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Riassunto Riduzione della filosofia del diritto alla filosofia dell'economia - Croce, Sintesi del corso di Filosofia del Diritto

Riassunto completo della Riduzione della filosofia del diritto alla filosofia dell'economia

Tipologia: Sintesi del corso

2022/2023

In vendita dal 04/09/2023

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Scarica Riassunto Riduzione della filosofia del diritto alla filosofia dell'economia - Croce e più Sintesi del corso in PDF di Filosofia del Diritto solo su Docsity! Il fantasma della “prima forma” – Carlo Nitsch La Riduzione della filosofia del diritto alla filosofia dell’economia, letta da Croce all’Accademia Pontaniana nel 1907, è presentata dall’autore come parte dei lavori preparatori della Filosofia della pratica. La Riduzione non entrò a far parte del Corpus definitivo di Opere designato dall’autore, ma venne pubblicata negli anni ’70 come parte del progetto dell’Edizione Nazionale. Mentre opere come le Tesi fondamentali di estetica e i Lineamenti di logica si possono facilmente riconoscere come versioni embrionali (“prima forma”) dell’Estetica e la Logica, è più difficile definire i rapporti tra Riduzione e Filosofia della pratica. La materia affrontata nella Riduzione – la filosofia del diritto – occupa solo la terza parte, poco corposa e articolata, della Pratica; ma oltre l’immediata evidenza del rapporto con la terza parte, si può rintracciare una più profonda continuità. Nell’elaborare un “piano degli studii e lavori futuri” (1902), Croce annota il proposito di condurre a termine un sistema di Filosofia dello spirito, costituito dall’Estetica, l’Economica, o scienza della Volontà, e l’Etica, o scienza della Libertà. Non è dato sapere se Croce già pensasse di dedicare una trattazione al diritto. Nell’Estetica, tuttavia, con riferimento all’attività giuridica che sarebbe derivata da teoretica ed economica insieme, Croce definisce il diritto come regola, formula in cui è consegnato un rapporto economico voluto da una collettività. Questo lato economico, afferma Croce, l’unisce e distingue insieme dall’attività morale. Nel 1907 il progetto, mutato il titolo in Filosofia come scienza dello spirito, viene riconfigurato in tre volumi: Estetica, Logica e un terzo che unificava Economica ed Etica, cioè la Filosofia pratica. La Riduzione, pubblicata il 5 maggio di quell’anno, viene presentata come un saggio della Pratica. L’opera si presenta divisa in due capitoli, preceduti da un sommario analitico. Nelle prime pagine, Croce illustra le coordinate generali del problema: egli denuncia l’incapacità della filosofia del diritto – il cui compito sarebbe determinare il fondamento e il concetto del diritto, ricercare il suo carattere distintivo tra le forme dello spirito pratico – di intendere e precisare il rapporto tra attività giuridica ed etica, tra diritto e morale; allo stesso tempo, alla prospettiva di una possibile identificazione tra i due, si opponeva una confusa coscienza di un elemento differenziale. In ciò consisterebbe l’insoluta contraddizione della filosofia del diritto, la sua condizione patologica. Secondo Croce, quest’incapacità discenderebbe dalla mancata elaborazione della categoria dell’“economicità” come forma autonoma di attività. Elevata l’economia a scienza filosofica, nella seconda parte dell’opera viene affrontato il tema del diritto come “pura economia”. In apertura del capitolo dedicato al diritto come pura economia, Croce, oltre a ribadire la causa della contraddizione alla base della filosofia del diritto, indaga il significato storico della posizione, “prima o dopo, sopra o sotto” alla filosofia morale, di una filosofia del diritto. Questa, fino al XVII sec. indistinta dall’etica, sarebbe il prodotto del riconoscimento, non pienamente consapevole, dell’esistenza di un “doppio aspetto” del problema pratico, di un momento “premorale” dello spirito pratico. Da ciò deriverebbe l’esigenza di una Filosofia dell’economia, filosofia dello spirito pratico che non sia morale. Appare chiaro in questa luce che la Riduzione costituisce la prima tematizzazione della Filosofia della pratica, incentrata proprio sul “doppio grado” dell’attività pratica. Le ragioni per cui Croce non avrebbe valorizzato questo punto di tangenza tra i due scritti vanno ricercate nello spostamento del centro dei suoi interessi nei confronti del diritto, come si vedrà, dall’“attività giuridica” alla “legge”. Croce si pone l’interrogativo: “È il diritto mera attività economica, o è attività morale?”. Questa partizione, che corrisponde a quella tra individuale e universale, non lascia spazio per una terza forma. Contro chi afferma l’appartenenza del diritto, in quanto conoscenza di regole, frutto di un processo di generalizzazione al dominio dello spirito teoretico, Croce assume che il diritto non è attività conoscitiva; esso consiste nella risoluzione pratica, nell’atto di volontà, che segue alla semplice conoscenza. Prende corpo il dualismo tra “fatto giuridico”, fatto pratico o di volontà, e “legge”, prodotto e oggetto di volontà. La risposta all’interrogativo parte dal riconoscimento del carattere amorale del diritto e dell’azione giuridica, per giungere all’identità dell’attività giuridica con l’economica, “azione dell’individuo tra le azioni degli altri individui”, confermata dall’osservazione del fatto giuridico. È efficace in tal senso l’esempio del contrasto tra la gens Langobardorum e la comunità romana della Gallia cisalpina. Da questo confronto, teso a stabilire una legge che regoli le relazioni, conseguirebbe un risultato di reciproca convenienza economica. Tra le presunte difficoltà che potrebbero essere d’intralcio all’identificazione tra attività giuridica ed economica, Croce analizza l’improprio paragone tra leggi giuridiche ed economiche, due complessi di fatti diversi: le prime, comandi o atti di volontà, costituiscono il “fatto immediato”, la realtà; le seconde, opera di contemplazione e conoscenza, il “fatto mediato e riflesso”, la sua teoria. Un’autentica differenza è rinvenuta tra “azione giuridica” e “legge”: la prima, volontà economica individuale; la seconda, comando generale che si serve di “concetti rappresentativi”. Secondo Croce, il diritto non è legge, ma legge “a cui si pone mano”, che cessa di essere generale e diventa azione individuale. La riduzione del fatto giuridico a volontà economica consegue l’obiettivo di risolvere il problema della natura del diritto e del suo rapporto con l’etica. Riconoscere come l’attività giuridica, rivolta al particolare, possa apparire talvolta disgiunta dalla morale, e quest’ultima, concernente l’universale, non possa che tradursi in azione sociale, economica e giuridica, equivale a considerare diritto e morale “distinti e uniti”. Ciò spiegherebbe la genesi del dualismo tra diritto positivo e naturale. Tra la Riduzione e la Pratica, si verifica uno spostamento del centro di interessi di Croce dall’attività giuridica alla legge, dalla volontà dell’azione economica individuale alla pretesa volizione della legge. Ciò misura la distanza tra le due opere. L’11 ottobre 1907, ultimato il disegno della Filosofia della Pratica, Croce immagina il libro diviso in cinque parti, di cui la quarta, dedicata al diritto, è al momento intitolata “L’attività giuridica e la legge”. Il 17 gennaio 1908, in una nota alle Obiezioni alla mia tesi sulla natura del diritto, Croce avverte che l’argomento trattato nella Riduzione, e in particolare il concetto di legge, sarebbe stato approfondito nel libro in preparazione. Le coordinate della sua riflessione stanno cambiando profondamente; nel rinnovato disegno del libro, la parte terza, dedicata al diritto, è intitolata prima “L’attività legislatrice”, poi “Le leggi”. Nell’incipit della parte terza si legge: “La legge è un atto volitivo che ha per contenuto una serie o classe di azioni”. L’attività legislatrice pone le leggi, quella giuridica le attua e le esegue. Risolta l’attività giuridica, volizione concreta e determinata, nella più larga attività economica secondo un rapporto di perfetta identità, Croce assume che l’attività legislatrice, pur rientrando nella “cerchia dell’economica”, si distingue da essa come volizione astratta, indeterminata. Ma poiché si vuole soltanto in concreto, la volizione che è la legge sembra che si debba dire una pretesa volizione, irreale. Questo ragionamento appare viziato da una contraddizione di fondo: da un lato, l’irrealtà della legge consisterebbe nell’essere non la legge ciò che realmente si vuole, bensì ciò che sotto di essa si compie, la sua esecuzione; dall’altro lato, secondo Croce il caso reale è sempre una “sorpresa”, per ogni fatto nuovo occorrerebbe una nuova misura. Di fronte alla necessità di regolarsi caso per caso, e quindi all’impossibilità di applicare la legge, potrebbe sorgere l’idea di una sostanziale inutilità delle leggi. A sostegno dell’utilità della legge, Croce afferma che una volizione irreale come quella della legge avrebbe una funzione “preparatoria”, quale “aiuto” alla volizione, reale e perfetta, dell’atto singolo. Egli assume di poter trarre da ciò una conferma dell’analogia tra costituzione dello spirito pratico e teoretico: nel dominio della conoscenza, infatti, si darebbero formazioni teoretiche arbitrarie, “finti concetti” o “pseudoconcetti”, che avrebbero la funzione pratica di aiutare l’uomo a immaginare e pensare. Questi pseudoconcetti, fatti oggetto di volizione e mutati in leggi, rendono possibile alla volontà di volere in un certo indirizzo, di concretizzarsi in azione utile. Croce ha la consapevolezza che l’uomo opera caso per caso, attuando la propria volontà, e non secondo un disegno prestabilito; sarebbe impossibile fornire all’individuo modelli o tipi fissi di azioni. Ma questa consapevolezza deve confrontarsi con l’esigenza di regole capaci di governare la vita sociale. È così che questo concetto di disegno proposto all’azione avrebbe significato legittimo nell’ordine delle leggi.  Filosofi più recenti: Lasson concepisce il diritto come parte dell’etica. Steinthal ripropone la distinzione tra esteriorità del diritto e interiorità della morale, presentando il primo come sistema dei modi di coazione per assicurare gli scopi etici sociali. Schuppe, Wundt, Cohen, Rümelin sostengono una sostanziale identificazione tra diritto e morale, presentando la seconda come fine del primo. Jellinek distingue il diritto dalla morale, perché le norme del diritto regolano la condotta esterna degli uomini, provengono da un’autorità esterna e la loro obbligatorietà è garantita da poteri esterni. Stammler, Miraglia e Vanni concepiscono morale e diritto come parte dell’etica. Il diritto, quindi, non sembrerebbe identico all’etica, ma neanche diverso; l’elemento di diversità non si riesce a fissare. Il pensiero di una differenza tra i due non è stato eliminato, ma neanche assorbito, e questa è una condizione morbosa. Il dualismo tradizionale tra diritto positivo e ideale, storico e naturale, legge e giustizia, non trova riscontro nelle altre scienze filosofiche. Finché resta ingenuo, il danno non è grande. Ma se si vuole condurre una trattazione logica, e si cerca di non mescolare filosofia del diritto ed etica, i due concetti di diritto positivo ed ideale devono presentarsi con la pretesa di concetti del diritto; e bisogna quindi, accogliendo l’uno, rifiutare l’altro. Tale scelta presupporrebbe risoluta la contraddizione che travaglia la filosofia del diritto, ossia determinata l’indole del diritto e il suo rapporto con la morale. Ma ciò non ha avuto luogo. II. Il diritto come pura economia Il principio che è mancato finora alla filosofia pratica è il principio economico; la concezione del momento dell’utilità come momento autonomo della vita spirituale; l’economia elevata a scienza filosofica. Kant concepì l’utile come concetto privo di valore spirituale. Hegel riconobbe l’importanza della scienza economica, ma la trattazione dell’economia rimase, nel suo sistema, estrinseca o episodica. Più recentemente, si sono avute trattazioni riunite di economia ed etica, le “teorie dei valori”, ma provenienti da un indirizzo empirico o psicologico, e quindi infeconde. Uno dei sintomi dell’esigenza di un’economia filosofica, di una filosofia pratica che non sia di necessità morale, è l’essere stato nei tempi moderni riconosciuto il doppio aspetto del problema pratico, ponendosi costantemente prima o dopo, sopra o sotto alla filosofia morale, un’altra scienza, la filosofia del diritto. Ed è forse non una mera casualità che le prime distinzioni tra diritto e morale siano sorte quando si è affermata l’economia come scienza indipendente, tra il XVII e il XVIII sec. L’attività economica non è altro che attività pratica, presa come tale, prescindendo dalla sua determinazione come morale o immorale. Ogni azione può essere considerata quindi o come pura azione, o pura volontà, e questo è il punto di vista economico, o come azione rivolta o no al fine supremo dell’uomo, e questo è il punto di vista etico. Nella prima forma domina il criterio dell’individualità, nella seconda dell’universalità. Il problema della natura del diritto è quindi: è il diritto mera attività economica, o attività morale? Si esclude una terza forma poiché la partizione sopra accennata coincide con quella di individuale e universale. Potrebbe muoversi il dubbio che il diritto non sia proprio attività pratica, in quanto si è fatto talvolta consistere nella conoscenza di regole, in un’adesione mentale teoretica. È evidente che il momento giuridico non consiste in quel conoscere, bensì nella risoluzione pratica, nell’atto di volontà che segue alla conoscenza. Il fatto giuridico è sempre fatto pratico o di volontà. Le leggi sono prodotto ed oggetto di volontà, semplici formule, formazioni di concetti. La storia del diritto, sempre storia sociale e politica, non si occupa delle leggi, ma dei fatti pratici. Appurato che il diritto è attività pratica, ripetiamo la domanda: l’attività giuridica è attività meramente economica, o morale? Nel rispondere, si deve subito riconoscere il carattere non etico dell’attività giuridica considerata in sé: i diritti immorali sono esistiti ed esistono, e l’immoralità non toglie ad essi il carattere di diritti. Il fatto è immorale ma, scientificamente, deve essere riconosciuto come giuridico. Si richiamano i detti dura lex, sed lex e summus ius, summa iniuria, e l’annessa raccomandazione di temperare la legge con l’equità. Naturalmente, gran parte delle azioni giuridiche sono, insieme, azioni morali; ma le eccezioni stanno lì a dimostrare che si può sempre distinguere il lato giuridico da quello morale, dato che il lato giuridico può aversi anche privo della moralità. L’attività giuridica si rivela quindi come un’attività pratica, che non è per sé né morale né immorale ma amorale, aetica. Sembra quindi di vedere designarsi l’identità dell’attività giuridica con l’economica, anch’essa né morale né immorale. Quest’identità è indubitabile se esaminiamo il fatto giuridico come rapporto tra due individui, due volontà A e B, uno dominatore, che detta la legge, l’altro dominato, che l’accetta e l’osserva. Il rapporto è costituito mediante il concetto di forza o coazione, ma il dominatore non domina l’altro solo con la forza. Nel mondo umano ci troviamo sempre davanti a fatti di volontà e coscienza. Il concetto di forza e la formulazione di forze maggiori e minori ha valore metaforico e simbolico. Supponiamo il rapporto tra gens Langobardorum e i proprietari romani, nella Gallia cisalpina. La legge che regola i loro rapporti, data dall’incontro delle volontà, non è altro che l’accordo su un rapporto di convenienza economica tra i due. Posto il carattere economico dell’attività giuridica, non si è indicata la differenza specifica tra attività giuridica ed economica, di cui deve occuparsi la filosofia del diritto. Ma tutti i caratteri differenziali che potrebbero proporsi si chiariscono illusori. Parrebbe che un carattere specificamente giuridico sia stato introdotto prendendo come punto di partenza dell’analisi un rapporto sociale, di due o più individui; l’economia, invece, ha iscritto tra i suoi teoremi fondamentali che il valore economico, prima di essere un fatto sociale, è un fatto dell’economia isolata. Un’economia isolata non è pensabile: l’individuo vive nella società, e nella natura, che include in sé la società. Non è mai isolato. Onde l’azione economica è stata chiarita come azione dell’individuo tra le azioni degli altri individui, e tale è per l’appunto l’attività giuridica. Un’altra difficoltà per l’identificazione di diritto ed economia proviene dal concetto troppo stretto che si ha dei fatti giuridici. Nel campo giuridico rientrano non solo le azioni che gli uomini compiono in conformità delle leggi dello Stato; per legge e fatto giuridico deve intendersi tutto ciò che appartiene al costume sociale: non c’è fatto pratico o volontario che resti escluso da quel concetto. Tutte le manifestazioni della vita pratica sono esprimibili in formule di volontà, imperativi, leggi. E lo stesso campo abbraccia l’attività economica. Impossessandosi del concetto di attività giuridica ed economica, e non delle loro rappresentazioni generali, si vede che i concetti sono uno solo. Altro impedimento a cogliere l’unità di attività giuridica ed economica nasce dall’erroneo paragone tra leggi giuridiche ed economiche. Le leggi giuridiche sono comandi o atti di volontà, quelle economiche sono frutto di un lavoro conoscitivo, di contemplazione e teoria: le prime sono il fatto immediato, le seconde il fatto mediato, riflesso. Si distinguono come il fatto pratico dalla sua teoria, non come fatto da altro fatto pratico. Un elemento differenziale esiste tuttavia tra attività giuridica e legge. Per legge si intende quel comando generale che si serve perciò di schemi rappresentativi, tipi. La generalizzazione adoperata dal legislatore è oggetto di studio della logica, non della filosofia del diritto. L’elemento astratto è inessenziale al diritto: esso non è la legge, ma legge a cui si pone mano, che cessa così di essere generale e diventa azione individuale. Da ciò deriva la continua mutazione della legge per opera dell’interpretazione e della consuetudine. A questo punto si può rendere giustizia ai concetti di coazione, forza, esteriorità e simili che, per quanto imprecisi, hanno impedito la confusione totale di diritto ed etica. Soprattutto, il concetto di forza (Hobbes, Haller, Marx, von Jhering, Bismarck, scuola tedesca del XIX sec.) è stato prezioso per evidenziare l’indole dell’attività giuridica come specificamente distinta da quella etica. È vero che il diritto è forza, esteriorità, quando si raffronti il mero diritto con la morale e lo si guardi dal punto di vista di questa. Questi sono caratteri veri, ma vaghi: insistono su ciò che il diritto non è, e non ciò che è. Con la riduzione del diritto a volontà economica, si indica ciò che il diritto è e non è. La nuova definizione non rigetta le antiche basate su coazione, esteriorità e simili, ma spinge oltre l’indagine. La veduta che qui si sostiene del diritto è amoralistica, e non immoralistica. Soltanto con una tale veduta del diritto si può stabilire una dottrina veramente autonoma dell’etica. Depurata di ogni elemento morale e riconosciutane l’identità con l’economia, la sfera giuridica prende rispetto all’etica, la stessa posizione che ha rispetto a questa l’economia: l’attività giuridica è attività dell’individuale, l’etica dell’universale. Dopo aver fissato il rapporto di diritto e morale, si comprende la genesi della dualità di diritto positivo e ideale, storico e naturale, che è nient’altro che la distinzione di diritto e morale. La filosofia del diritto si interessa solo del diritto positivo e storico; l’ideale razionale o naturale è di competenza del filosofo della morale. La distinzione di diritto e morale è atta a proiettare luce su questioni particolari: lo Stato deve essere semplice Stato della forza o Stato etico? Il matrimonio è semplice società di interessi o istituzione morale? Tali questioni erano insolubili perché includevano tutto il problema dell’indole del diritto e del suo rapporto con la morale. Più facile ne apparirà la soluzione tenendo presente che un’azione o un istituto può essere sempre considerato sia nella sua forma economica che nella sua forma etica, e l’una richiama sempre l’altra. È stato tentato il paragone, che risale a Savigny, tra vita del diritto e del linguaggio. Com’è impossibile comprendere ciò che è il linguaggio osservando solo grammatiche e vocabolari, così non si può comprendere il diritto guardando solo ai codici e ai commenti dei giuristi, cioè al fatto superficiale. Così come il linguaggio non è la logica, eppure il pensiero logico non può realizzarsi se non parlando, così l’attività giuridica non è la morale, ma la morale non può vivere se non traducendosi in azioni pratiche e istituti. Infine, così come la vera storia di una lingua è storia della sua poesia e letteratura, la vera storia del diritto di un popolo è tutt’una cosa con la sua storia sociale e politica, giuridica ed economica.
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