivi e introdurre pratiche piú redditizie. In assenza di qualunque incentivo aziendale o individuale, la produttività degli operai era scarsa, molto al di sotto di quella degli statunitensi e dei tedeschi. Quest'ultimo tratto rimase costante a dispetto del diffondersi del movimento «stachanovista», diffuso tra operai e fabbriche che esprimevano attraverso il lavoro la piú alta dedizione al regime. Aleksej Stachanov, minatore nella regione del Donbass, alla metà degli anni Trenta divenne un simbolo del lavoratore sovietico ideale, battendo ripetutamente i record individuali nell'estrazione del carbone durante un turno di lavoro: lo stachanovismo divenne un modello seguito in tutta l'Urss e ampiamente propagandato dal regime. Ben presto tuttavia i grandi sacrifici e il basso livello di salari e consumi alienarono molti consensi al governo anche da parte delle masse operaie: lo stalinismo ricorse dunque ai più brutali strumenti della dittatura per mantenere saldo il proprio potere. Alla fine del 1929 Stalin intraprese un'azione di per trasformare l'agricoltura, applicando la stessa rigida pianificazione utilizzata per il settore industriale. Per superare la piccola produzione agraria e gli interessi privati nelle campagne, il governo sovietico lanciò una battaglia contro i contadini agiati, i kulaki, e avviò la costituzione di grandi aziende agricole collettive, i kolchoz (aziende cooperative che riunivano più contadini tenuti a mettere in comune i mezzi di produzione e a consegnare allo stato una parte considerevole del loro raccolto) e i sovchoz (imprese gestite dallo Stato). I piccoli proprietari terrieri dovettero quindi essere costretti con la forza a trasformarsi in lavoratori delle fattorie collettive. Per ostacolare l'attività degli inviati del governo, molti contadini si rifiutarono di seminare, per non dover poi consegnare il prodotto alle aziende collettive, arrivarono a uccidere il proprio bestiame e a intimidire e picchiare i commissari di Mosca. Di fronte alla ribellione delle campagne, Stalin decise di dispiegare l'esercito e almeno due milioni di kulaki vennero deportati e costretti ai lavori forzati. L'opposizione dei contadini fu comunque tale che la produzione agricola non solo non aumentò, ma nei primi anni tornò addirittura al di sotto dei dell'argomento della “Vittoria mutilata”. Anzi, la felice e pacifica conclusione della vicenda di Fiume aveva il plauso delle maggiori potenze europee. L'Italia aveva rafforzato i suoi rapporti con l'Austria. Di fronte alla notizia di un tentato colpo di stato nazista nel 1934, durante il quale il cancelliere austriaco fu ucciso, Mussolini decise di inviare al confine italo-austriaco quattro divisioni per fermare Hitler ed evitare l'annessione dell'Austria alla Germania, espressamente proibita dagli accordi raggiunti alla conferenza di pace di Parigi. L'intervento a difesa dell'Austria era coerente con la politica di collaborazione con Francia e Regno Unito che l'Italia aveva intrapreso. Essa culminò nell'accordo in funzione antitedesca raggiunto dalle tre potenze. L'intesa, sulla scia degli eventi austriaci, ● riaffermava i punti del patto di Locarno del 1925, ● garantiva l'indipendenza dell'Austria messa a rischio dai nazisti, ● sosteneva che i firmatari avrebbero reagito a nuove violazioni del Trattato di Versailles da parte della Germania. Confidando nel tacito assenso di Francia e Regno Unito, Mussolini decise di dare alla politica estera italiana una svolta aggressiva, riprendendo l 'antico disegno crispino nel Corno d'Africa. Tra l'ottobre 1935 e il maggio 1936, in circa 7 mesi, l'esercito italiano attaccò e conquistò l'Etiopia. La guerra rischio di diventare una campagna di logoramento, a causa della guerriglia messa in atto dagli etiopi, perciò gli italiani ricorsero all'uso dei gas e dei bombardamenti aerei anche contro i civili. Sconfitta la resistenza etiope, Mussolini annunciò la nascita dell'impero dell'Africa Orientale italiana. La propaganda diffuse immediatamente la notizia che il fascismo aveva sottomesso l'ultimo grande paese indipendente d'Africa e rinverdito i fasti di Roma antica. Come Mussolini aveva auspicato, Francia e Regno Unito si dimostrarono sostanzialmente accomodanti, e il capo del governo italiano poté rivendicare di aver riportato l'Italia al ruolo di grande potenza. L'unica reazione contraria all'azione italiana fu espressa formalmente dalla Società delle Nazioni che colpì con l'embargo (si vieta il commercio di una serie di merci con una nazione). Le sanzioni economiche si dimostrarono però del tutto inefficaci: l’embargo non comprendeva materie prime essenziali come l'acciaio e il petrolio e non vi aderirono Germania e Stati Uniti, che continuavano a rifornire l'Italia. Mussolini denuncio l'ostilità della Società delle Nazioni come prova della volontà delle potenze democratiche di impedire all'Italia di guadagnarsi il posto che meritava nel consesso internazionale, rinsaldando il fronte interno. Reagendo all'embargo sul piano simbolico, il duce lanciò una campagna il nome dell'autarchia, invitando gli italiani a consumare solo merci nazionali e a produrre di più per avvicinarsi all'obiettivo dell'autosufficienza alimentare e manifatturiera, ponendo già l'Italia nella prospettiva di un'economia di guerra. In quello stesso 1936, inimicatosi le democrazie liberali con l'attacco all’Etiopia, Mussolini ricercò l'alleanza con Hitler: il 25 ottobre 1936 sottoscrisse il cosiddetto asse Roma Berlino, un'intesa di natura ideologica e politica tra dittature di destra che condividevano l'aspirazione a una revisione dei Trattati di Pace, l'orientamento antidemocratico e l'opposizione alla politica dei fronti popolari. L'avvicinamento alla Germania portò a una tendenza discriminatoria e razzista in precedenza assente nell'ideologia del regime, che emerse anche in relazione alle questioni derivanti dalla conquista dell'Etiopia, dove presto si pose il problema della purezza della stirpe. Il governo italiano vietò ogni forma di relazione sessuale e affettiva e i matrimoni misti. La politica fascista passò dunque dalla concezione ottocentesca del razzismo di dominio, cioè la convinzione che la conquista e il colonialismo fossero giustificati dall’inferiorità dei popoli, al razzismo di eliminazione, ossia la posizione secondo la quale l'inferiorità dell'altro giustifica la sua esclusione della vita collettiva o, al limite, la sua eliminazione. L’antisemitismo fascista fu messo in atto nel 1938 attraverso i “Provvedimenti per la difesa della razza”: gli appartenenti alla razza ebraica, identificati su base biologica e non religiosa, furono indicati come persone da discriminare. Gli insegnanti furono sospesi nelle scuole e gli studenti furono costretti a iscriversi a scuole separate. Una norma ampliò i divieti, rendendo illegali le nozze tra ariani e appartenenti a altre razze. Fu vietato loro l’esercizio di molte professioni e, infine, tra il 1943 e il 1945 anche gli ebrei italiani subirono la persecuzione razziale finalizzata al loro sterminio. Mussolini e il regime accoglievano il larghissimo consenso degli italiani; fare propaganda contraria appariva così uno sforzo vano e pericolosissimo. La maggior parte degli antifascisti rimase quindi semplicemente in attesa degli eventi, sperando che il duce compisse qualche passo falso o che le condizioni della politica internazionale cambiassero. ● Tra i liberali, il principale oppositore del fascismo fu Benedetto Croce, dichiaratamente contrario al regime a partire dal delitto Matteotti e promotore del “Manifesto degli intellettuali antifascisti”; ● Tra i cattolici, Don Luigi Sturzo riparò all’estero, mentre Alcide De Gasperi fu costretto a rifugiarsi in Vaticano, dove lavorò per tutti gli anni Trenta come bibliotecario; ● Tra i democratici, Carlo Rosselli fondò il movimento di Giustizia e Libertà, che si pose come obiettivo l’insurrezione popolare contro il fascismo e la nascita di una repubblica democratica. Fu ucciso da dei sicari; ● L’opposizione al regime più attiva venne dai comunisti. Ricostituito il partito all’estero, essi crearono in Italia, con il grande sacrificio dei militanti, una fitta rete di cellule clandestine, diffusa in tutto il centro-nord della penisola, ma non procurò loro l’appoggio attivo. Il maggior esponente in questa fase fu Antonio Gramsci. Incarcerato nel 1926 e condannato a vent’anni di detenzione, morì in prigione nel 1937. Il movimento trovò allora il suo leader in Palmiro Togliatti, anche lui tra i fondatori del Partito comunista, espatriato nel 1926 in Unione Sovietica. Il movimento antifascista si riverlò profondamente diviso tanto sulle responsabilità dell’avvento del regime quanto sulla linea d’azione da seguire. LA GERMANIA L’impianto ideologico del nazismo fu elaborato da Hitler durante i mesi di carcerazione a causa del tentato Putsch di Monaco del 1923, nei quali si dedicò alla stesura del “Mein Kampf”, il manifesto del movimento. Hitler aveva teorizzato una società politica basata sul concetto di Volk, “popolo”: lo Stato era da lui concepito come una “comunità di popolo” fondata sulla purezza biologica, cioè sulla razza dei suoi appartenenti. La condizione imprescindibile per rinnovare la potenza della Germania era a suo parere l’omogeneità razziale dei tedeschi, che considerava i più diretti discendenti degli “ariani” (Fichte, “Discorso alla nazione tedesca” : superiorità del popolo tedesco sulla lingua e sulla cultura e non per quanto riguarda la razza). Il diffondersi del nazionalismo e del razzismo accreditò questa tesi. Il razzismo coloniale secondo cui “l'uomo bianco” aveva il diritto di dominare sui “popoli inferiori” per civilizzarli fu quindi sostituito dal razzismo di discriminazione ed eliminazione del sub-uomo. Si diffuse un’immagine pseudoscientifica dell’uomo ariano alto, biondo e con gli occhi azzurri superiore agli slavi (razza adatta solo al lavoro servile) e alla razza ebraica, considerata una debolezza per la Germania perché molto numerosa ed essi erano associati sia ai comunisti sia all’alta finanza che vuole controllare il mondo con le banche (capitalismo; iper-semplificazione della realtà, contraddittorio). Il progetto di purificazione della razza ariana coincideva con il ricongiungimento all’interno dei confini della Germania di tutte le popolazioni di lingua tedesca e la conquista di uno “spazio vitale”. Questo piano prevedeva l’eliminazione non solo degli ebrei, ma anche degli slavi. La Germania avrebbe in questo modo rafforzato i propri confini orientali, difendendosi da qualunque possibile tentativo espansionistico del comunismo bolscevico. Hitler divenne cancelliere nel gennaio del 1933 e chiese a Hindenburg lo scioglimento immediato del Reichstag (Parlamento tedesco) e nuove elezioni. Appena pochi giorni prima delle consultazioni, l’edificio del Parlamento andò distrutto in un incendio. I nazisti attribuirono la responsabilità a un comunista olandese che, dopo aver confessato sotto tortura, venne condannato a morte. Ciò spinse Hindenburg a firmare un decreto di urgenza che sospendeva i diritti dei cittadini e consentiva arresti arbitrari. I seguaci di Hitler ne approfittarono per scatenarsi in violenze contro tutti gli oppositori. In questo modo, Hitler ottenne l’appoggio di cattolici e liberali (lo credevano un garante dell’ordine e credevano di poter controllarlo) per il varo di una legge che gli conferì i pieni poteri per quattro anni, cancellando la democrazia tedesca. Da quel momento ci fu il rapidissimo adeguamento delle istituzioni agli obiettivi e alle idee del nazismo. Il programma nazista si attuò attraverso le seguenti misure: ● la Costituzione fu sospesa; ● i sindacati furono sciolti e tutti i partiti politici, a eccezione di quello nazista, aboliti; ● i governi e i parlamenti dei Lander (stati federali in Germania) furono sciolti a favore dell’accentramento amministrativo e politico; ● la magistratura fu asservita al regime e si mostrò subito pronta nell’emettere sentenze di morte contro gli oppositori del nazismo; ● gli elementi sgraditi furono espulsi dall’amministrazione pubblica. Quando Hindenburg morì, Hitler assunse per decreto anche la carica di presidente, diventando così il capo del Paese, del governo e delle forze armate. Affermando che il titolo di presidente della repubblica era indissolubilmente legato al nome dell’amato defunto (Hindenburg), dichiarò che servirsene sarebbe stato oltraggioso. (Parallelismo con ciò che è avvenuto in Italia ma a differenza di Mussolini, Hitler rimane solo al potere). La carica di presidente fu dunque sostituita dal titolo di Fuhrer. I tedeschi confermano con un plebiscito questa decisione: da allora egli fu per la Germania il capo del Terzo Reich (1- sacro romano impero fino a quando napoleone lo scioglie nel 1806; 2- impero di guglielmo dal 1871 alla fine della prima guerra mondiale). Nel 1934 Hitler si liberò anche di ogni possibile avversario interno al nazismo. A preoccuparlo era l’indipendenza delle SA (Squadre d’Assalto), formate da persone di ceto inferiore e più estremiste, contrapposte all’esercito regolare. Il Fuhrer ne ordinò quindi l’eliminazione violenta: il 30 giugno 1934, nella “notte dei coltelli” centinaia di commilitoni furono sommariamente uccisi dalle SS di Himmler. Negli anni del regime, le SS diressero la Gestapo, la polizia segreta, ed ebbero il controllo dei campi di concentramento. Nei Lager furono costretti ai lavori forzati gli oppositori politici, gli zingari, gli omosessuali, gli obiettori di coscienza, i vagabondi e i testimoni di Geova: chiunque non si uniformasse ai dettami del nazismo. Una volta acquisito il pieno potere, Hitler diede avvio alla discriminazione degli ebrei. Nel 1935, con le “Leggi di Norimberga”, gli ebrei furono definiti “razza inferiore” dal punto di vista biologico e sociologico. Le leggi privarono gli ebrei della cittadinanza e del diritto di voto, vietarono loro la pratica professionale, furono espropriati dei loro beni, si videro imposti pesanti limiti alla libertà di movimento, furono impediti i matrimoni misti (provvedimenti eugenetici). Le leggi di Norimberga limitavano anche i diritti dei cittadini tedeschi che non dimostravano di voler servire fedelmente il Reich. La violenza antisemita esplose nella “notte dei cristalli” tra il 9 e il 10 novembre 1938: furono dustrutti numerosi esercizi commerciali di proprietà ebraica e incendiate centinaia di sinagoghe. In tutta la Germania ebrei furono
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