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riassunto responsabilità e giudizio, Sintesi del corso di Filosofia morale

riassunto più integrazione di ciò che è stato detto durante le lezioni del libro responsabilità e giudizio

Tipologia: Sintesi del corso

2022/2023

Caricato il 12/07/2023

federica_grillo
federica_grillo 🇮🇹

4.4

(20)

13 documenti

Anteprima parziale del testo

Scarica riassunto responsabilità e giudizio e più Sintesi del corso in PDF di Filosofia morale solo su Docsity! Prologo Il prologo di questo libro coincide con il discorso pronunciato per l’accettazione del Premio Sonning nel 1975, ultimo anno della vita di Hannah Arendt. Questo premio le viene assegnato dai danesi per aver contribuito al rafforzamento e all’ampliamento della cultura europea. Hannah Arendt si chiede in questo istante se sia davvero lei la persona che gli altri dicono che sia, si chiede se davvero abbia contribuito allo sviluppo del pensiero della cultura europea, secondo lei no ma comunque dichiara di non essere nessuno per potersi auto giudicare per cui accetta questo premio e lo accetta soprattutto perché le viene consegnato dai danesi, l’unico popolo che si è opposto alle politiche razziali messe in opera dai nazisti nel 1940. Una prima problematica Hannah Arendt la riscontra nel fatto che la stavano premiando per aver contribuito allo sviluppo del pensiero della cultura europea nonostante lei sia andata via proprio nel momento in cui la cultura europea stava diventando una cultura basata sulla violenza, una cultura che aveva decretato lei e tutti gli ebrei come non degni di esistere. Lei pensa che quel che ha fatto è essersi semplicemente sottratta a quella cultura scegliendo un altro universo culturale e morale: quello degli Stati Uniti. Ha scelto di emigrare negli Stati Uniti perché lì non governavano gli uomini ma governavano le leggi. Cosa che non si poteva dire dell’Europa del tempo. Nell’Europa da cui lei scappa non erano le leggi a governare perché l’unica legge veniva formulata dalle parole del Fuhrer, tutto quello che usciva dalla bocca del Fuhrer aveva immediatamente valore legislativo. Hannah Arendt non ha mai coltivato quel sentimento di appartenenza e di nostalgia legato al luogo da cui lei proveniva (Germania) ma ciò a cui teneva molto era la lingua madre ovvero l’unica lingua che potesse rispecchiare la sua stessa identità. È come se dicesse che il luogo in cui è nata non è la Germania ma bensì la lingua madre. Si sente cittadina europea perché è nata nel tedesco ovvero una lingua europea. Nessuno aveva mai detto una cosa simile prima. La cosa migliore è non pensarsi cittadini appartenenti ad una nazione ma considerarsi legati ad una lingua madre che ci permetta di dire quelle cose che pensiamo e che è frutto del dialogo tra me e me. Sia in Europa che negli Stati Uniti, però, gli apparati di governo stavano per conformarsi sempre più all’idea di essere semplici apparati burocratici. Il calcolo algoritmo fornito dalle macchine computerizzate orienta le scelte in modo talmente massiccio da mettere in pericolo la stessa libertà delle persone. Ai tempi in cui Hannah Arendt fuggì tutto questo ancora non era all’ordine del giorno, la politica ancora non conosceva i pericoli della grandezza smisurata associata alla tecnocrazia termine con cui la Arendt intende il potere della tecnica e il giorno in cui le macchine determineranno la condotta umana. Ordinario fu l’insieme di popoli europei che si conformarono alle politiche naziste ad eccezione di un piccolo pese romagnolo e della Danimarca che andarono contro qualsiasi volontà di deportazione di alcuni loro cittadini. La Danimarca è uno degli esempi che secondo Hannah Arendt andrebbe studiato in tutte le università poiché per la prima volta l’esercizio del potere sovrano non ricorre alla violenza ma alla pura manifestatività dell’azione e della parola nel momento in cui i danesi pur essendo stati invasi e pur avendo ricevuto l’ordine da parte dei nazisti di consegnare tutti gli ebrei presenti sul loro territorio si sono rifiutati poiché queste persone non avevano più patria e dunque non potevano più essere rivendicati. I danesi ovviamente non erano diversi dai cittadini di altre nazioni, anche loro erano restii all’accoglienza, anche loro non davano il permesso di soggiorno a chiunque arrivasse però il diritto d’asilo era un qualcosa che regolava i rapporti tra le nazioni. Se qualcuno diceva di essere un perseguitato politico o religioso in quanto nazione avevano il dovere di accoglierlo senza nessun tipo di discussione. È questa la cosa che colpisce la Arendt: un atto performativo radicato in una lingua istituzionale e in una nazione specifica che sancisce un limite alla violenza altrui e un limite anche alla violenza interna. Hannah Arendt sembra identificare l’interlocutore proprio sulla base della teoria politica e morale che lei aveva delineato nell’opera “Vita Activa – La condizione umana”: sei veramente uomo quando agisci e quando parli e i danesi sono stati effettivamente all’altezza di quello che viene chiesto all’essere umano. Hannah Arendt non amava definirsi filosofa perché preferiva considerarsi portatrice di processi di pensiero: una pensatrice, ovvero qualcuno che nell’opzione tra agire e pensare sceglie di pensare. Nell’linguaggio di Vita Activa è qualcuno che preferisce il “Theos politikos” cioè la vita contemplativa. Questa sua scelta si radica, in realtà nel suo destino, in quello che lei ha conosciuto quando è dovuta andare via dall’Europa: negli anni ’30 a dominare era quella che Heidegger chiamava “il mann” quella particella tedesca che indica il “si” impersonale italiano e con cui si definiva la mentalità media <<faccio quello che fanno tutti>> ed è quella specie di maschera che serve a coprire una incapacità di entrare in rapporto con sé stessi, quello che noi ad oggi chiamiamo conformismo: pensare quello che pensano tutti. La classe dirigente degli anni ’30 si comportava esattamente così e Arendt vedeva tutti i suoi amici e tutte le persone che più stimava trarsi fuori dal campo in cui sarebbe stato necessario riflettere e trovare quel pensiero che permettesse di disattivare l’etica inautentica del “si”. In definitiva quello che ha scelto per lei è la posizione di spettatrice, colei che guarda ai fenomeni e cerca di distillare il loro senso. Dunque, non ama manifestarsi al centro della scena anche se al momento di questo discorso, durante la premiazione, lo era. A questo punto Hannah Arendt, dopo aver parlato di sé stessa, ammette di aver avuto una crisi di identità quando le è arrivata la notizia di aver ricevuto un premio facendo allusione al tema del riconoscimento messo al centro da Hegel nella propria costruzione concettuale. Egli aveva scritto nella “Fenomenologia dello Spirito” che gli esseri umani sono coloro che desiderano essere conosciuti da un altro essere umano, il loro desiderio più profondo è che un’altra autocoscienza lo accolga e lo riconosca come un centro di iniziativa libera, come una coscienza. È come dire che il riconoscimento sia il luogo in cui si scopre che il desiderio è il desiderio di essere desiderati. Hannah Arendt ovviamente afferma che non dobbiamo assolutamente credere a questa faccenda perché l’uomo non è legato al desiderio di essere riconosciuto ma rimane legato all’azione, alla capacità di dare inizio a qualcosa di nuovo. Intanto però lei vive questo premio come se fosse un’intrusione ma lo accetta di buon grado e lo vede come un dono della sorte anche se lei non crede alla fattispecie per cui ci sono degli dei che governano le nostre azioni ma crede alla casualità e cioè che ci siano delle cause che producono determinati effetti; quindi, quando convoca la sorte sta dicendo che prende questo premio come un colpo di fortuna e si mette nei panni dei personaggi dell’antica Grecia ovvero coloro che commettevano degli errori o delle azioni virtuose ma lo facevano a loro insaputa: si pensi ad Edipo che va a letto con la madre ed uccide il padre ma non lo sa però gli dei lo puniscono ugualmente e noi ci chiediamo che colpa avesse Edipo poiché aveva incontrato un mendicante per strada che lo perseguitava e lo ha ucciso e soltanto dopo ha scoperto che fosse suo padre e che soltanto dopo il matrimonio ha scoperto che la donna che aveva sposato fosse sua madre e infatti nel momento in cui lo scopre si strappa gli occhi. Questo vale anche per l’elemento positivo, quando si fanno delle buone azioni le si fanno affinché si produca una nuova possibilità senza sapere di farlo e gli dei premiano. Non bisogna però dimenticare che gli dei sono sempre ingannatori ed ironici, esempio ne è Socrate il quale ci aveva avuto a che fare molto da vicino poiché gli dei, tramite l’oracolo di Delfi, gli avevano detto che lui 2) Un sistema totalitario entra nel privato delle persone. Lo sguardo e la parola del Fuhrer potevano arrivare direttamente nel luogo di residenza dei cittadini attraverso la radio. La voce del Fuhrer invadeva i privati e costituiva quell’opinione pubblica comune che si sovrapponeva alle opinioni personali. Insomma quello a cui Hannah Arendt vuole arrivare è il fatto che chiunque non si ritirasse dalla vita pubblica non poteva che essere coinvolto personalmente nel sistema che si era venuto a creare. Di fronte a questo tipo di diagnosi scattano altri argomenti simili ma con delle sfumature differenti di un certo interesse come l’argomento del male minore ovvero ci si allineava perché se non lo avessero fatto si sarebbe prodotto qualcosa di peggio. Questo, per Arendt, significava abdicare ad ogni forma di giudizio perché l’accettazione del male minore è già un’accettazione del male infatti quell’operazione che fu chiamata “soluzione finale” fu preceduta da una serie di tanti piccoli fatti: dalla Notte dei Cristalli fino alla privazione dei diritti politici e alla messa al bando degli ebrei. Queste azioni sono state accettate come mali minori ma hanno condotto poi al male peggiore. Se non fosse stato accettato il male minore forse non sarebbe accaduto ciò che vigeva nei campi di sterminio. In definitiva coloro che scelgono il male minore sono troppo disponibili a dimenticare che comunque stanno scegliendo il male. In fondo i tedeschi pensavano che i campi di sterminio fossero campi di lavoro. Auschwitz era un campo situato in una cittadina polacca i cui abitanti non avrebbero mai immaginato, malgrado l’evidenza delle ciminiere e degli odori strani, che lì si sterminavano persone e che si facesse in modo che non vi fosse memoria. Per cui la questione del giudizio è complicata ed è più facile convincere gli uomini a comportarsi malissimo in modo inspiegabile e oltraggioso, continuano la loro vita seguendo normali stili di esistenza, malgrado Aushwitz accanto a loro e malgrado sapessero che lì stava accadendo qualcosa di sinistro, piuttosto che giudicare e pensare veramente. Insomma ciò che accadde con i regimi totalitari è che l’intero apparato svolse attività che normalmente verrebbero giudicate criminali quindi non era più l’atto criminale a costituire l’eccezione alla regola ma erano gli occasionali atti non criminali a costituire l’eccezione alla legge nazista. Tutto ciò che era accaduto nel quadro di un ordine giuridico legale era la trasformazione dell’imperativo “non uccidere” in un imperativo “uccidi”. Fu qualcosa che si produsse progressivamente. Alcuni hanno pensato, per giustificare quelle atrocità, che si trattasse di economia di guerra e quindi si sfruttava la forza lavorativa del nemico ma in realtà innanzitutto gli ebrei non erano un nemico e in più quel lavoro distruggeva e basta. “Il lavoro rende liberi” era ciò che si leggeva sul cancello del campo di sterminio ma era una delle beffe più atroci fatte a coloro che vi entravano. Durante il processo Eichmann Hannah Arendt segue anche le argomentazioni dell’avvocato dell’imputato il quale ad un certo punto dice una frase intollerabile: <<tutto quanto era successo ad Aushwitz e negli altri campi di sterminio era una faccenda mendica>>, questa frase terribile mostra come in effetti la morale cambia da un momento all’altro proprio come quando cambiano i modi di apparecchiare la tavola. Possiamo concludere il discorso su questo saggio con due domande specifiche: 1) Come è stato possibile che alcuni non abbiano collaborato? Se guardiamo a coloro che non si allinearono come ad esempio i tre prof. che scelsero di non indossare la camicia nera; come coloro che facevano parte del regime nazista ma provarono a sottrarsi ai compiti che quell’ordine imponeva loro. In questi soggetti si attivò la facoltà di giudizio ovvero incominciarono a dialogare con sé stessi. Quando pensiamo siamo due-in-uno, momento in cui c’è sempre un dibattito tra me e me. Da certi punti di vista è meglio patirlo il male piuttosto che farlo perché se lo si patisce ci si può distanziare da colui che ce lo vuole infliggere ma se siamo noi stessi a fare del male quello che accade è che dovremmo vivere legati al corpo di qualcuno che si è reso protagonista di qualcosa di intollerabile. L’intelligenza e la cultura non garantiscono assolutamente nulla anzi alcuni dei soldati tedeschi più erano colti e più tendevano ad essere disponibili a rispondere ai comandi. Non c’è cultura che ci possa difendere dal peggio anzi da certi punti di vista la cultura è addirittura complice del peggio, la cultura sta sempre dalla parte dei vincitori. Per dire no non è necessario raggiungere alti livelli di formazione intellettuale ma è necessario attivare quel dialogo con noi stessi. 2) Come sia possibile che la maggior parte delle persone furono convinte che fosse loro dovere la collaborazione e l’allineamento? La maggior parte delle persone erano convinte che l’obbedienza fosse una virtù. In quest’idea, dice Hannah Arendt, c’è un equivoco perché l’obbedienza è un’altra cosa. L’illuminismo di Kant è la condizione nella quale l’uomo esce da una situazione di minorità e siamo noi gli unici responsabili delle nostre azioni. La Arendt dice che l’obbedienza come tale non può essere considerata una virtù morale e le ragioni per cui siamo stati portati a pensare questo vanno cercate nella tradizione di pensiero politico occidentale. Coloro che pensavano che l’obbedienza fosse una virtù erano Platone e Aristotele i quali affermavano che ci siano dei governanti e dei governati e finché esistono queste posizioni l’obbedienza è una virtù politica. Questa tradizione di pensiero è metafisica e deve essere disattivata perché dobbiamo essere consapevoli che prima di questa tradizione filosofica è esistita una pratica della democrazia la quale affermava che la virtù politica non stava nell’obbedire ma stava nell’agire, nel manifestarsi in assemblea, sta nel parlare, nel dare inizio a qualcosa di nuovo e nel collaborate con le azioni degli altri. In conclusione viene ripresa la posizione kantiana: “osa sapere”, “esci dallo stato di minorità”, se si continua ad obbedire allora ancora non si è usciti dallo stato di minore età. Una persona ha il diritto di non collocarsi a quel livello di allineamento per cui dovrebbe obbedire ad ordini ingiusti e criminosi. Alcune questioni di filosofia morale I. Queste conferenze “Alcune questioni di filosofia morale” sono state tenute a New York e Chicago tra il 1965 e il 1966, periodo in cui viene a mancare una personalità politica estremamente rilevante per l’epoca della Seconda Guerra Mondiale che fu Winston Churchill ovvero il primo ministro inglese all’epoca in cui l’intera Europa era sotto il tallone dell’esercito nazista. Un personaggio che aveva dietro di sé soltanto sconfitte sia di tipo politico che militare a cui viene chiesto continuamente di entrare in rapporto con il regime hitleriano ma la risposta di Churchill era sempre e solo assolutamente no. Hannah Arendt inizia il suo discorso proprio riferendosi a quest’uomo perché egli aveva capito perfettamente che ciò che stava accadendo era una cosa che non aveva precedenti e che non era mai accaduto prima e già dagli anni ’30 Churchill aveva come l’impressione che l’impossibile stesse diventando moneta corrente. Quello a cui si era stati educati a ritenere non attuabile è accaduto. Tutti i valori culturali che venivano considerati vitali si sono dimostrati molto più fragili di quanto si potesse pensare. Questa dichiarazione è in linea con il pensiero di Hannah Arendt la quale si era accorta che le questioni morali, ovvero usi e costumi, possono cambiare all’improvviso cosi come possono cambiare da un giorno all’altro le regole di apparecchiare la tavola. Hannah Arendt, a questo punto, si chiede come è stato possibile che gli usi e i costumi cambiassero in una maniera così vertiginosa? A tal proposito convoca il pensiero di Nietzsche il quale afferma che tra la vita e l’azione sia meglio la vita indicandola come valore assoluto questo perché in realtà l’uomo è soltanto un ponte tra l’animale e il superuomo. Il ponte indica uno stato transitorio che deve portare gli esseri umani alla consapevolezza di essere artefici del proprio destino in maniera assoluta in conseguenza del fatto che Dio è morto e quindi non esistono più valori. Per Nietzsche è la vita di qua giù da rispettare perché non esiste un lassù. Arendt diffida dalla prospettiva nicciana e afferma che dire che la vita è il valore supremo non risolve i problemi. La convocazione delle figure di Churchill e Nietzsche, però, indicano entrambe la deposizione delle rappresentazioni morali tradizionali. L’essenziale, però, per Arendt resta come sia potuto accadere l’impossibile: c’è stato un fondamentale livello di collasso sul piano delle tradizioni storico-culturali e morali che ha reso possibile la soluzione finale e potrebbe continuare ad essere possibile. Se non si risolve il problema di cosa sia la morale in realtà dietro l’angolo potrebbe esserci sempre un Aushwitz; esempio ne sono le guerre slave degli anni ’90 che furono scandalose proprio perché al centro dell’Europa di nuovo alcuni facevano pulizia etnica. Il tema della morale, dunque, è stato obliterato dal modo in cui è stato affrontata la questione del campo di sterminio, si reagiva come filologi dell’orrore. Negli anni ’80 c’erano alcuni storici che addirittura dicevano che il campo di sterminio non era mai esistito e il tema è ritornato attuale soltanto nel momento in cui è stato necessario istituire dei processi contro le persone accusate di essere responsabili di quell’evento. I processi sono esattamente il luogo in cui si esercita la morale nel senso che si presuppone che ci sia sempre una responsabilità personale e non collettiva. Se prima le cose morali andavano da sé a partire dalla fine della seconda guerra mondiale questa affermazione viene messa in crisi perché la morale non andava più da sé, tutto venne modificato dalla condizione che si era prodotta. Infatti molte pagine di questo saggio sono dedicate a Kant il quale affermava che la morale andava da sé e consiglia di fare ciò che la voce della nostra coscienza ci dice. Il sapere morale va da sé perché l’imperativo categorico altro non è che uno strumento che ci permette di orientarci in cose che noi già sappiamo perché sentiamo dentro di noi quella voce che ci chiede di fare delle cose in cui la motivazione che ci porta a farle possa essere adottata da chiunque oppure bisogna agire sempre in modo da trattare l’umanità come fine e mai come mezzo. L’uomo deve imparare a porre la voce degli istinti alla voce razionale. Il fatto che questa non possa accadere si chiama male radicale. Il male è radicale perché abbiamo due fonti: la sensibilità e la ragione e tal volta preferiamo assecondare la sensibilità piuttosto che la ragione mentre dovremmo fare il contrario ma questo non significa fare del male perché piace fare del male ma si fa il male in nome delle nostre inclinazioni sensibili e dei nostri desideri, per assecondare quella parte sensibile del nostro essere. Nessuno vuole essere cattivo di sua volontà perché in fin dei conti si troverebbe in contraddizione con sé stesso ma questa contraddizione non impedisce che il male venga fatto. Kant sapeva bene che il disprezzo verso sé stessi spesso non funziona e si spiegava questo fatto sostenendo che l’uomo può anche mentire a sé stesso. Disprezzare vorrebbe dire non avere stima di sé stessi e perdere l’autostima vorrebbe dire non avere la possibilità di rispettare ciò che fa di me un essere umano. Anche Eichmann durante il processo disse che Kant gli aveva insegnato che bisogna obbedire alla legge quindi se la legge era quella formulata dal Fuhrer allora lui non ha fatto altro che essere kantiano. A questo punto la Arendt afferma che Kant debba essere riguardato perché c’è un equivoco nel momento in cui egli usa la parola “legge” come se si trattasse di obbedire a una regola morale mentre si tratta semplicemente di obbedire a sé stessi in quanto dotati di una razionalità umana che è condivisa si deteriora qualcosa che ha a che vedere con le fondamenta del nostro essere umani. La cosa più tremenda per un criminale è dimenticare di aver fatto del male e non pensarci più perché in definitiva vuol dire che ha interrotto quel dialogo con sé stesso. Pensare e ricordare hanno qualcosa in comune perché il ricordo è ciò che si radica dentro al pensiero, istituisce una zona di continuità tra ciò che si era e ciò che si è impedendo la possibilità di una ripetizione. Se si compie di nuovo la stessa azione è perché, come sosteneva Freud, si è preda di una pulsione non volontaria e si continua a ripetere quell’azione perché non si sa quel che è stato fatto per cui la si rifà nuovamente. Certo, dice Arendt, senza dubbio ci si può rifiutare di ricordare ma d’altro canto se viene disattivata la possibilità del ricordo tutto poi diventa possibile proprio come è diventato possibile il campo di sterminio, luogo in cui qualsiasi cosa di atroce può avvenire. Se ci si rifiuta, dunque, di ricordare ci si può trasformare in una qualsiasi creatura pronta a compiere qualsiasi atto cosi come se si dimenticasse il dolore ci si trasformerebbe in una creatura dotata di coraggio. Il tema del ricordo ci permette di fare un piccolo passo in direzione del problema che davvero interessa ad Hannah Arendt relativo alla natura del male. Da sottolineare è che <<I peggiori malfattori sono coloro che non ricordano>>, con questa frase Hannah Arendt allude, senza dubbio, all’esperienza dell’incontro con il criminale nazista Eichmann ma c’è da sottolineare anche un’altra formula ovvero quella di mettere radici e acquisire stabilità perché è come se il bene fosse radicale e il male no, è come se il male non avesse radici e il bene si: con questo Hannah Arendt ci sta parlando di radici che abbiamo dentro di noi quelle radici che erano l’unica cosa che la portavano a pensare all’appartenenza all’Europa soltanto tramite la sua lingua madre cioè la lingua con cui dialoga con sé stessa. Il peggior male, dunque, non è il male radicale ma bensì quella situazione in cui una persona non ha radici in sé stessa; questo è ciò che è successo ad Eichmann il quale non aveva continuità con sé stesso poiché utilizzava parole non sue, utilizzava proverbi, luoghi comuni e che per parlare della sua esperienza passata manifestava di non avere alcun radicamento di ciò che aveva compiuto. Insomma se il male è banale è perché può accadere che un uomo deponga la propria umanità smettendo di dialogare con sé stesso. In definitiva abbiamo difficoltà a punire il male perché possiamo perdonare una persona nel momento in cui le cose cambiano e quest’ultima pulisce il crimine ma se viene testimoniato che quella persona ha disattivato il dialogo con sé stesso in realtà non possiamo perdonarla, non perdonare significa ritornare sulla cosa senza poterla compensare in nessun modo. In questa prospettiva diventa possibile capire meglio la questione dell’attaccamento a sé stessi: non si tratta di amare sé stessi come si amano gli altri ma di nutrire un maggior attaccamento verso quella compagnia che accompagna ognuno di noi poiché dobbiamo a quest’ultima più di quanto dobbiamo a chiunque altro. Il timore di perdere sé stessi è assolutamente legittimo poiché si tratta del timore di perdere la capacità di dialogare con sé stessi dove tutte le emozioni risulterebbero insopportabili. In conclusione, la teoria socratica, per cui è meglio patire il male piuttosto che farlo, in realtà dice anche che non c’è l’uomo ma c’è sempre una pluralità, c’è sempre e comunque un due anche quando siamo soli. Quello che va scongiurato ed è quello che effettivamente fa paura è l’essere abbandonato da noi stessi. Hannah Arendt racconta di come i criminali nazzisti fossero delle persone colte, leggevano poesie, ascoltavano musica che sollecitava delle emozioni profonde ma queste attività, in definitiva, non avevano niente a che fare con il pensiero perché sono attività passive. III. Nella terza parte del saggio Hannah Arendt si occupa della volontà. La morale riguarda l’individuo nella sua singolarità e irripetibilità e due fattispecie ne sono: -la solitudine: momento in cui pur essendo da sola sono comunque in compagnia di qualcuno ovvero me stessa; la solitudine e l’attività corrispondente, il pensiero, possono essere interrotte da qualcun altro che mi rivolge la parola e il due in uno che io sono diventa nuovamente uno poiché sono in compagnia di un altro io; -l’isolamento: momento in cui non sono in compagnia di nessuno, nemmeno di me stessa. Socrate credeva che quella che oggi chiamiamo morale e che concerne l’uomo nella sua singolarità potesse anche migliorare l’uomo in quanto cittadino ma alla pretesa di Socrate di migliorare i cittadini, la città rispose che in effetti egli corrompeva la gioventù di Atene. Socrate, passando il suo tempo a esaminare sé stesso e gli altri, nel tentativo di insegnare a sé stesso e agli altri come si pensa, non poteva fare altro che porre in questione ogni norma e ogni misura allora in vigore; egli intendeva scuotere antiche certezze, e l’effetto era anche quello di porre in discussione un’incondizionata obbedienza. Il pensiero è azione, ma non significa comunque agire realmente. La coscienza è un modo di sentire e non coincide con la morale, è solo conforme al contesto cioè mi sento in colpa per non aver seguito le regole. Per Socrate, il male è un agire dovuto alla mancanza di pensiero, mentre per Kant esso è compiuto in disarmonia con la legge morale. La volontà, dunque, è fondamentale per capire che cosa sia il bene. La volontà viene chiamata in causa per fare da mediante tra ragione e desiderio. Non si cede al desiderio per ignoranza o per debolezza ma bensì per volontà. La ragione, cosi come il desiderio, non bastano. La volontà è dunque l’arbitro tra ragione e desiderio. La ragione accomuna tutti gli uomini, il desiderio accomuna tutti gli esseri viventi, mentre la volontà è completamente mia. Il “Tu devi” ha come risposta sempre un “Io voglio”, infatti attraverso la legge gli uomini distinguono il giusto dall’ingiusto ma essa non raggiunge il suo obiettivo. A questo punto la Arendt cita San Paolo il quale riconosce che prima del peccato c’è la legge e nella misura in cui non ci fosse un divieto non saremmo peccatori. È della legge cha abbaiamo bisogno per sapere cosa sia giusto e cosa sia ingiusto. Da ciò deriva, dunque, la consapevolezza che in noi permane la volontà di agire nel bene ma non la capacità di attuare ciò che vogliamo. A questa situazione Paolo riesce anche a dare una spiegazione affermando che in noi vi sono carne e spirito. Se la volontà è libera, l’uomo di carne nonostante possegga la facoltà di essere libero in realtà non lo è. Con Agostino tutto ciò che Paolo aveva detto viene confermato: volere e potere non sono la stessa cosa e che se non ci fosse la volontà la legge non potrebbe dare ordini. La trappola in cui cade la volontà non riguarda la duplicità dell’uomo poiché la volontà è una facoltà della mente e il suo potere sul corpo è assoluto. Per cui la volontà è scissa in due: una volontà che comanda e una volontà che obbedisce e il desiderio nasce proprio da qui. La volontà, dunque, viene intesa come libero arbitrio che segnala la direzione per una possibile esistenza del bene, ma non come la soluzione finale poiché essa è continuamente in conflitto con sé stessa. IV. Nella quarta parte di questo saggio Hannah Arendt afferma che sicuramente dobbiamo guardare alla volontà come un qualcosa che viene scissa infatti Nietzsche dice proprio che il volere non è un requisito dell’azione perché è spaccato in due. Hannah Arendt, però, è bravissima ad estrarre un’altra lettura della volontà in Nietzsche e a piegarla in modo da arrivare laddove lei vuole: quando lei riprende il testo in mano percepisce che nella questione della volontà di potenza c’è annidata una questione di inventività, creatività ed energia. La volontà, dunque, non è una questione di comando e obbedienza ma una possibilità di istituire un’applicazione delle proprie forze e di mettere la personalità al servizio di ciò che effettivamente la qualifica. La volontà di potenza, quindi, non è volere il volere ma è in realtà un sentimento di poter fare le cose, energia. Insomma la volontà è manifestazione del desiderio indistruttibile che continua ad agire naturalmente sapendo che può produrre in noi anche cose che non vogliamo. Questa seconda interpretazione della volontà si identifica con l’azione ovvero fare in modo che la faccia del mondo possa cambiare. Non amiamo il bene perché è bene ma perché è il luogo della produzione di qualcosa. Ciò coincide con quanto sappiamo di quegli uomini che hanno speso la loro vita nel fare il bene, come Gesù di Nazareth e San Francesco d’Assisi, che non brillavano certo per l’umiltà perché in fin dei conti con le loro azioni non sono persone che obbediscono. Se cerchiamo, quindi, di individuare come si faccia il bene qui non ci vengono date indicazioni se non generiche. Bisogna, dunque, forse riguardare alla filosofia dell’800 momento in cui, Hegel prima e Nietzsche dopo, sostengono che Dio è morto e finché diremo che c’è un valore quindi Dio è morto ma c’è la famiglia oppure il denaro allora la famiglia e il denaro diventeranno i nostri dei da seguire. Nietzsche riconosce che la responsabilità deve essere pensata come un’azione da esercitare per entrare in rapporto con le azioni degli altri e produrre degli effetti di modificazione dello stato delle cose. Per avere un’ulteriore direzione Hannah Arendt convoca la moralità di Kant all’interno della critica del giudizio e infatti dice che quando ragioniamo in termini di arbitrio la funzione di comando della volontà scompare mentre quando ragioniamo in termini di spontaneità produttiva e creatività ciò che balza in primo piano è la funzione di giudizio. La volontà, stando al significato di libero arbitrio, dovrebbe essere caratterizzata dall’attitudine del disinteresse…ma l’arbitrio chi è? In origine era un uomo che si accostava a un evento come spettatore disinteressato e che proprio con questa attitudine poteva emettere un giudizio imparziale. Tutti questi, però, dice la Arendt sono problemi di storia e d’ora in poi parlerà soltanto di giudizio. Il giudizio entra in causa tutte le volte che c’è la necessità di stabilire un rapporto tra un elemento universale e un elemento particolare e in questo caso Kant dice che estrapoliamo il particolare per arrivare all’universale. C’è un’universalità che si attivi senza l’intelletto e per poterlo affermare Kant chiama in causa quello che chiama “senso comune”, quel senso su cui si fonda la comunità e quegli elementi cognitivi e sensibili che ci permettono di comunicare con l’altro. Nel momento in cui qualcuno giudica che qualcosa sia bello cerca a sua volta l’assenso degli altri, sperando che il giudizio possa avere una validità non necessariamente universale ma almeno generale. Mentre giudico tengo conto degli altri, ma ciò non vuol dire che io mi debba per forza conformare al loro giudizio, io parlo con la mia voce e non ho bisogno dell’opinione della maggior parte delle persone per poter formulare un mio giudizio. Il mio giudizio, però, non è propriamente soggettivo perché lo formulo solo tramite me stesso. Bisogna porsi il quesito se sia necessario aggrapparsi a qualcosa per esprimere un giudizio su cosa è giusto e cosa non lo sia: si e no. Dove però sono in gioco il giusto e l’ingiusto, il bene e il male, non possiamo fare lo stesso ragionamento. Il senso comune, in questo caso, può aggrapparsi a ciò che noi definiamo esempio: gli esempi sono le dande del giudizio, sono i principali cartelli stradali in campo morale. <<Meglio soffrire che compiere il male>> è una formula che ebbe successo perché Socrate ne è un esempio di condotta e di un certo tipo di scelta tra il bene e il male. Noi giudichiamo distinguendo il bene dal male attraverso alcuni eventi o persone che sono diventati degli esempi, possono essere figure del passato cosi come figure mai esistite. Hannah Arendt, inoltre, mostra come le nostre decisioni riguardo il bene e il male dipendano da chi scegliamo di (consciousness) e coscienza in senso lato (conscience). Se il pensiero attualizza la differenza scavata nella nostra identità dalla coscienza in senso stretto e mette così capo al sottoprodotto della coscienza in senso lato, il giudizio realizza il pensiero, lo rende manifesto nel mondo delle apparenze, in cui io non sono mai da solo e sono sempre troppo occupato per poter pensare. PARTE SECONDA: GIUDIZIO Riflessioni su little rock Il punto di partenza delle riflessioni di Hannah Arendt è un’immagine riprodotta sui giornali in cui una ragazza di colore viene ritratta mentre fa ritorno a casa alla fine di una giornata passata in una delle nuove scuole miste, luogo in cui viene perseguitata da una marmaglia di ragazzi bianchi e protetta soltanto da un amico bianco del padre. Dall’espressione del viso si capisce che non si sta divertendo. Questa immagine diventa, cosi, il pretesto per poter criticare la nuova legge emanata negli Stati Uniti che prevede che si creino delle scuole miste. Hannah Arendt, guardando questa foto, la prima cosa che si chiede è che cosa avrebbe fatto se fosse stata una madre di colore e la sua risposta è stata che in nessun caso avrebbe mai lasciato che sua figlia andasse in una scuola in cui non fosse desiderata dagli altri. Sul piano psicologico la situazione del non essere voluti è più difficile da gestire della schietta persecuzione poiché entra in gioco l’orgoglio personale, quel sentimento naturale di identità con ciò che ci capita di essere sin dalla nascita, questo orgoglio può sempre venir meno a causa di forze che spingono fuori da un gruppo e dentro ad un altro. Arendt, inoltre, afferma che se fosse una madre di colere del Sud avrebbe la sensazione che la decisione presa della Corte Suprema porrebbe i suoi figli in una situazione ancora più umiliante di quella in cui già vivevano e per di più è come se avessero scaricato la responsabilità politica sulle spalle dei ragazzi al posto di attuare soluzioni più adeguate alla situazione per scansare il problema vero. Se il problema era solo quello di offrire pari opportunità di istruzione a tutti perché allora non è stato richiesto di lottare per migliorare le scuole destinate ai ragazzi di colore? La seconda domanda che Hannah Arendt si pone è cosa avesse fatto se fosse stata una madre bianca del Sud, anche in questo caso avrebbe cercato di evitare che i suoi figli venissero coinvolti in una battaglia politica nel cortile della scuola e avrebbe, con l’aiuto di qualche altro gruppo di cittadini, proposto un progetto pilota che prevedeva la costruzione di una scuola per bambini bianchi e di colore tentando di convincere gli altri genitori bianchi a cambiare atteggiamento nei confronti dei neri. Anche in questo caso avrebbe usato i bambini come in una battaglia politica ma almeno sarebbe stata sicura che tutti i bambini della scuola erano lì con il consenso e il sostegno dei propri genitori e non ci sarebbe stato nessun conflitto tra scuola e famiglia. La terza domanda che si pone è che cosa distingue lo stile di vita del Sud da quello americano in generale per quanto riguarda la questione dei neri. Discriminazione e segregazione razziale sono pratiche diffuse in tutto il Paese l’unica differenza è che al Nord quasi ci si vergogna e non si guadagna molto nell’essere razzisti mentre al Sud lo si può dire chiaramente di essere razzisti ricevendo addirittura la benedizione da parte delle leggi dell’amministrazione pubblica. Le leggi razziste perpetuano il crimine che sin dall’origine macchia la storia degli Stati Uniti. Gli eventi che si sono susseguiti dopo la sentenza della Corte suprema non fanno altro che ispirare malinconia e amarezza. E come se entrambe le parti sapessero già che nulla è destinato a cambiare malgrado la sensazione di aver fatto qualcosa. Il problema, dunque, non è come eliminare la discriminazione ma come tenerla dentro i confini della sfera pubblica ed evitare che trapassi nella sfera politica in cui invece è distruttiva. Il campo in cui la politica non può entrare è quello privato della casa in cui ci si prende cura dei bambini come meglio si crede ma nel momento in cui si stabilisce una certa legge in merito all’obbligo di istruzione la politica influenza anche la sfera sociale. Ciò che Hannah Arendt, in definitiva, suggerisce è di intervenire sulla mentalità sociale attraverso nuove leggi magari cominciando dal permettere i matrimoni misti. Il delegato. Colpevole di silenzio? Questo saggio è uno studio che si dedica al libro “The Deputy” di Rolf Hochhuth, in cui ci si sofferma sul ruolo di Papa Pio XII (in quanto rappresentante della Chiesa) durante l’ascesa del nazismo. Mostra come la Chiesa cattolica non si interessi alla questione, nonostante fosse l’autorità morale più influente dell’epoca. Ci si chiede a questo punto se la parola della Chiesa potesse essere decisiva. Ma nel momento in cui essa ha taciuto è giusto condannarla? I fatti in sé non si prestano a controversia perché in primo luogo nessuno ha negato che il papa fosse a conoscenza di ciò che stava accadendo; e in secondo luogo nessuno ha negato che il papa “alzò la voce” per protestare, nemmeno quando furono deportati gli ebrei cattolici (ebrei di origine e poi convertiti al cattolicesimo) del ghetto di Roma, proprio sotto le finestre del Vaticano. Hochhuth sembra domandarsi se con un “papa migliore” il Vaticano avrebbe comunque taciuto. Quella della chiesa fu una scandalosa inadempienza, preoccupati di mantenere l’equilibrio e un’apparenza di normalità in una situazione in cui l’Europa stava assistendo a un totale collasso delle sue fondamenta morali e spirituali. Il vero nemico della Chiesa, in quel periodo, era il bolscevismo e anche in quel caso, quando fu chiesta alla Chiesa una “crociata”, essa mantenne un significativo silenzio. La Chiesa giustificò i massacri della Germania a Est, in cui non furono coinvolti solo gli ebrei, ma anche cittadini polacchi, come “operazioni di guerra”. Hannah Arendt si chiede, com’è possibile che a Roma nessuno riuscì a capire ciò che in così tanti capirono dentro e fuori la Chiesa in quel periodo, ossia un pretesto contro Hitler avrebbe restituito alla Chiesa un’autorevolezza di cui essa non godeva dai tempi del Medioevo? Aushwitz sotto processo Il saggio verte sulla rassegna degli atti di Francoforte che condannarono alcuni aguzzini di Aushwitz nel 1963 momento in cui, dopo 20 anni dalla fine della Seconda Guerra Mondiale, la Germania decise di processare coloro che furono considerati responsabili di ciò che era avvenuto nei campi di sterminio. Soltanto 20 su 2000 furono processati per omicidio ma ciò che colpisce è che ai tedeschi la questione non interessava minimamente, questi ultimi infatti ammettevano di essere stato un popolo nazista in passato ma ora non lo erano più e non credevano che questo fosse ancora un problema. Se da un lato vi era l’opinione pubblica che non voleva sentir parlare di ciò che era avvenuto in passato dall’altra parte vi era, invece, un codice giuridico totalmente inadeguato rispetto a ciò che era accaduto: costruire un processo in base ad una legislazione che trattava questi imputati come criminali comuni e non come responsabili di aver prodotto a livello industriale corpi morti in realtà questo implicava già un problema di base. Del resto erano chiamati a giudicare dei magistrati che appartenevano alla stessa categoria dei magistrati che avevano aderito all’ordine giuridico del Terzo Reich. Se pure ci fosse stato un codice all’altezza della situazione, dice Arendt, in realtà probabilmente non sarebbe stato comunque esaustivo perché il problema principale era il contesto in cui il processo si svolse. Aushwitz, afferma Hannah Arendt, è stato un campo allestito per massacri da eseguire secondo precise regole e norme. Queste regole e norme venivano stabilite dagli assassini dal colletto bianco ed escludevano ogni iniziativa personale. Lo sterminio di milioni di persone era stato pianificato per funzionare come una macchina: gli ebrei arrivavano da tutta Europa; venivano selezionati sulla rampa d’accesso e suddivisi in categorie, vecchi, madri e bambini dovevano essere gasati subito; venivano fatti su di loro degli esperimenti. Le regole di Auschwitz cambiavano di giorno in giorno in base all’umore di chi era al comando. Tutte queste cose tremende portarono ad una totale arbitrarietà. Questo genere di cose per Arendt non potevano essere poste alla stregua da parte dell’opinione pubblica per necessità di voltare pagina. Hannah Arendt prima di poter parlare aveva letto tutto il volume in cui erano presenti gli atti del processo e soltanto alla fine della lettura ha potuto affermare che in questo non compare mai la verità di Aushwitz ma compare l’atrocità; è dai racconti degli imputati e soprattutto dei sopravvissuti che esce fuori la verità, non a caso Hannah Arendt cita alcuni esempi: -Andreas Rapaport: un ragazzino di 16 anni che scrive con il proprio sangue sulle pareti <<Andreas Rapaport – vissuto sedici anni>> consapevole del fatto che stesse per morire e che fosse questo l’unico modo per poter lasciare una traccia della propria esistenza. -L’imputato Boyer, che vede per caso un bambino che sta mangiando una mela, lo blocca con le gambe e gli spiaccica la testa contro il muro, per poi raccogliere la mela e mangiarla tranquillamente poco dopo come se nulla fosse accaduto. -Infine, Hannah Arendt rende omaggio all’imputato, ex medico del campo di sterminio, Lucas che cercò di salvare più vite possibili. Durante il processo una donna venuta da Miami raccontò che cosa le fosse accaduto: era giunta dall’Ungheria e aveva un bambino tra le braccia, dissero che le madri potevano restare con i propri figli e dunque sua madre le diede il bambino e l’acconciò in modo tale da sembrare un po’ più grande. Quando il dottor Lucas la vide capi che il bambino non era suo figlio, glielo prese dalle braccia e lo ridiede a sua madre. A questo punto la corte chiese all’imputato se avesse avuto tanto coraggio da salvare questa donna e l’imputato negò perché si rese conto di essere stato lo stesso un ingranaggio della macchina; si rese conto di essere imperdonabile. La donna ancora ignara delle regole che vigevano nel campo di sterminio non aveva capito che quello era l’uomo che le aveva salvato la vita. Quando i nodi vengono al pettine Hannah Arendt scrisse questo saggio nel 1975 dedicandolo a quei nodi che vennero al pettine nel panorama americano degli anni ’70. Infatti, comincia subito riferendosi a due episodi in particolare per arrivare al succo della questione: -il Watergate; scandalo di spionaggio politico in cui l’amministrazione vigente spiava gli avversari politici attraverso un sistema di intercettazione telefonica e che condusse alla crisi radicale del governo di Nixon -la sconfitta americana in Vietnam di fronte ai contadini che operarono una forma di resistenza contro le volontà di prestigio e di affermazione americana su scala globale. A questi due eventi si associano anche quei fenomeni ad oggi chiamati inflazione e svalutazione del dollaro, disoccupazione e criminalità. In situazioni del genere, di solito le persone reagiscono in due modi o preferiscono ritirarsi a vita privata e concentrarsi sui propri problemi oppure cercano di andare al sodo della questione in maniera ossessiva ma si sa che le cause di questi problemi non vengono mai esplicitate e non sono mai quelle che vengono raccontate. Entrambe le reazioni,
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