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RIASSUNTO "RINASCIMENTO PERDUTO" Fragnito, Sintesi del corso di Storia

Riassunto completo e semplificato, per capitoli del libro "Rinascimento Perduto", segue la suddivisione dell'autore. esame di "storia della stampa e dell'editoria"

Tipologia: Sintesi del corso

2020/2021

Caricato il 12/02/2021

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Scarica RIASSUNTO "RINASCIMENTO PERDUTO" Fragnito e più Sintesi del corso in PDF di Storia solo su Docsity! RINASCIMENTO PERDUTO INTRODUZIONE Esiste un profondo divario tra normativa e prassi delle regole della censura, i meccanismi censori produssero interventi grandissimi sulla letteratura di svago e di largo consumo come romanzi cavallereschi, novellistica, satira, facezie… gli organi di censura romani hanno espanso il loro raggio d’azione non solo ai libri eretici, ma anche ad altri settori di vasto consumo, come i cosiddetti libri per tutti, dunque l’attenzione si sposta sulle attività delle autorità ecclesiastiche applicate a campi editoriali poco esplorati in precedenza. L’invenzione della stampa aveva messo sul mercato opere a basso costo e più facilmente maneggevoli, il libro non è più un privilegio per pochi ma un oggetto alla portata di molti. Questa distribuzione aveva incentivato la produzione in volgare di libri devozionali ma anche di svago. Questo fenomeno di produzione va insieme al processo di alfabetizzazione crescente, è infatti possibile l’accesso alla cultura scritta da parte di una più ampia fascia della popolazione. Questo va a sfumare sempre di più i confini tra cultura dotta e cultura popolare, che doveva però sempre essere protetta. La letteratura di intrattenimento nasce nelle corti ma esonda rapidamente nelle piazze delle città e addirittura nelle campagne: si recitavano, cantavano e rappresentavano per un pubblico vasto ed eterogeneo degli spezzoni di testi o adattamenti facilmente memorizzabili. Nel clima severo degli anni Settanta, questo nuovo tipo di intrattenimento ha portato dei pretesti favorevoli a tutti quelli che volevano censurare le favole. Ricordiamo la difesa di Pietro Vettori, che sosteneva che le favole e novelle erano necessarie per chi desiderava passare il tempo; il cardinale Sirleto si mostra comunque avverso a questa visione della letteratura come terapeutica, di svago ed evasione, quindi promuove di nuovo le liste che registravano le opere letterarie. Dunque le barriere tra Chiesa e popolo iniziano a incrinarsi, la Chiesa si accorge che nelle fasce di popolazione circolavano contenuti inopportuni per persone non acculturate. Inoltre l’acidità della Chiesa si inasprisce quando gli umanisti riscoprono i classici greci, le arti divinatorie, i miti degli dei… a tutto ciò si aggiunge la tradizionale misoginia della Chiesa, a causa di un maggiore coinvolgimento delle donne nella lettura e scrittura di opere letterarie. Il coinvolgimento delle donne comportava un rischio di sovversione dell’ordine costituito, anche se contrastava fortemente con la convinzione dell’inferiorità intellettuale della donna e la sua predisposizione a lasciarsi sedurre dai libri cattivi. Per questo motivo era necessario che le donne leggessero opere di buona formazione e moralizzazione dei comportamenti (libri spirituali, di preghiera, di confessioni, leggende di santi… erano aboliti i libri d’amore osceni, tollerati solo quelli che avevano come fine l’amore per il matrimonio). Anche i testi volgari hanno avuto un ruolo importante: le Inquisizioni proibivano la lettura di libri in volgare. L’aura di sospetto dei censori finì con il circondare qualsiasi libro, ai quali si somma l’ignoranza degli addetti al controllo che per non sbagliare, preferivano bruciare. I danni all’editoria sono stati confermati dalle proteste di librai e stampatori. Le conseguenze di questa politica di distruzione sono rimaste nell’ombra, la Chiesa ha messo in atto una sistematica azione di moralizzazione e un processo di disciplinamento sociale, sostenendo come la censura abbia una funzione educatrice e sostenendo il letterato come uomo dotato di una naturale propensione all’auto-censura e alla purificazione di opere. Ci sono tanti dibattiti sulla storiografia e sulla censura nella storia, anche sul ruolo che la Chiesa ha avuto. Un aspetto importante è quello dell’incidenza della censura sulla disaffezione del popolo per la lettura: si pensa che oggi, l’Italia sia una nazione di lettori deboli. Questo è accaduto a causa dell’impedimento dei volgarizzamenti biblici e della larga circolazione di opere. Tutto questo si trova all’origine della scala familiarità che gli italiani hanno con il libro. Compito della storia del libro è infatti l’interrogazione sulle ricadute che ha avuto la repressione censoria non solo sulla produzione libraria, ma anche sulle pratiche di lettura. CAPITOLO I: ORIGINI DELLA CENSURA ECCLESIASTICA La Chiesa ha esercitato fin dalle origini delle forme di controllo sull’ortodossia, condannando deviazioni dottrinali tramite bolle pontificie e decreti. Quando nascono le università tra 1200 e 1300 si fa più forte la vigilanza su studenti e docenti, specialmente appartenenti al clero. La Chiesa inizia quindi a condannare l’insegnamento di dottrine filosofiche e teologiche eterodosse, sorvegliando sempre di più la produzione delle botteghe di copiatura. Si sviluppa un sistema censorio che godeva comunque di larga autonomia perchè i divieti erano applicati ad aree circoscritte (Roma inizia a centralizzare il suo controllo sulla produzione a fine Quattrocento, con l’avvento della stampa a caratteri mobili). Inizialmente c'è un’alleanza silenziosa tra Chiesa e tipografi, entrambi alla ricerca di fruitori per motivi pedagogici ed economici. Dunque l’atteggiamento della Chiesa nei confronti della stampa è inizialmente favorevole. L’abbassamento dei costi ed un uso sempre più frequente del volgare al posto del latino, ha portato ad un’ampia istruzione dei fedeli mediante la divulgazione di testi che erano considerati di largo consumo (volgarizzamenti biblici, Bibbie integrali, libri devozionali…). Non a caso si dice che il libro a stampa nasce religioso. L’editoria comincia quindi a proliferare in maniera spropositata, anche in centri minori e grazie all’opera dei venditori ambulanti, in questo momento Roma inizia a percepire un pericolo: i danni che potevano derivare dalla lettura di testi che non erano stati sottoposti al controllo delle autorità incaricate, dunque iniziano a prendere piede alcune misure. MISURE DI CONTROLLO 1487 -> primo intervento di papa Innocenzo VIII (bolla Inter Multiplices), affida la censura preventiva ai vescovi, mentre a Roma viene affidata al vicario papale e al Maestro del Sacro Palazzo. A loro era riservato il giudizio sui testi destinati alla stampa. 1515 -> bolla Inter Sollicitudines concede ai vescovi la funzione di inquisitori e prevede pesanti sanzioni per i trasgressori delle regole. È la bolla in vigore CLEMENTE VIII Con questo papa riprende nel 1592 l’elaborazione del catalogo. Si apportano modifiche in senso moderato, ripristinando l’impianto dell’Indice tridentino (10 regole non modificate), dando delle direttive sulla censura preventiva ed espurgatoria, con aggiunta di nuovi titoli e autori proibiti. Nel 1593 viene terminata la stampa dell’elenco dei libri proibiti e sospesi, ma si fa strada un nuovo problema: gli indici nazionali, ossia delle opere nelle lingue vernacolari (italiano, castigliano, francese…), che avrebbero dovuto figurare in appendice al catalogo universale redatto in latino. Il testo definitivo viene approvato nel 1593 ma Clemente VIII dice che non bisogna promulgarlo fino a nuovo ordine. Le perplessità del papa sono suscitate fu il catalogo dei libri volgari italiani, in cui erano trasmigrate le liste precedenti di opere letterarie di largo consumo. Alle perplessità del papa si aggiunsero le pressioni di Paolo Paruta, oratore veneziano che sosteneva l’eliminazione del catalogo dei libri proibiti italiani per i danni gravissimi che avrebbe portato all’editoria veneziana, a causa di uno spropositato numero di condanne a diverse opere letterarie (è una questione di interesse economico dei mercanti librai veneziani). Questa opposizione è stata una delle cause del blocco dell’Indice, ma non l’unica, c’era stato infatti un accordo grazie alla mediazione del cardinale veneziano Agostino Valier, sull’eliminazione dell’appendice con gli indici nazionali. Oltre ai problemi dei libri in volgare, ci sono altre motivazioni che portarono il pontefice a guardare l’Indice con maggiore severità. Al di là della volontà di preservare il patrimonio culturale classico latino e volgare, di rimettere in circolazione attraverso l’attività di espurgazione delle opere da anni sospese e di salvaguardare la reputazione di scrittori cattolici incorsi in errori, le obiezioni di Clemente VIII rivelavano una radicata avversione nei confronti dell’Indice del 1558, di Paolo IV. La critica più dura mossa dalla Congregazione era quella di averne riproposto la severità, una critica che si traduce nella proposizione dell’indice tridentino nella sua integrità, con l’aggiunta sotto ogni lettera alfabetica degli autori o libri proibiti proposti dopo il 1564. A rallentare la pubblicazione dell’Indice clementino non sono stati solo motivi politici, culturali e religiosi, ma anche l’elaborazione della normativa premessa all’Indice: da un lato per immanicarsi le autorità civili assottigliava l’elenco delle opere esplicitamente sospese, mentre dall’altra parte ha sollevato problemi di competenze tra ordinari diocesani e inquisitori. La nuova normativa attribuiva competenze di censura preventiva ed espurgazione a ordinari diocesani, estromettendo gli inquisitori da questi due passaggi fondamentali, privandoli di mansioni a cui non intendevano rinunciare. Nel 1596 Clemente VIII promulga il terzo indice universale, ma il Sant’Ufficio ne chiede la sospensione per poter ripristinare, allegando fogli detti Observatio, i divieti da esso emanati e non recepiti nell’ultima stesura. Il pontefice si arrese su alcune richieste, come il divieto assoluto delle traduzioni bibliche e di testi dal contenuto sacro nelle lingue materne, l’attribuzione del controllo sui libri di astrologia, divinazione e arti occulte non solo ai vescovi ma anche agli inquisitori… ma non cedette alla richiesta del ripristino dell’Indice del 1558. CAPITOLO II: LISTE SEMI-UFFICIALI E REGOLE Quali spazi hanno riservato i tre Indici alla letteratura italiana? C'è un numero di autori e testi esplicitamente condannati o sospesi in attesa di emendazione.alcuni autori ci sono finiti perchè considerati eretici o sospetti di eresia, ma anche perchè hanno scritto opere giudicate irriverenti nei confronti della Chiesa, del papato o moralmente scabrose. Nel primo Indice figurano nomi come Giovanni della Casa, Luigi Pulci, Poggio Bracciolini, Petrarca (sonetti avignonesi) e Boccaccio (Cento Novelle, ma che prevedevano l’uscita di un’edizione espurgata, bisognava sopprimere le novelle contrarie alla religione nel nascente Decameron). Nell’Indice del 1564 scompare Della Casa, rimangono i divieti per il Pulci. Se ci affidassimo solo agli Indici, cercheremmo delle opere intercettate dalla censura invano, perchè esse sono state gestite anche mediante altri strumenti. Sebbene i divieti espliciti fossero limitati, le regole aprono un nuovo varco di dimensioni imprevedibili per i testi letterari. Le 10 regole introdotte dall’Indice tridentino infatti disciplinavano categorie intere di libri. Si chiedeva infatti che molti autori o titoli non fossero espressamente menzionati (regola VII), sottoponendo la regola ad ogni arbitrio interpretativo, segnando il destino della letteratura. PAOLO COSTABILI Fu Maestro del Sacro palazzo, nominato da Gregorio XIII, con la creazione della Congregazione dell’Indice nel 1573. Di lui ricordiamo la lotta all’eresia e la sua forte fede cattolica, ha avuto un passato da inquisitore. La sua nomina a Maestro del Sacro Palazzo è significativa perchè esprime la volontà delle autorità romane a esercitare una sorveglianza più dura in termini di controllo librario, dato che Costabili è una personalità che si è fortemente impegnata nella lotta all’eresia. La sua mansione era quella di controllare la produzione e la circolazione libraria a Roma e in tutto il suo distretto, ma anche comunicare le decisioni più importanti; egli redigeva liste di libri proibiti per aggiornare l’ultimo Indice (del 1564), emanava editti e bandi e li inoltrava ai colleghi di periferia. Costabili contribuì in maniera molto incisiva nell’irrigidimento di Roma sul controllo librario; questa svolta nella politica culturale della Chiesa prende atto dall’imponente espansione della produzione di testi letterari in volgare, grazie a editori, espansione delle biblioteche pubbliche e private, ed ebbe ripercussioni determinanti sulla letteratura. Basti pensare a come venne vietata nel 1573 l’edizione espurgata del Decameron, stampata con un privilegio di Pio V. Costabili bloccò per anni anche l’espurgazione del Cortegiano di Baldassarre Castiglione, emendato solo nel 1584. Lo scopo di questi interventi era quello di tutelare la moralità dei fedeli, tenendoli lontani da letterature ritenute perniciose, ma anche sottrarre queste categorie di libri dalla vigilanza dei vescovi (che si presupponeva avessero le capacità di capire quando un libro era osceno e quando poteva essere letto, era una grande responsabilità). Le liste promulgate dal Maestro del Sacro Palazzo andavano a colpire un numero elevatissimo di testi e autori che ogni sono meno noti (Aviso alla librari). Venivano negati testi e produzioni precise ma anche indicate sotto nomi generici. Costabili non solo compilava elenchi da mandare alle periferie, ma mandava anche istruzioni agli inquisitori, facendo riferimento all’esempio di Roma, che toglieva dalla circolazione libri volgari e distruggerli (si tratta di eliminare libri che non apportano giovamento alla fede o ai buoni costumi, libri volgari, di innamoramenti…). A queste seguirono altre liste da mandare alle periferie, senza la distinzione tra libri proibiti, libri sospetti o libri che potevano essere sottoposti ad una correzione. Questo flusso continuo di elenchi di proibizioni dal centro alla periferia sembra esaurirsi nel 1583 a seguito della protesta di Gabriele Paleotti, cardinale membro della Congregazione dell’Indice che ne denuncia l’illegittimità perchè erano liste che erano state promulgate senza l’autorizzazione della Congregazione e quindi costrinse il Maestro a stilare una lista di libri che per errore e senza autorità erano stati proibiti. Tuttavia anche se non erano elenchi approvati, riflettevano i gusti delle Congregazioni e delle Inquisizioni. L’Indice era comunque redatto in maniera confusa, perchè leccava autori e scritti presenti in liste precedenti ma anticipava anche quelli che sarebbero apparsi nelle liste successive; l’intervento di Paleotti riuscì in qualche modo a frenare questa tendenza. L’indice sistino è stato condizionato dalle selezioni precedenti e dai criteri che guidavano le scelte. Basti guardare alle regole, che condannavano ampi spettri di scritti (satire, poemi, libri ingiuriosi, diffamatori, libelli famosi, qualsiasi titolo che offenda l’onestà e i buoni costumi). Erano proibiti anche libri che riportavano le parole delle Sacre Scritture distorte, con sensi scurrili, favolosi… ma anche tutti quei libri che trattano in volgare argomenti osceni, lascivi e amatori, anche se scritti con eleganza. Si condannavano commedie, tragedie, favole (anche se non scritte ma venivano fatte circolare da ambulanti); così come si proibiscono anche immagini dalle quali nasce la corruzione dei costumi. L’indice sisto-clementino non promulgato aveva aggiunto delle istruzioni per coloro che erano chiamati a proibire e correggere per rilasciare la licenza di stampa. Questa guida non ufficiale trova la sua concreta traduzione nell’indice nazionale dei libri italiani, collocato all’appendice. Si stabiliva a chi dovesse essere affidata la correzione dei libri e come si dovesse procedere alla loro emendazione, prestando una particolare attenzione anche agli apparati paratestuali; in seguito si elencava puntigliosamente tutto ciò che necessitava di correzione ed espurgazione. ISTRUZIONI SU CIÒ CHE ANDAVA CORRETTO • Proposizioni eretiche, erronee, scandalose e blasfeme • Proposizioni che introducono novità contro le cerimonie e la somministrazione dei sacramenti, contro usi e consuetudini della Chiesa cattolica • Espressioni profane nuove, escogitate dagli eretici per indurre in errore • Termini dubbi e ambigui che possono distogliere l’animo dei lettori dalla retta via cattolica • Parole delle Sacre Scritture non fedelmente riportate, cattive traduzioni eretiche, parole adoperate in senso empio e profano verso la letteratura, che le Novelle di Boccaccio non erano proibite in nessun Indice: si sottolinea come andassero rimossi solo gli errori eretici, le bestemmie e le empietà. Il predecessore di Costabili era Manrique e anche lui aveva permesso la pubblicazione del Decameron. Dunque non fu facile per i rassettatori comprendere il repentino cambio che avvenne con il nuovo Maestro, che non si dedicava più solo all’ambito religioso, ma anche ad altri temi come l’amore. Ora non bastava più che le opere non parlassero di cose scabrose che coinvolgessero figure del clero, ma diventa sempre più un’ossessione anche il tema amoroso. I poeti erano infatti soliti parlar d’amore e delle loro donne come qualcosa legato al sacro, le divinizzano e attribuiscono loro proprietà celesti. Si depreca quindi la divinazione della donna e il carattere sacro attribuito ad amori profani; dietro l’attacco ai poeti volgari si scorge l’ombra di Petrarca. L’ATTACCO A PETRARCA C'è un attacco esplicito a Petrarca, punto di riferimento per l’Umanesimo italiano da parte di Gabriele Barri. Il suo accanimento si diresse verso il Canzoniere e i Triumphi, in cui si accusa l’idolatria per Laura. Petrarca è considerato come un epicureo che ripone nel piacere carnale la sua felicità e beatitudine, paragonandola alla beatitudine celeste. Le sue poesie abbondavano di paragoni nefasti e profani, ma le critiche si scagliavano soprattutto contro la sua passione e il suo amore. Dunque Petrarca viene accusato da Barri di immoralità e per questo esorta il pontefice alla soppressione del materiale del corpo poetico incriminato e di tutta la produzione poetica cinquecentesca che aveva preso di riferimento Petrarca (tra i quali non mancava Ariosto). È dunque un clima generale che inasprisce gli atteggiamenti verso la letteratura italiana: c'è uno spirito anti-pagano e anti-umanistico, ansia di eliminare l’anticlericalismo, l’ossessione verso il sesso e le manifestazioni erotiche, misoginia, diffidenza contro le superstizioni e il loro sfociare nelle arti magiche, avversione per il meraviglioso… LA LOTTA AL PAGANESIMO Con la scomparsa dei papi Medici, la lotta al paganesimo si fece più dura e si erano intensificati gli sforzi di cristianizzazione della cultura nelle sue diverse espressioni. Un esempio può essere il confronto tra la scelta di Giulio II nel 1506 di posizionare la statua di Laocoonte nel cortile del Belvedere come simbolo di perfezione classica e l’atteggiamento di Pio V verso le antichità romane, perchè lui voleva una sacralizzazione di Roma proiettando l’immagine di una Chiesa purificata e cristianizzata, spoglia delle vestigia profane del suo passato. È inevitabile soffermarsi sui giudizi dei nudi di Michelangelo del Giudizio Universale o sulle statue che puntellavano la città come attrazione per turisti e pellegrini. Anche i test letterari con i riferimenti ai miti antichi, il lessico preso in prestito dai classici andavano depurati da ogni residuo di paganesimo. Era inoltre fondamentale eliminare la vena anticlericale, che partiva dal Decameron di Boccaccio, inserito nell’Indice del 1558 insieme al De Monarchia di Dante e ai tre sonetti avignonesi di Petrarca. La messa all’Indice di questi tre capolavori suscita le polemiche di Vergerio, che ne coglie tutta la portata culturale: egli capisce che le novelle di Boccaccio erano state condannate non per la disonestà o le cose sporche, ma per l’attacco agli abusi del clero (inoltre poteva essere considerato un maestro). Infatti non si sbagliava perchè poi il Decameron è stato sottoposto alla rassettatura dei Giunti nel 1573 di tutti gli elementi critici nei confronti del clero e non delle cose d’amore. Salviati nel 1582 provvederà ad attenuare o sopprimere le infrazioni al codice morale presenti nelle novelle più scabrose e licenziose (non era stato commissionato dalle autorità ecclesiastiche, ma dal principe Francesco I). L’OSSESSIONE PER LA SESSUALITÀ Il profondo mutamento nei confronti di comportamenti sessuali trasgressivi si era venuto affermando non solo in conseguenza al Concilio di Trento, ma anche con l’affermazione del catechismo romano, che aveva espresso riserve sia sulla letteratura che sulle diffuse forme di svago. Fu una serie di provvedimenti pontifici precedenti e successivi in materia di moralità, a lasciare una forte impronta sull’atteggiamento dei censori riguardo alle opere letterarie. Alcuni papi provenienti dalle file dell’Inquisizione volevano sottrarre a magistrature secolari o tribunali vescovili le loro competenze su reati di ordine sessuale, per attribuirle ai giudici di fede. Il tribunale romano si trasforma in un ufficio di polizia dei costumi, con Paolo IV. Egli affida al Sant’Ufficio la giurisdizione sui crimini di omosessualità, rapporti sodomiti tra uomo e donna… ebbe degli effetti permanenti. Inoltre ci furono altri provvedimenti che ebbero forti ricadute sulla censura: si condannava la divinazione, gli adulteri, il lenocinio, chi praticava l’aborto… Tutte queste innovazioni portarono ad un assalto delle opere letterarie, percepite sempre di più come veicolo di perversione morale soprattutto tra donne e giovani, divenuti il perno di rigenerazione della società. I provvedimenti pontifici stabiliscono un nesso più orte tra licenziosità ed eresia a causa dello slittamento della sfera sessuale nei reati di fede, si adottano misure drastiche nei confronti dei trasgressori. Con l’estensione del concetto di eresia, la caccia a cose non conformi all’ortodossia nelle opere letterarie diviene più assillante. Anche Ariosto viene coinvolto a causa della sua presunta adesione al luteranesimo e la sua presunta pazzia, veniva deprecato per aver dedicato del tempo a Petrarca. Barri aveva circoscritto la peste ereticale diffusa dal Furioso. CONCLUSIONE L’accerchiamento condotto per oltre un secolo da rigoristi di ogni tipo, si conclude con l’inclusione di gran parte delle opere letterarie tra quelle infette dal contagio ereticale. Quello di cui abbiamo parlato è un progetto intimamente legato al sistema di vigilanza della Chiesa sulla stampa, perchè seguiva un programma pedagogico. Correzione, emendazione ed espurgazione diventano indispensabili: la correzione serve quando il testo è copiato scorretto o male, l’espurgazione serve per togliere le cose oscene e il sinistro sentimento, le eresie e la disonestà. Stampa ed espurgazione sono due momenti fondamentali di un medesimo processo. Un processo mediante il quale un enorme numero di testi scomparve dal mercato, inoltre i testi che circolavano erano manipolati, amputati, riscritti e stravolti nel loro significato. Diventava sempre più comune la convinzione che dagli atteggiamenti irriverenti diffusi dai testi letterari derivassero solo costumi immorali e propensioni ereticali. Non è facile ricostruire la storia dei censori e di come si sono avvicinati al mondo della letteratura, in un mutevole contesto storico politico e religioso, ma dagli indici ufficiali, dalle liste semi-ufficiali, dalle regole suscettibili ad essere modificate, si denota la ferrea volontà della Chiesa di affermare il proprio potere governando le menti e le coscienze attraverso il controllo di una produzione editoriale dal vasto consumo da parte di tutti i ceti sociali (libri per tutti). CAPITOLO IV: SEQUESTRI E ROGHI Le incongruenze presenti nelle liste partite da Roma dal 1574 e l’assenza di espliciti riferimenti alle opere vietate o sospese nella versione definitiva dell’Indice clementino, misero a dura prova gli esecutori ma anche la Congregazione dell’Indice, che secondo Clemente VIII doveva avere la responsabilità di sciogliere ogni dubbio. Un intervento del 1596 stabilisce che dovevano essere osservate le liste inoltrate alle periferie dal 1574 e l’importanza delle regole per individuare le opere che necessitavano di una correzione, perchè c’erano pochi libri all’Indice ma tanti nelle regole. Tuttavia non vi è traccia di trasmissione alle periferie di queste determinazioni e questo spiega la continua richiesta di istruzioni. Nella pratica le regole venivano spesso alterate a causa di pressioni di ogni genere, con la dichiarata volontà che le modifiche non venissero rese pubbliche. Queste modifiche volevano contenere la smisurata smania della stampa, frenando il dire di poeti e prosatori. Era anche un modo di celare decisioni per potersi muovere con più libertà. Dunque la genericità delle regole, le contraddizioni delle liste e l’inadeguata comunicazione tra uffici romani e autorità ecclesiastiche locali hanno avuto gravi ripercussioni sull’opera di rastrellamento dei libri. Rimane di ciò una cospicua documentazione. ANTON FRANCESCO DONI È un esempio che ci permette di capire le vicissitudini degli autori incappati nella censura e il divario che si apriva tra normativa e prassi; ripercorriamo le sorti delle opere contenute negli Indici ufficiali e nelle liste. Ci concentriamo sul letterato Doni, figura movimentata e dedita all’attività editoriale e fu anche uno scrittore prolifico (si occupava anche di scienze occulte, per questo ha destato l’attenzione della censura). Inizialmente venivano proibite solo le Lettere, poi tutte le sue opere, in seguito ancora alcune venivano considerate espurgabili. Negli Indici successivi possiamo notare ancora diverse oscillazioni. Le contraddizioni emersero chiaramente agli occhi degli esecutori più scrupolosi, che si preoccupavano e chiedevano istruzioni su come comportarsi dato che spesso figuravano opere e negli Indici successivi venivano considerate diversamente. I LIBRI SCOMPARSI È dunque in una situazione di estrema confusione che si procede all’esecuzione dell’Indice clementino, come ci mostrano le liste dei libri sequestrati in quelle occasioni. Esse registrano solo una minima parte di tutti i libri sequestrati e mandati al rogo. Infatti quando la Congregazione aveva chiesto ai vescovi di mandare a loro le liste dei libri vietati e sospesi depositati negli archivi censurare opere di grande successo. Così era avvenuto per il Canzoniere di Petrarca, che aveva riscritto in chiave spirituale, trasformando il suo amore terreno e carnale in un amore spirituale e cristiano, provocando comunque feroci reazioni per aver paragonato Laura alla Vergine Maria. È impossibile valutare quante siano state le opere sottoposte ad una volontaria correzione di ordine contenutistico e formale. Il fenomeno dell’auto-censura da parte degli autori diventa quasi di massa, ma ci risulta difficile quantificarlo in mancanza di inventari di opere espurgate. Davanti al moltiplicarsi delle liste di libri proibiti e sospesi inviate da Roma agli stampatori, essi si rendono conto del clima culturale e iniziano ad avere paura delle sanzioni che avrebbero portato danni al commercio librario. Per questo incaricano correttori più o meno improvvisati di rivedere i testi sospesi, per questo è difficile individuare chi si trovasse dietro le edizioni corrette, ritoccate dalle cose che potevano offendere il lettore. Ricordiamo una figura professionale che ha dedicato la sua vita all’espurgazione di opere di vario genere, che è il domenicano Girolamo Giovannini da Capugnano. Egli ha corretto vari testi, con il fine di ridare vita a opere spente dalla censura ecclesiastica, intervenendo con significative manipolazioni che ne stravolgevano completamente la trama. Il problema dell’espurgazione dei testi si era posto fin dalla creazione della Congregazione dell’Indice: si crea un ingorgo nel distinguere quali opere dovevano essere proibite e quali espurgate. Questo era causato anche dalla mancanza di criteri per l’espurgazione e di indicazioni su come agire in merito. La confusione è data anche dalla pessima distribuzione dei ruoli tra le autorità, che spesso si sovrapponevano (Inquisizione, Maestro di Palazzo e Indice). Tutto questo ha proiettato un’immagine di inefficienza degli organi censori curiali. A pagare lo scotto di questi malfunzionamenti è la letteratura italiana, lo si denota dalla scarna documentazione superstite; persino il Decameron e il Cortegiano che erano al centro dell’attenzione per tematiche e formalità hanno lasciato esili tracce. Nel corso della revisione delle regole tridentine, il problema della moralità emerge diverse volte: ci si chiedeva se dovevano essere vietati i libri di contemplazione, se autorizzare i manuali di confessione nelle lingue materne… la regola VII condannava i libri lascivi e osceni che non avevano a che fare con la fede e si suggerì di elencare i nomi di questi uno ad uno e non in maniera generica, per questo poi si iniziano a compilare le famose liste che partivano da Roma. La regola VII avvia un dibattito che mette in discussione l’ampliamento del concetto di eresia a questo tipo di libri. C’erano alcuni che sostenevano che si dovesse operare una distinzione tra libri proibiti perchè contro la fede e la Chiesa e libri proibiti perchè osceni. L’arbitrarietà sull’etica dei libri viene sottolineata di nuovo dalla regola X, che prevede che i lettori di libri eretici erano destinati alla scomunica, mentre i lettori di libri licenziosi erano peccatori mortali. Infine la tutela della morale viene affidata alla teologia morale, ai manuali per confessori, alle istruzioni per la donna cristiana e all’azione pastorale di vescovi, parroci e predicatori. Negli anni del Sirleto non c'è stato interesse per il recupero delle opere letterarie, ma solo per la correzione di opere filosofiche, mediche, giuridiche e teologiche. Questo ha comportato un’anarchica proliferazione di revisori dilettanti che indusse gli organi censori ad una duplice revisione dell’attività espurgatoria. Erano più tendenti a condannare piuttosto che espurgare, ma le cose cambiano con Sisto V che aveva deciso che le opere espurgate prima di iniziare a circolare dovevano essere sottoposte alla loro approvazione; inoltre si impegnarono nella compilazione di norme espurgatorie. La revisione delle opere viene affidata a più uomini e questo comporta un’accelerazione del lavoro, dunque si arriva alla pubblicazione di un indice espurgatorio. Le autorità si rendono però conto di quanto era impossibile vietare la circolazione di opere come romanzi, canzoni… che si vendevano comunemente piene di errori ed eresie e potevano finire tra mani poco colte. Di fronte a questo grande spaccio, ci si rende conto che è impossibile levarli dalla circolazione e l’unica soluzione era tentare di correggerle. La visione generale era che l’Indice non poteva mai essere completo perchè se si levava un libro se ne stampavano altri due. Molti consultori ritenevano che le opere da proibire che non trattavano di fede dovevano essere esplicitamente elencate, affinché le persone meno colte non potessero giustificarsi se venivano colti a leggere opere del genere. A tutela della moralità di auspicava anche il divieto di alcuni classici come Ovidio, Catullo, Properzio e Tibullo, ritenuti come corruttori della gioventù. Erano invece concesse deroghe per Cicerone e Virgilio, ma non per autori come Ariosto. Altri sostenevano invece che ad esempio si potevano tollerare le Metamorfosi di Ovidio ma solo nella loro edizione latina e non nelle traduzioni italiane (distinzione linguistica e socio-culturale per vietarne la lettura a chi era sprovvisto di una cultura classica). Nonostante l’attività di Sisto V, l’indice espurgatorio vede la luce solo con Clemente VII, allarmato dalle proteste per la sua mancata pubblicazione. Il ricorso all’ampia concessione di licenze di lettura di libri che dovevano essere emendati porta all’inceppamento degli ingranaggi censori. I correttori dovevano occuparsi sia dei libri espressamente citati ma anche delle sottocategorie delle regole tridentine, per l’espurgazione. È un impegno che varie organizzazioni locali non erano in grado di sostenere, anche per carenza di persone capaci. La Congregazione era diffidente verso le censure locali, così voleva esaminare le opere di espurgazione e autorizzarne la circolazione dopo un’informale approvazione. Infine, l’apparato centrale non resse al peso di un progetto che prevedeva la disinfestazione di innumerevoli opere letterarie, non avendo trovato riscontro anche nei letterati, che non avevano la propensione alla clericalizzazione della cultura. Non sappiamo quante siano le opere sospese che, seppur manipolate potevano circolare ma di certo rispetto alle aspettative della Congregazione, si tratta di numeri esigui. Oltre ai danni all’industria tipografica a causa della sospensione di opere molto richieste e all’orientamento della produzione verso opere liturgiche, il fallimento della politica espurgatoria porta alla scomparsa dal mercato e dalle biblioteche pubbliche di un’incalcolabile quantità di scritti e autori che, sommati a quelli proibiti dagli indici e a quelli inutilmente distrutti per ripensamento, formano un ingente danno causato dalla censura ecclesiastica. Molti detentori di libri sospesi non li consegnarono mai perchè convinti che non sarebbero mai stati restituiti una volta corretti. Per attenuare i disagi, gli organi censori avrebbero concesso licenze di lettura ma solo nei confronti di persone di qualità, per sopperire alle carenze dell’apparato censorio perchè veniva richiesto al lettore colto di correggere le opere assegnate in licenza di lettura. Chi non godeva di protezione doveva rassegnarsi e consegnare i propri libri, relegati poi negli archivi in attesa dell’indice espurgatorio. È una politica di esclusione operata verso un pubblico che non sapeva nulla di latino, che ha fortemente rallentato il processo di maturazione culturale che aveva invece subito un’accelerazione con l’avvento della stampa a caratteri mobili, che produceva sempre più opere in volgare. CAPITOLO VI: IL POEMA EPICO (TASSO E ARIOSTO) La Chiesa a metà Cinquecento mette in atto i suoi meccanismi censori, contraddittori e dilatati al di fuori degli indici ufficiali, tanto che spesso anche gli addetti ai lavori faticavano a comprendere come muoversi. Prendiamo in esame casi singoli di autori e opere che dovettero difendersi dalla politica di Roma contro la letteratura di evasione. TORQUATO TASSO E LA GERUSALEMME LIBERATA Il primo personaggio di cui trattiamo è Torquato Tasso, che si è imbattuto nel clima instaurato dal Maestro del Sacro Palazzo Costabili. Sappiamo che al momento della stesura della Gerusalemme Liberata, Tasso si era rivolto ad amici e letterati presso Roma, perchè rileggessero i suoi canti (Scipione Gonzaga, Sperone Speroni, Silvio Antoniano…). Le domande che Tasso poneva non riguardavano tanto la sostanza e il contenuto del poema, bensì il problema di adeguamento della creatività al classicismo, dato che voleva che la sua opera fosse aderente alla poetica aristotelica. Nel Cinquecento la configurazione di un poema epico era difficoltosa a causa della natura sperimentale e frammentaria di opere non concluse precedentemente. Era un compito che pochi avrebbero saputo portare a termine adeguatamente. Per Tasso stesso la composizione è stata un viaggio tortuoso tra le regole classiche, alla ricerca di un punto di mediazione tra verosimile e meraviglioso. Tasso dunque intrattiene dei contatti epistolari con i suoi amici romani, emergono dei dati di estremo interesse che ci aiutano a capire quali sono i motivi di fondo della revisione. I primi timori di Tasso per la censura ecclesiastica emergono nel 1575 e lo comunica a Gonzaga, preoccupato sempre di più dalle diramazioni da Roma di liste che registravano un numero sempre più alto di opere letterarie. Tasso si preoccupa per la sorte della Liberata, preoccupato anche del fatto che il privilegio pontificio da lui richiesto avrebbe potuto essergli negato. Tasso difende la sua opera dalle critiche, sostenendo che le meraviglie citate nella sua opera sono appartenenti alla religione cristiana e sono prese senza mutazioni. Tasso sosteneva infatti che sarebbe stato più facile per i lettori perseguire comportamenti giusti in questo modo. Inoltre si opponeva anche alle obiezioni contro parole che lui usava e che venivano accusate di deità (Fortuna e Marte). Tasso dice che sono parole entrate ormai nell’uso comune e che quindi non sortiscono più questo effetto. discuteva se metterlo all’Indice, Clemente VIII si stava incamminando verso la conquista di Ferrara per prenderne possesso a causa della morte di Alfonso II d’Este, rimasto senza eredi. È inimmaginabile come un papa potesse recare tale sfregio agli Este, condannando un’opera che aveva celebrato le glorie della dinastia, compiendo anche un gesto che avrebbe portato impopolarità tra i futuri sudditi. Dunque le vicende censorie del Furioso si sono svolte a favore di Ariosto, ma questo non vuol dire che il percorso dell’opera negli uffici romani fu pacifico, anzi. Indubbiamente ha pesato sulla sua sorte il passaggio da intrattenimento orale dei cantastorie a forma fissa nel testo a stampa, legato a modelli di lettura che aveva accentuato la diffidenza del clero, perchè i romanzi di cavalleria sono diventati in questo modo un prodotto editoriale più accessibile (anche per la scorrevolezza della scrittura in ottave), e quindi più temibile. Sottrarre i romanzi cavallereschi al popolo divenne un’impresa senza precedenti, perchè erano ritenuti fonte di corruzione morale per le storie d’amore e di avventura, veicoli di eresia per le pratiche magiche e i sortilegi c'è divulgavano, ma anche causa di alterazione delle verità storiche. Nel 1572 dunque il Furioso viene segnalato al Sirleto, così come la Divina Commedia, i testi di Petrarca… Ariosto veniva definito come vano e impuro uomo, che aveva preso Petrarca come maestro e dunque ha scritto cose oscene e profane. Il censore Barri ha isolato nel poema soprattutto quei passi in cui il clero veniva massacrato: canto XXXIV sulla spiegazione data ad Astolfo della luna nel cielo ad esempio, giudicava anche le insidie dell’eremita ad Angelica. Inoltre era riprovevole come il poeta avesse messo in bocca ad Astolfo il fatto che la bontà dei frutti del paradiso giustificasse la disobbedienza dei primi genitori. Nonostante questo parere di condanna del Barri insieme ad altri, il Furioso non viene inserito nelle liste compilate da Roma. Vi erano però mezzi più sottili per impedirne la circolazione e Costabili seppe usarli; diffidò i librai romani dal fornirsi di copie del Furioso e gli inquisitori di periferia dall’autorizzare le pubblicazioni di storie, commedie e altri libri volgari di innamoramento, di cui il mondo si vizia. Nelle liste figuravano comunque le Satire e sotto la voce di Commedie, tutte quelle di Ariosto. Nonostante i dibattiti successivi, il Furioso non figura nemmeno nell’Indice nel 1596, la decisione di Clemente VIII di eliminare le appendici con gli Indici nazionali fece scomparire il nome di Ariosto. La mancata menzione non si traduce però in minore rigore da parte degli esecutori, che procedono comunque senza scrupoli al sequestro di Satire e Rime. Del Furioso non vi sono tracce nelle liste di libri sequestrati e depositati negli archivi. IL GALLETTI Nella seconda fase di applicazione del clementino, i censori tornano a revisionare opere letterarie in vista di edizioni corrette da far approvare a Roma, ma anche per la pubblicazione di un indice espurgatorio. A indirizzare lo sguardo di nuovo sul poema ariostesco è Tommaso Galletti, che fa presente l’apparizione dei Cinque Canti apparsi in appendice all’edizione veneziana del Furioso nel 1545, presso gli eredi di Manuzio. Si enuncia che ci sono diverse stanze in cui si canta la comunanza delle mogli, le mescolanze eretiche, dunque è necessario correggerlo perchè pieno di disonestà. Si invia una censura del Furioso e dei Cinque Canti, ma Galletti non è stato il solo ad allarmarsi per i canti postumi. Galletti compone die giudizi lapidari, concentrandosi su specifiche stanze e versi. Galletti deprecava che tutto quello che scriveva poteva essere attribuito ad un cristiano, perchè definiva Merlino come profeta, dava dei santi a dei pagani, definiva miracoli incanti e sortilegi… condanna anche il passo in cui un personaggio maschile si finge donna, andavano eliminati tutti gli strali contro il clero e gli ordini religiosi. Quello che invece disturbava Galletti nei Cinque Canti era la preminenza dell’onore sulla vita, le mutazioni operate dalla maga Alcina sugli uomini di cui era stata amante (in beste, sassi e piante) e l’abuso dell’epiteto sacro per connotare oggetti usati dai negromanti. Le censure di Galletti arrivarono a Roma, ma qualche mese dopo grazie all’atteggiamento meno rigido della Congregazione dell’Indice nei confronti della letteratura durante il pontificato di Clemente VIII e di una certa riluttanza a intervenire sulle opere del poeta, si raccomandava di aver considerazione nel censurare, che si tolga il meno possibile per non interrompere il senso della storia e variando le parole solo per renderle più ragionevoli. Gli inquisitori si rendono conto di come fosse difficile reperire opere di Ariosto, che non siano il Furioso. Inoltrano a Roma le correzioni sottoscritte secondo le normative; prima di elencare i propri interventi, i revisori dicono c'è la correzione è stata effettuata su un’edizione che conteneva anche i Cinque Canti. Nella revisione del poema, i censori cancellarono con secchi “si levi” parole, versi, ottave e addirittura un intero canto senza suggerire sostituzioni o valutare le conseguenze dei loro tagli sulla comprensione del testo e sulla trama del poema, seguendo alcune regole e ignorandone altre che avrebbero portato alla cancellazione della maggior parte del testo del poema. La loro condanna si rivolge ad aspetti come il misto tra linguaggio cristiano e linguaggio pagano, l’immoralità e la lascivia delle donne, gli attacchi al clero e la vena anticlericale, l’irriverenza verso riti e cerimonie della Chiesa… Per fare alcuni esempi sull’uso improprio di termini o riferimenti legati al cristianesimo basti pensare alla definizione di cimitero data al sepolcro di mago Merlino, che doveva essere cancellata, ma anche il termine paradiso inteso come luogo di delizie e profeta applicato ai non cristiani. Sul piano femminile dovevano essere eliminate la difesa di Ginevra da parte di Rinaldo, che enuncia la libertà sessuale delle donne, così come il travestimento da donna di Ricciardetto. I censori vedevano in questi episodi i disordini sessuali come conseguenza dell’adesione a credenze ereticali. Si tende a cancellare anche ogni critica nei confronti della Chiesa, sono tagli che investono poche o uniche parole con la conseguente eliminazione di numerose ottave e dell’intero canto XXXIV. Si tagliano anche accenni ad aventi politici coevi descritti con accenti polemici, le critiche contro alleanze di papi, gli accenni a morti violente di questi ultimi… Impossibile si rivela invece l’espurgazione del canto XXXIV, per l’irriverente derisione nella narrazione del viaggio di Astolfo e dell’evangelista Giovanni nel cielo, verso la Luna. Minimi gli interventi su questioni di natura strettamente teologica. Al termine dell’analisi degli interventi censori è necessario fare alcune considerazioni, anche per la loro distanza cronologica. Anche se sono stati effettuati interventi in tempi diversi, si sottolinea come i loro argomenti censori siano accomunati dalla mancanza di riferimenti alle inquietudini religiose di Ariosto. In diversi passi emerge infatti l’adesione di Ariosto ad una dottrina della giustificazione per sola fede, condivisa da molti prima della sua formulazione luterana. I censori, nel solco dell’antica polemica dei teologi contro le favole dei poeti, si concentrano sul problema dei confini tra verità e finzione, su sacro e profano, tra linguaggio cristiano e pagano, incentivato dall'imitazione dei classici. Queste profonde riserve si sommano alla crescente vigilanza ecclesiastica sulla sessualità femminile con la conseguente attribuzione alla materia amorosa di una forza corrosiva nei confronti della moralità, vigilanza che si manifesta nella condanna di temi ed episodi lascivi e osceni, in una più rigida intransigenza nei confronti di poeti e prosatori, soliti ad adornare comuni mortali e le loro azioni con attributi riservati alla divinità e ai santi. Ad alimentare l’intolleranza contro il poema cavalleresco concorrono anche la battaglia anti-astrologica e anti- magica. Sono anni in cui la Chiesa si impegna nella moralizzazione e catechizzazione dei fedeli, dunque i pungenti giudizi presenti nel Furioso hanno sicuramente allarmato i censori. Restano da indagare i contesti sociali, culturali e familiari in cui Ariosto ha coltivato il proprio pensiero religioso. Sicuramente è stato influenzato anche dalla polemica anti-ecclesiastica ferrarese. Occorrerebbe analizzare anche gli influssi della lettura delle opere di Lorenzo Valla e della sua corrosiva polemica contro la donazione di Costantino. Terminata l’analisi delle censure del poema ariostesco è necessario chiedersi se queste hanno trovato concreta applicazione. Quel che è certo è che l’edizione emendata non apparve mai in nessun indice. Le espurgazioni avrebbero potuto fornire la base per una revisione coerente e approfondita, ma il Furioso non era un testo qualsiasi perchè la revisione non si sarebbe potuta esaurire nelle cancellazioni. Occorreva affrontare il problema cruciale della riscrittura, affinché il testo potessero risultare comprensibile e scorrevole. Un’impresa che non venne mai tentata. È significativo che nel 1609 la Congregazione dell’Indice autorizza il Maestro del Sacro Palazzo a far stampare il Furioso a Roma, senza porre alcuna condizione; altrettanto importante è che la smania purificatrice continuava anche successivamente, facendo emergere sempre nuove osservazioni sul Furioso, graditissime alla Congregazione che le avrebbe esaminate. CAPITOLO VII: IL POEMA SACRO La penetrazione in Italia della Riforma protestante aveva messo in luce il fatto che l’accesso diretto alla Bibbia anche tramite traduzioni aveva diffuso il dissenso religioso in varie fasce della società. Così la reazione ecclesiastica non si fece attendere, con la promulgazione del primo indice dei libri proibiti si vieta la lettura, il possesso e la stampa delle traduzioni di Antico e Nuovo Testamento. Anche se ci sono stati dei tentativi di attenuazione, vengono diffusi provvedimenti volti a ripristinare la proibizione ed estenderla ad una vasta gamma di volgarizzamenti biblici, inasprendo anche i contrasti di opinione sulla liceità di tradurre le Scritture. I dubbi dei dotti facevano vedere come i versi tradotti potevano essere soggetti ad interpretazioni sbagliate. Disorientati da questa raffica di proibizioni e divieti, gli inquisitori locali chiedevano chiarimenti d’amore che raccontavano, ma anche come veicolo di eresia per le pratiche magiche e i sortilegi che divulgavano, ma soprattutto erano un prodotto concorrenziale per la letteratura devozione, dunque estirparli è una delle finalità degli autori di poemi biblici. I verseggiatori cercavano di inserire il poema biblico in un genere di successo, in modo da conquistare un pubblico anche refrattario. Si faceva ricorso al metro della tradizione epico-cavalleresca (in ottave). Stando alla scarsa fortuna editoriale di queste iniziative, si può desumere che lo sforzo teso a sostituire con l’epica biblica il romanzo cavalleresco, non incontrò il pieno consenso del lettore. A limitarne ancora di più la presa sul pubblico contribuì l’avversione per le traduzioni bibliche e la crescente diffidenza dei censori verso le opere letterarie in generale. I motivi di conflitto che da tempo nutrivano la polemica dei teologi contro le invenzioni e le favole dei poeti, si erano accentuati con la Riforma protestante: diventava sempre più necessaria la divulgazione di una verità solida e rigorosa, che non deve sparire niente con le favole, né concedere divertimento all’invenzione poetica. Riemerge il vecchio problema della permeabilità tra sacro e profano, tra linguaggio cristiano e linguaggio pagano e un uso distorto e irridente delle parole della Sacra Scrittura. Nel caso delle versificazioni della Bibbia si pone l’attenzione anche sulla questione di verità storica e finzione poetica, che in assenza di chiari confini induceva gli autori di poemi biblici a concepirli alla stregua di un qualsiasi romanzo cavalleresco. Molti autori dovettero quindi lasciare i loro componimenti sacri incompiuti, di fronte alle obiezioni dei censori, oppure dovevano auto- censurarsi. Altri invece approfittarono delle crepe di un sistema fatto di strategici occultamenti: versificazioni bibliche sotto varie forme continuarono ad essere stampate nel Seicento, ma sappiamo poco degli ostacoli che dovettero affrontare. Un caso significativo può essere la vicenda censoria dell’opera Reina Esther di Ansaldo Cebà. A seguito di una denuncia anonima dopo la sua pubblicazione, è stata portata negli uffici della Congregazione, che enuncia il fatto che l’opera è contro la storia sacra, dunque è profana e lasciva. Prima di proibire o sospendere il poema si ritenne di trasmetterla ad un altro cardinale per un controllo, dunque si decide che l’opera doveva essere sospesa per essere corretta. La pubblicazione della sospensione non fu immediata; l’autore provò a difendersi dalle accuse infondate ma senza successo, si riteneva non in obbligo di mutilare la sua opera. Altrettanto vano fu il tentativo di aggirare gli interventi espurgatori che gli erano stati imposti. L’autore scrisse anche diverse lettere in cui cercava di spiegare i passi che si volevano censurare, le accuse derivavano dal fatto che secondo loro l’autore aveva mischiato cose sacre con cose profane, si descrivono laidamente vicende sacre, si cerca di difendere dalle accuse. Cerca di dimostrare la funzione pedagogica della sua opera, mettendo in evidenza la purezza di Esther contro la lascivia di tutti quelli che la circondavano. È sul titolo che l’autore si accanisce più intensamente: è da qui che partono tutte le accuse che gli vengono mosse, l’assimilazione di un poema sacro ad un’opera storica muove il precario equilibrio, ricordando che era vietata l’adesione puntuale al testo sacro. È una difesa in nome della creatività dell’artista, che ci sottolinea ancora una volta l’accanimento dei censori contro le opere poetiche, ma anche il fatto che Roma aveva imposto ai letterati il senso dei confini nella propria creatività. Mezzo secolo di censura preventiva e di espurgazione aveva reso i letterati più accorti dei margini angusti lasciati dalla vigilanza ecclesiastica alla loro creatività, ma anche più determinati a sfruttarli fino in fondo, perchè in passato, si prenda l’esempio di Tasso, gli autori facevano fatica anche ad elaborare discorsi di difesa (impreparato di fronte all’invasione aggressiva da parte della Chiesa nel campo delle lettere). Dunque Cebà dovette rinunciare ed espurgare la sua opera, ma la morte lo strappò da questo ingrato compito. È difficile stabilire se la sorte di Cebà toccò anche ad altri letterati o se riuscirono a scampare. Alcune testimonianze evidenziano l’impatto dei cambiamenti avvenuti tra Cinquecento e Seicento e la necessità di conformarsi ai dettami della Chiesa. Al di là dei casi singoli, le ripercussioni della censura appaiono evidenti nel riorientare gli autori su terreni meno minati. Ma questo non comportò di certo un allentamento della vigilanza, perchè la materia biblica continuò ad occupare i censori. Si può concludere questo rapido excursus tra testi biblici e versi in prosa chiedendosi se i loro autori si sarebbero identificati con la poco persuasiva immagine di letterato della controriforma. Il letterato avrebbe dovuto partecipare al fianco della Chiesa, collaborando alla censura preventiva, espurgando libri sospesi e assecondando con i suoi scritti sottoposti ad auto- censura l’opera di moralizzazione della società. Si tende a vedere collaborazione anche laddove ci fu solo esigenza di preservare dalla distruzione e dall’oblio inestimabili opere, accettando come male minore la loro espurgazione (è ad esempio il caso del Decameron). La via dell’espurgazione che la Chiesa aveva imboccato con il Concilio di Trento per recuperare un patrimonio indispensabile all’esercizio delle professioni libere, fallì miseramente proprio per la mancata collaborazione tra frati e intellettuali. Rimane quindi tutta da dimostrare la tesi secondo la quale la politica espurgatoria della Chiesa avrebbe offerto agli intellettuali una palestra non solo per manifestare il loro entusiasmo per la censura, ma persino per affinare le loro conoscenze filologiche. Il loro concreto e capillare coinvolgimento nel recupero di opere sospese è difficilmente documentabile. Non sembra però che ci fosse una loro naturale propensione a lasciarsi asservire al progetto di clericalizzazione della cultura: ci fu invece un clima opprimente e repressivo, che lentamente giunse a fiaccare e piegare gli autori, drammaticamente avvertiti della sorte destinata a opere e uomini che si fossero azzardati a divulgare valori e nozioni non condivisi dall’apparato censorio. Dall’espurgazione del Decameron e del Cortegiano, alle traversie della Gerusalemme Liberata e della Reina Esther, l’instancabile vigilanza dei tutori della fede, che applicavano alla letteratura criteri e giudizi che nulla avevano da spartire con il metodo critico-filologico, lasciava pochi spazi alla creatività dell’artista. CAPITOLO VIII: Roma tra libelli famosi, pasquinate, avvisi e satire Ricordiamo come nella seconda metà del Cinquecento, Roma non si sia solo impegnata nelle operazioni di censura delle opere e dei generi letterari che potevano offendere le orecchie dei fedeli, ma doveva prestare attenzione anche alla comunicazione manoscritta e orale di notizie improvvisate negli spazi pubblici. Oltre l’invenzione della stampa, continuavano a circolare piccoli opuscoli poco curati, di poche pagine, alle volte anche scritti a mano e smerciati a basso prezzo. Sulla scia della tesi di Habermas (origine dell’opinione pubblica settecentesca in area borghese), l’attenzione si sposta anche su questa letteratura di strada: libelli famosi, avvisi, pasquinate e sul ruolo dei venditori ambulanti, ciarlatani che li diffondevano fin dalla prima Età Moderna. Grazie a loro, notizie di ordine politico venivano divulgate in tutti gli strati della società, collegando tra loro livelli culturali e sociali diversi, sfumando i confini tra cultura alta e cultura popolare, tra il mondo della stampa e quello dell’oralità e del manoscritto. Le autorità ecclesiastiche e civili avevano a lungo convissuto pacificamente con questo tipo di scritti che erano ben radicati nella tradizione letteraria italiana e si caratterizzavano per la forte critica verso i costumi del clero e delle pratiche religiose. Questo ha però suscitato una fame di notizie e quindi un’incontrollabile produzione di informazioni che ha inondato la scena pubblica e questo effetto ha scaturito i provvedimenti ecclesiastici. Le polemiche verso la Chiesa erano inasprite sicuramente dalla responsabilità dei papi nell’invasione della penisola da parte di potenze straniere, la percezione dell’irreversibilità della crisi italiana, papi indegni, la fine del Rinascimento… si dice che la Chiesa abbia dimenticato la sua missione spirituale. Con Leone X e la Inter Sollicitudines, relativa al controllo preventivo di ciò che andava in stampa e il rilascio della licenza di permesso, si faceva riferimento anche alla proibizione di scritti che andavano a ledere la fama delle persone, soprattutto quelle rivestite di dignità. Anche se l’indicazione è generica, è possibile capire quale sia il materiale incriminato di riferimento: scritti infamanti che comprendevano al loro interno diverse varianti, che recavano ingiurie all’onore e alla reputazione di individui e istituzioni. I testi condannati verranno citati in qualche indice, ma non sempre la prescrizione viene rispettata nella promozione del genere pasquillesco. La particolare attenzione alle pasquinate a partire dagli anni Quaranta fu destata dal carattere eterodosso dei testi stampati a Venezia e oltralpe, che circolavano diffusamente nelle conventicole ereticali della penisola. Fu sollecitata anche dagli ingredienti che vi confluivano: profezie, vituperi, diffamazione, parodia sacra… e dagli usi diversificati che ne vennero fatti. Di altre tipologie di scritti diffamatori, altri indici non ne fanno menzione, anche se la percezione che la diffamazione potesse essere veicolata da altri generi, era fortemente presente nel clero censore. Si condannavano tutti quegli scritti considerati diffamatori e vituperosi. Ricordiamo che questo materiale era anche difficile da controllare perchè circolava anche scritto a mano. È una letteratura deperibile e difficilmente intercettabile, ampiamente diffusa tra donne e uomini di tutti gli strati sociali, fruita senza la consapevolezza di trovarsi davanti a testi condannati, dato il loro carattere giocoso. Data l’impraticabilità delle proibizioni degli indici, le autorità ecclesiastiche furono costrette a ricorrere ad altri rimedi. A Roma, l’interruzione della produzione di scritti diffamatori avvenne solo grazie ai papi che hanno fatto uso del loro potere temporale per ristabilire e mantenere l’ordine pubblico. È il caso di Pio IV, che bandiva questo tipo di opere per evitare che nascessero fraintendimenti dalle interpretazioni. È un provvedimento di ordine pubblico che viene integrato al bando dei libelli famosi: diffidava chiunque dal comporre, dire, leggere o pubblicare libelli famosi in prosa o versi, su pregiudizi di uomini e donne. Nella pena incorre chiunque legge, scrive e possiede questi libelli Satire di Ariosto erano ben chiare agli occhi dei censori, perchè così come il Furioso erano piene di cose sporche. La forte domanda del mercato, testimoniata dalle innumerevoli copie ed edizioni, indusse la Congregazione ad annoverarle tra le poche opere letterarie assegnate all’espurgazione. Emendare le Satire non era compito agevole considerando le tematiche affrontate con toni mordaci e sarcastici, ma raramente vituperosi, urtavano sotto diversi aspetti la sensibilità e la scrupolosità dei censori. Non passavano inosservati gli attacchi nei confronti del comportamento ipocrita e avido degli ecclesiastici, la corruzione di Roma, la polemica contro la politica dei papi, riferimenti a concetti pagani come la fortuna e la sorte… l’indignato anticlericalismo di Ariosto si intrecciava comunque con elemento che sfioravano l’eterodossia: emerge il rifiuto della dottrina tradizionale, la rivalutazione del matrimonio. Ma c'è anche il disprezzo per pratiche devote superstizione come i voti e le indulgenze. La richiesta dei lettori doveva quindi aver costretto editori e stampatori a camuffare la propria merce perchè ormai tutti conoscevano le opere più famose ed era impossibile farle sparire nel nulla, dunque gli stampatori promulgavano opere che loro dichiaravano come purificate e corrette sul frontespizio, ma in realtà non era stata apportata alcuna modifica al loro interno. Si ribadisce ancora una volta l’assenza di criteri espurgatori uniformi e il conseguente procedere tra incertezze e approssimazioni nel sopprimere versi che potevano essere considerati come compromettenti. Tutt’altro che lineari erano anche le vicende delle edizioni realmente emendate: correzioni che spuntavano riferimenti a Dio, parole mutate che facevano perdere il senso della terzina… questi maldestri e superficiali interventi ebbero però scarso seguito. Altre correzioni prevedevano invece l’eliminazione di parole licenziose, di intere terzine, ma anche vere e proprie manipolazioni come la cancellazione di argomenti e vocaboli licenziosi, espunzione di tutto ciò che poteva attaccare la reputazione del clero… tutte queste correzioni erano prive di licenza e questo ci porta a pensare che sono state eseguite da revisori improvvisati al servizio delle tipografie, che operarono con scarsa accuratezza e coerenza (es. Satira II che era quella più dura nei confronti della Chiesa). Di fronte a questa congerie di stampe delle Satire di Ariosto ci possiamo rendere conto di come sono state espurgate in maniere differenti oppure non corrette affatto. È lecito chiedersi quante altre opere hanno subito lo stesso trattamento. Il genere della satira scomparve dal mercato e si mantenne in vita solo grazie alla clandestinità e la circolazione manoscritta. Rimane da interrogarsi su quanto patrimonio letterario del Rinascimento sia sopravvissuto intatto, quanto sia stato deformato e tradito, quanto sia scomparso. CAPITOLO IX: Ludovico Beccadelli, le contraddizioni di un letterato Dopo aver analizzato i comportamenti dei censori nei confronti della letteratura, è opportuno rovesciare la prospettiva e mettersi nei panni di un letterato del Cinquecento, per vedere che uso fece dello strumento censura. Ludovico Beccadelli non è un letterato minore, ma un uomo formato nella scuola del Bembo, grande cultore e biografo di Petrarca. È originario di una famiglia di antiche origini nobili, avviato agli studi giuridici dal padre che abbandona per quelli umanistici. Era amico di Giovanni della Casa, entra a far parte della cerchia del Bembo: con lui matura i suoi interessi per la poesia provenzale, Petrarca e anche una forte sensibilità per i problemi della Chiesa, oggetto di dibattito. Partecipa anche al Concilio di Trento, poi fu mandato come nunzio pontificio a Venezia, sede prestigiosa e molto ambita. Nella sua lunga e movimentata esistenza, la nunziatura di Venezia ha rappresentato l’apice della sua carriera, segnando una svolta importante nella sua vita e inducendolo a proiettare un’immagine di sé che lo avrebbe portato all’inserimento nel novero degli uomini illustri. Prima di questa esperienza, la scarsa disponibilità economica e la modesta posizione non avevano permesso a Beccadelli di fare progetti ambiziosi, anche perchè la sua famiglia era decaduta in cattive maldicenze. Per questo era necessario cancellare due secoli di brutta reputazione. Era un letterato molto sensibile alle ragioni della filologia, come dimostra la cura con cui cercava fonti e manoscritti, ma era anche uomo di Chiesa non per vocazione ma, come tanti altri letterati del suo tempo, per promulgare nel tempo il culto delle lettere a cui aveva consacrato la sua vita, grazie al beneficio ecclesiastico. Mosso dall’ansia di censurare, moralizzare e cristianizzare i testi che dovevano essere pubblicati, Beccadelli vi apportò emendamenti e tagli così drastici che travisarne e alterarne profondamente il significato. LA RASSETTATURA DEL DECAMERON A gettare luce sugli atteggiamenti censori di Beccadelli è il suo contributo nella rassettatura del Decameron di Boccaccio. L’opera era stata vietata nel 1558, con una formula che preludeva ad un’eventuale edizione espurgata, sospeso nell’indice tridentino del 1564 in attesa di un’edizione emendata affidata a Beccadelli. La decisione di inserire l’opera tra quelle da correggere fu tutt’altro che pacifica, come si evince dalle carte di Beccadelli. Ci dice che presso il Concilio di Trento si era deciso che quell’opera doveva rimanere così com’era perchè era impossibile riformarla dato che si trattava di cose pubblicate da Boccaccio. Gli accademici fiorentini però volevano rimuovere qualcosa, perchè il mondo intero vuole leggere questo libro e dunque è impossibile vietarlo completamente. Così Beccadelli viene incaricato dell’espurgazione del Decameron, insieme ad un inquisitore. Non c'è dubbio che Beccadelli sia stato scelto come revisore per la sua fama di uomo colto e dotto, per la sua profonda conoscenza delle opere di Boccaccio, ma anche per le posizioni moderate assunte durante le assemblee conciliari. I tridentini affidandogli il Decameron, hanno voluto mettere l’opera nelle mani di chi avrebbe potuto salvaguardare il testo da modifiche troppo devastanti. Non si aspettavano che in linea con quanto accaduto a Trento, Beccadelli avrebbe finito con il defilarsi lasciando ad altri un compito che gli era parso improponibile e destinato a generare ilarità nel pubblico. I lavori di correzione iniziarono nel 1565 con l’arrivo a Firenze di nunzio Brisegna, che portava l’ordine pontificio di procedere insieme a Beccadelli nella rassettatura. A Roma si seguiva con occhio attento tutto il procedimento, lo testimonia una lettera di Beccadelli in cui emerge tutta la preoccupazione per il delicato compito, ma anche la mancata percezione che la Chiesa stava dilatando il suo concetto di eresia anche verso opere considerate moralmente perniciose. Ribadisce anche la convinzione che fosse impossibile emendare un testo largamente diffuso come il Decameron e che l’espurgazione avrebbe reso più preziosi e ricercati gli esemplari che non erano stati sottoposti a censura. Beccadelli sembrava voler prendere le distanze da un compito che sotto diversi aspetti, gli appariva ingrato. Beccadelli esprime il suo parere contrario ad ogni tipo di intervento censorio e a malincuore suggeriva qualche piccola modifica, quasi a giustificare il ruolo ingrato che gli era stato assegnato, è scettico in un’operazione che lui stesso ritiene impossibile, limitandosi a fare qualche piccola concessione al rigore moralistico delle autorità censorie. Di fronte a questa riluttanza convinta e dichiarata, Beccadelli si rivela la persona meno idonea a intervenire in modo drastico e capillare come voleva la Chiesa. La documentazione non ci consente di capire se è stato rimosso dall’incarico o se si è sottratto da solo. Beccadelli muore nel 1572, prima che uscisse l’edizione dei Giunti del 1573, quindi non fece in tempo a vedere lo scempio imposto dal Maestro del Sacro Palazzo, Tommaso Manrique sotto il cui diretto controllo aveva lavorato la commissione fiorentina. Non seppe nemmeno che quelle devastanti imputazioni furono ritenute insufficienti da Costabili che vietò la vendita e la lettura dell’edizione Giunti. Dunque alla luce di ciò si ricordano le pesanti amputazioni messe in atto sugli scritti di un antenato di famiglia, dettate dalla preoccupazione di salvaguardarne il profilo morale e cristiano, con esso l’onore e la reputazione del casato, non da veri scrupoli religiosi. IL MODELLO EPISTOLARE Seguiva a distanza la rassettatura del Decameron e nel frattempo attendeva ad una scrittura personale, quella della propria vita. Questa raccolta fu oggetto di numerosi studi, sottolineando l’uso del buon volgare, propaganda delle inquietudini religiose del secolo, fonte di notizie su uomini celebri e su eventi a lui contemporanei, notizie storiche, ma è stata analizzata anche per le sue tecniche epistolari. Infatti emerge la nuova necessità di avere modelli epistolari pratici e tecnici. Paolo Manuzio aveva fiutato l’affare ed i nuovi interessi, così propone a Beccadelli di riflettere su un’edizione del proprio epistolario: si conciliavano affari economici e gusti del pubblico, dato che Manuzio aveva già pubblicato diverse antologie di lettere che avevano avuto successo. Beccadelli godeva della fama di letterato cresciuto da Bembo, capace quindi di offrire modelli di buon volgare. Inoltre la sua posizione prestigiosa gli permetteva di stare in contatto con i grandi e di intrattenere rapporti epistolari con loro. Date queste prerogative, poteva essere inserito nel progetto di cauta propaganda religiosa di Manuzio, sotteso ai libri di lettere. Il possesso dei requisiti oggettivi per allestire un epistolario e i torchi veneziani che inondavano il mercato di raccolte epistolari, induceva Beccadelli a riflettere su un’eventuale edizione delle sue lettere. Fu soltanto alla fine della sua vita che provò a dar vita a quel progetto. Il periodo della costruzione dell’epistolario è accertabile, ma non le sue finalità. Beccadelli era fermamente convinto di non dare nulla alle stampe durante la propria vita, pensava probabilmente ad una pubblicazione postuma o ad un uso familiare del proprio epistolario. Si trattava comunque di un progetto a lungo meditato, così come testimoniano i termini cronologici della raccolta, fin dagli anni della nunziatura veneziana. La costruzione di un libro di lettere e l’elaborazione di criteri di selezione si rivelarono complicati perchè Beccadelli dovette far fronte all’ampia rete di relazioni. Si denota la difficoltà nel comporre un insieme unitario e coeso: una serie di materiali epistolari risalenti a momenti diversi di una biografia segnata
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