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riassunto "Rinascimento perduto" G. Fragnito, Sintesi del corso di Storia

riassunto esaustivo del manuale

Tipologia: Sintesi del corso

2021/2022

Caricato il 09/08/2023

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Scarica riassunto "Rinascimento perduto" G. Fragnito e più Sintesi del corso in PDF di Storia solo su Docsity! GIGLIOLA FRAGNITO, RINASCIMENTO PERDUTO INTRODUZIONE Obbiettivo del libro è ricostruire i meccanismi censori che produssero interventi esiziali sulla letteratura di svago di largo consumo (romanzi cavallereschi, novellistica, facezie e motti, lettere amorose), considerando l’enorme divario tra la normativa inquisitoriale e la prassi effettiva superando la visione ottimistica di Andrea Sorrentino, il quale, attenendosi agli indici, affermava una certa indulgenza nei confronti di tali opere letterarie. Tale visione consolidata è stata scalfita solo a partire dagli anni Ottanta del Novecento dopo la pubblicazione dei volumi VIII e IX degli indici romani (1990 – 4) e dell’apertura dell’Archivio della Congregazione per la Dottrina della Fede (1998). Prima sarebbe stato problematico ricostruire il percorso tutt’altro che lineare e trasparente attraverso cui gli organi romani estesero il proprio raggio d’azione, passando dal libro eretico a settori di vasto consumo della produzione editoriale. Ugualmente difficile è stato ricostruire le ragioni che avevano progressivamente equiparato reati contro la fede e contro la carne. È quindi in un quadro di continuo movimento che va collocata l’elaborazione di criteri censori riguardanti le opere letterarie e il passaggio dal divieto di un manipolo di autori, segnalato da Sorrentino, al rastrellamento, a cavallo tra ‘500 e ‘600 (esecuzione dell’indice clementino), di un gran numero di scritti non inseriti in alcun indice promulgato. Il loro sequestro, il rogo o il deposito negli archivi inquisitoriali in attesa di espurgazione (stravolgimento dell’opera o scomparsa dal mercato libraio fino al ‘700) hanno origine infatti nelle liste semiufficiali, compilate a Roma e diffuse in periferia, o in “regole” generali che prescrivevano quanto dovesse essere soppresso. Di queste regole fu la VII dell’indice tridentino, con la proibizione delle opere lascive e oscene che, sommata alla lotta al tradizionale anticlericalismo di molti autori e all’ossessione per la sessualità di molti censori appartenenti prevalentemente ad ordini religiosi, finì con l’abbattersi su gran parte della letteratura italiana. Intorno agli anni Settanta del ‘500, eliminati i principali focolai d’eresia dalla penisola, l’inquisizione venne riconvertita infatti, in un servizio di polizia dei costumi mediante l’ampliamento delle sue competenze in direzioni tradizionalmente affidate ai confessori. Contemporaneamente la creazione della Congregazione dell’Indice (1572), incaricata di aggiornare l’indice tridentino sotto la guida del Cardinal Sirleto, segnò il progressivo consolidamento degli apparati censori centrali che trovarono il loro assetto intorno all’inizio del ‘600. È in questo arco di tempo che l’estensione delle categorie di scritti suscettibili di proibizione e sospensione investì in blocco la letteratura. Tra i fattori a monte di questo ciclone è da segnalare l’invenzione della stampa, che aveva immesso sul mercato opere a basso costo e in formati maneggevoli, trasformando il libro da privilegio per pochi a oggetto alla portata di molti, e aveva incentivato la produzione in volgare anche di libri di svago. Tutto ciò aveva favorito il processo di alfabetizzazione e l’accesso alla parola scritta a fasce più ampie della società, contribuendo a sfumare i confini tra letteratura dotta e popolare. Nata per lo più nelle corti e per le corti, questa letteratura di intrattenimento era rapidamente esondata negli ambienti popolari per un pubblico vasto ed eterogeneo. Nel clima severo degli anni Settanta, il carattere ludico e licenzioso di molta di questa letteratura fornì i pretesti per la censura. Inutile si rivelò il richiamo dell’erudito fiorentino Pietro Vettori (1573) al sollievo che la lettura poteva recare negli affanni quotidiani. La progressiva incrinatura delle barriere che separavano la cultura della nobiltà da quella dei ceti urbani e il maggiore coinvolgimento delle donne nella lettura e scrittura di opere letterarie, non potevano non allarmare la Chiesa che interpretava queste novità come una minaccia di sovversione dell’ordine costituito. Proporzionata alla dama era infatti solo la lettura di ordine religioso, che poteva fornire validi esempi per la moralizzazione dei comportamenti suoi e dell’intera società. Il progetto pedagogico post tridentino finì col gettare un’aura di sospetto sul libro in generale, arrecando danni all’editoria (testimoniati dalle proteste di stampatori e librai che dovettero riconvertire la propria produzione) e determinando la fine della stagione più luminosa della tradizione letteraria italiana. Spostandosi dalla fase cruenta dell’emergenza al periodo della “normalizzazione”, la storiografia ha enfatizzato il volto clemente della censura, attenuandone i tratti coercitivi e repressivi e attribuendole una funzione educatrice e disciplinatrice della società. Se è innegabile che nelle accademie cinquecentesche italiane si esercitava sugli scritti dei propri membri un controllo costante in vista della stampa, è tuttavia meno evidente la trasformazione degli accademici in collaboratori e consulenti dell’Inquisizione. Un effettivo, capillare coinvolgimento dei letterati laici nell’emendazione delle opere, allo stato attuale delle ricerche, è difficilmente dimostrabile sia perché di molte delle edizioni “ritoccate” si ignorano i revisori, sia perché lì dove sono noti si tratta di membri degli ordini religiosi. Che la Chiesa abbia adottato un modello pedagogico fondato sulla persuasione piuttosto che sulla coercizione è fuori discussione, ma è altrettanto da escludere tuttavia, che si trattò di una pedagogia finalizzata a mantenere il controllo delle menti privandole degli strumenti per sviluppare un’autonomia critica e riducendo in tal modo i cattolici a minorenni perpetui sui quali esercitare più facilmente il proprio potere. Assai più difficile è stabilire l’efficacia del sistema censorio: voci come quella di Antonio Rotondò sostengono gli effetti devastanti sulla cultura italiana, di cui avrebbe interrotto i rapporti con il resto dell’Europa, provocando un forte impoverimento intellettuale della penisola, Jhon Tedeschi e Paul Grendler, d’altro canto, ne hanno denunciato le numerose falle. Facilmente dissimulabili, libri stampati e manoscritti sfuggirono sicuramente ai controlli periodici delle autorità ecclesiastiche; la sorveglianza in porti e dogane non impedì l’importazione clandestina né lo smercio di libri proibiti. Tuttavia le conseguenze dell’azione della Chiesa non si possono valutare solo sui libri che si salvarono grazie ad astuzie di ogni genere, ma vanno misurate alla luce delle modifiche che subirono interi generi letterari come la satira che scomparì dal mercato per circolare solo in forma manoscritta, al romanzo cavalleresco che veniva ancora recitato a memoria all’inizio del Novecento. Tuttavia non vi furono esclusivamente ripercussioni sul piano letterario: vennero vietate traduzioni della Sacra Scrittura e di altri scritti di contenuto biblico nelle lingue materne, con l’obiettivo primario di allontanare i fedeli digiuni di latino dalla conoscenza dei misteri della fede e per spezzare la contaminazione tra sacro e profano che permeava molte di queste opere inducendo il lettore a un approccio sostanzialmente indifferenziato alla letteratura devota e a quella di svago, con effetti negativi di lunga durata sui processi di alfabetizzazione e di unificazione linguistica. Un aspetto rimasto a lungo ai margini degli studi del libro è quello dell’incidenza della censura sulla disaffezione degli italiani per la lettura. Sebbene fino alla metà del ‘500 l’Italia sia stato uno dei paesi a più alto tasso di alfabetizzazione, oggi, a confronto dei paesi europei confinanti, essa si presenta come una nazione di lettori deboli. La rimozione di testi di larga circolazione e la manifestata avversione nei confronti di poeti e prosatori (propagatori di lascive oscenità) hanno contribuito senza ombra di dubbio all’introiezione di una profonda diffidenza nei confronti del libro, lasciando un’impronta sul rapporto degli italiani con la lettura e sul conseguente attuale problema dell’analfabetismo. ORIGINI DELLA CENSURA ECCLESIASITICA: GLI APPARATI Fin dalle origini la Chiesa esercitò forme di controllo sull’ortodossia attraverso la condanna di deviazioni dottrinali pronunciata da bolle pontificie e da decreti conciliari. Con la nascita tra ‘200 e ‘300 delle università la vigilanza su studenti e docenti si fece più stretta: le facoltà di teologia si assunsero il compito di condannare l’insegnamento di dottrine filosofiche e teologiche eterodosse e di sorvegliare la produzione delle botteghe di copiatura. Si trattò di un sistema censorio che godeva di larga autonomia e i cui divieti spesso avevano applicazione solo in aree circoscritte. Perché Roma avverta la necessità di centralizzare il controllo sulla produzione intellettuale occorre attendere la fine del ‘400. A indurla a prendere provvedimenti fu l’invenzione della stampa a caratteri mobili. Inizialmente l’atteggiamento della Chiesa nei confronti dell’ars artificialiter scribendi fu favorevole: l’abbassamento dei costi e l’affermazione del volgare italiano avevano consentito una più facile istruzione dei fedeli mediante la divulgazione di testi di largo consumo (volgarizzamenti biblici, epistole e vangeli, rappresentazioni sacre, Bibbie integrali, libri di meditazione e devozione, manuali per la confessione…). Tuttavia id fronte ad una produzione editoriale sempre più imponente e al moltiplicarsi di tipografie e botteghe di librai anche in centri minori, di venditori ambulanti e fiere del libro, Roma percepì i danni che potevano derivare dalla lettura di scritti non sottoposti al vaglio delle autorità ecclesiastiche e iniziò a prendere alcune misure. Il 7 novembre 1487 con la bolla Inter multiplices Innocenzo VIII affidò la censura preventiva ai vescovi e a Roma e nel suo distretto al vicario papale e al Maestro del Sacro Palazzo, riservando loro il giudizio sull’ortodossia dei testi destinati alla stampa. Il 4 maggio 1515 nell’ambito del V Concilio Lateranense, la bolla Inter sollicitudines associò ai vescovi gli inquisitori e comminò pesanti sanzioni ai trasgressori. L’abbattimento di una barriera sociolinguistica, l’allargamento dei confini del sapere a gruppi fino ad allora estranei alla cultura scritta, la caduta degli steccati che separavano il mondo di dotti e chierici dal comune fedele che ne erano derivati non potevano non destare allarme. Roma prese atto dell’inadeguatezza dei propri apparati per far fronte alla nuova emergenza. Ma reagì con lentezza e incertezza, condizionata dalla politica di riconciliazione tra cattolici e luterani perseguita, mediante la convocazione di un concilio ecumenico, da Paolo III e Carlo V e sostenuta da un largo settore del collegio cardinalizio. In questa fase interlocutoria, l’adozione di misure repressive rischiava di dall’Inquisizione, dei tre il più devastante. Sebbene i divieti espliciti fossero limitati, erano le “regole” ad apire un varco di dimensioni imprevedibili ai testi letterari. Introdotte a partire dall’indice tridentino, quale cornice della lista di autori proibiti nelle tre classi, esse ampliarono lo spettro dei testi destinati a incappare nella censura. Quando venne avviata la confezione del terzo indice romano e dato un nuovo assetto al settore della censura libraria con la creazione della Congregazione dell’Indice e la nomina nel 1573 di Costabili alla funzione di Maestro di Sacro Palazzo, la vaghezza delle regole tridentine si sarebbe prestata ad ogni sorta di arbitrio interpretativo, segnando pesantemente il destino della letteratura. Costabili nacque a Ferrara nel 1520, in una famiglia dell’antica aristocrazia ed entrò nel 1534 nel convento degli Angeli, dove era ancora vivo lo spirito intransigente del Savonarola. Dopo aver ricoperto varie cariche nell’ordine era tornato nella città natale in veste di inquisitore generale nei domini estensi, ruolo che svolse dal 1568 al 1572 con intransigenza e rigore. Trasferito al Tribunale Inquisitoriale di Milano nel 1572, vi trascorse solo pochi mesi, prima di essere chiamato a Roma l’anno successivo come Maestro di Sacro Palazzo. La sua nomina a ridosso della creazione della Congregazione dell’indice assume un significato particolare: nel momento in cui il settore della censura libraria riceveva un nuovo e più razionale assetto, la scelta di un uomo distintosi per l’indomita energia repressiva nei confronti del dissenso ereticale era indicativa della determinazione dei vertici romani a esercitare una più efficace sorveglianza sulla circolazione del libro. Tra le competenze del Maestro di Sacro Palazzo rientrava, infatti, il controllo della produzione libraria. Costabili redigeva liste di libri proibiti che servivano ad aggiornare l’ultimo indice universale, quello del 1564, emanava editti e bandi che emanava agli inquisitori periferici. Durante i sette anni (1573 – 80) in cui detenne questa carica contribuì in maniera rilevante all’irrigidimento degli orientamenti censori e all’accentramento a Roma della vigilanza sulla produzione e circolazione libraria. Questa svolta nella politica culturale della Chiesa, che prendeva atto della imponente espansione della produzione di testi letterari in volgare e dell’incremento di biblioteche pubbliche e private, ebbe ripercussioni determinanti nel settore della letteratura. Costabili bloccò infatti la produzione del Decameron, del Cortegiano di Castiglione e tra il 1574 – 80 compilò e distribuì in periferia elenchi sempre più lunghi di condanne e sospensioni. L’obiettivo non era però solo quello di tutelare la moralità dei fedeli tenendoli lontani da letture considerate perniciose, ma soprattutto quello di sottrarre a questa categoria di libri alla vigilanza dei vescovi, cui era stata affidata dal concilio. Il disegno degli organi romani mirava all’accentramento del controllo sulle chiese locali e sui loro pastori e alla progressiva sostituzione con gli inquisitori. Vennero aggiunte ulteriori liste che aggiungevano autori e titoli spesso senza distinguere tra libri proibiti, libri sospetti e libri passibili di correzione. Questo continuo flusso di elenchi e proibizioni dal centro alla periferia sembra essersi esaurito solo nel 1583 a seguito della protesta del Cardinal Gabriele Paleotti, membro della Congregazione dell’Indice otre che arcivescovo di Bologna. Egli ne denunciò l’illegittimità in quanto diramati senza previa autorizzazione da parte della Congregazione e costrinse l’allora Maestro di Sacro Palazzo, Sisto Fabri da Lucca, a stilare una lista di libri che per errore o in altro modo senza autorità erano stati proibiti. Da allora non risulterebbe l’emanazione di liste prive dell’avvallo della Congregazione. Tuttavia, per quanto non formalmente approvati, quegli elenchi riflettevano le scelte della Congregazione e dell’Inquisizione. Ne fornisce una prova l’Indice di Giovanni Dei del 1576. In esso il richiamo ai massimi esponenti dei tre organi centrali deputati alla censura (il papa, il Maestro di Sacro Palazzo e il Sant’uffizio) testimonia il loro diretto coinvolgimento nell’Iniziativa del Dei. Il suo catalogo segnalava non soltanto gli scritti dottrinalmente ereticali, ma anche quelli di tema amoroso, mettendo sullo stesso piano eresia dottrinale e licenziosità. Non vi fu autore o genere che sfuggì all’esame del Dei che oltre al nome di autori la cui opera fu considerata interamente sospetta, incluse un’indiscriminata condanna del genere della commedia, considerato disonesto e lascivo, dei dialoghi, delle facezie e dei motti, della novellistica, delle raccolte epistolari individuali e antologiche, delle lettere amorose, delle satire, delle rime e delle canzoni. Per quanto redatto in maniera confusa, l’indice elencava autori e scritti presenti nelle liste precedenti e anticipava quelli che sarebbero apparsi nelle liste successive, soprattutto nel cosiddetto Indice di Parma del 1580, ma anche per l’Indice sistino del 1590 e per il sisto – clementino del 1593. ACCERCHIAMENTO DELLA LETTERATURA Lento e incerto fu il percorso degli organi censori romani verso l’estensione delle proprie competenze dagli scritti contro la fede a quelli contro la morale. La nomina di Costabili veniva ad innestarsi sugli umori rigoristi che da sempre avevano agitato alcuni settori della Chiesa, ma tra la fine del ‘400 e la prima metà del ‘500 si erano intensificati i segnali di crescente intolleranza nei confronti della letteratura in volgare e della cultura classica. A monte di queste posizioni si avverte il timore che la riscoperta da parte degli umanisti del patrimonio dell’antichità greco – latina e l’uso che se ne faceva in funzione pedagogica, l’avvento del neoplatonismo e la valorizzazione del volgare potessero sfociare in interpretazioni eterodosse delle fonti pagane e cristiane, sia nella corruzione degli animi in cui venivano iniettati valori etici non conformi alla morale cristiana. Le dispute sull’immortalità dell’anima, sull’unicità dell’intelletto e sull’eternità del mondo che dalla prima metà del ‘300 animavano le università indussero Leone X, durante il V Concilio Lateranense, a emanare la costituzione Apostolici regiminis (1513) che condannava chi si opponeva alla subordinazione delle scienze alla teologia, definiva inoltre “abominevoli, eretici ed infedeli” i docenti che divulgavano dottrine incompatibili con la fede cristiana e prescriveva agli ecclesiastici che avessero deciso di intraprendere lo studio della filosofia o della poesia di associarvi quello della teologia. Prescrizione blanda e generica cui la successiva Inter sollicitudines sul controllo preventivo della stampa (1515) nell’ambito del medesimo concilio aggiungeva un riferimento ai libri scritti in latino e in volgare che contenevano errori contro la fede, affermazioni perniciose e lesive della buona fama delle persone. Di contenuto diverso furono i decreti del sinodo di Firenze, convocato nel 1516 dall’arcivescovo Giulio de’ Medici, sulla scia della precedente campagna antiumanistica e anticarnevalesca di Savonarola. Essi vietavano ai maestri delle scuole di grammatica il De rerum natura di Lucrezio, sostenitore della mortalità dell’anima, le opere di Catullo e gli epigrammi di Maziale e proibivano l’uso irriverente e giocoso dei testi biblici, liturgici e agiorafici nelle rappresentazioni pubbliche. Già prima dell’apparizione di Lutero era, quindi, emersa l’esigenza di un controllo ecclesiastico del sapere, ma l’indeterminatezza dei settori sui quali intervenire rivela l’assenza di un disegno preciso volto a colpire l’editoria di grande consumo all’interno della quale la letteratura di evasione insieme ai volgarizzamenti biblici occupava un posto di primo piano. Tuttavia le crescenti preoccupazioni nei confronti dei peccati della carne e dell’impudicizia delle donne si aggravarono con la diffusione delle dottrine luterane che, non riconoscendo il valore meritorio delle opere nel processo di salvazione e la capacità dell’uomo privo della grazia divina di scegliere tra bene e male, avrebbero aperto, agli occhi della Chiesa cattolica, la via di un vivere licenzioso e lascivo. Indipendentemente da questioni dottrinali, l’esigenza di una riforma morale della cristianità avvertita dai due schieramenti, cattolico e protestante, creò talvolta delle forme di convergenza delle loro posizioni ostili alle opere letterarie più in voga. Tra i libri “pestiferi” per il carattere menzognero, per gli argomenti erotici e profani vennero introdotte opere di poesia e i romanzi cavallereschi che falsificavano la verità storica. In realtà Roma, impegnata nella lotta contro l’eresia dogmatica, mostra una sostanziale latitanza censoria nei confronti della letteratura almeno fino alla prima metà del ‘500. A testimonianza di ciò il catalogo pubblicato a Venezia nel 1549 dal nunzio pontificio Giovanni Della Casa, che non registrava nessuna opera letteraria. Solo dagli inizi degli anni Cinquanta su istruzioni romane cominciarono a comparire opere letterarie, ma in numero ridottissimo, negli indici pubblicati a Firenze, Milano e Venezia. Gabriele Barri, intervenendo su una delle questioni di fondo dell’epoca ossia il rapporto latino – italiano, si schierava tra i sostenitori della superiorità del latino in quanto lingua sacra rispetto al volgare, ritenuto strumento di voluttà e corruzione, impiegato principalmente per trattare argomenti osceni, per irridere la Chiesa e le sue istituzioni, aggiungendo alle accuse di licenziosità e lascivia dei precedenti detrattori della letteratura il sospetto di eresia. Egli proiettava su scritti risalenti al ‘300 – ‘400 la dottrina luterana per il peso attribuito al fato nell’agire umano e addossava alle critiche devastanti di alcuni autori contro la Chiesa la responsabilità delle origini della Riforma. Denunciava, inoltre, la mescolanza di sacro e profano nel lessico di poeti e prosatori. I tempi però non erano ancora maturi perché queste critiche sferzanti s traducessero in formali divieti. Addirittura Lelio Torelli, auditore alla giurisdizione di Cosimo I, in una lettera all’amico Ludovico Beccadelli, impegnato a Trento nell’elaborazione dell’indice, si richiamava alla coscienza dei singoli lettori per giudicare le disonestà e le oscenità che potevano insinuarsi nelle opere letterarie. Questa visione era in perfetta sintonia con la strategia di Pio IV tesa a frenare l’avanzata del Sant’Uffizio sul terreno dei comportamenti sessuali avviata dal suo predecessore Paolo IV Carafa. La strategia di quest’ultimo, a parte la breve tregua segnata da Pio IV, sarebbe stata ripresa dai successori Pio V e Gregorio XIII. Erano anni in cui, estirpati i focolai di dissenso religioso dalla penisola, la Chiesa poteva accingersi a disciplinare e moralizzare la società italiana. In questo progetto di stretta vigilanza sui costumi e sulla morale, i censori si mossero contro settori della produzione editoriale che esulavano dal campo strettamente religioso e dottrinale. Con diffidenza e intolleranza crescenti guardarono alla secolare innocua abitudine di poeti e prosatori di dispensare attributi riservati alla divinità e ai santi a comuni esseri mortali; di divinizzare la donna e l’amore; di accordare preminenza nel destino dell’uomo al fato e alla fortuna; di gremire il comune linguaggio di parole, modi di dire, proverbi tratti da fonti liturgiche e bibliche. L’attacco esplicito al Petrarca, punto di riferimento essenziale per l’umanesimo italiano ed europeo, non sarebbe tardato. A sferrarlo fu Gabriele Barri, il quale si diresse soprattutto al Canzoniere e ai Trionfi, accusando l’autore di idolatria per aver dichiarato di adorare Laura; per essere un epicureo che riponeva nel piacere carnale la felicità e la beatitudine, paragonando quest’ultima alla beatitudine celeste. Alle accuse di immoralità di accompagnava anche quella di negare il libero arbitrio e la provvidenza e di essere stato, nei sonetti contro la corte papale avignonese, temerario ed impudente. Al termine della sua invettiva al Barri non rimase che esortare il pontefice a procedere alla soppressione materiale dell’intero corpo poetico incriminato e di tutta la produzione lirica cinquecentesca per la quale il codice petrarchistico – bembiano era stato il riferimento d’obbligo. Ignoriamo se questi pareri fossero stati commissionati dai vertici degli organi censori o se fossero frutto di scrupoli morali e religiosi di un rigorista “sciolto”. Era dunque il clima generale a inspirare l’atteggiamento nei confronti della produzione letteraria, nel quale si intrecciavano spirito antipagano e antiumanistico, ansia di eliminare ogni anticlericalismo e anticurialismo, ossessione verso il sesso e le manifestazioni erotiche, misoginia, diffidenza nei confronti delle superstizioni e dei loro sconfinamenti in arti magiche, avversione per il meraviglioso, raccapriccio di fronte agli argomenti giocosi e irridenti della satira e della parodia o di fronte all’uso irriverente nel linguaggio comune e nella scrittura di fonti liturgiche e bibliche. La lotta al paganesimo e alle tendenze secolarizzanti dell’umanesimo si era fatta così più dura e si erano intensificati gli sforzi tesi alla cristianizzazione della cultura nelle sue diverse espressioni. Il progetto di sacralizzazione di Roma rifletteva la volontà del papato postridentino di proiettare l’immagine di una Chiesa purificata e ricristianizzata, spoglia delle vestigia profane del suo passato. In particolare il profondo mutamento nei confronti dei comportamenti sessuali trasgressivi si era venuto affermando non tanto in conseguenza al concilio di Trento, quanto piuttosto al catechismo romano pubblicato nel 1566 che aveva espresso riserve sulla letteratura e su diffuse forme di svago. Scopo di alcuni papi provenienti dalle file dell’Inquisizione fu quello di sottrarre alle magistrature secolari o ai tribunali vescovili le loro competenze sui reati di ordine sessuale e di attribuirle ai giudici di fede. Ad avviare questo indirizzo, che puntava al rafforzamento del tribunale romano trasformandolo in un ufficio di polizia dei costumi mediante l’estensione delle sue competenze a trasgressioni tradizionalmente affidate ai confessori, fu Polo IV. Nel 1557 egli affidava al Sant’Uffizio la giurisdizione sui crimini di omosessualità e sui rapporti sodomitici tra uomo e donna. La costituzione di Pio V del 1566 trasferiva inoltre all’Inquisizione i reati di bigamia, di convivenza ed ebbe effetti permanenti. Seguirono le costituzioni di Sisto V (gennaio 1586 – novembre 1586 – 1588) di cui la prima, destinata a tutto l’orbe cattolico e ad avere non poche ricadute sulla censura delle opere letterarie, condannava la divinazione e l’astrologia e, in contrasto con la regola IX tridentina, che affidava ai soli vescovi il controllo sugli scritti, lo estendeva anche agli inquisitori. La seconda, indirizzata alla città di Roma, prevedeva una punizione per l’adulterio, per i genitori macchiati di lenocinio, per i coniugi separatisi contro il verdetto dei giudici. La terza, destinata a tutta la cattolicità, scomunicava chiunque predicasse l’aborto e rinviava alla giurisdizione dei giudici del Sant’Uffizio chiunque si fosse macchiato di tale reato. È sullo sfondo di queste innovazioni, tese a reprimere i disordini del clero e del laicato, che assume un carattere non nuovo, ma più aggressivo l’assalto alle opere letterarie percepite sempre più come una delle principali cause della licenza dei fedeli e come vincolo di perversione morale soprattutto tra donne e giovani, divenuti il perno del processo di rigenerazione della società. Con la dilatazione della categoria di eresia la caccia a proposizioni non conformi all’ortodossia o presunte tali presenti nelle opere letterarie si fece più assillante. Parole come destino, fato, fortuna precedentemente rifiutate per il loro sapore pagano o perché evocatrici del Machiavelli e del suo rifiuto di un disegno provvidenziale alla guida degli uomini, ora venivano interpretate come riferimenti alle dottrine protestanti del servo arbitrio e della predestinazione. L’accerchiamento condotto per oltre un secolo dai rigoristi si concludeva all’insegna dell’inclusione di gran parte delle opere letterarie in quelle considerate “infette” dal contagio ereticale. Ciò comportava che stampa ed espurgazione fossero due momenti fondamentali di un medesimo processo mediante il quale non solo un’infinità di testi scomparve dal mercato, ma quelli che sopravvissero circolarono manipolati, amputati, riscritti e stravolti nel loro significato. Un disegno che non trovò tra gli organi censori centrali chi fosse disposto a contrastarlo. Fin dall’erezione della Congregazione dell’Indice l’offensiva contro poeti e prosatori aveva, infatti, incontrato ampi consensi e indotto quanti avevano a cuore la moralità dei fedeli a essere generosi di suggerimenti circa autori e opere da inserire nel nuovo indice. Sebbene non sia facile ricostruire l’attrezzatura concettuale con la quale i censori si erano avvicinati ai testi letterari e individuarne l’evoluzione, quella che si intravede a monte di indici ufficiali, liste semiufficiali, norme suscettibili di essere modificate negli uffici romani senza formale comunicazione alla periferia, è una ferrea volontà degli organi censori di affermare il loro potere governando le menti e le coscienze attraverso il controllo di una produzione editoriale – i “libri per tutti” – dal vasto consumo da parte di tutti i ceti sociali. SEQUESTRO E ROGHI cominciarono a moltiplicarsi segnali di un imminente rinvio del progetto. Venne proposto che, in attesa della pubblicazione delle censure approvati dalla congregazione, i proprietari potessero correggere i propri libri sulla base dell’indice espurgatorio spagnolo e ci si appellò agli ordini religiosi, alle università straniere e italiane al fine di ottenere la collaborazione. Il ricorso all’ampia concessione di licenze di lettura di libri emendabili era il risultato inevitabile di ripetuti inceppamenti di ingranaggi censori che giravano a vuoto. Roma aveva bloccato la stampa Venezia, ma di fronte alla penuria espurgatori professionali la Congregazione dovete incaricare il patriarca e l’inquisitore di far rivedere i libri e di autorizzarne la stampa. All’indomani della promulgazione dell’indice clementino la Congregazione ottenne dal Papa la facoltà di dirimere le controversie e di sciogliere i dubbi che fossero sorti nel corso dell’applicazione e cercò di cogliere quell’occasione unica per insediarsi nel territorio al pari del Santo Uffizio per sostituirsi adesso nella vigilanza sulla produzione e circolazione dei libri. Progettò una riorganizzazione del sistema di controllo per definire e distinguere chiaramente la sfera di azione dei due dicasteri. Il nuovo sistema faceva perno essenzialmente sui vescovi, invitati a istituire nelle loro diocesi propagazioni del dicastero romano: congregazioni dell’indice locali, che avrebbero dovuto vagliare le liste dei libri consegnati distinguendo tra quelli proibiti e quelli sospesi e, successivamente, provvedere all’emendazione delle opere sospese, alla censura preventiva e alla vigilanza sulla penetrazione di opere sospette o vietate. La prima fase dell’esecuzione fu sistematica e capillare causando danni difficilmente calcolabili. Durante la seconda fase, quella che prevedeva l’espurgazione delle opere sospese, emerse in maniera evidente l’inadeguatezza della Congregazione dell’Indice. Non si trattava di correggere soltanto i libri espressamente sospesi nell’indice, ma una moltitudine di testi che ricadevano sotto le regole tridentine, sotto quelle clementine e sotto condanne generali dell’indice stesso. Tutto ciò comportò un impegno che le congregazioni locali, per svariati motivi, non furono in grado di gestire. La carenza nei piccoli centri privi di accademie e di università di persone capaci di farsi carico dell’espurgazione, la perdurante non resistenze di vescovi nelle loro sedi che compromettevi inevitabilmente tutto il disegno della Congregazione per l’insufficiente autorità del vicario chiamato a sostituirli, la frequente incomprensione delle direttive romane, l’impossibilità di sostenere i costi per l’acquisto dei libri da correggere e per i compensi copisti, la mancata remunerazione dei revisori, furono i motivi alla base del fallimento del meccanismo di espurgazione. A incitare i revisori a sospendere i lavori concorrevano altri fattori: oltre alla notizia che la stessa opera o la stessa categoria di scritti e veniva emendata altrove, la scoperta che ci si affaticava a rivedere opera già stampate e corrette altrove, il ritardo con cui la Congregazione stessa accusava la ricevuta dell’espurgazione e rispondeva ai quesiti della periferia, i non infrequenti smarrimenti delle censure da parte degli stessi inquisitori. A questi disguidi si aggiungeva l’inosservanza da parte di Roma della normativa. L’instructio prevedeva, infatti, che le opere sospese fossero censurate localmente da più revisori e che le emendazioni, sottoscritte da almeno tre di loro e approvate dall’inquisitore, fossero riunite in un indice a stampa uso locale. Diffidente, tuttavia, verso i responsabili periferici della censura, la Congregazione volle esaminare le espurgazioni e autorizzarne l’uso nella sede di provenienza solo dopo la propria informale approvazione. La richiesta di raccogliere a Roma le censure locali aveva, però, anche lo scopo di uniformarle, in vista della pubblicazione dell’indice espurgatorio romano che avrebbe avuto vigore universale. Tuttavia, forse trattenuti da un sussulto di dignità e di spirito di corpo dello stravolgere opere che probabilmente nel loro intimo apprezzavano, universitari e accademici addussero ogni sorta di impedimenti professionali e familiari, paralizzando i lavori delle congregazioni quasi ovunque. Non poco dovevano aver contribuito ad accentuare la loro resistenza i frequenti rifiuti di Roma di autorizzarli a stampare edizioni di testi da loro corretti. L’ostruzionismo degli accademici ebbe delle eccezioni a Venezia, dove, grazie al concordato stipulato nel 1596 tra la Repubblica e la Santa Sede, gli stampatori potevano chiedere che l’emendazione dei libri sospesi che intendevano ristampare fosse eseguita a Venezia e nelle altre città dello stato senza mandali a Roma. Mai il controllo da parte del vescovo e dell’inquisitore furono rigorosi. Anche a Treviso la verifica dell’operato dei revisori doveva essere stata superficiale se, nel 1602, veniva ingiunto all’inquisitore di astenersi dalla correzione e dalla stampa. Clemente VIII, impaziente formalizzare la situazione, impose l’immediata pubblicazione dell’indice espurgatorio universale, adottando la drastica soluzione che si dovessero prendere in considerazione solo i libri “utili” e che si dovesse dare la precedenza alle opere espressamente sospese nell’Indice. Apparso nel 1607, l’Indice fu prontamente sospeso e tolto dalla circolazione. Si concludono miseramente, dunque, anni di attività espurgatoria. L’apparato centrale non aveva retto il peso di un progetto che puntava alla disinfestazione di un numero ingestibile di scritti, non avendo trovato, soprattutto tra i letterati, quella naturale propensione loro attribuita da alcuni storici, a lasciarsi asservire al progetto di clericalizzazione della cultura. Sarebbe tuttavia sbagliato vedere nel collasso della macchina censoria una prova della sua inefficacia. Oltre ai danni recati all’industria tipografica dalla sospensione di opere molto richieste e all’imponente riordinamento della produzione libraria verso opere devozionali e liturgiche, il fallimento della politica espurgatoria comportò la definitiva scomparsa non soltanto dal mercato, ma anche da biblioteche pubbliche e private di una gran quantità di autori e opere che, sommati a quelli espressamente proibiti negli indici e a quelli inutilmente distrutti per ripensamenti degli organi centrali, moltiplicarono gli effetti devastanti della censura ecclesiastica. Si potrà obiettare che molti detentori di libri sospesi, come osservava Roberto Bellarmino, si astennero dal consegnarli, sicuri che non sarebbero mai stati restituiti corretti e che la Congregazione dell’indice, il Maestro del Sacro Palazzo, i vescovi e gli inquisitori, per attenuare i disagi di studiosi professionisti, avrebbero largheggiato in licenze di lettura. Ma tali liberalità, spesso elargite per sopperire alle carenze dell’apparato censorio con la richiesta al beneficiario dell’impegno, peraltro raramente mantenuto, di correggere il concessi lettura, furono esercitati prevalentemente nei confronti di persone di qualità, su sollecitazione di influenti protettori quasi mai per opere letterarie. Chi di protezione non godeva dovette rassegnarsi a consegnare i suoi libri, specialmente se non professionali. È facile intuire quanto questa politica di esclusione, operata soprattutto i danni di un pubblico di giugno di latino (al suo interno soprattutto delle donne), abbia rallentato quel processo di maturazione e culturali e di affinamento dell’esigenza intellettuali che aveva subito una forte accelerazione seguito dell’invenzione della stampa e deluso crescente nella produzione editoriale del volgare volgare. IL POEMA EPICO. LA GERUSALEMME LIBERATA E L’ORLANDO FURIOSO DI FRONTE AI CENSORI Il primo poeta vivente imbattersi nel nuovo clima instaurato dal Maestro del Sacro Palazzo Paolo Costabili fu, e del tutto in volontariamente, Torquato Tasso. E noto che al momento della stesura della Gerusalemme liberata egli si era rivolto ad amici letterati residenti a Roma perché rivedessero di volta in volta i canti che andava scrivendo. I quesiti che gli aveva posto i suoi consulenti, tra il febbraio del 1575 l’estate del 1576, non riguardavano tanto la sostanza del poema, quanto il problema fondamentale dell’adeguamento della creatività artistica alla normalizzazione classicistica, intenzionato com’era a fare del poema un’opera rigorosamente fedele alla Poetica aristotelica. Non diversamente che per altri scrittori, per Tassi si trattò di un tormentato viaggio dentro il sistema delle regole della poetica classicistica (e aristotelica) alla ricerca del punto di mediazione tra verosimile meraviglioso, di un’estenuante labor limae imposti dal rispetto della norma. Dallo scambio epistolare con gli interlocutori romani cui venne sottoposto il poema (quali, peraltro, non rivestivano alcun ruolo ufficiale negli apparati censori della curia) emergono, dati riguardo al rigore dei tempi presenti che possono dare i profili più precise motivi di fondo della revisione. È significativo che la prima manifestazione di timori legati alla censura ecclesiastica risalto la primavera del 1575 e si è affidata una lettera al Gonzaga. Da quel momento, coincidente con la diramazione da Roma di liste che registravano numero sempre più consistente di opere letterarie, sia per te una crescente ansia per le sorti della Gerusalemme. Tasso si rammarica che il Gonzaga non abbia scelto i suoi dubbi sul rischio che il privilegio pontificio, da lui richiesto per la stampa del poema, potesse essergli negato. Rassegnato a rivedere il poema alla luce dei giudizi romani che toccavano e la materia amorosa e i rapporti tra vero, verosimile meraviglioso, tra verità storica e finzione poetica, restava incredula di fronte alla rigidità dei suoi corrispondenti. Chiese di poter incontrare Eliseo Capys, inquisitore di Ferrara, fiducioso nella sua minore severità, ma la pericolosità rappresentata dalla censura cominciò a ficcare la fragile mente del poeta e lo convinse lasciare nel 1576 la Liberata incompiuta. È stato giustamente osservato come questo serrato dialogo con gli interlocutori romani in difesa della propria creatività non esprimo un generico disagio esistenziale, Non sia una manifestazione della sua malinconia, né tantomeno di preoccupazioni legate a scrupoli teologici, ma sia riflesso di mutato clima culturale, di una sempre più pervasiva vigilanza sulla produzione editoriale. Fu Paolo Costabili, Maestro del Sacro Palazzo dal 1573, a imprimere a tale politica un indirizzo nuovo che investì con inusitata intransigenza le opere letterarie. Egli non doveva essere all’oscuro dell’assidua frequentazione di romanzi cavallereschi affollati di negromante, maghi e fate, che raccontavano amori in canti, facendo vibrare tutte le seduzioni della carne e adornando i protagonisti di un esuberante volta che, fiaccando nella volontà, li privava di ogni controllo sulle passioni. Certamente ossessionato dall’amore dalla licenziosità, aveva però sotto gli occhi immagini concrete della regolatezza della vita di corte che raggiungeva il suo culmine a carnevale, quando arrivano dalle corti vicine principi, gentiluomini e dame, attratti anche da intrattenimenti ispirati alle opere letterarie. Anche Tasso interveniva a queste feste offrendo versi erotici. È sullo sfondo di questo universo cavalleresco in cui la corte Estense affondava le radici che occorre collocare la proibizione di infiniti poeti. Le critiche dei revisori amici del Tasso, riflesso delle posizioni che andavano maturando in seno agli organi romani, erano in effetti pesanti, investendo la sostanza stessa, oltre che linguaggio dell’opera: dalla sensualità e lascivia delle manifestazioni dell’amore, le sfrenate passioni viste come minaccia dell’esercizio del libero arbitrio, all’attribuzione al fato e alla fortuna di un ruolo preminente nelle vicende umane e all’uso del lessico dei classici pagani nella narrazione di storie i cui protagonisti erano cristiani, degli episodi magici, la commistione tra sacro e profano. Non sembrano, peraltro, aver toccato problemi di natura strettamente teologica, al più rispecchiavano il progressivo slittamento del reato di eresia dalla fede la morale cattolica. Fu sicuramente difficile comprendere i nuovi orientamenti diretti eliminare ogni traccia di contaminazioni pagane e anticipare ed eludere i collegamenti tra consolidate forme della creazione artistica e il loro improvviso ripudio; di qui l’ansia del Tasso per una revisione preventiva del poema anche sotto il profilo religioso e il ricorso a Silvio Antoniano, il quale aveva indubbiamente ai suoi occhi il duplice merito di conoscere il costume del paese e di essere ben introdotto nei circoli più influenti della curia romana. Il poeta finì con il convincersi dell’ineluttabilità della censura e della necessità di procedere all’elaborazione di scudi, di dispositivi tattici di elusione o di evasione per neutralizzare i censori in agguato. Va, tuttavia, ricordato come in quel periodo l’Antoniano non rivestisse alcuna carica all’interno della Congregazione o in quella dell’inquisizione e come la revisione della Liberata non fosse passata attraverso gli organi deputati al controllo della stampa. Tasso, è evidente, incontrò il Costabili avendo modo di conoscerne il rigore e l’intransigenza, tanto da affidare al cardinale Giovanni Girolamo Albani la richiesta del privilegio romano, piuttosto che rivolgersi direttamente al Maestro del Sacro Palazzo. La sorte dell’Orlando furioso fu diversa. Anche se, come accennato, da decenni in molti si scagliavano contro la letteratura cavalleresca, fu solo con l’irrigidimento nei confronti delle opere d’evasione verificatosi con il Costabili e il Sirleto negli anni 70 del ‘500 che censori centrali e periferici cominciarono interessarsi al Furioso e a prodigarsi in un’intensa attività espurgatoria che li occupò fino a 600 inoltrato. Nonostante tale impegno, l’opera non è, però, registrata in nessun indice ufficiale, né nelle liste semiufficiali compilate a Roma, nei negli indici nazionali non promulgati. All’oggettivo ostacolo rappresentato dall’ineguagliata fortuna del poema, si aggiunse e probabilmente prevalse, anche se mai esplicitata, una motivazione di ordine politico. Clemente VIII si incamminava alla conquista di Ferrara per prenderne possesso a seguito della morte senza eredi legittimi di Alfonso II d’Este. È difficile immaginare che un Papa, il quale aveva cercato di salvaguardare la cultura rinascimentale, fosse disposto a infliggere un ulteriore sfregio agli Este, condannando un’opera che aveva celebrato la gloria della dinastia, o che potesse pensare di inserirsi nel governo con un gesto che gli avrebbe procurato sicura impopolarità tra i nuovi sudditi. Vi erano, però, mezzi più sottili per impedirne la circolazione e il Costabili seppe avvalersene: diffidò i librai romani dal rifornirsi di esemplari del poema e gli inquisitori periferici dall’autorizzare la pubblicazione di storie, commedie e altri libri in volgare di innamoramenti. Nelle liste, comunque, figuravano le Satire e sotto le voci che condannavano tutte le commedie riccaddero, ovviamente, anche quelle dell’Ariosto. La decisione di Clemente VIII di eliminare le appendici degli indici nazionali, nelle quali erano sospese le satire, fece scomparire il nome del ferrarese dall’elenco degli autori proibiti. Fu tuttavia, nella seconda fase di applicazione del clementino, che i censori tornarono esaminare opere letterarie in vista sia di edizioni corrette da far approvare a Roma, sia della pubblicazione dell’indice espurgatorio. A indirizzare l’attento sguardo sul poema ariostesco fu Tommaso Galletti, consultore della curia arcivescovile napoletana, impegnata in un’intensa attività espurgatoria del 1597. A disturbarlo furono la preminenza dell’onore sulla vita, le mutazioni operate dalla maga Alcina dei cavalieri di cui era stata amante, nonché l’abuso dell’epiteto “sacro” per connotare oggetti adoperati dai negromanti. Le censure del Galletti giunsero a Roma non prima del 1600, ma la sua denuncia dell’immoralità del Furioso era stata trasmessa alla Congregazione già nel 1597. Quest’ultima si mostrò poco solerte: solo più di due anni dopo il cardinale Valier si rivolgeva all’inquisitore di Ferrara affinché facesse censurare le opere dell’Ariosto. Nella revisione del poema i censori ferraresi cancellarono senza suggerire sostituzioni e senza valutare le conseguenze dei loro tagli sulla comprensione del testo e sulla trama del poema. La loro acribia si rivolse ad altri aspetti: la commissione tra linguaggio cristiano e pagano; l’immoralità e la lascivia delle donne; gli attacchi contro il clero; l’irriverenza verso i riti e cerimonie della Chiesa. Sul piano della moralità femminile, come già suggerito dal Galletti, dovevano essere eliminate la difesa di Ginevra da parte di Rinaldo e con essa quella della libertà sessuale delle donne, ma sarà soprattutto contro il libertinismo e la promiscuità sessuale predicati dalla maga Medea che agiranno le forbici dei censori. È probabile che i revisori paventassero un facile scivolamento dall’immoralità all’eresia o addirittura intravedessero nei disordini sessuali una conseguenza dell’adesione a credenze ereticali. Più estesi e penetranti appaiono gli interventi tesi a cancellare ogni critica nei confronti della Chiesa. Furono cancellate le critiche contro le aleatorie alleanze tra re, papi e imperatori e così anche gli accenni alle morti violente di papi e cardinali, causate dalla loro avidità. Meritevole di essere cancellato apparve, inoltre, l’auspicio del poeta che Carlo V ricomponesse la frattura della cristianità sintomo della nostalgia per tempi in cui l’imperatore era riuscito esercitare un efficace controllo sul papato e nel contempo un’approvazione della politica di riconciliazione con i protestanti. Il canto XXXIV fu cassato nella sua integrità, non soltanto per l’irriverente derisione delle diffuse pratiche devozionali, ma anche degli ecclesiastici che le promuovevano a scopo di lucro, e Quali concrete ricadute ebbe la repressione censoria sulle versificazioni della Bibbia? Inquisitori e vescovi si attennero ai divieti che circolavano dagli anni Settanta e sequestrarono un numero elevato di opere, prevalentemente in versi italiani. Tuttavia pochi sono i nomi che compaiono nelle liste inviate a Roma e si tratta per lo più di registrazioni generiche. Assai difficile è valutare le conseguenze della lunga durata dei provvedimenti romani successivi alla promulgazione de clementino. Ciò si spiega anche con l’inaccessibilità fino al 1998 della documentazione dell’archivio della Congregazione, che consente oggi di ricostruire le circostanze e le motivazioni che portarono all’estensione del divieto delle traduzioni dell’Antico e Nuovo Testamento a un’ampia gamma di testi di contenuto biblico in volgare. Contrastare la circolazione dei libri “de’ bataia”, visti come fonte di corruzione morale per le storie d’amore che raccontavano e come veicolo di eresia per le pratiche magiche e i sortilegi che divulgavano, ma anche come prodotto concorrenziale per la letteratura decisionale, divenne una delle finalità degli autori dei poemi biblici. I verseggiatori cercarono di inserire il poema biblico all’interno di un genere di successo, facendo sempre più frequentemente ricorso al metro della tradizione epico-cavalleresca, ossia all’ottava rima. Tuttavia, dallo scarso successo editoriale di queste iniziative, si può desumere che lo sforzo teso a sostituire con l’epica biblica il romanzo cavalleresco non incontrò il consenso dei lettori. Con la Riforma venne sempre più facendosi strada una nozione seria e rigorosa della verità che non doveva spartire nulla con le favole ne concedere alcunché al divertimento o all’invenzione poetica. Riemerse il vecchio problema della permeabilità tra sacro e profano, tra linguaggio cristiano e pagano, nonché dell’uso distorto e irridente delle parole della Sacra Scrittura. E soprattutto, nel caso delle versificazioni, si pose con maggiore acutezza la questione della demarcazione tra verità storica e finzione poetica. È in questo contesto che occorre calare i ricorrenti dibattiti in seno alla Congregazione di valutarne le ripercussioni. Molti divetterò lasciare i compiti i loro componimenti sacri di fronte alle obiezioni degli inquisitori o autocensurarsi. Ma altri dovettero approfittare delle crepe di un sistema fatto di strategici occultamenti: versificazioni bibliche, sotto varie forme, continuarono a essere scritte e stampate durante tutto il corso del ‘600. Superfluo sottolineare come occorra guardarsi dal confondere consenso e coazione, ma anche vedere collaborazione laddove vi fu solo esigenza di preservare dalla distruzione e dall’oblio indispensabili testi di lingua, accettando come male minore di espurgarli. Ne sarebbe corretto attribuire a connivenze con gli apparati repressivi il riorientamento di interi settori della produzione editoriale, costretta a conformarsi ai codici della cultura e dell’ideologia della Chiesa romana pur di superare i controlli ecclesiastici e andare in stampa. Ci fu un clima opprimente e repressivo che lentamente giunse a fiaccare e piegare gli autori, drammaticamente avvertiti della sorte destinata a opere e uomini che si fossero azzardati a divulgare valori e nozioni non condivisi dall’apparato censorio. ROMA TRA LIBELLI FAMOSI, PASQUINATE, AVVISI E SATIRE Le difficoltà che gli organi censori romani avevano incontrato e cercato di superare per porre sotto controllo una crescente produzione di opere letterarie e stampa furono certamente minori rispetto a quelle nelle quali si imbatterono per sorvegliare la comunicazione manoscritta e orale di notizie improvvisate negli spazi pubblici urbani. Ben oltre l’invenzione della stampa continuarono a circolare, infatti, opuscoletti a stampa di poche carte, di infima qualità e di piccolo formato scritti a mano, smerciate a basso prezzo. L’attenzione si è spostata su questa letteratura da strada e sul ruolo di cantinbanchi, venditori ambulanti, ciarlatani nel diffonderla fin dalla prima età moderna. Grazie ad essi notizie spesso di ordine politico venivano divulgate in tutti gli strati della società sfumando i confini tra cultura alta e cultura popolare. Le istituzioni ecclesiastiche e civili avevano a lungo convissuto, a quanto pare pacificamente, con questo tipo di scritti che, radicati nella tradizione letteraria italiana, si caratterizzavano soprattutto per la critica mordace e irriverente dei costumi del clero e delle pratiche religiose. Ma, suscitando una fame di notizie e quindi un imponente e incontrollabile produzione di informazioni, le guerre d’Italia, furono probabilmente all’origine dei primi provvedimenti ecclesiastici. Le responsabilità dei papi nell’invasione straniera degli Stati della penisola, il succedersi sul trono di papi indegni, la percezione dell’irreversibilità della crisi italiana e della fine del Rinascimento inasprirono in quegli anni le polemiche contro una chiesa dimentica della sua missione spirituale. Nella costituzione Inter sollicitudines, emanata da Leone X nel 1515 nell’ambito del V concilio lateranense relativa il controllo preventivo di ciò che poteva andare in stampa, si faceva riferimento, tra gli altri, a scritti contenenti affermazioni lesive della buona fama di persone anche di vestiti di dignità. In realtà la costituzione non sembra essere stata applicata e occorrerà attendere il 1542 perché il genere pasquillesco venga condannato negli indici di Venezia del 1549, di Venezia e Milano del 1554, in quelli universali del 1558 e del 1564. La regola X dell’indice del 1564 vietò in maniera molto generica la divulgazione di libelli manoscritti privi dell’approvazione ecclesiastica. È evidente che la particolare attenzione riservata alle pasquinate a partire dagli anni 40 fu destata dal carattere decisamente eterodosso di testi stampati a Venezia e oltralpe che circolavano diffusamente nelle conventicole ereticali della penisola. Ma fu anche sollecitato dalla ricchezza degli ingredienti che vi confluivano (profezia, vituperio, diffamazione, parodia sacra) e dagli usi diversificati che ne vennero fatti, soprattutto a Roma mediante affissione alla statua di Pasquino, sia come strumento di lotta e di propaganda politica e religiosa, sia come strumento di vendetta privata.Di altre tipologie di scritti riformatori, infatti, gli indici non fanno esplicita menzione. Le 17 regole inserite nell’indice Clementino del 1596 ribadivano il divieto delle pasquinate; precisazione che documenta la persistenza del volgare nel 500 della scrittura mano nella diffusione di questo materiale. Di fronte a questa letteratura deperibile, difficilmente intercettatile, ampiamente diffusa tra donne uomini di tutti gli strati della società urbana e fruita dai più senza la consapevolezza di trovarsi dinanzi a testi condannati, dato il loro carattere giocoso e faceto, e l’impraticabilità e alla scarsa efficacia delle proibizioni degli indici, le autorità ecclesiastiche furono costrette ricorrere ad altri rimedi. Quantomeno a Roma l’interruzione temporanea della produzione di scritti infamanti fu, infatti, risultato di provvedimenti presi dai papi nella loro veste di sovrani temporali a tutela dell’ordine pubblico. È il caso della costituzione di Pio IV del 1561, che veniva accompagnata da due bandi per levare le difficoltà che nascono, o possono nascere riguardo all’interpretazione. Il bando contro questi scritti infamanti, probabilmente da attribuirsi al governatore Girolamo Federici, presenta alcune peculiarità: non è pubblicato separatamente, ma come appendice ai chiarimenti relativi alla costituzione che ingiungeva ai sudditi dello Stato e di consegnare entro 25 giorni gli archibugi con la minaccia dell’accusa di delitto di lesa maestà e di ribellione. Tale costituzione i bandi sottoscritti dal governatore di Roma Alessandro Pallantieri, verranno ritirati nel 1564. In sintonia con molti dei suoi predecessori, particolarmente indifferenti alla letteratura pasquillesca di cui pure erano uno dei principali bersagli, Pio IV sembrerebbe aver dato scarsissimo peso a questo tipo di scritti ingiuriosi. Sorge, peraltro, il sospetto che l’ostentazione di noncuranza fosse dovuta alla particolare vulnerabilità cui era esposto a ridosso di una congiura ordita ai suoi danni. D’altro canto, di lì a poco Nicolò Franco verrà processato dal Santo Uffizio con l’imputazione di aver contravvenuto proprio il bando del Pallantieri del 1564 con un Commento in cui pasquinate ed estratti dei processi ai parenti del Carafa si intrecciavano una critica sferzanti contro il Papa anticristo e la degenerazione della Chiesa visibile. La condanna dell’opera, registrata significativamente con il titolo Pasquilli, giunse inspiegabilmente solo due anni dopo, nel 1572, sotto il pontificato di Gregorio XIII, quando il segretario dell’inquisizione ebbe ordine di bruciarla. È tuttavia evidente che il Commento evidenziava il problema assai più grave del controllo dell’informazione per le sue ricadute politiche. Occorreva vigilare sull’attività dei menati, autori di quella embrionale forma di giornalismo che erano gli Avvisi. Distribuiti, a partire da metà ‘500, due volte a settimana poco prezzo questi fogli manoscritti fornivano, infatti, notizie spesso tendenziose o decisamente false, attinte per lo più nelle segreterie dei cardinali, sfruttando la centralità di Roma nella circolazione dell’informazione anche grazie alla rete sempre più efficiente di collegamenti postali. Contro i menati e sui mezzi e sulle forme della comunicazione politica nella Roma pontificia Pio V scrisse nel 1572 una costituzione. Pur riproponendo la condanna dei libelli famosi e delle pasquinate ai loro autori venivano associati, a quanto pare per la prima volta, coloro che scrivevano avvisi, nei quali, oltre alle solite invettive e profezie, venivano svelati reconditi segreti delle stanze vaticane e notizie provenienti anche da altre province. L’avversione nei confronti della circolazione incontrollata dell’informazione crebbe con Gregorio XIII il quale, Nella costituzione del 1572, puniva severamente sia gli autori di avvisi, divulgatori di notizie false di vaticini, sia gli scrittori propagatori di scritti diffamatori. Nonostante la giustizia papale desse una caccia spietata ai menati, schedandoli, imprigionandoli, mettendoli al bando dalle città impiccandoli, non sempre fosse riuscito a farli tacere, come, del resto, dimostrano la reiterazione di queste misure. Che questa situazione di assidua vigilanza si riflettesse sulla qualità delle notizie divulgate dai menati era inevitabile. Il timore di essere arrestati, banditi, impiccati serpeggiava tra le righe degli avvisi. Col tempo essi danno sempre più spazio alla cronaca mondana, alle strategie matrimoniali della nobiltà, alle rivalità tra i cardinali, ai crimini commessi a Roma, alla presenza di banditi nei palazzi cardinalizie, alle retate di prostitute, alle liti per le precedenze, temi tutti meno compromettenti dei negozi politici. Forse per il loro carattere effimero, forse per non invadere i territori riservati allo sfogo, tutto sommato innocuo, della protesta popolare contro il mal governo, le pasquinate godettero di maggiore tolleranza. Gli stessi avvisi riferiscono con frequenza la loro fissione, ma si astengono da riportarne il contenuto, segno evidente dei maggiori rischi che correvano menati rispetto ai pasquinisti. Gli organi di controllo dovettero avvedersi che la letteratura pasquillesca non costituiva una seria sfida al potere papale e all’ortodossia: l’invettiva, il vituperio, l’infamia non investivano l’istituzione o la dottrina della Chiesa, ma tutt’al più le deviazioni e gli abusi. Ciò spiega la lunga vita della pasquinata che, consolidatasi negli anni 20 del 500, lascerà la sua impronta ancora nell’ottocento. Nonostante la complessità del rapporto tra satira regolare (come avviata dall’Ariosto) e pasquinata, la difficoltà di dare una definizione di quest’ultima, la sorte riservata in generale alla poesia satirica, in particolare a quella del poeta ferrarese, fu molto diversa, pur tenendo conto che le Satire di Ariosto ispirarono le pasquinate romane. Il motivo per il quale la poesia satirica Entrò nel mirino dei censori è dovuto al fatto che, diversamente dalle pasquinate, si trattava di produzione a stampa. Le satire di Ariosto non appaiono in nessun indice romano del 500, ma vengono ripetutamente condannate o sospese in attesa di espurgazione nelle liste semiufficiali che Roma faceva pervenire periodicamente a vescovi e inquisitori locali dopo il 1574. Talvolta vi figuravano da sole, talvolta insieme a quelli di Luigi Almanni, con i Sette libri di satire di Sansovino o insieme a “satire di autori diversi”, definizione che mirava a colpire l’intero genere. Negli indici nazionali del 1590 e 2593, non promulgati, erano vietate se non emendate. La forte domanda del mercato, testimoniata dalle innumerevoli edizioni e ristampe a partire dalla clandestina editio princeps ferrarese del 1534, indusse la Congregazione dell’indice ad annoverarle tra le poche opere letterarie da assegnare all’espurgazione dei propri consultori. Evidentemente senza alcun esito, in quanto emendare le satire non era compito agevole, considerando che le tematiche affrontate, sia pure con toni mordaci, beffardi e sarcastici, ma raramente vituperosi, urtavano sotto molteplici aspetti la sensibilità e gli scrupoli dei censori. Di fronte all’irrigidirsi delle temperie culturale seguita alla promulgazione dei primi due indici (che peraltro non le proibivano), la richiesta dei lettori deve aver indotto tipografi ed editori a camuffare la loro merce. Ne offre un esempio eloquente l’edizione veneziana del 1570 di Domenico de Franceschi che, pur recando sul frontespizio la dicitura “nuovamente purgate e con ogni diligenza corrette”, non presenta alcuna modifica rispetto all’originale. Tutt’altro che lineare anche le vicende delle edizioni effettivamente emendati. Sull’onda dell’indice del 1558 apparve l’anno successivo a Venezia la prima edizione rimaneggiata. I maldestri superficiali interventi ebbero scarso seguito: alcune stampe ripresero le mediazioni dell’edizione del 1559, ma lasciarono anche se sostanzialmente invariate le parti più sospette. Una svolta si verificò dopo l’inserimento delle Satire nelle opere proibite o sospette nelle semiufficiali diramate da Roma. A partire dall’edizione veneziana di Pietro Dusinelli (1583) Si assiste a vere proprie manipolazioni, tendenti da un canto la moralizzazione dei testi con la cancellazione di argomenti e vocaboli licenziosi e osceni, e dall’altra l’espulsione di tutto ciò che poteva intaccare la reputazione del clero. Manipolazioni che vennero riproposte, con minime varianti, nelle edizioni veneziane successive grazie all’azione di revisori improvvisati al servizio delle tipografie, i quali operarono con scarsa accuratezza e coerenza. La serie delle edizioni emendate si chiude con le Rime e satire apparse a Venezia presso Bernardo Giunti e Gio. Le Satire ariostee Non furono le sola non essere più stampati dopo i primi del seicento, il che potrebbe far pensare alla saturazione del mercato. In realtà, il genere della satira scomparve dal mercato e si mantenne in vita solo attraverso la clandestinità e la circolazione carsica manoscritta. Rimane, quindi, da interrogarsi su quanto del patrimonio letterario del Rinascimento sia sopravvissuto intatto, quanto sia stato tramandato deformato e tradito, quanto sia scomparso fino al settecento. L’USO CHE UN LETTERATO DEL CINQUECENTO FECE DELLA CENSURA: LUDOVICO BECCADELLI (1501-1572) La vita Nato a Bologna nel 1501, in una famiglia di caduta, ma di antica nobiltà cittadina, Beccadelli era stato avviato dal padre agli studi giuridici, presto abbandonati per quelli umanistici. Trasferitosi negli anni ‘30 allo studio di Padova, entrò a far parte della cerchia del Bembo, a contatto del quale maturarono i suoi interessi per la letteratura provenzale e per il Petrarca, ma anche una forte sensibilità per i problemi della Chiesa. Fu lo stesso Bembo a proporlo come segretario al Contarini, quando questi, nel 1535, fu creato cardinale. Dopo aver trascorso sette anni al servizio del Contarini, alla sua morte (1542), passò a servire come vicario della diocesi di Reggio Emilia il cardinale Marcello Cervini, che ne era vescovo, e poco dopo il cardinale Giovanni Morone nella legazione di Bologna. Designato da Paolo III precettore del nipote prediletto Ranuccio Farnese, tornò a Padova. Ma la vita di studio fu presto interrotta dall’ordine di recarsi come segretario del concilio a Trento, dove trascorrere alcuni mesi del 1545, riprendendo il suo posto accanto a Ranuccio, nel frattempo creato cardinale. Fino al 1550 la sua carriera si era svolta nell’adempimento di compiti subalterni esercitati prevalentemente all’interno di corti cardinalizie. La designazione, quell’anno, come Nunzio pontificio a Venezia, dovuta all’efficace intervento del Cervini e alla stima di Giulio III, rappresentava notevole avanzamento. Si trattava inoltre, di una sede prestigiose ambitissima, sia per il ruolo rilevante della Repubblica nel quadro degli Stati regionali italiani e nel più ampio contesto europeo comunica garante di quanto restava della libertà d’Italia e come baluardo della cristianità contro il turco, sia perché ritenuta anticamera di più alti onori. Trascorsi quattro anni a Venezia, Beccadelli rientrò a Roma con le funzioni di vicario della diocesi. Nominato arcivescovo di Ragusa in Dalmazia da Paolo IV, fu costretto ad andarvi a risiedere, ma con la segreta speranza che, data l’età avanzata del pontefice, la permanenza sarebbe stata breve. A Ragusa soggiornò cinque anni e mezzo, adattandosi con difficoltà e scarso entusiasmo alle funzioni di pastore. Dopo una breve sosta romana, nel 1561 giungeva Trento per partecipare alla terza fase del concilio, come parte della commissione incaricata di predisporre l’indice dei libri proibiti e dove assunse posizioni sulla incandescente questione della residenza episcopale, che gli valsero la severa condanna di Roma e l’allontanamento da Trento. Gli fu affidata l’educazione del giovane cardinale Ferdinando dei Medici, incarico accolto come provvidenziale dal Beccadelli, il quale giunse in Toscana nell’estate del 1563 e vi rimase, essendogli stata conferita nel 1565 la Prepositura di Prato, fino alla morte avvenuta nel 1572. La nunziatura di Venezia rappresenta indubbiamente l’apice della sua carriera: prima di quell’incarico la modesta posizione e gli scarsi mezzi economici non avevano permesso a Ludovico di concepire disegni ambiziosi per sé e per la propria famiglia che, sconfitta nelle lotte politiche dell’età comunale, aveva perso gran parte del suo antico potere. Le opere
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