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Riassunto - Rivoltella, Argomentazione parola immagine, Sintesi del corso di Letteratura

Riassunto esaustivo del manuale e degli esempi testuali in esso contenuti

Tipologia: Sintesi del corso

2015/2016

In vendita dal 13/07/2016

MartaBen1
MartaBen1 🇮🇹

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Scarica Riassunto - Rivoltella, Argomentazione parola immagine e più Sintesi del corso in PDF di Letteratura solo su Docsity! 1 Introduzione Retorica e partitiones oratoriae Per una definizione di «retorica» Barthes, un semiologo del Novecento, ha definito la retorica un metalinguaggio, ovvero un discorso sul discorso, una riflessione su natura fini e mezzi del discorso persuasivo. Lo stesso autore sostiene che esistano pratiche differenti di retorica: tecnica, insegnamento, scienza, morale, pratica sociale, attività ludica. Noi possiamo cogliere essenza e fini di quest’«arte» in una miniatura del XV secolo (apposta a un passo manoscritto del De nuptiis Mercurii et Philologiae, opera di Capella, erudito latino del V sec. d.C.), dove la retorica è rappresentata come una giovane donna, di cui ci colpiscono due caratteri:  L’armatura, che sottolinea la dimensione agonistica. La retorica è espressione di un pensiero militante e parziale; il nemico su cui trionfare non è solo l’avversario sotto il profilo logico-verbale, ma la resistenza di quest’ultimo a farsi convincere dal nostro discorso. Fine della retorica è l’ars suadendi, piegare al convincimento.  La bellezza, che sottolinea la dimensione estetica. La retorica milita con eleganza, non solo verbale. È anche l’arte dell’ornatus, della bella parola. Le partitiones oratoriae Indichiamo con quest’espressioni le fasi del procedimento retorico, ovvero i passaggi necessari all’elaborazione di un discorso persuasivo (e non, come il termine farebbe pensare, le “parti” del discorso). Ne contiamo cinque: 1. Inventio: reperimento degli argomenti 2. Dispositio: strutturazione logica  dimensione logico-agonistica 3. Elocutio: espressione verbale 4. Memoria: memorizzazione del testo 5. Actio: rappresentazione drammatica del testo  dimensione estetica Aristotele (in Retorica, III, il primo trattato di eloquenza dell’Occidente) contava solo quattro di queste fasi, escludendo la memoria. L’elenco di cinque fasi è invece proprio della tradizione retorica latina, e compare per la prima volta nella Rhetorica ad Herennium (il più antico manuale latino di retorica pervenutoci, databile nel 90-70 a.C. e destinato a Erennio, un amico o un allievo dell’ignoto autore, che alcuni riconoscono in un cavaliere romano dal nome Cornificio; l’opera attesta la presenza di un atteggiamento di interesse per la retorica greca da parte dei romani). 2 La inventio Per una definizione di inventio Potremmo tradurre inventio come “scoperta” (greco hèuresis). Per usare una metafora, è la cavazione di materiale (prove) da un giacimento (topica) adatto al fine d costruire un edificio saldo (orazione). Segnatamente, è il metodo che permette di scoprire le prove su cui basare il proprio discorso persuasivo. Per gli antichi maestri di retorica, l’inventio era la via argumentorum, una sorta di strada, che come tutte le strade è costeggiata su due lati da due territori, a rappresentare metaforicamente due diverse esigenze del discorso persuasivo.  Da un lato, abbiamo il territorio della logica. L’oratore deve fare appello alla capacità di ragionare del destinatario, dargli credibilità dal punto di vista intellettivo. È l’esigenza del fidem facere, “creare consenso intellettuale”, per la quale servono prove logiche / oggettive.  Dall’altro lato, abbiamo il territorio della psicologia. L’oratore deve scuotere la psiche del destinatario, agire sulla sua dimensione irrazionale. È l’esigenza dell’animos impellere, “sollevare reazioni passionali”, per la quale servono prove psicologiche / soggettive. Fidem facere: alcuni strumenti e forme storiche della convinzione razionale Prove extra-tecniche e tecniche Le prove logiche si distinguono in extra-tecniche e tecniche. Le prove extra-tecniche sono frammenti di realtà sociopolitica, e come tali non sono generabili e trasformabili dalla tecnica oratoria. Si tratta dunque di norme legislative, patti, confessioni, testimonianze (citazioni del parere di antichi o contemporanei). Le prove tecniche sono ragionamenti prodotti dalla competenza e abilità (ars) dell’oratore. Ce ne sono tre tipi: 1. Di fatto: consiste nell’interpretazione di dati di fatto “pro” o “contro” una tesi. Questi dati possono essere inequivoci (un uomo accoltellato è un inequivocabile segno di avvenuto omicidio) o equivoci (delle macchie di sangue non identificano necessariamente l’assassino). 2. Esempio: consiste in un ragionamento induttivo, che procede cioè dal particolare all’universale, che da un dato empirico trae una norma. Si tratta dunque di una sentenza (emessa da un organo competente su una certa materia, “fa testo” e viene richiamata come prova per la soluzione di casi analoghi successivi), o di un ipse dixit (ci si appoggia all’opinione di un personaggio o istituzione illustri per fondare la propria posizione), o di un’imago (tipica della cultura romana, è un personaggio che incarna una virtù o un vizio; ad es., Cesare è imago del potere tirannico nei repertori delle scuole di retorica). 3. Argomento: consiste in un ragionamento deduttivo, che procede cioè dall’universale al particolare. Un tipo è l’entiméma (in greco “ciò che si ha in mente”) ha subito nel corso della storia due accentuazioni di significato: a. Aristotele (Retorica, II) lo definisce un sillogismo retorico. Mentre il sillogismo logico è una forma di deduzione astratta e accademica, il sillogismo retorico è una forma di deduzione adatta all’agorà, comprensibile anche dalla massa. Il primo procede da premesse necessarie e approda a conclusioni 5 2) II: definizione di «retorica» e dei suoi scopi. 3) III-VII: comincia l’analisi delle partitiones oratoriae: qui inventio e dispositio. 4) VIII-X: elocutio (la sezione è una specie di “corso di scrittura”). 5) XI: memoria e actio. 6) XII: identikit dell’oratore dal punto di vista culturale e morale. Nel passo che dicevamo, Quintiliano distingue tra argumenta a persona (luoghi che riguardano persone) e argumenta a re (luoghi che riguardano cose). Elenca quindi quindici luoghi che riguardano persone: la famiglia, la nazionalità, la patria, il sesso, l’età, l’educazione, l’aspetto fisico, la condizione economica, la condizione sociale, il carattere, la professione, l’immagine sociale, la condotta precedente, gli sbalzi d’umore, il nome. Essi sono, per dirla con Dumarais, altrettante cellette da cui trarre premesse per argomentare di una persona: ad es., la famiglia, perché i figli sono spesso simili ai genitori, e talora da essi ereditano una tendenza all’onestà o alla disonestà; il sesso, che ci permette di ritenere più probabile che un uomo commetta una rapina e una donna invece un veneficio; gli sbalzi d’umore (la «commozione»), perché un moto temporaneo dell’animo, un moto d’ira, può portarci a compiere azioni violente piuttosto che altre, ecc. Quintiliano si riferisce ad un pubblico specifico, quello degli oratori giudiziari (gli odierni avvocati). Lo si capisce, primo, dalla ricorrenza di termini del lessico giuridico a inizio brano («movente», «circostanza», ...), secondo, dal fatto che i singoli luoghi riflettono delle situazioni giudiziarie. In definitiva, l’esigenza che permea il brano è: che cosa può escogitare un avvocato a favore del suo cliente e contro l’avversario di questi, di fronte ai giudici in tribunale? Ad es., se il cliente è moralmente sano e di buona famiglia, sarà facile per l’avvocato dimostrarne l’innocenza; ancora, sarà più semplice convincere una giuria della colpevolezza di un barbaro (leggi extracomunitario di colore) piuttosto che di un romano o di un greco (leggi cittadino italiano, bianco). Perelman e Olbrechts-Tyteca hanno recentemente rivisitato la topica intesa come metodo dell’argomentazione (Traité de l’argumentation, TA, anni Cinquanta – “La base dell’argomentazione”), inaugurando un nuovo filone di studi retorici, che si designa col nome di nouvelle rhétorique. Il carattere principale di quest’ultimo è un moderno riavvicinamento alle teorie classiche dell’argomentazione. Una malattia secolare ha intaccato il prestigio della retorica nel tempo: l’ha acutamente diagnosticata Genette, uno studioso francese (La rhétorique restreinte, “La retorica ristretta”, anni Settanta). Secondo lui, la retorica sarebbe afflitta da un restringimento disciplinare, un’ “angina intellettuale”. Nel concreto, questo restringimento è un divorzio della parola dal pensiero. Il primo ad accorgersene era stato Quintiliano (Institutio oratoria, II), che accusava i maestri di retorica del suo tempo di assegnare temi banali, disimpegnati sul piano civile e politico, e denigrava la pratica delle declamazioni. In un secondo tempo, questa angina intellettuale venne teorizzata lucidamente in età umanistica da Pierre de la Ramée, un letterato francese del Cinquecento, che riconobbe lo smembramento delle tradizionali competenze della retorica: secondo lui, inventio e dispositio sono competenze della logica, mentre elocutio e actio della retorica; quest’ultima si trasforma così in mera ricerca di forme d’espressione, e non ha più diritto di parola sulla scelta e l’organizzazione dei contenuti. In un terzo momento, col TA, si tornò a considerare la retorica anzitutto come inventio. Il passo che consideriamo si articola in tre sequenze: 1) L’EVOLUZIONE SEMANTICA DI «LUOGO», da Aristotele all’età moderna. Per gli antichi, i luoghi sono rubriche sotto le quali classificare gli argomenti (in modo da trovare un argomento più facilmente in caso di bisogno), dei magazzini di argomenti. Per Aristotele, i luoghi vanno distinti tra «comuni» (possono servire indifferentemente a qualunque scienza) e «specifici» (servono a una scienza particolare o a un definito genere oratorio). 6 La degenerazione della retorica ha avuto come conseguenza quella che i pezzi oratori contro vizi specifici (lusso, pigrizia, ecc.), a furia di esser ripetuti fino alla nausea, sono stati classificati come luoghi comuni, nonostante fossero invece particolari. Oggi si tende a considerare luoghi comuni quelli che il Vico chiama «luoghi oratori». Ovvero, i luoghi comuni di oggi sono caratterizzati da una banalità che non esclude la specificità: essi in realtà non sono che un’applicazione ad argomenti particolari dei luoghi comuni in senso aristotelico. Con l’effetto collaterale che, siccome i soggetti cui applicare questi luoghi sono stati trattati molto spesso, allora anche il luogo applicato viene sentito solo come banale, e dunque non necessario a costruire un discorso persuasivo. 2) DEFINIZIONE DI LUOGO. Il luogo viene definito partendo dalla concezione aristotelica e sottolineando le differenze rispetto ad essa. Per Perelman, i luoghi sono “accordi primi nel campo del preferibile”. Cos’è un accordo? Dunque, perché l’oratore riesca a persuadere il suo pubblico, deve individuare una base di consenso con quest’ultimo; e questo consenso è l’accordo. Esistono vari oggetti di accordo, e nello specifico Perleman distingue due tipi diversi di materia su cui cercare l’accordo: il reale e il preferibile. Il reale - fatti - verità, cioè legame tra fatti - presunzioni, cioè verosimile aristotelico. Il preferibile - valori, astratti (es., giustizia) e concreti (es., la nazione italiana e la Chiesa cattolica) - gerarchie, cioè legame fra i valori, astratto (es., giusto > utile) o concreto (es., uomo > animale) - luoghi. La differenza tra le due materie su cui fondare l’accordo sta in questo: la materia del reale è oggettiva, dunque ha una pretesa di universalità (tutti possono essere d’accordo su un fatto), mentre la materia del preferibile no (solo chi crede nei valori proposti può essere d’accordo su di essi). Cos’è allora un luogo? I luoghi, che rientrano nella categoria del preferibile, sono le radici più profonde dei valori e quindi delle gerarchie. Perelman li definisce come “le premesse più generali, spesso sottintese, che intervengono a giustificare la maggior parte delle nostre scelte”. 3) ELENCO DEI LUOGHI. Secondo Perelman, è infattibile stendere una lista completa dei luoghi, ma quantomeno se ne può abbozzare una classificazione generale, che è la seguente (a seconda di quello che affermano, i luoghi sono...): Luoghi della quantità: più è meglio di meno. Ne è un es. l’idea di normalità, che trasforma un parametro quantitativo (frequenza: la maggior parte delle coppie sono eterosessuali) in uno qualitativo (la coppia eterosessuale è secondo giustizia, secondo natura) . Luoghi della qualità: meno è meglio. Ne è un es., l’idea di rarità abusata nelle pubblicità, per cui ciò che è raro è meglio di ciò che è comune e alla portata di tutti. Luoghi dell’ordine: prima è meglio di dopo, sia in senso cronologico (superiorità della causa sugli effetti) che logico (superiorità dell’ideale sul reale). Ne è un es. ogni forma di nostalgia acritica del passato, come tempo ideale. 7 Luoghi dell’esistente: realtà è meglio di eventualità. Ne è un es. il pragmatismo di chi acclama “cose, non parole!” Luoghi dell’essenza: individuo è meglio di massa, perché nell’uno l’ideale si esprime meglio. Ne è un es. l’idea di monoteismo opposta a quella di politeismo. Luoghi della persona: interiore è meglio di esteriore. Ne è un es. ogni esaltazione dell’anticonformismo (l’obiezione di coscienza pagata a caro prezzo, oppure il martirio).  TOPICA COME GRIGLIA DI FORME VUOTE L’arte di trovare argomenti, con mezzi brevi e facili, per trattare anche soggetti interamente sconosciuti, consiste a livello pratico nella ricerca di griglie logiche che inducano la formazione di argomenti su un soggetto. L’idea di base è che gli argomenti si nascondono dentro di noi, nel profondo della nostra psiche, e che occorra farli emergere alla luce. Il che si può fare grazie ad un insieme di forme vuote, di quesiti, che porta alla plasmazione di contenuti. Sono queste le cosiddette topiche-griglie, e dall’antichità al Medioevo ne sono state proposte di vari tipi. Eccone alcuni. L’elenco delle circostanze. È una griglia composta dalle condizioni necessarie a che un’espressione sia compiuta. Elaborata originariamente da Ermagora, retore greco del II sec. a.C., per tramite di Cicerone (De inventione) è giunta fino al Medioevo. persona Quis? Chi? Who? factum Quid? Che cosa? What? causa Cur? Perché? Why? locus Ubi? Dove? Where? tempus Quando? Quando? When? modus Quem ad modum? In che modo? facultas Quibus adminiculis? Con che mezzi? In epoca medioevale, si raccomandava di applicare questa griglia in particolare nelle parti narrative dei discorsi parenetici. Il discorso parenetico era uno degli ambiti di competenza della retorica medievale, alla quale si poteva infatti ricorrere per comporre tre diversi tipi di testo. Primo, l’ars sermocinandi, cioè l’arte di comporre discorsi parenetici (discorsi che esortano alla virtù: omelie, sermoni, ecc). Secondo, l’ars dictandi, cioè l’arte di comporre epistole (lettere ufficiali, di tipo politico amministrativo religioso burocratico, ecc). Terzo, l’ars poetica, cioè l’arte di comporre poesia. La retorica rientrava inoltre nel sistema disciplinare del Settennio, quello delle “arti liberali” (così chiamate perché tipiche dell’uomo libero, affrancato dalla necessità servile di lavorare, e unicamente votato all’otium, la ricerca intellettuale disinteressata), che si opponevano alle “arti meccaniche” (artigianato, e in generale tecniche di produzione come pittura, scultura, ecc). Il Settennio si divideva il Trivio (dialettica, grammatica e retorica – che studiano il mondo umano) e Quadrivio (musica, aritmetica, geometria, astronomia – che studiano il mondo naturale). In questo concerto di discipline, la retorica occupa una posizione di debolezza: la dialettica si occupa del contenuto del discorso (pensiero), la grammatica della sua forma (parola), e alla retorica non resta che l’ornamento del discorso con figure retoriche... insomma, una funzione non indispensabile. La griglia di Lamy. In età moderna la retorica vive una stagione di grande fortuna tra gli ordini religiosi “insegnanti” suscitati dalla riforma cattolica del XVI secolo. In particolare, la Compagnia di Gesù si propose 10 TESI E IPOTESI Il luogo (inteso come forma vuota) è di per sé un’idea infinita, che poi l’oratore attaglia (come argomento o semplice ornamento) ad un oggetto di trattazione contingente. Così facendo, l’oratore rende finito quel luogo, attribuendogli un contesto e una funzione attuale. L’oggetto di trattazione contingente (quello cui il luogo viene applicato) si chiama quaestio. In origine il sostantivo significava “domanda”, perché nelle scuole di retorica antiche, quando si specificava l’oggetto della trattazione, lo si formulava in modo interrogativo. Comunque, Ermagora (di Temno, il retore greco del II sec. a.C.) distingueva due tipi di quaestiones: tesi e ipotesi. La thésis è una questione astratta, perché non riguarda persone individualizzate o circostanze spaziotemporali concrete; per questo i retori latini la denominarono quaestio infinita. Un es. può essere: “può un folle essere ritenuto responsabile di un omicidio?”. L’hypòthesis è una questione particolare, perché riguarda un individuo specifico e circostanze spaziotemporali concrete; per questo i retori latini la denominarono quaestio finita o causa. Un es. può essere: “può Tizio aver ucciso Caio?”. GENERI ORATORI Ora, siccome la causa è particolare, di essa si possono individuare tre tipi, ciascuno afferente ad un particolare genere oratorio. Genere Luogo Destinatario Oggetto Ambito Fine Deliberativo Assemblea Buleuta Utile / dannoso Futuro Decisione Giudiziario Tribunale Giudice Giusto / ingiusto Passato Decisione Epidittico Massa Cittadino Bello / brutto Presente Fruizione estetica Il genere deliberativo (o politico) si colloca nelle assemblee chiamate a decidere su una materia di tipo politico e amminstrativo (questioni militari, economiche, legislative). Per questo ha come destinatari i membri dell’assemblea (i bulèuti), e ha lo scopo di coagularne il consenso intorno ad un provvedimento futuro, del quale si cerca di dimostrare che è utile allo Stato. Il genere giudiziario si colloca nei tribunali. Per questo ha come destinatari i giudici, e ha lo scopo di veicolarne la decisione circa le sorti di un accusato di fatti passati, alla luce delle norme giuridiche (e dunque della giustizia). Il genere epidittico (o celebrativo) ha la funzione di fare memoria di fatti personaggi o valori in cui i cittadini riconoscano i fondamenti della propria identità comunitaria e il cemento della propria coesione. Proprio perché si rivolge alla massa, questo genere non ha finalità decisionali, ma solo di elogio di un oggetto presente. GLI STATUS CAUSAE Alla causa giudiziaria si applicano dei luoghi particolari, che prendono il nome di status causae, “punti di appoggio della causa”. Su di essi l’oratore deve far leva in vista della disceptatio, cioè dello scontro logico e verbale con la controparte. Ermagora ha distinto tra diversi status causae: 11 congettura an sit  il fatto ha avuto luogo o no? definizione quid sit  il fatto è giuridicamente rilevante (è delitto o no)? qualità quale sit  che qualifica giuridica ha il fatto (ha attenuanti come la costrizione ad agire, la buona fede, ecc.)? traslazione traslatio  il processo intentato al reo è legittimo (il magistrato è competente, bisogna domandare il rinvio, ovvero al traslazione, ad altri)? Tra convinzione razionale e pseudorazionale: elementi di grammatica del dibattito Il dibattito: alla ricerca di una definizione Dibattere è una forma di argomentazione che consiste nel confronto tra pro e contro. Ha dunque una natura dialogica, ma esiste anche un altro tipo di argomentazione, di natura monologica: si pensi a un saggio, una lezione, un’omelia. La differenza tra argomentazione dialogica e monologica sta nel metodo: la prima ha il vero come meta di un processo retorico, mentre la seconda ha il vero come base di un processo retorico che punta alla dimostrazione. Come es., potremmo vedere rispettivamente un professore che discute con un proprio collega in un seminario (cerca la verità tramite il confronto con l’altro), e lo stesso professore che tiene una lezione di fronte alla sua classe (cerca il consenso dei suoi studenti per mezzo di verità che propone loro). Inoltre, dibattere implica una serie di caratteri, quali il confronto tra posizioni diverse o opposte sullo stesso argomento, che vengano motivate dai rispettivi sostenitori, muovendosi ora sul terreno della convinzione razionale, ora su quello della convinzione pseudorazionale. Se è vero infatti che non tutte le argomentazioni sono discussioni, è altrettanto vero che non tutte le discussioni sono argomentazioni: un litigio tra due automobilisti che giochino a rimbalzare le reciproche accuse l’uno addosso all’altro, senza dire la propria sulle dinamiche dell’incidente, non ha alcun senso come argomentazione. Tipi di scambio argomentativo Vediamo che ci sono diversi tipi di scambio argomentativo. Ogni tipo differisce dagli altri per  il tono (più o meno acerbo)  la relazione tra interlocutori  i mezzi persuasivi (razionali o pseudorazionali ed emotivi)  la finalità (più o meno orientata alla decisione). In realtà, i contorni di questi tipi sono molto labili, e tendono a trascolorare l’uno nell’altro; forse dunque è meglio parlare di “varianti morfologiche” di un fenomeno, quello dell’argomentare pro e contro. Dialogo È uno scambio di argomenti dal tono rispettoso, in cui i due interlocutori si esprimono in modo veritiero, col fine di promuovere la ricerca e la conoscenza. Es. i dialoghi platonici. Discussione È uno scambio di argomenti simile al dialogo, ma col fine di risolvere un problema specifico. Es. due architetti discutono sulle modifiche da apportare ad un progetto comune. Dibattito È uno scambio di argomenti dal tono agonistico, in cui i due interlocutori sono nemici logici che si sfidano, senza necessariamente avere il fine di risolvere un problema – si può dibattere anche all’infinito –; inoltre i due si sfidano di fronte a una terza parte o con ricadute su questa terza parte, della quale ognuno dei due cerca il Es. un talk-show in cui i due genitori discutono per ottenere l’affidamento esclusivo del figlio, mirando ognuno a ottenere il favore del giudice e del pubblico. 12 consenso. Polemica È uno scambio di argomenti simile al dibattito, ma con un tono ancora più aggressivo, e con i due interlocutori che restano irriducibili nelle loro posizioni; il nome viene dal greco pòlemos, “guerra”. Es. il muro contro muro tra Destra e Sinistra in politica, o la querelle fra Classicisti e Romantici nel XIX secolo. Controversia È uno scambio di argomenti simile alla polemica, ma per giunta continua – si protrae nel tempo senza concludersi. Es. una causa civile fra eredi che si trascini per diversi gradi di giudizio in attesa di una sentenza. Disputa È uno scambio di argomenti simile al dibattito, ma di natura dottrinale ed erudito – si parla di teologia filosofia letteratura –, in cui gli interlocutori sono solitamente studiosi, e si confrontano con tre possibili fini, cui Aristotele dà nomi differenti: 1. dialettico – scientifico: promuovere la ricerca della verità 2. didattico : insegnare un metodo di ricerca della verità con questo esercizio 3. eristico – polemico: rinfocolare lo scontro fra esperti. Es. le dispute che erano il metodo di discussione tipico del mondo accademico medievale. Diàtriba È uno scambio di argomenti simile alla disputa, ma dal tono aspramente polemico, e priva di fini didattici, tanto che gli interlocutori spesso procedono dileggiando l’avversario o eseguendo colpi di scena plateali. Es. la diàtriba cinico-stoica: nel loro argomentare, questi filosofi prediligevano temi etici e un linguaggio comprensibile per la massa. Antilogìa È uno scambio di argomenti simile alla disputa, ma in cui si contrappongono due discorsi concernenti il medesimo argomento, uno pro e l’altro contro; in greco corrisponde ai dissòs lògos, “discorso duplice”. Es. il discorso tipico della retorica sofistica. Tipologie di dibattito Non è semplice definire i vari tipi di dibattito, perché ci sono diversi criteri di distinzione, almeno due: finalità da un lato, struttura e organizzazione dall’altro. Già Aristotele ci aveva provato (Topica, VIII), producendo quella tripartizione dialettico, didattico e eristico che dicevamo. Un tentativo più recente è stata proposta da Cattani (Botta e risposta. L’arte della replica. 2001), che si rifà a sua volta alla tassonomia di Walton (Arguments from ignorance, 1996), con la quale condivide l’osservazione della situazione iniziale (il rapporto tra i due interlocutori) e dello scopo (la meta cui mira il dibattito). Cattani elenca così cinque modi di dibattere, che distingue sulla base di due criteri: la percezione primitiva delle varietà dibattimentali e la presenza di fallacie tipiche. LA PERCEZIONE PRIMITIVA DELLE VARIETÀ DIBATTIMENTALI Con percezione «primitiva» si intende quella diffusa presso la massa e linguisticamente marcata. Di qui, Cattani procede ad individuare cinque diverse metafore della rappresentazione del dibattito, ricavandone cinque tipi di dibattito. Tipo Esempio Marcatori Situazione Scopo Possibile esito 15 riguarda un’azione che eventualmente sarà il contendente a commettere, e non una più o meno naturale conseguenza calata dall’esterno; altra differenza sta nel fatto che l’argomento ad baculum non fa poi così paura, perché minaccia fastidi, ma non cose terribili. Ad es., un inquilino in difficoltà economiche può invocare la comprensione del locatore invitandolo a ricontrattare l’ammontare del canone d’affitto, o altrimenti egli stesso recederà dal contratto di locazione. Dibattito- sport  Argomento ad antiquitatem Sia questo che il prossimo argomento giocano sull’importanza del giudizio dell’arbitro presente a questo dibattito. Questo primo argomento consiste nel “si è sempre pensato-fatto così, dunque è giusto-doveroso continuare a pensarlo-farlo”. In questo modo così conservatore si soffoca sul nascere ogni innovazione, dunque ogni altra strategia che l’avversario potrebbe opporre.  Argomento ad populum Consiste nell’appoggiarsi al sentire comune: una posizione o un sentimento sono giusti perché appartengono alla maggioranza. Insomma, si invoca il peso quantitativo di un’affermazione invece di quello qualitativo. Dibattito- viaggio  Post hoc ergo propter hoc Sia questo che il prossimo argomento giocano sul fatto che in questo tpo di dibattito è preminente l’interpretazione discorde dei dati. Questo argomento significa “dopo ciò, quindi per ciò”, e consiste nel dare un significato causale ad una successione che avrebbe significato temporale. Ad es., in un dibattito tra due economisti, uno afferma che l’inflazione è scesa da quando si è insediato il nuovo governo (come dire, è merito del nuovo governo se l’inflazione è scesa).  Ignoratio elenchi Significa “elusione della questione proposta”. Il tentativo è quello di spostare l’attenzione del pubblico sulla parte del bicchiere piena, anziché su quella vuota (a costo di mancare di pertinenza). Ad es., un giornalista domanda ad un politico, dopo gli esiti definitivi di una tornata elettorale, “avete perso le elezioni dunque?”, e questo risponde “abbiamo guadagnato comunque quattro parlamentari”. Per sottrarsi all’imbarazzante ammissione della perdita, il politico risponde Roma per toma. Dibattito- costruzione  Argomento ad verecundiam È una fallacia d’autorità, “per suscitare soggezione”: consiste nel dire che “ciò è vero perché l’ha detto Tizio”, dove Tizio è un personaggio pubblico famoso, ma non esperto della materia del contendere.  Argomento ad ignorantiam È la fallacia della prova negativa, che consiste nel rovesciare l’onere della prova, nell’interrogare a propria volta anziché rispondere alla domanda che ci si è sentiti rivolgere. Così da mettere n luce l’ignoranza dell’interlocutore su un certo argomento. Ovviamente non sussiste un rapporto biunivoco fisso tra tipo di dibattito e tipo di fallacia, perché queste ultime possono ben essere utilizzate in contesti comunicativi diversi. 16 Dal dissos logos al talk show: elementi di ermeneutica del botta e risposta Vediamo ora alcuni esempi di dibattito, diversi per epoca, ambito e forma comunicativa. Sarà come un viaggio nella morfologia dell’inventio, logica (che usa argomentazioni razionali) e paralogica (che usa fallacie). ARISTOFANE, LE NUVOLE Siamo nell’Atene del V-IV sec. a.C., e Aristofane è il più noto commediografo dell’antichità greca. Ne Le nuvole egli mette in scena il contemporaneo Socrate, che circondato da uno stuolo di allievi insegna loro l’arte del dissòs lògos; tra questi c’è anche Fidìppide, mandato a scuola dall’anziano padre Strepsiade. A un bel momento, Fidìppide malmena il padre, e poi gli dimostra che ciò è giusto. Il dibattito che si apre è un dibattito-sport, perché avviene nella cavea di un teatro e di fronte a un pubblico sensibile al tema trattato (la paidèia); l’indole ludica del confronto è evidenziata dalla sua collocazione in una commedia e anche dal suo argomento paradossale, per cui sarebbe sacrosanto battere il padre. Vengono anche stabilite delle regole del gioco: quelle dell’antilogìa. O meglio, di una semiantilogìa, un’antilogìa a metà: all’inizio Fidippide aveva chiesto al padre “quale dei due discorsi vuoi che adoperi?”, perché la pratica del doppio discorso prevedeva che la stessa persona pronunciasse prima un discorso pro, e poi uno contro la sua stessa tesi. Ma difatti Fidippide si ferma al solo discorso pro, creando così una parodia del dissòs lògos. Quest’ultimo fu inventato da Protàgora, sofista del V sec. a.C., che come tutti i sofisti faceva il “mercante di sapere”: il professore vagante da polis a polis, che trasmetteva a pagamento la sua cultura. Il suo motto, posto a fondamento della pratica del discorso doppio, era che “su ogni cosa vi sono due punti di vista”. Il che, come commenta Cattani, vuol dire, primo, che a contrapporsi attorno a un fatto non sono un torto e una ragione, ma due ragioni più o meno forti; secondo, che questa contrapposizione è l’anima del commercio tra ragionanti. Si tratta dunque di decidere non chi ha ragione e chi ha torto, bensì chi ha più ragione o più ragioni dalla sua. Quanto al dibattito dell’esempio, vediamo: Primo argomento: picchiare qualcuno vuol dire volergli bene; io, o padre, ti voglio bene; dunque è giusto che io ti picchi.  È un entimema.  La cui premessa maggiore, però, è difettosa per non sequitur (“non ne consegue”): essa consiste infatti in una fallacia post hoc ergo propter, visto che non c’è un vero nesso causale tra percosse e voler bene.  Lo stesso Aristotele l’avrebbe definito “eristico”; anzi, proprio Aristotele (Etica Nicomachèa) portava come esempio quello di un uomo C che, accusato di picchiare il proprio padre B, si era difeso dicendo che anche suo padre B picchiava il proprio padre A, e che il proprio figlio D avrebbe picchiato a sua volta lui stesso C. Ma lo portava come esempio di eccesso e di ira non necessaria: erano queste le ragioni per cui il padre picchiava il figlio e viceversa, non il bene. Questo ci mostra anche che il nostro entimema usa un eikòs (verisimile) come premessa maggiore: perché è sì generale come certezza (secondo la massa, è approvabile che un genitore picchi il figlio), ma è anche controvertibile (non si picchia solo per bene, ma anche per eccesso d’ira...).  Però è interessante vedere come Fidippide si sia procurato questa premessa: col metodo del “dagli la pala e lascia che si scavi la fossa” (non si lascia presentire all’interlocutore verso che meta lo si vuole portare, ma gli si fanno ammettere le premesse di essa). Secondo argomento: è formato da tre argomenti in sequenza.  Una mossa possibile per Strepsiade sarebbe stato un «distinguo», ovvero ridefinire e riformulare l’argomento precedentemente avanzato dal figlio. Ma Fidippide lo previene: “mi dirai che usa così, che le botte le prendono i bambini”. 1. Eppure di nascita libera lo sono anch’io. 17 Contro questa possibile mossa del padre, nello specifico, Fidippide erge innanzituto una prova di fatto (dunque una prova tecnica): l’uguaglianza di diritti civili per i cittadini ateniesi, che esige un pari trattamento per tutti. Se le busca il figlio, deve buscarle anche il padre. Ovviamente siamo di nuovo di fronte a una fallacia causale (post hoc ergo propter): darle non è un diritto, così come prenderle non è un dovere... 2. «Piangono i figli, e un padre, per te, non dovrebbe piangere?» Poi invoca una testimonianza (dunque una prova extratecnica): è un richiamo ad un passo dell’Alcesti di Euripide (tragediografo del V-IV sec. a.C.). Nel contesto dell’Alcesti, il passo rappresentava una delle argomentazioni con cui Feréte si rifiuta di immolarsi al posto del figlio Adméto (aggiungendo dichiarazioni spiacevoli del tipo, rivolto al figlio, “ti piace vedere la luce del giorno e pensi che a tuo padre non piaccia?”). Bene, citandolo Fidippide critica l’egoismo di Ferete, che pur essendo anziano e dunque più vicino alla morte, di fronte al figlio che lo supplica in lacrime, si rifiuta di sacrificarsi pur di continuare a godersi la sua vita. Nella nostra scena, il pianto di Strepsiade percosso dal figlio assume allora i contorni di un regolamento di conti fra generazioni: noi figli soffriamo e i padri sembrano non curarsene?, adesso soffrissero i nostri padri buscandole da noi. 3. Le botte le prendono i bambini; ma i vecchi, dice il proverbio, sono due volte bambini; e anzi è giusto che siano picchati più dei giovani, perché hanno meno ragione di sbagliare. Fidippide sfodera infine un entimema parecchio sgangherato: la dialettica antica l’avrebbe chiamato “sofisma”. La premessa maggiore è messa in bocca all’interlocutore, di nuovo dandogli la pala per scavarsi la fossa: “le botte le prendono i bambini”. La premessa minore invece è un proverbio (dunque una prova extratecnica): “i vecchi sono due volte bambini”. Conclusione: i vecchi vanno picchiati due volte tanto. Anzi – rincara la dose –, siccome hanno meno ragione di sbagliare, devono essere picchiati tanto più. L’entimema è sgangherato perché all’insegna dell’ambiguità, una vera e propria fallacia verbale (cioè quella fallacia che consiste in un voluto equivoco semantico): il proverbio viene infatti risemantizzato artificiosamente (rivelando in questo la sua natura di luogo comune). Di per sé, il proverbio vorrebbe dire che la vecchiaia è il ritorno ad una condizione di debolezza simile a quella di un bambino, anzi, pari al doppio di essa. E invece Fidippide usa il “fattore bambino” con un’implicazione del tipo “la vecchiaia ha bisogno di essere doppiamente educata”. Cambia l’uso dell’immagine dell’infanzia: da bimbo = soggetto indifeso, si passa a bimbo = soggetto da educare (a botte!). Ultimo argomento: da nessuna parte è legge che al padre si facciano certe cose? Eppure quello che ha istituito per primo questa legge, non era forse un uomo come me e te? Ho forse meno diritto anch’io di istituire a mia volta questa nuova legge, che i figli picchino il padre che li picchia?  Strepsiade aveva ribattuto invocando a sua volta una prova di fatto: non esiste una legge che prescriva ai figli di picchiare il padre.  Per tutta risposta, Fidippide usa una fallacia del tipo ignoratio elenchi: non esiste una legge? Siccome le leggi le fanno gli uomini, allora nulla vieta che sia io stesso, Fidippide, a stabilire la legge che mi serve, che il padre sia picchiato dai figli. SENECA IL RETORE, CONTROVERSIE Siamo nella Roma imperiale del secolo a cavallo dell’anno 0, in una sala per declamazioni. Questo è lo sfondo del testo di Lucio Anneo Seneca il retore (padre dell’omonimo Seneca il filosofo). Due giovani altolocati, destinati alla carriera forense, stanno praticando le declamationes di fronte ad un pubblico di altri discepoli e al loro maestro di retorica. Quest’ultimo assegna loro un tema su cui dibattere, e consegnerà poi la palma della vittoria al più brillante e persuasivo dei due contendenti (anche se spesso accadeva che all’esercizio venisse sottoposto un solo ragazzo, il quale doveva sdoppiarsi, impersonando prima la parte del difensore e poi dell’accusatore). In realtà, il passo non è il vero e proprio testo del dibattito, bensì uno schema riassuntivo di esso. 20 Il terreno degli argomenti di Travaglio è prevalentemente logico: infatti consiste in un elenco di prove di fatto, culminanti in un dilemma. Quanto al dilemma, Travaglio conclude così: O lei è sfortunato nelle amicizie o gli impresentabili li attira come al carta moschicida, o perché le somigliano o perché vogliono somigliarle – dice rivolto a Berlusconi. Da buon dilemma, anche questo presenta due affermazioni che portano ad una conclusione identica: al presenza di Berlusconi sulla scena porta con sé il marcio. Quanto alle prove di fatto, sono divisibili in quattro ambiti fattuali: 1. La promessa in bocca a Berlusconi è contraddittoria perché in contrasto col suo entourage, che rivela una consuetudine con i corrotti antica e continuata da parte dell’ex premier. Travaglio elenca i personaggi che compongono e hanno composto tale entourage in ordine cronologico, a dimostrare che Berlusconi convive con al criminalità da prima del suo ingresso in politica: peculato, corruzione, associazione mafiosa, bancarotta fraudolenta, favoreggiamento alla prostituzione e prostituzione stessa. 2. La promessa in bocca a Berlusconi è contraddittoria perché in contrasto con la persona stessa di Berlusconi. Vuole fuori dalle liste elettorali gli over 65, lui che ha 76 anni ed è ancora al comando? Vuole eliminare dalla scena pubblica chi ha processi pendenti, lui che di processi pendenti e non ne ha una caterva? Vuole limitare l’eleggibilità di un politico a due sole legislature, lui che da sei siede in Parlamento? Senza contare che, se scarta come candidati chi è imputato o condannato, dimostra di fidarsi della magistratura... lui che la depreca come politicizzata e dice di essere perseguitato da magistrati corrotti. 3. La promessa in bocca a Berlusconi è contraddittoria perché in contrasto con la realtà dei fatti: una purificazione delle liste elettorali era già stata tentata e non era stata rispettata in passato. Travaglio cita la dichiarazione giurata che ogni candidato di Forza Italia dovette sottoscrivere nel ’94, durante la prima campagna elettorale di Berlusconi, certificando di non avere conti in sospeso con la giustizia. Peccato che poi si era disegnata tutt’altra foto di famiglia – vedi il punto 1 del discorso. 4. La promessa in bocca a Berlusconi è contraddittoria perché in contrasto col suo agire politico ventennale. Da lui ci si attendeva una lotta alla mafia, all’evasione fiscale, alle tangenti e alle ferite inferte dai politici alla Costituzione. E invece l’ex premier aveva colluso col partito del malaffare. L’oratoria di Travaglio non rinuncia tuttavia ad una dimensione ludica, che si esprime in un’ironia feroce. Il discorso di Berlusconi: La cosiddetta letterina è frutto in realtà del lavoro dello staff di addetti alla comunicazione dell’ex premier. Cosa che Berlsconi stesso dichiara apertamente. Ora, che un politico abbia bisogno di appoggiarsi ad un’equipe per gestire i propri incarichi, non sorprende: perché allora ribadire qualcosa di così ovvio? Non certo per dissociarsi dalle posizioni espresse nella letterina, che anzi il premier condivideva pienamente. Piuttosto, il suo è un implicito understatement dell’avversario. Lo stesso diminutivo, letterina, punta in questa direzione: a significare che de minimis non curat praetor. Il dibattito con te, Travaglio, è cosa tanto piccola da non meritare che io, Berlusconi, me ne occupi in prima persona. Del resto, il discorso di Berlusconi elude ogni riferimento all’agenda politica e a questioni pubbliche – compresa quella delle elezioni, che poi è il tema della trasmissione in corso –, risultando dunque non pertinente. Piuttosto, tutte le sue energie oratorie sono investite nel dileggio dell’avversario, quel “genio del male” di Travaglio. Ciò che Berlusconi vuole dimostrare, infatti, è che quest’ultimo è un diffamatore di professione. La letterina raccoglie i suoi argomenti dal terreno della pseudologica: infatti si nutre di fallacie. E anzi, i fatti che vengono usati per le fallacie sono elencati con abbondanza e precisione, nonché con tono ironico: due caratteristiche tipiche del procedere di Travaglio. Insomma, Berlusconi fa il verso al suo avversario: fa una parodia del suo discorso. Nello specifico abbiamo:  Una fallacia ad hominem: Travaglio è un parassita (è qualcuno solo perché ha fatto della polemica contro Berlusconi il suo core-business) e uno sfaccendato (si è laureato a trent’anni) e un piantazzizzanie (assunto da Mondadori – cioè da Berlusconi – al “Giornale” avrebbe fatto litigare il direttore con l’editore). 21  Una fallacia tu quoque, che consiste nell’evidenziare che l’avversario commette gli stessi peccati che ipocritamente rimprovera ad altri: anche Travaglio, a detta dell’ex premier, aveva una serie di procedimenti a proprio carico per diffamazione.  Una fallacia di inquinamento delle fonti: interrotto dal conduttore, Berlusconi domanda ironicamente “quale onestà intellettuale si può riconoscere in chi, come Santoro, ricorre ad un Travaglio come opinionista fisso nei suoi talk?”. Due giorni dopo, Travaglio rispondeva dalle colonne de “Il Fatto quotidiano” con un pezzo (Le 12 balle blu) all’affondo di Berlusconi, sottolineandone la fallacia.  Riporta delle sentenze: dice di essere stato denunciato trecento volte in sede civile e penale. Bene, in sede civile ha perso alcune cause e ha pagato il risarcimento in denaro, ma mai per avere scritto il falso (perlopiù per casi di omonimia o critiche ritenute eccessive). In sede penale non ha mai riportato nemmeno una condanna.  Inquina a sua volta le fonti: lo staff di Berlusconi gli ha scritto la letterina compulsando Wikipedia e traendone informazioni false.  Riporta altre sentenze e ci aggiunge un ad hominem: curioso che Berlusconi inventi false accuse a suo carico, quando proprio lui ha appena finito di beatificare il direttore del suo “Giornale”, che di condanne definitive (e penali!) per diffamazione ne ha ben sette.  Riporta delle prove di fatto e ci aggiunge un ad hominem: ancor più curioso che Berlusconi sia quello che comprò al sentenza Mondadori, finanziò illegalmente Craxi, truccò ripetutamente bilanci aziendali, mentì sotto giuramento sulla P2, e per giunta – diversamente dal sottoscritto Travaglio – debba rendere conto delle sue azioni agli elettori di un intero paese per vent’anni di politica fraudolenta; e che pure abbia il tempo di occuparsi dei reati (inconsistenti) di un privato cittadino che fa il giornalista di mestiere.  Aggiunge un ad baculum: per gli stessi motivi, ora denuncerò Silvio Berlusconi.  Infine, stoccata ironica: sempre che, si capisce, non si trinceri dietro al vergogna dell’insindacabilità parlamentare. PAPA FRANCESCO A SCALFARI Negli anni Sessanta, il Concilio Vaticano II rivoluzionò la prassi ecclesiale anche per quanto concerne il tema di nostro interesse: primo, individuò nel dialogo (invece che nella contrapposizione e nella condanna) il metodo cui improntare il rapporto tra la Chiesa e il mondo contemporaneo; secondo, diede di nuovo spazio all’opinione pubblica nella Chiesa, cioè al dibattito interno su questioni non soggette a definizione dogmatica. Eugenio Scalfari rivolse alcune domande a papa Francesco dalle colonne del quotidiano “La Repubblica”, nel 2013; e la risposta del pontefice si inserisce proprio nel solco inaugurato dal Concilio, in questo clima di dialogo aperto. È lo stesso papa Francesco a sottolineare che è ormai venuta la stagione, inaugurata dal Vaticano II, di instaurare un dialogo che sia serio e fecondo incontro tra cultura d’ispirazione cristiana e cultura moderna d’impronta illuminista. Riferendosi esplicitamente alla posizione di Scalfari, che si presenta come un non credente tuttavia affascinato dalla predicazione di Gesù, pur avendo egli una cultura illuminista e non cercando Dio. Il testo del papa suscitò un coro enorme di consensi, ma anche alcuni interventi critici, talvolta molto pesanti contro di esso. Questi ultimi provenivano dalla galassia dei cattolici tradizionalisti, scettici nei confronti delle conquiste del Vaticano II. Il dialogo tra il papa e Scalfari è divenuto così oggetto di un dibattito pubblico. Dalle colonne de “Il Foglio”, personaggi come Gnocchi e Palmaro, rappresentanti dei cosiddetti “atei devoti” (intellettuali che, benché non credenti, appoggiano talune posizioni della chiesa in nome della difesa della tradizione occidentale), arrivarono a sostenere: “questo papa non ci piace. Le sue interviste e i suoi gesti sono un campionario di relativismo morale e religioso”, e attirano l’attenzione del circuito dei media e della Chiesa sulla sua stessa persona, piuttosto che sulla figura di Pietro. Dai toni si capisce che il dibattito venne a configurarsi fin da subito come polemica. Il suo stesso insorgere, tuttavia, è indicativo del fatto che le innovazioni del Concilio avevano dato i loro frutti: prima del Vaticano 22 II, il diritto di critica pubblica alla gerarchia – persino quando esso consisteva in un dissenso netto nei riguardi del pontefice – era semplicemente impensabile, e ogni suo esercizio veniva censurato o punito. Il testo di papa Francesco: Inutilmente ricercheremmo all’interno di esso l’armamentario dell’inventio, per il semplice fatto che non si tratta di un discorso retorico, bensì teologico. Il papa, cioè, non sta cercando di convincere o convertire Scalfari – cosa che gli verrà rimproverata dai suoi critici – ma sta solo enunciando alcune verità, incorniciandole in premesse che el facciano rettamente intendere. Ciò che interessa a noi, è che nel suo discorso Francesco individua due condizioni necessarie alla creazione e al mantenimento di un dialogo “sereno e costruttivo”, fra credenti e non credenti, due atteggiamenti morali indispensabili ad esso, perché sia qualcosa “che unisce” non “che divide”. a. La sincerità. La sincera ricerca del bene e la lotta contro il male, dettate dall’obbedienza alla propria coscienza. secondo la tradizionale teologica morale cattolica, due sono le fonti da cui il credente formula i giudizi di buono e cattivo: la coscienza individuale e la Rivelazione divina. È la seconda che fa la differenza tra credente e non credente. b. L’umiltà. Quella che nasce dalla passione (amorosa) per il vero, resa possibile dalla spoliazione da pregiudizio, dall’orgoglio di chi si sente possessore e amministratore della verità. L’articolo de “Il Foglio”: Caliamo dalla sfera metafisica a quella del dato empirico: da Dio e il bene, al papa e alle sue supposte mancanze. Contrariamente al precedente, questo testo si connota come un discorso retorico in piena regola; peccato che faccia uso di fallacie.  Una fallacia ad hominem: si vuole dare l’immagine di un papa-attore, che si compiace di recitare la parte del poverello di Assisi di cui porta il nome; un leader che dice alla folla proprio quello che la folla vuol sentirsi dire, cioè un demagogo.  Una fallacia di composizione: consiste nell’estendere un’affermazione pertinente solo per una parte al tutto, cui non si adatta. Gli autori fanno infatti dire al papa che “la coscienza è autonoma” per poterlo tacciare di relativismo, quando in realtà il suo pensiero originale era che “la questione (dell’esercizio della sincerità) per chi non crede in Dio sta nell’obbedire alla propria coscienza”.  Una fallacia di ignoratio elenechi: risulta evidente nella conclusione dell’articolo, che è incoerente con le premesse. Gli autori sostengono che si stia profilando all’orizzonte l’idea di una nuova chiesa, una chiesa che somiglia molto ad un “ospedale da campo”. Come esempio, riportano un’affermazione del pontefice, il quale aveva fatto riferimento al caso di una donna avente alle spalle un matrimonio fallito e un aborto, che ora invece è risposata e ha cinque bambini: la donna vorrebbe andare avanti nella sua vita cristiana, ed è seriamente pentita. La domanda con cui il papa concludeva era “che cosa fa il confessore?”. Ecco, gli autori sostengono che dopo questa domanda il papa vada a capo e cambi del tutto argomento, mostrando così che la chiesa non è capace di rispondere. Quella chiesa che da duemila anni – sostengono sempre gli autori – ha finto semmai di rispondere a questa domanda con una regola che permette di assolvere il peccatore a patto che sia pentito e si impegni a non rimanere nel peccato. Concludono così: eppure, soggiogate dalla straripante personalità di papa Bergoglio, legioni di cattolici si sono bevute la favola di un problema che in realtà non è mai esistito. Ecco qui l’incoerenza: il problema, diciamo noi, esiste eccome; basta avere a cuore le persone e le loro ferite, e non anzitutto la soddisfazione di regole e precetti. Animos impellere: ethos e pathos fra retorica antica, neoretorica e marketing Aristotele ARISTOTELE E LA PSICOLOGIA RETORICA 25 1) Emozioni (ira, desiderio, e simili) 2) disposizioni interiori (virtù e vizi) 3) età (giovinezza, maturità e vecchiaia) 4) casi della fortuna (nobiltà di nascita, ricchezza, potere, e i loro contrari). Ad aiutarci è piuttosto la conclusione del cap. 13: queste righe sembrano voler essere un’appendice alle sezioni sull’ethos e sul pathos, a seconda che il focus sia sulla personalità dell’oratore o sul carattere del destinatario. L’appendice costituisce un catalogo di tipi psicologici, di classi dell’anima, per entrambe le prospettive. Subito dopo l’autore ci dà un interessante ritratto del tipo psicologico del giovane medio, che potremmo riassumere così:  Il giovane è passionale: i suoi desideri sono intensi ma incostanti, e il sesso è l’oggetto privilegiato di essi, assieme al protagonismo.  Il giovane è pieno di speranza: egli ha davanti a sé tutto il futuro, che è la dimensione temporale della speranza (laddove i vecchi hanno più di passato, che è la dimensione temporale del ricordo). Il che lo rende vulnerabile (si fa ingannare facilmente da chi gli promette un avvenire roseo) e forte insieme (è audace nel raggiungere i propri obiettivi).  Il giovane è un idealista: preferisce compiere azioni belle piuttosto che vantaggiose, perché è guidato più dal carattere che dal calcolo.  Il giovane ama avere amici: difatti non seleziona le amicizie in base ai criteri della prudenza e dell’utile, ma del piacere.  Il giovane è eccessivo: quando sbaglia non lo fa per difetto, ma per eccesso (ama troppo, odia troppo, ecc).  Il giovane è spinto alla compassione: anche verso chi non la merita.  Il giovane è spiritoso: e lo spirito è una forma di arroganza moderata dall’educazione. Tirando le somme, Aristotele sembra guardare ai giovani con simpatia: la loro indole – dice – è buona perché essi non hanno ancora subito l’usura della vita sociale, con le sue malvagità, i suoi inganni e i suoi insuccessi. Cicerone Passiamo ora al I sec. a.C., l’età di Cicerone, il più grande oratore e retore latino di età antica. Ad interessarci è specialmente il secondo libro del suo De oratore, l’opera retorica più ampia di questo autore. È un dialogo in tre libri (ultimato alla metà di quel secolo), avente per soggetto la teoria generale dell’oratoria (ovvero i caratteri e i compiti dell’oratore e dell’atto oratorio). Analizzeremo tre paragrafi del libro II, leggendo in particolare il secondo e il terzo paragrafo in un confronto con la posizione aristotelica che abbiamo visto in precedenza. La Retorica di Aristotele costituisce infatti la fonte fondamentale del De oratore di Cicerone, pur presentando notevoli differenze. PRINCIPIO E FONDAMENTO DELLA TRATTAZIONE CICERONIANA Già in questo passo sono contenuti i tre elementi portanti della sequenza di paragrafi che analizzeremo: 1. La forma dialogica 2. Il principio e fondamento antropologico-psicologico 3. Contestuallizzazione e struttura dell’intera sequenza di paragrafi. Quanto al primo punto, dicevamo che l’opera è in forma di dialogo. I due personaggi che discorrono sono in questo momento l’oratore Marco Antonio e il poeta e politico Catulo. Quest’ultimo scomparirà dalla scena nei passi successivi, lasciando che l’interlocutore si pronunci in un monologo. Nel paragrafo, Antonio sta parlando dell’inventio, e ha appena smesso di dire delle prove logiche che occorrono in essa. Ora è il momento di affrontare le prove psicologiche, fondamentali nell’inventio, perché è nell’oratoria conta soprattutto che l’ascoltatore sia ben disposto nei confronti dell’oratore e sia emotivamente coinvolto, così da lasciarsi dominare più dalle emozioni che da una valutazione razionale. Gli 26 uomini infatti giudicano più spesso in base all’odio e all’amore, piuttosto che in base ad una verità o a una qualche norma giuridica4. Le scarne battute attribuite a Catulo hanno la funzione di far esplicitare ad Antonio di che cosa abbia intenzione di trattare: questi infatti non raccoglie l’invito di Catulo a trattare della dispositio perché, spiega, sarebbe prematuro affrontarla in questo momento; vuole prima parlare delle prove psicologiche dell’inventio, i mezzi che producono il coinvolgimento emotivo dell’uditorio. Conclude facendo riferimento a “tre obiettivi dell’oratoria”: in realtà, più che di obiettivi, l’originale latino (cum tria sint a me proposita) sembra parlare piuttosto degli argomenti principali di cui Antonio (leggi Cicerone) si è riproposto di parlare nell’ambito dell’inventio. a. Le prove logiche, ovvero i mezzi di persuasione razionale (di cui Antonio ha parlato in precedenza). b. Le prove psicologiche, ovvero ethos e pathos (di cui Antonio deve parlare), cui l’autore si riferisce però con termini del linguaggio latino indicanti azioni (la concretezza è tipica della cultura latina, povera di termini astratti), rispettivamente conciliare e (com)movere, ovvero “rendersi simpatico” il pubblico e “suscitare passioni” in esso. UN ETHOS SDOPPIATO Emergono già due differenze tra la visione aristotelica e quella ciceroniana. La prima è che Aristotele considera il problema dell’ethos in base a tre punti di vista differenti, tre modi diversi di analizzare lo stesso fenomeno: quello dell’oratore, quello del pubblico e quello dell’orazione (emittente, destinatario e oggetto). In Cicerone invece questi tre punti di vista sono sì presenti, ma il primo è sdoppiato: egli ritene che sia basilare non solo che l’avvocato accrediti un’immagine accattivante di sé presso gli ascoltatori, ma anche del cliente che egli difende. Addirittura, questa strategia difensiva dovrebbe estendersi all’intero ambiente sociale del cliente: bisogna dare un’immagine accattivante di tutte le «parti in causa», espressione con cui Cicerone intende non solo l’accusato, ma tutti coloro i cui interessi sono coinvolti nella causa. Lo sdoppiamento del primo punto d vista si spiega con la struttura del processo romano: il diritto greco (ateniese) cui si rifà Aristotele, infatti, prevede che la difesa sia appannaggio del solo accusato, che al massimo poteva ricorrere ad un logografo (un oratore che gli scrivesse il discorso difensivo che questi avrebbe poi letto in tribunale); il diritto romano cui si rifà Cicerone, invece, prevedeva che l’accusato potesse farsi rappresentare in giudizio da un avvocato, il quale dunque recitava due ruoli: doveva esibire se stesso e le proprie doti come oratore, ma anche rappresentare le doti del cittadino da lui difeso. La seconda è che Cicerone connota l’ethos diversamente da Aristotele. Il filosofo greco insiste più sulla dimensione razionale dell’ethos, mentre l’oratore romano sottolinea la sua dimensione emozionale. Ricordiamo che per Aristotele una condizione fondamentale perché l’oratore risulti convincente è che egli dimostri la sua prhònesis: dunque ciò che catalizza il consenso della massa è il fascino dell’intelligenza, e la gente si fida anzitutto di chi si mostra capace di analizzare razionalmente i problemi. Cicerone invece non mantiene traccia di questa concezione razionale dell’ethos, e sembra credere piuttosto che la gente si fidi anzitutto di chi è simpatico: l’uditorio che l’autore ha in mente è soprattutto quello dei giudici; e ciò che suscita simpatia (benevolentia) sopra ogni cosa è la moderazione: l’avvocato dovrà sapersi mostrare moderato, impersonare la parte del galantuomo che si mantiene lontano dai poli opposti di freddezza e litigiosità. La strategia ciceroniana, insomma, è quella del basso profilo. UN PATHOS DIMEZZATO In altri casi però è necessaria tutt’altra strategia: un tipo di eloquenza (ratio orationis) di genere opposto. Ovvero, non un discorso moderato volto a suscitare simpatia, ma un discorso finalizzato a generare violente emozioni nel destinatario del messaggio (qui il giudice). 4 Cicerone ritiene che le prove psicologiche siano ancora più importanti di quelle logiche, perché appunto negli uomini gli impulsi e le passioni dominano sulla dimensione critico-razionale. 27 All’inizio del brano, l’autore privilegia, per analizzare l’argomento, il punto di vista aristotelico dell’orazione (messaggio): il pathos viene visto anzitutto come tipo di discorso, appunto come un tipo di eloquenza che spinge i giudici all’odio o all’amore, li rende favorevoli alla condanna o all’assoluzione. Ma in seguito il punto di vista cambia, e il pathos viene analizzato da quello dell’oratore (emittente). La similitudine usata dall’autore è quella tra l’oratore e un medico scrupoloso, che prima di somministrare una medicina ad un malato deve conoscere non solo la malattia di costui, ma anche le sue abitudini da sano e la sua costituzione fisica. Anche l’oratore deve fare una specie di anamnesi del suo uditorio: il pathos diventa allora lo studio attento, da parte dell’oratore, dei pensieri, delle attese e dei sentimenti che albergano nel suo destinatario; uno studio che prelude all’azione persuasiva e la rende efficace. La differenza tra Aristotele e Cicerone in proposito consiste nella diversa ampiezza della gamma di emozioni compresa dalla categoria del pathos: se per Arisotele esso comprende ogni emozione che si riscontri nel pubblico, moderata o violenta, Cicerone considera solo quelle forti e violente; elenca delle coppie del tipo terrore/speranza, attrazione/repulsione, gioia/lutto, compassione/crudeltà. Ethos nella Retorica generale del gruppo di Liegi Il gruppo di Liegi nel contesto degli studi neoretorici Nell’ambito degli studi retorici, dagli anni Cinquanta in poi si sono distinti due indirizzi. Teorie dell’argomentazione Considera la retorica come inventio. Fino a questo momento, la preminenza veniva assegnata all’elocutio – e nella pratica alla ricerca dell’ornatus –; il che aveva comportato uno scadimento della retorica a mero esercizio verbale, virtuosistico e privo di spessore contenutistico. Perelman e Olbrechts-Tyteca. Traité de l’argumentation (TA, 1958). La nouvelle rhétorique ripropose – su basi rinnovate – la visione classica della retorica come arma dialettica, come studio delle strutture del pensiero che si fanno verbo convincente. Teorie delle figure Considera la retorica come elocutio. Vista da una prospettiva linguistica e letteraria, la retorica appare come una “scienza del discorso” e uno “strumento della poetica”, cioè della teoria letteraria. “Gruppo Liegi” (o “Gruppo μ”, dall’iniziale del greco metaphorà): un’équipe di specialisti in letteratura (Dubois), linguistica (Edeline e Klinkenberg), ingegneria (Minguet), filosofia (Pire) e cinema (Trinon). Rhétorique générale (RG, 1970). Traité du signe visuel (1992). Nel primo, tentano di applicare la griglia retorica ad ambiti quali il giornalismo, la pubblicità, il fumetto, la cinematografia, ecc. 30 Letteratura Lirisimo ecc. esploodere (Marinetti) palpebre, rive dello sguardo Pubblicità Persuasione è Shell che io amo metti una tigre nel motore Gergo Derisione o ermetismo pula (da “polizia”) tirare le cuoia (per “morire”) Evoluzione linguistica Necessità, usura miniatura (per attrazione da “minimo”) ingorgo (nel traffico) Parole crociate Ludica foneticamente: religioso (PO, pi- o) grano del rosario (per “ave”) Linguaggio liturgico Sacralizzazione Temurâh della Cabala L’Agnello Come volevasi dimostrare, le stesse strutture (gli stessi tipi di metabola) sono usate in modo identico, sia che si tratti di esprimere dei valori, che di persuadere, che di deridere, che di trovare un nuovo nome per una nuova realtà, che di divertirsi, che di sacralizzare un concetto. E INSIEME SOSTANZA: ETHOS AUTONOMO Dicevamo che l’ethos autonomo è dato da una somma della metabola di per sé (ethos nucelare) e della sostanza con cui la si riempie. Con il termine sostanza, i nostri autori indicano la colorazione particolare che una metabola assume a causa della sua appartenenza ad un certo ambito. A questo proposito, parlano di «ecologia», prendendo in prestito il termine dal linguaggio scientifico per indicare l’attenzione ad un ambiente in cui ogni tipo di vita può svilupparsi. Gli autori abbozzano un elenco – anzi, due – di ambiti cui una metabola può appartenere, ma ci mettono sull’attenti: questo elenco sarebbe estendibile all’infinito. Appartenenza localizzante Effetto dell’unità  Genere letterario (burlesco, poetico, ecc.)  Epoca storica  Ambito geografico  Ambito socioculturale (classe sociale, ecc.)  Professione o attività  Rapporti naturali (tra persone dello stesso sesso, coetanei, ecc.)  Con quale frequenza si trova nella lingua?  Quanto si presta a derivazione, composizione, ecc?  È un arcaismo residuale? Un neologismo che tra poco non sarà più percepito come tale? Una aprola straniera? Ecc. Detto ciò, gli autori precisano che l’ethos autonomo non dipende soltanto da questioni strutturali, ma per il fatto stesso di avere implicazioni con un certo ambito (quello da cui proviene la metabola), dipende anche da fattori psicologici e sociologici. Una parola non ha in sé la capacità di evocare un livello della lingua, semmai il valore che essa assume per noi è dato dalle esperienze linguistiche che noi abbiamo fatto di quella parola. Ad es., la parola “aere” ci fa pensare subito allo stile poetico, ma solo perché noi abbiamo incontrato questa parola quasi soltanto in testi poetici. Anche per questo le metabole, che abbiamo visto essere indistinte finché venivano considerate indicatori dell’elaborazione retorica del testo (cfr. paragrafo precedente), si differenziano per gli effetti espressivi che sortiscono. Metabole identiche, ma pertinenti ad ambiti diversi, sortiscono effetti diversi. 31 Facciamo un esempio con due metabole, due metafore per la precisione: una di ambito gergale, una di ambito aristocratico. I loro effetti saranno diversi: “ronzino” implica una valutazione degradante, mentre “destriero” colpisce per la sua nobiltà. È così che si creano le sequenze di sinonimi, a seconda del registro adottato: “morire” è un termine di grado zero, ma c’è anche il “decedere” tecnico-medico-legale, il “trapassare” eufemistico, il “crepare” volgare, e così via. In conclusione, se l’effetto di una metabola (ethos nucleare) era quello di rivelare la patina retorica del testo, l’effetto di una metabola unita alla sua sostanza (ethos autonomo) è quello di segnalare l’appartenenza della metabola alla nicchia ecologica, più o meno specifica, in cui abitualmente essa è rinvenuta. E INSIEME CONTESTO: ETHOS CONTESTUALE Provo a sintetizzare quanto scritto dagli autori nel passo in esame. Lo stile è più della somma dei suoi elementi. E questo più, questo suo plus valore, gli deriva da una serie di correlazioni gerarchizzate. Ogni opera è un universo verbale, e come in tutti gli universi la combinazione delle parti è estremamente importante, tanto quanto la loro distinzione. Ecco, ogni fenomeno di stile (detto anche “metabola” o “stylistic device”) occupa un posto nell’universo di un testo che contiene altri fenomeni di stile. E ognuno di questi fenomeni di stile ha il suo ethos autonomo. È mediante un gioco di influenze reciproche all’interno di questo universo che si attua la selezione degli ethos potenziali sul piano della realizzazione. Queste influenze reciproche possono essere ritmiche, metriche, fonetiche o fonologiche, o ancora più raffinate e complesse. Sono delle vere e proprie interferenze che gli elementi del testo creano tra loro. Ora: questa rete di influenze si chiama contesto. Riffaterre ha elaborato una sua teoria del contesto, dimostrando appunto che ogni stylistic device è inseparabile dal suo contesto. E lo si capisce perché la riduzione dello scarto tra singolo stylistic device e contesto avviene a livello dell’unità superiore di cui esso fa parte. Riffaterre distingue tra microcontesto e macrocontesto: - il primo è l’insieme degli elementi linguistici non marcati (diversi dallo stylistic device, che è un elemento linguistico marcato) - il secondo è quella parte del testo che viene prima dello stylistic device ed è esterno ad esso. L’estensione del contesto è evidentemente molto variabile, perché dipende da questioni imponderabili: con che tipo di testo abbiamo a che fare, quanto è difficile, quanto velocemente legge il lettore, quanta memoria ha il lettore, quali conoscenze e esperienze letterarie ha alle spalle il lettore. Come possiamo soppesare, ad esempio, in che misura le prime parole di Stephen Dedalus influenzano il lettore che arriva all’ultimo capitolo dell’Ulysses? Facciamo un altro esempio: pensiamo a un testo scritto in italiano moderno. A un bel momento, l’autore decide di passare a scrivere nella lingua del Quattrocento. Sulle prime lo scarto tra le due parti risalta, ma a mano a mano che si va avanti nella lettura, lo scarto scompare. Se la sequenza in italiano quattrocentesco è abbastanza lunga, addirittura quella di parlare come nel Quattrocento può diventare una vera e propria convenzione nell’opera, e sarà allora la parte in italiano moderno a costituire uno scarto. Imbs propone di rappresentare il concetto di stile come una correlazione gerarchizzata: al vertice le aree più vaste, in basso quelle più limitate ma più immediatamente percepite. Per fare un altro elenco, abbiamo lo stile...  di un gruppo di lingue  di una lingua  di un’epoca  di generi letterari  di una scuola  di uno scrittore  di un periodo della vita di uno scrittore  di un’opera 32  di un paragrafo dell’opera  di una frase ecc. Ogni livello rappresenta un tipo di contesto, il quale orienta verso una realizzazione effettiva tutti gli ethos autonomi, che si sviluppano al livello inferiore. In qualche modo si tratta di un nuovo tipo di appartenenza localizzante, che questa volta non agisce più al livello linguistico, ma a quello testuale. Ciò che complica lo studio di questi campi è che essi – non diversamente dal macrocontesto – non si formano subito, ma nel corso della decodifica del messaggio; è qui che interviene interamente la tendenza del lettore a finalizzare gli insiemi di metabole. Possiamo dunque commentare: Il termine contesto viene inteso dagli autori di RG come la rete di rapporti che i tratti linguistici di un testo intrattengono reciprocamente. Tale rete può essere analizzata in contesti più o meno ampi e complessi, quasi disposti secondo una struttura gerarchizzata di cerchi concentrici (cfr. l’ultimo elenco). L’effetto del contesto sulla determinazione dell’ethos è quindi segnalare l’appartenenza di una metabola, connotata per sostanza, ad un certo campo stilistico (cioè ad una certa somma di valori letterari) in cui si situa e con cui interagisce. Tale appartenenza si gioca sempre fra aderenda e distacco (“scarto”, come lo chiamano gli autori). La shower-scene di Psycho, un episodio di ethos contestuale Per comprendere meglio cosa intendono gli autori della RG per ethos contestuale, possiamo produrre un esempio tratto da Psycho, il film di Hitchcock: nello specifico, il modo improvviso con cui si commette l’omicidio sotto la doccia. Prologo della scena è la sequenza in cui Marion (l’attrice Janet Leight), contabile in fuga con quarantamila dollari rubati alla società immobiliare in cui lavorava, getta nel gabinetto i fogli su cui ha appena annotato alcuni conti. A volere questa scena era stato lo sceneggiatore Stefano, che per realizzarla aveva insistito con Hitchcock: la scena del gabinetto doveva preludere a quella della doccia, concorrendo a stabilirne il tenore stilistico ed il tema. L’obiettivo era cominciare a scardinare la tranquillità del pubblico facendogli vedere un gabinetto qualcuno che tira uno sciacquone – tutti nascondiamo qualche peccatuccio in queste circostanze –, di modo che gli spettatori sarebbero giunti così sbilanciati al momento dell’omicidio che esso sarebbe parso loro esplosivo. Venendo alla scena della doccia vera e propria, essa si serve di due stimoli iin particolare per sortire il suo effetto sullo spettatore: o Un’ironia macabra, che si realizza a più livelli. L’omicida pare una vecchia signora in veste da camera con tanto di modesto chignon, e nonostante questo uccide Marion con terribili fendenti di un coltellaccio da cucina: un modus operandi che non si attaglia al personaggio, dal quale ci attenderemmo piuttosto che somministrasse alla vittima una bibita avvelenata e aspettasse che questa facesse effetto. Inoltre, la vittima subisce quanto lei stessa ha commesso in precedenza: una truffa. Marion viene uccisa proprio mentre, convinta di averla fatta franca, cerca sollievo e tranquillità con una bella doccia. Un improvviso capovolgimento della sorte, che funge da amara beffa del destino, per cui la truffatrice è a sua volta – e ben più gravemente – defraudata: aveva sottratto del denaro; le viene sottratta la vita. Infine, lo stesso atto di farsi una doccia ha dell’ironico. Janet Leight racconta che Hitchcock le aveva dato direttive precisissime: doveva mostrarsi come se si stesse togliendo solo lo sporco di dosso. Non come se volesse togliersi un uomo dalla testa con un bello shampoo, ma come se si stesse purificando della Marion cattiva e si stesse preparando a pagare per i propri errori. La doccia è un battesimo, e il pubblico deve sentire questa pace interiore, viverla come una rinascita; così che al momento dell’intrusione dell’omicida, il tutto fosse un vero e proprio shock. 35 giardino? La risposta è che la firma della petizione aveva avuto l’effetto di modificare in quelle persone l’immagine di se stessi. Dopo la firma, si consideravano animati da spirito civico e pronti ad agre in armonia con tali princìpi. Una volta che ha acconsentito ad una richiesta, l’individuo può cambiare atteggiamento, diventare ai propri occhi quel tipo di persona che fa questo genere di cose, che collabora alle “buone cause”. 3. RIPROVA SOCIALE Principio La tendenza ad allinearsi col parere e il comportamento della maggioranza. Meccanismo psicologico Il fenomeno dell’ “ignoranza collettiva”. In generale, quando siamo di fronte ad una situazione è ambigua nella quale dunque non sappiamo come comportarci, facilmente guardiamo al comportamento altrui e lo prendiamo per buono. Mentre osserviamo cosa fanno gli altri nel tentativo di risolvere la nostra incertezza, rischiamo però di trascurare il fatto che anche loro, probabilmente, stanno cercando una qualche riprova sociale. Ecco, proprio in questi casi il fatto che ognuno stia a guardare per vedere cosa fanno gli altri può causare un fenomeno straordinario, chiamato appunto “ignoranza collettiva”. Esempio Il noto caso Genovese, dal nome di una giovane donna di New York che fu ammazzata dopo essere stata seviziata a lungo davanti a quasi quaranta spettatori, che rimasero inerti, senza alzare un dito. Quando si chiese ai testimoni come mai non fossero intervenuti ad aiutare la ragazza, essi stessi rimasero attoniti: “non lo so” era la risposta più frequente. Perché? Beh, nessuno era intervenuto non, come si era sempre detto, benché ci fossero quasi quaranta testimoni oculari, ma proprio perché c’erano quasi quaranta testimoni oculari: c’era troppa gente a guardare. Ora, ci sono almeno due ragioni per cui chi assiste a un caso d’emergenza non interviene se ci sono diverse altre persone: o perché la responsabilità personale di ciascuno si diluisce (mentre ognuno pensa che sia già intervenuto o stia per intervenire qualcun altro, nessuno si muove), o per lo stesso principio dell’ignoranza sociale. Funziona così: spesso succede che un’emergenza non sia subito riconoscibile come tale. E in questi momenti, ci si guarda appunto intorno per vedere cosa fanno gli altri; e siccome in pubblico ci piace apparire posati e tranquilli, ognuno si limiterà a dare una breve occhiata, proprio come gli altri, in definitiva sottovalutando la situazione e finendo per non considerarla un’emergenza. In soldoni, visto che nessuno si preoccupa va tutto bene, questo è il pensiero. È indicativo che casi di mancato riconoscimento di un’emergenza e intervento siano molto numerosi nelle città: la città è un ambiente distraente, in cui dunque l’incertezza delle situazioni è molto alta; in più è un ambiente popolato, e più sono i testimoni ad assistere a un’emergenza, più è facile che si scada nell’ignoranza collettiva; infine in città molta gente non si conosce, le persone sono estranee l’una all’altra, dunque non sanno interpretare le reciproche reazioni (dunque tendono a interpretare la situazione come non-emergenza). 4. SIMPATIA Principio La disponibilità ad accogliere ciò che ci è familiare o che vorremmo lo diventasse per qualche suo carattere appetibile ai nostri occhi. Meccanismo psicologico È il cosiddetto “effetto alone”. Quell’effetto per cui, nella nostra società, una persona bella d’aspetto ci sembra immediatamente anche talentuosa, gentile, onesta, intelligente. Per dare una 36 definizione, l’effetto alone si verifica quando una singola caratteristica (la bellezza) in una persona domina la percezione che gli altri hanno di lei, anche riguardo ad altri aspetti (morale, intelligenza, ecc). Esempio L’effetto alone si realizza nei contesti più vari: nelle elezioni, quando un candidato riceve più voti perché di bell’aspetto; nella selezione del personale di un’azienda, dove vengono assunte più facilmente persone dall’apparenza curata; nei procedimenti giudiziari, dove le sentenze sono più indulgenti con chi ha un viso pulito e un aspetto curato. Persino per questioni più importanti i belli l’hanno vinta: hanno più possibilità di ricevere aiuto quando ne hanno bisogno, o di persuadere il loro interlocutore quando lo desiderano. E non ci sono differenze di sesso o d’età: nelle scuole, alcune maestre sono più propense a valutare positivamente la condotta e l’intelligenza di un bambino che sia anche di bell’aspetto. Ovviamente, un’eccezione alla regola si ha qualcora il “bello” in questione sia un nostro rivale: in tal caso entrano in gioco altri meccanismi, non di certo la simpatia. 5. AUTORITÀ Principio L’attitudine ad obbedire alle gerarchie. Meccanismo psicologico È il “fascino dell’uniforme”, come si suol dire. La difficoltà a resistere alle richieste che ci vengono da persone abbigliate come figure d’autorità. Esempio Sono stati fatti due esperimenti. Il primo, un uomo vestito in borghese in un caso, e l’altro vestito da guardia giurata nell’altro, dicevano ai passanti di dare una monetina a un tale al parchimetro, perché questi non aveva più spiccioli e il tempo gli era già scaduto. La gente ubbidiva molto più facilmente alla guardia giurata che all’uomo in borghese. Il secondo, stessa scena, ma al posto della guardia giurata c’è un uomo vestito in abiti eleganti, un personaggio d’affari insomma. E attraversa la strada col semaforo rosso. Mentre quasi nessuno seguiva il borghese, tutti sfilavano come bambini di Hamelin dietro al pifferaio magico seguendo l’uomo vestito elegantemente. Le due cose si combinano nella classica truffa dell’ispettore bancario, dove un criminale si veste da uomo d’affari e citofona alla povera vecchietta di turno, sostenendo che ci siano delle anomalie col suo conto corrente, e invitandola a prelevare tutto momentaneamente perché egli possa effettuare un’ispezione. Poi, quando la signora torna a casa con tutti i contanti prelevati... 6. SCARSITÀ Principio La tendenza a considerare appetibile ciò che è esclusivo e difficile da conquistare. Meccanismo psicologico È il meccanismo della contesa per l’esca. Una tattica molto efficace: l’idea di avere la peggio nei confronti di un rivale spesso fa cadere tutte le esitazioni, e fa prevalere in noi il desiderio di accaparrarci l’oggetto conteso più di qualunque altra pulsione. Inducendo uno stato di eccitamento fisico, quasi primitivo: fa venire in mente la frenesia del cibo che si scatena in certi branchi di animali. Esempio È una pulsione sfruttata tanto dai pescatori quanto dai negozianti in tempo di saldi. I pescatori lanciano in acqua una piccola quantità di esca, attirando un grossi banco di pesci. Ben presto l’acqua diventa un ribollire di pinne, quelle dei pesci che competono 37 per l’esca. A questo punto, i pescatori calano in acqua altri ami, ma vuoti: e i pesci abboccano lo stesso, perché in quel momento la frenesia è tale che mettono i denti su qualunque cosa. Ora, resta da domandarsi se il nostro pesce, quando si trova a dibattersi attaccato a un amo nudo, provi lo stesso sgomento di chi si ritrova a casa con una borsa da shopping piena di fondi di magazzino e nulla più. Ethos e pathos nell’oratoria contemporanea: l’esempio del discorso di Obama alla Jakarta University nel 2010 Il ricorso con finalità persuasive ai caratteri psicologici dell’emittente e/o a quelli del destinatario è una tecnica di assoluta attualità. Lo dimostra il discorso tenuto da Obama nel novembre del 2010 alla Jakarta University, nella capitale indonesiana. Lo analizziamo in sintesi. Genere: oratoria epidittica. Celebra infatti una duplice occasione dal valore politico e culturale: lo heroes day (il giorno memoriale dei caduti per l’indipendenza e la democrazia in Indonesia) e la sottoscrizione di un accordo )di comprehensive partnership tra Indonesia e Usa). Tesi: sviluppo tecnologico ed economico, regime democratico e tolleranza religiosa sono il fondamento del progresso e della pace; e la storia postcoloniale indonesiana lo dimostra. Svolgimento: Nella prima parte prevalgono pathos e ethos. È ambientata nel passato, formata da ricordi infantili del presidente. PATHOS. Il presidente tratteggia un profilo psicologico del popolo indonesiano, che è sofferente (ma forte e determinato, in quanto provato da catastrofi naturali, e supportato perciò dalla solidarietà degli Usa), accogliente (capace di far sentire a casa lo straniero) e tollerante (la figura emblematica del patrigno del presidente; è tollerante soprattutto nella sfera religiosa, dato il suo islam che si tiene lontano dagli estremismi), dinamico (aperto al nuovo, ai cambiamenti nel settore economico e politico). Scopo del ritratto è mostrare come questi caratteri dell’Indonesia non siano un portato dell’evoluzione storica, ma appartengano alla tradizione di questo paese: i lineamenti di sviluppo del paese di domani appartengono già al suo ieri (dunque è implicito l’invito a non dar retta alle opinioni di antidemocratici e fondamentalisti, così anti-indonesiani!). Notiamo che già in questa parte vengono enunciati i luoghi comuni fondamentali per la seconda parte: la triade tolerance / developement / democracy. ETHOS. Il presidente ritrae se stesso definendosi almeno in parte indonesiano, per aver vissuto quattro anni nel paese dopo che la madre aveva sposato un uomo dell’Indonesia, appunto il suo patrigno. Scopo del ritratto è 1) stabilire un canale di comunicazione d forte rilievo emotivo: l’attuale presidente degli Usa è quel bambino che giocava nei sobborghi di Jakarta, e in cui è profondamente impressa la stima e la gratitudine per quel paese che sente un po’ suo; 2) conferire all’oratore autorevolezza: chi indica le soluzioni economiche politiche e culturali che sta per additare, lo fa conoscendo l’Indonesia non dall’esterno, ma dall’interno. Nella seconda parte prevale il logos (l’argomentazione razionale). È ambientata nel futuro, cui si riallaccia tramite il presente. Obama analizza partitamente la ricaduta dei fattori di developement / tolerance / democracy sull’assetto internazionale. 40 La dispositio La dispositio nella retorica antica Definizione di dispositio La dispositio è la collocazione delle macrosequenze del discorso. Focalizzandoci sul suo oggetto, possiamo confrontarla con altre operazioni previste dalla retorica antica, la compositio e la conlocatio. Queste ultime sono simili ad essa per la loro natura sintagmatica, in quanto combinano elementi linguistico-testuali, ma diverse da essa per estensione e complessità degli elementi che combinano. Potremmo disporle in una successione crescente, dalla meno complessa alla più complessa: compositio < conlocatio < dispositio. Comunque, la compositio è la collocazione di parole e sintagmi all’interno della frase semplice (proposizione), e di qui delle frasi semplici nella frase complessa (periodo). Ma è appannaggio dell’elocutio. La conlocatio invece è la distribuzione delle microsequenze narrative descrittive o argomentative all’interno delle macrosequenze di un discorso. Parti del discorso oratorio Decidere quante macrosequenze fissare in un discorso e in che ordine è un problema che si poneva già alle origini della retorica greca. Pare che il primo a formulare una teoria in proposito sia stato Corace (un siracusano del V sec. a.C.), un logografo che, insieme al suo allievo Tisia, divenne famoso per i sui discorsi scritti per una serie di processi di rivendicazione di proprietà. Questa era la situazione: i tiranni Gelone e Gerone avevano promosso deportazioni di popolazione e requisizioni di beni a favore dei propri mercenari. Quando sorse la rivoluzione democratica, i due tiranni furono deposti, e dunque molti degli espropriati chiesero giustizia, affidandosi appunto all’abilità di Corace e di Tisia. Dobbiamo immaginarci che il verdetto dei processi dipendesse non da un giudice solo, ma da una nutrita giuria popolare: ecco perché i discorsi scritti da Corace e Tisia si fondano su una scaltra strategia di comunicazione demagogica. Comunque sia, i loro discorsi ebbero un tale successo che alcuni dei caratteri portanti della loro prassi oratoria divennero fondamenti teorici. Uno di questi caratteri era la suddivisione del discorso in cinque macrosequenze: 1. Esordio 2. Narrazione 3. Argomentazione 4. Digressione 5. Epilogo. Ora, la ripartizione di Corace riguardava l’oratoria giudiziaria (perché i suoi discorsi erano nati lì), ma venne estesa anche all’oratoria politica e a quella epidittica. La suddivisione di Corace divenne canonica, ma subì delle leggere modifiche, in particolare da Aristotele. Il libro II della sua Retorica annunciava che nel libro III si sarebbe trattato prima dello stile (lèxis) e poi della disposizione (taxis). Difatti, dal par. 13 in poi di quest’ultimo, vediamo come Aristotele la pensava a proposito della dispositio. Il brano si articola in tre passaggi. Primo, la pars construens: l’autore afferma il proprio punto di vista. Sostiene che due siano le parti del discorso necessarie: 41  La proposizione (pròthesis). Consiste nel definire l’argomento ed esporre tutte le circostanze necessarie ad elaborare la successiva argomentazione.  L’argomentazione (pìstis). Consiste nel ricercare gli argomenti retorici finalizzati a formulare e sostenere un giudizio in merito all’argomento proposto. Per spiegarsi, l’autore coglie un’analogia tra retorica e dialettica: proposizione e argomentazione, nella retorica, corrisponderebbero a problema e dimostrazione, nella dialettica. Secondo, la pars destruens: l’autore critica il punto di vista altrui. Quando dice che “le distinzioni correnti sono ridicole”, si riferisce alla dottrina della tàxis elaborata dal retore e oratore Isocrate (ateniese del V-IV sec. a.C.), recepita dalle scuole di retorica attuali. L’accusa che l’autore rivolge alla teoria isocratea è quella di essere un abito che calza solo per il discorso giudiziario, ma non per quello deliberativo né per quello epidittico. Nello specifico, critica soprattutto: La necessità della narrazione. La narrazione serve solo al genere giudiziario, ma non al genere epidittico (che deve solo elogiare o biasimare, non gli occorre esporre nel dettaglio dei fatti) né a quello deliberativo (che si riferisce al futuro, mentre il tempo della narrazione è al passato). La necessità della refutatio. La refutatio è la replica agli argomenti dell’avversario. Questa non serve al genere deliberativo, perché in esso l’oratore non si confronta mai con un oppositore; l’unica eccezione è quando l’oratore debba misurarsi con un oppositore in seno al dibattito assembleare. Solo in quest’ultimo caso, dice l’autore, ha un senso includere nel discorso anche un proemio (per rendere favorevole il pubblico all’oratore, un’esigenza che si pone solo se c’è un oppositore a mal disporre il nostro pubblico), una comparazione degli argomenti (di nuovo, serve che ci sia un oppositore perché abbia un senso “comparare” qualcosa) e una ricapitolazione. Comunque, è chiaro che un oppositore può esistere solo in un contesto forense. La necessità dell’epilogo. L’autore dice che l’epilogo non è necessario in “discorsi dimostrativi”. Non è chiarissimo a che discorsi alluda: probabilmente in generale a discorsi che non abbinano proposizione e argomentazione, e si limitano ad essere una successione di argomenti. In tal caso l’epilogo è superfluo, perché solo una minima parte di esso ha natura argomentativa, mentre la parte più nutrita deve concentrarsi sulla mozione di affetti (che c’entra poco con un discorso cerebrale come quello cosiddetto “dimostrativo”). L’epilogo non è necessario nemmeno nel genere deliberativo, se il discorso in questione è già breve e dunque facile da ricordare (l’epilogo serve più che altro a riassumere, a chiusura di un’orazione). Corace raccomandava anche di inserire un’egressio (o digressio), una sorta di pezzo di bravura oratoria che aveva un legame piuttosto labile con l’argomento in questione, e consisteva spesso nell’elogio di persone e di luoghi; si collocava di solito tra narrazione e argomentazione, quasi come una pausa al mezzo. Beh, è immediato capire quanto Aristotele consideri questa parte: non la nomina nemmeno. Terzo, il bilanciamento fra le due parti precedenti. La conclusione a cui l’autore arriva è che le parti necessarie sono la proposizione e l’argomentazione, perché servono e si attagliano ad ogni discorso. Al massimo si può aggiungere un esordio e/o un epilogo, che però non sono necessari. Dunque un’orazione si comporrà al massimo di quattro parti: 1. (Esordio) 2. Proposizione 3. Argomentazione 4. (Epilogo) La quadripartizione risale fondamentalmente ad Isocrate, ma Aristotele ci tiene a distinguere il necessario dall’accessorio, come abbiamo visto. Egli mostra in particolare di aver rivisitato la questione della dispositio su basi logiche, guardando soprattutto all’individuazione di ciò che è più efficace al fine della persuasione. Un bel salto di qualità, se pensiamo che le scuole di retorica a lui precedenti e coeve trattavano la dispositio non tanto guardando al contenuto da veicolare, quanto alla forma letteraria: ecco perché pullulavano altre suddivisioni che il nostro autore giudica “ridicole”, oziose. 42 Ora, questa quadripartizione, se guardata dal punto di vista paradigmatico, cioè dell’indole delle quattro parti, ha una struttura simmetrica e chiastica. Le due parti esterne – esordio ed epilogo – hanno un carattere passionale, finalizzato ad animos movere; le due parti interne – proposizione ed argomentazione – hanno un carattere dimostrativo, finalizzato a rem docere. Parti del discorso oratorio EXORDIUM Serve a rendere il pubblico (o il giudice) attento, benevolo e arrendevole. I retori antichi consigliavano dunque un tono moderato, volto a saggiare gli orientamenti del pubblico. I mezzi espressivi per ottenere ciò erano diversi, e ognuno determinava un tipo diverso di esordio:  Insinuatio. L’ “insinuazione” consisteva nell’omettere i tratti più ripugnanti della parte difesa, di contro citando i punti deboli della parte avversa (es. causa di omicidio di un’adultera, l’oratore omette le mancanze affettive del marito, e sottolinea invece l’infedeltà della moglie).  Miseratio. L’ “esibizione di modestia” consisteva nella confessione, da parte dell’oratore, della propria inadeguatezza di fronte all’argomento. Si faceva così leva sulla simpatia che naturalmente gli uomini sentono verso chi è in difficoltà... non simpatizziamo sempre con l’imbranato del film? (es. l’esibizione di modestia di Antonio all’inizio della commemorazione di Cesare nel Julius Caesar di Shakespeare: “Bruto è un uomo d’onore...”).  Apostrophé. L’ “apostrofe” consiste nel rivolgersi non al naturale destinatario, bensì ad un altro che è assente (es. Cicerone esordisce nella prima orazione contro Catilina con “Fino a quando abuserai, o Catilina, della nostra pazienza?”). EPILOGUS Serve, primo, a riprendere e riassumere gli argomenti trattati nell’orazione, e secondo, ad emozionare l’uditorio, trascinandone il consenso a proprio favore. I retori antichi consigliavano dunque un tono acceso, che fosse coinvolgente. Tuttavia, nei tribunali greci la conclusione patetica era abbastanza moderata (c’era un uscire che spingeva alla conclusione gli oratori se essi indulgevano troppo nella mozione di affetti), mentre era diffusissima a Roma (dove l’epilogo diventava un vero e proprio coups de théatre). I mezzi espressivi per ottenere questo fine erano:  Indignatio: il pubblico veniva incitato all’indignazione verso l’avversario e/o l’azione da lui compiuta.  Commiseratio: il pubblico veniva mosso a provare pietà per la parte difesa. NARRATIO È il racconto dei fatti compresi dalla causa. Ma attenzione, si tratta di un racconto finalizzato a sostenere una tesi: funge dunque da protasi argomentativa. In essa, l’oratore deve abilmente spargere i semina probationum, ovvero le prove in forma germinale, quelle prove che esplciterà nell’argomentazione. Serve, primo, a informare il destinatario (docére), e secondo, a dargli piacere con un’esposizione dei fatti avvincente (delectare). I retori antichi consigliavano dunque una narrazione che fosse  breve (equidistante tra la prolissità e la secchezza: bsogna dire quod opus est e quod satis est, cioè solo che è necessario e sufficiente)  chiara (comprensibile e accettabile sul piano linguistico)  verosimile (i fatti narrati devono essere credibili, captare il consenso dell’uditorio). ARGUMENTATIO È l’esposizione della tesi sostenuta dall’oratore e la confutazione della sua antitesi logica. Una natura duplice che Quintiliano distingueva tra confirmatio (presentazione della linea difensiva) e refutatio (confutazione della linea avversaria). Serve a sostenre la propria tesi mediante prove adeguate (probare). I mezzi usati sono dunque le prove 45 L’ordine qui suggerito è chiamato «omerico» o «nestoriano» tradizionalmente, dallo schieramento fatto assumere dall’eroe omerico Nestore alle truppe nella battaglia contro i Troiani, ponendo le truppe meno forti al centro e quelle più forti sulle ali. Ecco, analogamente l’oratore dovrebbe collocare le prove più solide nell’esordio e nella conclusione, riservando al corpo centrale dell’orazione quelle meno incisive. La distinzione tra ordine naturale e artificiale valeva anche per le sequenze di tipo narrativo e descrittivo: ciò introduce una significativa analogia con i concetti moderni di fabula e intreccio. Fabula e intreccio La narratologia è la disciplina (relativamente giovane) che studia le strutture narrative, non solo in campo letterario, ma anche drammaturgico, filmico, e persino psicanalitico. Fondamento della narratologia è la distinzione tra fabula e intreccio, distinzione che si deve al critico letterario russo Sklovskij (Sulla teoria della prosa, 1917). Nella sua prospettiva,  la fabula è la descrizione degli avvenimenti, meramente riprodotti (dunque è vicina al concetto di ordo naturalis)  l’intreccio è la manipolazione artistica degli avvenimenti descritti (dunque è vicino al concetto di ordo artificialis). In un racconto letterario dunque la fabula costituisce la materia, che viene riorganizzata contaminata e interpretata dall’autore in una forma che è l’intreccio. A parità di fabula, sono vari gli intrecci possibili; vale a dire, a parità di materia, sono varie le forme che essa può assumere. Facciamo un esempio: data una fabula A + B, dove A = morte del re e B = morte della regina: - “Il re morì, poi morì la regina”. A, poi B Livello fabula - “Il re morì, poi di dolore morì la regina”. A, poi di conseguenza B Livello intreccio 1 - “La regina morì, senza che nessuno capisse perché, finché si scoprì che a farla morire era stato il dolore per la morte del re”. B, perché B?, B conseguenza di A Livello intreccio 2 Ordine ed emplotment Lo studioso White (Retorica e storia anni ’70) definisce emplotement il processo di composizione dell’intreccio (plot) a partire dalla fabula. Questo processo consiste in diverse operazioni. Per tentare di descriverle, useremo le categorie elaborate da Genette (Discorso del racconto, anni ’70) per interpretare il testo narrativo. Per «racconto» intenderemo dunque qualcosa di equivalente all’intreccio sklovskijiano, che è essenzialmente frutto di due componenti: la «storia», cioè la successione degli avvenimenti (corrispondente alla fabula), e la «narrazione», cioè l’atto narrativo (qualcuno “produce” il testo). Le principali operazioni dell’emplotement sono: 1. Introduzione e connotazione di una voce narrante, da intendersi come l’insieme di indizi che rivelano la presenza e la posizione del narratore rispetto agli eventi narrati. Tali indizi sono tre: a. Il tempo della narrazione, ovvero il rapporto cronologico fra atto narrativo e eventi narrati. Si può avere  narrazione ulteriore: l’atto narrativo è posteriore ai fatti (racconta al passato)  narrazione simultanea: l’atto narrativo è contemporaneo ai fatto (racconta al presente)  narrazione anteriore: l’atto narrativo è anteriore ai fatti (racconta al futuro)  narrazione intercalata: si intercalano piani temporali diversi. 46 b. Il livello narrativo, ovvero l’inerenza o meno dell’atto narrativo all’ambito della storia. Si può avere  livello intradiegetico: ad es., nell’Ortis foscoliano, il livello di Jacopo  livello eterodiegetico: ad es., nell’Ortis foscoliano, il livello di Lorenzo. c. Il rapporto narratore / storia, ovvero la presenza o meno del narratore nel racconto come personaggio. Si può avere  narratore eterodiegetico: del tutto assente  narratore omodiegetco: presente come personaggio secondario  narratore autodiegetico: presente come protagonista. 2. Rappresentazione della storia secondo uno o più punti di vista, e la gradazione dell’informazione trasmessa che ne consegue, detta modo (il racconto non è mai un resoconto imparziale!). 3. L’alterazione del tempo della fabula per quanto concerne durata, frequenza e ordine degli eventi. Riguardo a quest’ultima operazione, ogni asimmetria fra ordine naturale e ordine artificiale del racconto è detta anacronia. Esistono due tipi di anacronia: la prolessi, il narrare in anticipo un evento storicamente ulteriore al punto della storia in cui ci si trova, e l’analessi, il narrare successivamente un evento anteriore al punto della storia in cui ci si trova. Ogni anacronia si stacca dunque dal corso del racconto primo (principale) per aprire squarci di racconto secondo (subordinato), concernente vicende precedenti o ulteriori. Si dice «ampiezza» dell’anacronia la sua estensione cronologica; il punto d’ampiezza «b» è il punto terminale di essa. Si dice «portata» dell’anacronia il periodo di tempo che intercorre tra il punto d’arresto del racconto primo «t» e il punto di maggior distanza cronologica da esso, detto punto di portata «a». Morfologia dell’analessi e della prolessi nei Promessi sposi. Ogni romanzo è caratterizzato da un certo ritmo di scansione del tempo narrativo, una sorta di orologio interno. Questo orologio può essere variato nel corso del racconto: quando girano le lancette, gli eventi possono subire accelerazioni, rallentamenti, anticipazioni e posposizioni. In base a tale criterio, nei Promessi sposi si individuano tre macrosequenze: Capitoli Dizione del tempo Contenuto I-VIII Lineare Dall’incontro tra don Abbondio e i bravi alla notte degli imbrogli. IX-XVII Pendolare Si seguono in modo altalenante, ora in avanti ora indietro nel tempo, le vicende di Lucia e Agnese da una parte, e di Renzo dall’altra. XVIII- XXXVIII Discontinua e talvolta sommaria Gli eventi, sino ad ora narrati per giornate, vengono coagulati in blocchi narrativi più lunghi (qualche giorno, settimane, ecc), refrattari da una rigorosa datazione. L’ultima macrosequenza comprende i fatti avvenuti tra il 7 novembre 1628 (punto d’inizio del racconto primo, α) e il settembre-ottobre 1630 (punto di fine del racconto primo, ω). CASI DI ANALESSI  Esterna8: analessi il cui punto di portata e di ampiezza sono entrambi anteriori al punto iniziale del racconto primo. Ovvero: (a), (b) < (α). o Parziale: analessi esterna il cui punto di ampiezza non si riallaccia al punto d’inizio del racconto primo. Ovvero: (b) ≠ (α). 8 Di qui in avanti usiamo termini della tassonomia di Genette 47 o Completa: analessi esterna il cui punto di ampiezza si riallaccia al punto d’inizio del racconto primo. Ovvero: (b) = (α).  Interna: analessi il cui punto di portata e di ampiezza sono interni al segmento cronologico del racconto primo.  Mista: analessi il cui punto di portata è esterno al racconto primo, mentre il punto di ampiezza è interno al racconto primo. Ovvero, (a) < (α) e (b) > (α). o Parziale: analessi interna o mista il cui punto di ampiezza non si riallaccia al punto d’arresto del racconto primo. Ovvero: (b) ≠ (t). o Completa: analessi interna o mista il cui punto di ampiezza si riallaccia al punto d’arresto del racconto primo. Ovvero: (b) = (t). o Più-che-completa: analessi interna o mista il cui punto di ampiezza non solo si riallaccia al punto di arresto del racconto primo, ma addirittura lo supera. Ovvero, (b) > (t). La storia di Gertrude: un’analessi esterna parziale (t) = 11 novembre 1628 Lucia e Agnese arrivano al monastero. (a) = non esplicito Coincide con la nascita di Gertrude, che “poteva dimostrar venticinque anni” al tempo del racconto, dunque sarà nata intorno al 1600. (b) = non esplicito Quando Lucia viene presentata alla monaca, si è “circa un anno dopo quel fatto”, ovvero dopo la monacazione di Gertrude, che deve essere dunque avvenuta alla fine del 1627. Le vicende di don Rodrigo: un’analessi interna più-che-completa (t) = 11 novembre 1628 Dopo il colloquio con la monaca, Lucia e Agnese si sono sistemate nel monastero (a) = Notte tra 10 e 11 novembre 1628 I bravi tornano al palazzotto di Rodrigo a mani vuote. (b) = Sera inoltrata del 11 novembre Alle “ventitré” (si contavano le ore da tramonto a tramonto, dunque sono circa le cinque del pomeriggio) Rodrigo apprende la notizia desiderata. Le cagioni e il principio dell’assalto al forno delle grucce: analessi mista completa (t) = mattina del 11 novembre 1628 Renzo si trova a Milano, dove sta per scoppiare un tumulto popolare (le cui cause sono spiegate in questa analessi). (a) = autunno del 1627 L’anno del racconto era “il second’anno di raccolta scarsa”. (b) = mattina del 11 novembre 1627 “A questo punto eran le cose quando Renzo avendo ormai 50  Se continuasse a vivere, la città precipiterebbe nell’anarchia, che “abbatte città, rovina famiglie, fa fuggire l’esercito in battaglia”.  È Creonte a ordinarlo, il legittimo detentore del potere cittadino. Epilogo Ribadisce la priorità della difesa dell’ordine contro le forze disgregatrici incarnate da Antigone. Inoltre porta al parossismo la tesi dell’accusa: Antigone non ha solo violato le leggi della città, ma anche quelle dei ruoli sessuali: nella città le donne non hanno diritto di fare politica. E non sta bene che degli uomini siano sottomessi ad una donna. DISCORSO DI EMONE Coerentemente col suo ruolo di figlio devoto, Emone mantiene il suo discorso in bilico fra rispetto e critica della posizione paterna. Ignora il primo dei due argomenti del padre: non fa menzione dei suoi sentimenti per Antigone, e non si esprime nemmeno su temi quali “donne e politica” scomodati da Creonte. Si concentra dunque sul secondo argomento, quello di natura politica. Il suo discorso è una ringcomposition, in quanto si conclude nel modo in cui si apre. Esordio Per catturare la benevolenza del destinatario: Emone esibisce la propria modestia, stornando dal padre il dubbio che egli voglia negargli autorevolezza: “ora, non potrei io e nemmeno saprei dire che non siano giuste le tue parole”. Per relativizzare il parere del padre, insinua il dubbio che altre interpretazioni dei fatti siano almeno altrettanto giuste: “però, può succedere che anche qualcun altro si trovi nel giusto”. La saggezza non è solo una conquista umana, ma un dono divino (notare che Creonte chiamava in causa gli dèi solo per esprimere il carattere irrevocabile delle proprie decisioni: nemmeno Zeus protettore dei consanguinei potrebbe salvare Antigone). Prothesis Un verso solo, affilato come una lama, che giunge alla fine di un itinerario logico di cauto avvicinamento: “ma tu deponi l’ira, muta il pensiero”. Pistis Muove dal rapporto governante / governati a quello padre / figli: due ambiti, quello della famiglia e della polis, strettamente intrecciati nell’orazione di Creonte.  La morte di Antigone solleverà il malumore generale contro Creonte.  Ordinando di uccidere Antigone, Creonte trasgredisce alla norma aurea del medèn àgan (lett. “niente vi sia di troppo”), dell’evitare ogni eccesso. Epilogo Di nuovo captatio benevolentiae: “se da me che sono giovane può venire un consiglio...”; e col consiglio relativizza di nuovo del punto di vista paterno: nessuno nasce sapiente, tutti dobbiamo imparare da altri ad esserlo. Enea e Didone nell’Eneide di Virgilio La sosta di Enea a Cartagine deve concludersi: lo ha deciso Giove, che ha intimato all’eroe di partire per mezzo del messaggero Mercurio. Didone si accorge che si prepara una partenza, e attacca Enea con un violento discorso. L’eroe troiano, col cuore gonfio di pena, si difende appellandosi al volere degli dèi. Lo scontro tra i due nasce perché hanno due opposte concezioni su ciò che sia giusto. Dunque il passo appartiene al quarto tipo della nostra classificazione. DISCORSO DI ENEA È un’orazione difensiva, che dunque mira a sottrarsi alle accuse dell’avversario e a giustificare il proprio 51 comportamento. Esordio Captatio benevolentiae: riconosce gli innumerevoli meriti di Didone nei suoi confronti e non nega di essere stato felice con lei. Ma ha già relegato tutto questo nella dimensione del ricordo, implicitamente confermando la propria intenzione di partire. Prothesis Limitata ad un cenno sbrigativo: “del fatto dirò brevemente”. Non c’è infatti alcun bisogno di ricostruire la vicenda, che si conosce già dalla narrazione precedente. Inoltre, l’eroe ha urgenza di far presto. Pistis Refutatio  Secondo Didone egli avrebbe agito da codardo, preparando la sua partenza in segreto: in realtà l’eroe attendeva solo un’occasione adeguata per confessare i suoi progetti, ma la donna lo ha anticipato.  Secondo Didone egli avrebbe tradito le sue promesse nuziali: ma l’eroe non gliene ha mai fatte (noi però notiamo che c’è una certa ambiguità su questo punto: fino ad ora Enea si era comportato con Didone come se fosse intenzionato a sposarla, condividendo con lei la totalità del suo tempo). Confirmatio Sottolinea la totale involontarietà del suo allontanamento: Enea deve ma non vuole lasciare la donna. A costringerlo però intervengono:  La volontà divina (ha ricevuto l’ordine di Giove attraverso Mercurio).  Il dovere familiare (deve dare un futuro al figlio e onorare il dovere del padre Anchise).  La ragion di stato (il popolo troiano in esilio ha diritto ad una nuova patria). Osserviamo che nella sua dimostrazione l’eroe è freddissimo: un solo cedimento sentimentale sul “questo il desiderio (orig. hic amor), questa la patria”, ma non è rivolto a Didone, bensì all’Italia. Epilogo Riassume il dissidio che tormenta l’eroe: “l’Italia non spontaneamente io cerco”. Ma così deve essere: se Enea potesse governare il proprio destino, tornerebbe a Troia e la riedificherebbe. Ma lui, col suo allontanamento, proprio come Didone è vittima sofferta del dovere di ubbidienza agli dèi. DISCORSO DI DIDONE È quasi urlato, come si evince dal verso: “ahi, l’ira mi arde e mi travolge”. Esordio Assente: servirebbe a ingraziarsi il destinatario, ma ormai è chiaro che non c’è speranza che Enea cambi parere. Prothesis Assente: per economia espositiva, come già nel discorso di Enea. Pistis Refutatio Enea sostiene che sia stato un dio ad ordinargli di partire: Didone fa della pesante ironia su questo (figuriamoci se gli dèi abbandonano la propria quiete per occuparsi di lui...). Confirmatio Accusa Enea di essere crudele, facendo leva soprattutto sulla freddezza da lui dimostrata nel suo discorso: “forse gemette al mio pianto, o chinò gli occhi?”.  Gli dà del bastardo: “non ti è madre una dea”. 52  Gli dà del fedifrago: “la lealtà è dovunque malcerta”.  Gli dà dell’ingrato: “naufrago, bisognoso di tutto, ti accolsi”. Epilogo Congeda l’amante con brusco sarcasmo: “va’, insegui l’Italia nei venti”; e intanto lo minaccia di perseguitarlo col proprio fantasma, annunciando dunque tra le righe il proprio suicidio; e infine lo condanna, invocando su di lui la giustizia degli dèi: “subirai il castigo, malvagio”. L’arringa di Porzia nel Mercante di Venezia di Shakespeare L’intero atto ha la forma di un vero e proprio processo, per cui rientra nel primo tipo della nostra classificazione. Antonio è un gentiluomo veneziano, chiamato a comparire in processo in veste di reo incarcerato. Ad accusarlo è Shylock, un ebreo usuraio. Il processo si volge di fronte a una corte di giustizia presieduta dal doge di Venezia. Porzia, promessa sposa di Bassanio, amico di Antonio, si è travestita con panni maschili e con uno pseudonimo ricopre ora la funzione di Doctor of Law (giurisperito chiamato a dirimere una questione facendo da arbitro). Notevole la ricerca di tensione drammatica, ottenuta alternando momenti in cui Antonio sembra poter sperare di salvarsi a momenti in cui è ormai disperato. Alla fine, il processo si concluderà con la katastrophé: il capovolgimento della situazione iniziale, per cui il reo diventerà accusatore, e quello che prima accusava sarà condannato. Per il resto, l’autore fa sì che Shylock e Antonio si fronteggino sulla scena con lo scopo di suscitare nello spettatore quella dinamica catartica di phòbos ed éleos (paura e compassione, rispettivamente per il primo personaggio e per il secondo) che Aristotele nella sua poetica assegnava al dramma tragico... Ma qui siamo in una commedia; dunque Shakespeare la sta mutando in revenge tragedy. Antonio ha contratto un debito con Shylock per finanziare il corteggiamento di Porzia da parte di Bassanio; l’obbligazione prevede che, qualora Antonio non abbia restituito i soldi con i dovuti interessi entro il termine stabilito, Shylock avrà diritto a una libbra della carne di lui, tagliata intorno al cuore. Ora l’obbligazione è scaduta, dunque Shylock pretende la carne di Antonio; questi cerca invece di risarcire l’usuraio con una somma di denaro moltiplicata, pur di salvarsi la pelle. Shylock si rivale contro Antonio come contro un rappresentante di quel ceto mercantile cristiano che offende la sua gente. Antonio si oppone a Shylock incarnando quei pregiudizi antisemiti che si erano radicati in Inghilterra a partire dal tentativo di omicidio ai danni della regina Elisabetta I, per il quale si sospettava il suo medico, ebreo; gli ebrei erano dunque accusati di deicidio e di usura. L’intervento di Porzia non ha forma di discorso unitario, ma è frammentato ora in monologhi e ora in rapidi scambi di battute con altri personaggi. Il filo rosso che lo tiene unito è quello condotto dall’alternanza di due immagini: il risarcimento di tremila ducati e il pound of flesh che sanguinariamente l’ebreo pretende dall’accusato. Il processo si articola in quattro parti. INTRODUZIONE Porzia, travestita da barrister (avvocato di chiara fama cu la Common law assegna il ruolo di giudice), esaudisce le prime formalità:  riconosce che la causa mossa da Shylock è regolare per la legge, dunque ha diritto ad essere trattata  riconosce la validità dell’obbligazione. Date queste premesse, conclude che “allora l’ebreo dev’essere clemente”. PRIMA PARTE: APPELLO ALLA MISERICORDIA Shylock risponde che non vede perché dovrebbe essere clemente: “chi mi costringe ad esserlo?”. Porzia gli risponde a sua volta con un discorso sulla misericordia. Prothesis: la clemenza non è obbligatoria, ma raccomandabile in quanto benefica, come una pioggerella che cade su un terreno (è la dottrina teologica dell’atonement, la giustificazione per grazia). 55 Ritorno alla prothesis: se prima questa era solo accennata, ora, dopo aver accumulato tante prove, può essere compiutamente esposta in una narratio. Ne emerge “un omicidio attuato con tale rigore psicologico che, tranne l’adulterio, non era accaduto niente di illegale”.  Movente: Gygax non permetteva a Traps di far carriera, lo umiliava e lo sfruttava, gli dava anticipi condizionati a nuovi impegni, cercava di legarlo sempre più spietatamente a sé.  Mossa sul piano degli affari: Traps si era messo segretamente in contatto con i fornitori di Gygax, aveva sondato il terreno, aveva promesso condizioni migliori e stretto così una serie di alleanze contro il principale.  Mossa sul piano sentimentale: “passando sopra il divano dell’appartamento di Gygax (...) direttamente dentro il suo letto matrimoniale”. Trovando la moglie di Gygax sola in casa e frustrata, una sera che si era recato dal principale per una commissione di lavoro, Traps ne aveva approfittato e ne aveva fatta la sua amante; peraltro, dopo aver saputo da lei tutta una serie di informazioni utili al suo scopo, compresa quella della debolezza cardiaca di Gygax.  Conclusione: aveva strategicamente spifferato al compagno d’affari di Gygax della relazione clandestina con la moglie di lui, e quando la voce era giunta alle orecchie del principale, questi era morto d’infarto tornando a casa, crollando di fronte alla moglie. La narratio si chiude senza alcun epilogo: nessun riassunto, nessun’esortazione al giudice. Solo una notazione lapidaria quanto eloquente: “tre mesi dopo, la Studebaker”. “Quell’ipocrita!” commenta Traps di se stesso, dopo aver ascoltato la narratio; “felice di conoscere la verità, la sua fiera, coraggiosa, solitaria verità”, per cui quella sera si impiccherà nella sua stanza. Philadelphia di J. Demme Passiamo di qui in avanti al mondo del cinema, per dimostrare con degli esempi come le categorie dell’analisi sintagmatica siano applicabili anche ai film. Philadelphia è un film degli anni ’90, incentrato sul tema della giustizia, tra discriminazione e solidarietà. Lo stesso autore l’ha definita la storia di un underdog (“discriminato”), chiarendo le motivazioni della sua opera: “la discriminazione è un fenomeno universale”, ma che “non è abbastanza trattato nel cinema”. Un film di impegno civile dunque. Il tema è applicato ad un argomento in particolare: la condizione dei malati di AIDS. Sempre l’autore ha dichiarato che “data la natura del soggetto, la vicenda del film avrebbe potuto svolgersi in qualsiasi grande metropoli”; “alla fine abbiamo pensato che Philadelphia, il cui nome significa la città dell’amore fraterno, dove è stata adottata la Dichiarazione d’Indipendenza, portasse nella storia una componente speciale legata alla (...) fratellanza”. Il film si ispira ad una storia vera. Beckett, un brillante giovane avvocato di Philadelphia, omosessuale, viene licenziato dal prestigioso studio in cui lavora dopo che i suoi soci hanno scoperto che è affetto da AIDS. Beckett allora li querela, trovando come suo difensore un avvocato di colore, Miller, un padre di famiglia con parecchi pregiudizi contro i gay, che però decide di superare per amore della giustizia. Non è immediato decidere a quale tipo della nostra classificazione appartenga il film, perché contamina almeno due generi filmici: la filmografia “impegnata” e il courtroom drama. Per cui sì, l’azione processuale è fondamentale nell’intreccio, quindi potrebbe essere un primo tipo. Ma anche sì, i personaggi principali sono uomini di legge, quindi potrebbe essere del secondo tipo. Ma ancora sì, rimane un melodramma in quanto storia di un amore deluso, quello di Beckett per la giustizia; quindi potrebbe essere un quarto tipo. ACCUSA DI MILLER La dispositio è classica (specie nella versione dello script, da cui spesso tuttavia la versione filmica si discosta). Esordio: 1. È direttamente rivolto al destinatario, ovvero alla giuria (che viene ripresa ripetutamente mentre egli 56 parla, con inquadrature che ne evidenziano la composizione multietnica e multiculturale). 2. L’avvocato cerca un contatto con la giuria sul piano del lògos (dunque fattuale-razionale) anziché su quello del pàthos o dell’éthos (dunque emotivo-irrazionale). Il suo discorso è incentrato su un fatto: il licenziamento di Beckett. 3. L’avvocato gioca la carta dell’understatement: il suo discorso mira – dice – non ad appurare la verità dei fatti contro una versione falsa di essi, ma piuttosto a fornire ai giurati gli elementi validi per decidere quale, fra due ricostruzioni dell’accaduto, sembri più vera. Egli evita così di presentarsi come un arrogante detentore della verità. Prothesis: ha la forma di narratio in quattro punti, come specifica per chiarezza l’avvocato. Inoltre, la chiarezza espositiva è coadiuvata dal ricordo alla digitatio (“chironomia”): l’avvocato punta l’indice verso il banco dell’accusa quando parla dei datori di lavoro di Beckett, e fa il gesto di respingere qualcosa con entrambe le mani quando parla della loro reazione di paura di fronte all’AIDS. a) Sottolinea la capacità professionale di Beckett: non possono averlo licenziato per inadempienza sul lavoro. b) Sottolinea il legittimo diritto di Beckett alla privacy: per questo aveva taciuto la sua malattia. c) Sottolinea come, nonostante il suo riserbo, sia stato scoperto. d) Sottolinea come, per converso, i datori di lavoro si siano lasciati prendere da una paura irrazionale. Paura irrazionale che pure egli mostra di comprendere, anche se non ne condivide l’estremizzazione al comportamento discriminatorio; ma comunque mostra di non condannare moralmente i datori di lavoro o chiunque reagisca con paura di fronte all’AIDS, e ancora una volta si dichiara interessato ai soli fatti. Pistis: è un entimema. La premessa maggiore è ovvia, dunque sottintesa: licenziare qualcuno solo perché malato, e non perché inadempiente, è un atto illegale. La premessa minore: Beckett fu licenziato proprio perché affetto da AIDS. La conclusione: il suo licenziamento infrange la legge. Epilogo: ricco di quel pàthos che pure l’avvocato aveva detto di non voler scomodare. Dipinge in modo apocalittico le conseguenze della violazione della legge appena constatata: è una violazione tanto più grave perché protratta da degli avvocati, dunque che cosa accadrebbe se un simile comportamento contagiasse tutta la società? Le istituzioni crollerebbero, e i nostri figli e nipoti vivrebbero come selvaggi. Sarebbe la fine della civiltà. DIFESA DI CONINE Esordio: del tutto assente. L’avvocato (è una lei) entra subito nel vivo del dibattito. (1) Al contrario di Miller, assume un tono impersonale e distaccato, senza mai rivolgersi ai giurati; mantiene un contegno ingessato, un sorriso algido e uno sguardo fisso. Peggio, flette lo sguardo solo in conclusione per fissarlo su Beckett mentre ricorda che egli “sta morendo”; un atto di sfida disumano. (2) È l’unico punto che ha in comune con Miller, la scelta di dibattere sul terreno del lògos. Una scelta che non smette di ribadire, cadenzando il suo discorso con l’anafora del sostantivo “fatto”; pretenzioso... (3) Al contrario di Miller, si mostra tutt’altro che modesta, e adotta una linea marcatamente di attacco. Prothesis: confuta i singoli punti della prothesis di Miller. (a) Beckett non è certo un brillante avvocato: le sue prestazioni variavano dal mediocre all’insoddisfacente. (b) È inutile che si appelli al diritto di privacy: Beckett è un accanito mentitore. (c) I datori di lavoro non sono stati ingiusti nel loro comportamento: erano del tutto all’oscuro della malattia di Beckett. (d) Non sono i datori di lavoro a comportarsi irrazionalmente, bensì Beckett: vedi la conclusione della prossima pistis. Pistis: anche lei usa un entimema. La premessa maggiore (sottintesa nel film perché ovvia, ma riportata nello script): fact. AIDS is a tragedy; come dire che ovviamente la storia di chi è affetto da AIDS non è mai a 57 lieto fine. La premessa minore: Beckett sta morendo. La conclusione: non siamo di fronte a un caso di discriminazione, anzi, è Beckett che, furente perché si vede prossimo alla morte, deve “farla pagare a qualcuno”, e quindi si rivale ingiustamente su suoi datori di lavoro. Tra l’altro, vediamo che, se Miller si asteneva dal dare giudizi morali, l’avvocato Conine brandisce la categoria di colpa morale senza remore, e punta il dito contro lo stile di vita sfrenato di Beckett: è lui il solo colpevole della propria condizione di salute. Epilogo: assente; si capisce, dato il carattere tagliente di questa orazione e dato come era cominciata... Anatomy of a murder di O. Preminger Il film è degli anni ’60, ed è un classico courtroom drama, pur contaminato di noir nell’ambientazione cittadina e nel predominio dell’azione inquisitiva. Tuttavia si discosta dal noir in quanto nel film non compaiono dark ladies o hard-boiled detectives, anzi: in scena si sfila un’umanità mediocre, non solo socialmente ma anche moralmente. Lo si vede già dal protagonista, Biegler, ex pubblico ministero declassato ad avvocato, che ora si intrattiene difendendo piccole cause. Questa volta gli tocca difendere il tenente Manion, un reduce della guerra di Corea che vive in una roulotte con la moglie Laura, una biondona tutta curve, facile alla provocazione e alla sbronza. Il tenente è reo di aver ucciso il gestore di un bar locale, Quill, che secondo lui avrebbe stuprato Laura. L’avvocato per la controparte è un personaggio di prestigio, tale Dancer. Del courtroom drama il film conserva un tratto tipico: quasi metà dell’azione è ambientata in un’aula di tribunale, in cui si sfidano accusa e difesa attraverso una serrata argomentazione. Ma è l’unico elemento tipico del genere. Per il resto, Preminger se ne discosta su almeno due punti. Primo, non ci tiene a creare la solita simpatia tra pubblico e accusato: il tenente Manion, anzi, appare come un violento con qualche problema psichiatrico, e una volta assolto si dileguerà senza nemmeno pagare il proprio avvocato. Secondo, non ci tiene nemmeno al consueto culto della giustizia: per Biegler la vittoria legale è solo una possibilità di guadagno e l’applicazione pratica di uno dei suoi passatempi preferiti oltre alla pesca, la lettura di codici giuridici. Comunque, il procedimento legale occupa la gran parte dell’intreccio, dunque il film rientra nel primo tipo della nostra classificazione. Proprio per la sua ampiezza, considereremo solo alcune macrosequenze del procedimento legale: quella centrale, che vede l’interrogatorio di Manion e Laura, e quella finale, che vede la deposizione di testimoni a sorpresa e periti. I discorsi dell’accusa e della difesa non hanno una struttura unitaria, poiché hanno una natura dialogico – tra avvocato interrogante e testimoni o periti. Chiaramente dunque non ha senso cercarvi traccia di una dispositio classica, ma almeno l’ossatura mantiene la pròthesis e la pìstis. Di nuovo, come nel caso del film di Dürrenmatt, non è classica la sintassi del discorso, quanto la sua morfologia. DIFESA DI BIEGLER Prothesis: in forma di narratio, fa il resoconto dell’accaduto interrogando prima l’imputato e poi la moglie, col fine di dimostrare che l’uccisione di Quill è stata involontaria. L’interrogatorio ruota attorno a due oggetti, di alto valore simbolico: un rosario e un revolver. Servono da catalizzatori: in base al loro significato, Manion e Laura vengono rivestiti di una certa aura, una certa immagine con cui l’avvocato desidera che appaiano alla giuria. Interrogatorio di Manion:  Quanto al rosario, risulta agli atti che Laura avrebbe giurato su un rosario di essere stata violentata da Quill. Manion, interrogato, spiega di essere ricorso al rosario come diversivo per poter ottenere la verità dalla moglie, che in quel momento si trovava in stato confusionale. Di conseguenza, Manion appare come un decent man: un buon marito, sensibile e preoccupato per la moglie, che rispetta i simboli della religione. A conferma di ciò, l’avvocato chiede a Manion se egli abbia amato sua moglie, e se la ami ancora: questi risponde “moltissimo”; ma nella sceneggiatura si legge che a questa battuta Laura fissa il marito senza esprimere emozioni, con volto neutro. Un amore poco credibile insomma...  Quanto al revolver, è l’arma del delitto. Interrogato, Manion sostiene di non ricordare nulla della sera 60 è verisimile.  Locus a persona: Joker afferma che non è da lui avere scopi da raggoungere, dunque costruire piani per questo: è un cane che rincorre le auto per il puro gusto di farlo, non per bloccarle. Fuor di metafora: il Male non odia nessuno, semplicemente agisce. SECONDA PARTE Prothesis: dà ad altri, nello specifico ai tutori dell’ordine cittadino, la colpa di quanto accaduto a Dent e a Rachel. Pistis: confirmatio (dimostra che i responsabili dell’incendio sono l’Ordine e i suoi cultori). Argomento paradossale: Chaos is fair, “il Caos è imparziale”. Un’affermazione paradossale perché contraddice l’opinione comune, secondo la quale è l’Ordine ad essere giusto. Ma il ragionamento di Joker ha una sua logica: il contrario del Caos è la pianificazione; ora, qualsiasi piano è di parte, perché procura un vantaggio a chi lo escogita e lo applica, e mira allo svantaggio di chi vi si oppone. Sia mafia che istituzioni agiscono secondo i propri piani: non sono diverse in questo, entrambe sono faziose. Ma il Caos non ha piani: colpisce senza badare a convenienze e schieramenti. Dent è sedotto dalla logica di Joker: se le nostre vite sono in balia del gioco del Male e non esiste una giustizia superiore – e anche qualora ci fosse, sarebbe un esercizio partigiano – allora conviene giocare con le vite altrui. Come fa Joker, che imbottisce di esplosivo due traghetti riservati ad evacuare dei civili, terrorizzati dalle sue minacce, e assegnare il detonatore della prima imbarcazione all’equipaggio della seconda e viceversa. 61 La elocutio Il dominio della elocutio Una volta che l’inventio ha trovato le cose da dire (res) e che la dispositio le ha ordinate, sta all’elocutio rivestire queste res di parole (verba). Elocutio infatti si può tradurre come “espressione linguistica”, corrispondente al gr. lexis. Nel corso dei secoli, essa è stata investita da due fenomeni contrari: Restringimento del campo di competenza A partire dal tardo Medioevo e ancor più marcatamente in età Moderna, l’elocutio venne intesa come la cosmesi del discorso: qualcosa che si occupa di placcarlo con preziosità, che si occupa del suo ornatus (“abbellimento”). In epoca Antica e nel Medioevo, al contrario, l’elocutio veniva ancora intesa come l’espressione integrale della comunicazione letteraria, ovvero qualcosa che implicava capacità differenti: l’ars recte dicendi (capacità di esprimersi correttamente e chiaramente, secondo la grammatica), l’ars bene dicendi (capacità di esprimersi elegantemente ed efficacemente, secondo la retorica), la dizione (capacità di modulare la voce – se l’atto comunicativo è orale). Ampliamento del proprio peso rispetto alle altre partitiones oratoriae Mentre il periodo della “decadenza dell’oratoria” identificava la retorica sempre più come arte della bella espressione (dunque tutta elocutio), Cicerone e Quintiliano celebrano nelle loro opere la fortuna di un modello di retorica “paradigmatico”, che si fa risalire a Gorga di Leontini (un sofista allievo di Empedocle, di origini siciliane, che trasmise la retorica dal mondo delle colonie greche siciliane all’Attica, nella Grecia continentale). Corace e Tisia furono fondamentalmente preoccupati della struttura del discorso e del coordinamento delle sue parti: paiono cioè concepire la retorica essenzialmente quale taxis (quale dispositio) il cui fine principale è dimostrare la verosimiglianza di quanto asserito. Gorgia invece propose una retorica che fosse, in modo simile alla poesia, anzitutto lexis (anzitutto elocutio). Dicevamo che può essere detta “paradigmatica” in quanto si occupa in primis di scegliere idee e parole puntando all’inganno piacevole, a convincere l’ascoltatore attraverso una sorta di incanto. Generi di elocutio differenti La retorica antica distingueva tre genera elocutionis, cioè tre stili oratori, diversi tra loro per argomento, fine e mezzi. STILE ARGOMENTO FINE MEZZI Humilis Res parva Docere Elocutio pura et perspicua Mediocris Res modica Delectare Elocutio urbana Gravis Res magna Movere Elocutio ampla / vehemens Nel medioevo la denominazione di questi stil venne mutata in funzione del genere letterario che meglio 62 incarnava ciascuno di essi: Humilis = basso  comico Mediocris = medio  elegiaco Gravis = sublime  tragico PER ARGOMENTO Ovvero, quali elementi concorrono a rendere un argomento basso, medio o elevato. Lo si vede dalla rota Virgilii, uno schema di origine medievale che riassume i caratteri di un testo a seconda di come è connotato stilisticamente. Leggendo la ruota dal centro verso l’esterno, per ognuno dei tre spicchi, ognuno corrispondente a uno stile, si leggono le marche di quel registro: nell’ordine, piante – luoghi – strumenti – animali – nomi propri di personaggi – la loro classe sociale. Tali marche sono desunte dalle tre opere principali di Virgilio, considerate ognuna la massima espressione d uno stile: le Bucoliche per il basso, le Georgiche per il medio, l’Eneide per il sublime. PER FINE Ovvero, il fine generale della retorica, quello di persuadere, si specifica in rapporto all’indole di ognuno dei tre stili. Humilis  docere persuadere il pubblico puntando sul consenso intellettuale. Mediocris  delectare persuadere il pubblico suscitando in esso emozioni miti. Gravis  movere persuadere il pubblico suscitando in esso emozioni violente. PER MEZZO Ovvero, il linguaggio impiegato per ottenere tale fine. Humilis o Un linguaggio corretto e chiaro. Mediocris o Un linguaggio brillante e duttile della conversazione elegante, tipico delle classi urbane abbienti, equidistante dall’espressione sciatta popolare e quanto da quella ricercata dotta. Gravis o Un linguaggio o barocco (dal periodare ampio e ricco di soluzioni ritmiche) o espressionista (dal periodare spezzato, ricco di sottigliezze argute). Il linguaggio figurato, un linguaggio “visivo” La figura retorica L’idea stessa di “figura retorica” manifesta una profonda relazione originaria tra linguaggio verbale e linguaggio visivo. Il sostantivo viene infatti dal verbo lat. fingere, che significa “modellare”, cioè dare una forma ad una materia; è l’attività del vasaio, per intenderci. Il significato primitivo di figura dunque era “forma”, atteggiamento, postura; e dunque pertiene al campo della percezione visiva. Usata in ambito retorico, l’espressione è allora un esempio di catacresi (una metafora il cui uso comune non la fa più percepire come tale: quando parliamo del collo di una bottiglia non ci rendiamo conto che stiamo usando una metafora, consistente in un paragone implicito tra l’oggetto-bottiglia e il corpo umano). Un brano di Quintiliano (Institutio oratoria, II) ci chiarisce in che senso dobbiamo intendere il significato originario di figura e la sua valenza visiva. 65 Antitesi = accostamento di due (o più) membri formalmente simili ma semanticamente opposti es. pace non trovo e non ho da far guerra Ossimòro = antitesi in cui però i limiti tra i membri non sono esplicitati da segnali sintattici (congiunzioni, avverbi, ...) es. questo mio viver dolce amaro PER AMPLIFICAZIONE Amplificazione «quantitativa» o orizzontale, accentua quantitativamente, cioè attraverso una sequenza di elementi pertinenti alla stessa idea da esaltare. Enumerazione = elenco di dettagli della stessa figura o elementi dello stesso insieme o della stessa idea madre es. fior frondi erbe ombre antri onde aure soavi Raffaello, La scuola di Atene Climax = disposizione di elementi simili in un crescendo d’intensità es. prendere, afferrare, strappare Similitudine = accostamento di un elemento ad un suo termine di paragone, per qualche aspetto simile a quello; il collegamento è esplicitato da espressioni comparative (“come”, “a mo’ di”, “simile a”, ecc.) es. Laura è fresca come una rosa Amplificazione «qualitativa» o verticale, accentua qualitativamente, cioè attraverso un’adeguata selezione lessicale, la torsione sintattica, il tono della voce, ecc. Enfasi = intensificazione del significato di un elemento es. tutti possiamo sbagliare: siamo tutti uomini! (sottolinea la debolezza della categoria umana) Portale della Basilica di santa Maria Maggiore a Bergamo Iperbole = enfasi che diventa eccesso, esagerazione (contribuisce la posizione dell’elemento interessato da iperbole all’interno della frase) es. è da un secolo che non si vedono FIGURE DELLA SOTTRAZIONE Si eliminano uno o più elementi del significante, di diversa ampiezza. Ellissi = generica sottrazione di componenti in un enunciato es. quanto? (sta per “quanto costa?”) Zeugma = sottrazione di un verbo reggente, per cui alla fine abbiamo un verbo solo da cui dipendono più termini, alcuni dei quali richiederebbero per ragioni logiche ognuno una reggenza specifica es. parlare e lacrimar vedrai insieme Reticenza = sottrazione di un’intera unità di pensiero, o più d’una; nel concreto, l’esposizione di un argomento si es. vi lascio immaginare cosa E. Weston, 66 interrompe bruscamente capitò quando lo seppe... Nudo FIGURE DELLO SPOSTAMENTO Si altera l’ordine sintattico standard, e l’alterazione può essere più o meno ampia. Anastrofe = rovesciamento dell’usuale sequenza di due parole o sintagmi contigui es. cammin facendo (invece che “facendo il cammino”) Iperbato = rovesciamento dell’usuale ordine di un intero enunciato es. mille di fior al ciel mandano incensi (invece che “mandano al ciel mille incensi di fior”) Picasso, L’Aficionado Ipallage = scambio di referente sintattico-logico, per cui si attribuisce a un elemento della frase un carattere che si addice ad un altro vicino es. il divino del pian silenzio verde (è il piano che è verde, non il silenzio) FIGURE DELLA SOSTITUZIONE Ad una componente normale, nell’ambito del significante o del significato, se ne sostituisce un’altra variamente connessa alla prima. Nell’ambito del significante Enallage = sostituzione di funzione morfosintattica es. ha votato socialista (per dire “ha votato per il partito socialista”) Nell’ambito del significato Metafora = sostituzione di una parola con un’altra legata alla prima da un rapporto di similitudine; per questo la metafora viene anche definita “similitudine accorciata” (le viene tolta l’espressione comparativa, il “come”) es. Maria è una rosa (cioè è bella e piacevole come una rosa) Metonimia = sostituzione di una parola con un’altra legata alla prima da un rapporto di contiguità materiale-logica es. beviamoci un bicchiere (il contenitore per il contenuto) es. non ha cuore (il concreto per l’astratto) Sineddoche = sostituzione di una parola con un’altra legata alla prima da un rapporto di necessità, sussistente tra parte e tutto es. ho contato ben cinquanta teste in sala (la parte del corpo per la persona intera) Antonomasia = sostituzione del nome proprio con l’espressione di una sua caratteristica emblematica es. il padre della lingua italiana (per Dante) 67 Litote = sostituzione di una parola con la negazione del suo contrario es. non è un genio (per dire che è stupido) Ironia = sostituzione di un concetto con l’affermazione del suo contrario es. rispondere “ma che gentile!” a una persona che ci ha appena detto qualcosa di sgarbato Allegoria = sostituzione del significato primario di un testo con un significato ulteriore (o più), più profondo e nascosto es. Dante incontra le tre fiere: una lince, un leone, una lupa (che però rappresentano tre vizi: lussuria, superbia e avarizia) Andrea da Firenze, Chiesa militante e trionfante La pittura come persuasione visiva nel De Pictura di Leon Battista Alberti Leon Battista Alberti fu uno degli intellettuali più eclettici del nostro Quattrocento: si interessava di matematica, grammatica, architettura, morale e crittografia; fu poeta bilingue e pittore. Insomma, la prima incarnazione del «uomo universale» rinascimentale; un prototipo di Leonardo, ma con lettere (Leonardo invece si definiva “omo sanza lettere”). Del suo trattato De pictura abbiamo due redazioni, una latina e una volgare. Quale venga prima è stato a lungo discusso, e ad oggi si pensa che sia stata composta per prima quella latina (nel 1435), e che poi una versione toscana l’abbia seguita (nel 1436). Non si trattò solo di una traduzione dal latino, ma di una seconda forma del medesimo trattato con fini divulgativi, adattata ad un pubblico meno colto rispetto a quello per cui era pensato l’originale. Il testo fu composto a Firenze, durante il primo soggiorno dell’autore nella città d’origine della propria famiglia. Alberti infatti era impiegato come chierico presso la curia romana. Il trattato nacque sotto l’impulso dello shock estetico che l’autore provò di fronte a Firenze e ai suoi artisti, coi maggiori dei quali strinse rapporti personali: Masaccio, Brunelleschi – a cui è dedicata la versione volgare del trattato –, Donatello, Ghiberti, i Della Robbia; di loro infatti menziona anche le opere. Il trattato inaugura un interessante filone interpretativo della pittura, che potremmo definire una «paleocritica dell’immagine». Essa si distingue per due caratteri innovativi. Primo, considera la pittura come atto di persuasione visiva: compito del pittore è coinvolgere emotivamente lo spettatore, in modo che egli possa aderire al messaggio veicolato dall’opera d’arte. Secondo, nella lettura dell’opera d’arte viene adottata l’ottica del destinatario: Alberti fu il primo a formulare una teoria dell’arte che analizza l’opra basandosi sul punto di vista dello spettatore. Le virtutes elocutionis La teoria delle virtù dell’espressone (virtutes elocutionis) costituisce un’importante intersezione tra retorica antica e critica pittorica rinascimentale. IN CICERONE Cominciamo dalla retorica antica, e chiediamoci: quali sono le caratteristiche di un buon discorso dal punto di vista espressivo? Come deve parlare l’ottimo oratore? La risposta a questa domanda viene individuata appunto nelle virtutes elocutionis, dei caratteri linguistici imprescindibili per garantire il successo dell’orazione. Prendiamo a riguardo un passo di Cicerone (De oratore, III). 70 Resta un problema capire che tipo di relazione ci sia tra l’opera di Alberti e la prassi dei pittori rinascimentali: in che misura questi ultimi furono influenzati dal De pictura? Qualche relazione c’è senz’altro, e anche in senso reciproco: ad esempio, le osservazioni sulla teoria della prospettiva lineare vengono mosse da Alberti perché già Brunelleschi l’aveva inventata e applicata. Alcuni pittori, pochi ma autorevoli (Leonardo in primis) mostrano inoltre di conoscere il trattato dell’Alberti; però da qui a stabilire dei nessi causali tra il trattato e le opere d’arte di altri... Se non altro, va riconosciuto al De pictura di aver contribuito a insegnare agli artisti del suo tempo la dignità della loro arte e del loro ruolo, facendosi fautore del passaggio, avvenuto in età rinascimentale, dalla condizione del pittore come artigiano a quella del pittore come artista, corteggiato da papi e imperatori. Nonostante queste premesse che possono sembrare limitanti, possiamo tentare di mostrare come i concetti della teoria albertiana delle virtutes possano costituire un approccio interpretativo interessante e appropriato per un’opera come La calunnia del Botticelli. La calunnia di Apelle di Botticelli È ormai usuale distinguere due fasi, una giovanile e una della tarda maturità, nella produzione pittorica del Botticelli. La prima si concentra su soggetti mitologico-allegorici, la seconda su soggetti religiosi. La motivazione sta nei rispettivi contesti: da giovane, l’artista dipingeva circondato dagli umanisti della Firenze medicea, mentre in età avanzata aveva vissuto una profonda crisi religiosa a causa delle omelie di Girolamo Savonarola. La calunnia venne realizzata intorno al 1495, nel momento in cui la predicazione di Savonarola si era fatta più veemente. Quest’ultimo predicava contro la corruzione sociale politica e religiosa, ma anche culturale e morale, che a suo dire aveva investito la Firenze sotto la signoria di Lorenzo de’ Medici (morto nel 1492). Frate domenicano, Savonarola spronava a bandire letture profane, a disfarsi di oggetti di lusso, e a eliminare tutte le immagini di “favole pagane” licenziose e ispirate al mito classico. Bande dei cosiddetti “fanciulli del frate” andavano saccheggiando le case fiorentine di libri e arredi ritenuti “vani” e “immorali”, per poi arderli pubblicamente. Non è un caso dunque se Botticelli scelse come soggetto quello della calunnia: la storia dell’opera è tratta da un testo pagano, ma di questo repertorio classico il nostro pittore non accoglie più allegorie di raffinata sensualità, bensì un severo ammaestramento morale. Una storia “raccomandata” Ci sono certamente delle relazioni tra il dipinto di Botticelli e il trattato dell’Alberti, almeno per quanto riguarda la scelta del soggetto (la storia). Botticelli, con ogni probabilità, avrebbe dipinto la sua opera dopo aver letto un passo preciso del De pictura. Si tratta di un passo del libro III, dove Alberti elogia la stessa scena che Botticelli avrebbe poi dipinto nella sua opera. E la elogia come esempio di “grazia e amenità”, raccomandandola ad ogni pittore del suo tempo che voglia essere “uomo buono e dotto in buone lettere” (sembra quasi di risentire il vir bonus dicendi peritus per la definizione dell’oratore). L’Alberti prosegue descrivendo la scena, e dunque dichiarando le fonti da cui è tratta, e aiutandoci in definitiva a identificare i vari personaggi che vi compaiono. Esordisce con una premessa: il pittore deve essere dotto; di geometria, di poesia e di oratoria. Soprattutto gli oratori “hanno molti ornamenti comuni col pittore”, e sono fecondi di notizie su molti argomenti, che possono sempre servire per comporre una storia come si deve. Ora, un ottimo esempio di ciò è un passo di Luciano di Samosata (Descrizioni di opere d’arte, un trattatello antologico; lui è uno scrittore greco del II sec. d.C.), in cui si descrive un dipinto dell’artista ellenico Apelle (IV-III sec. a.C.). Il dipinto sarebbe stato ispirato da una vicenda autobiografica: per invidia, Apelle era stato accusato da un pittore rivale, Antifilo, di aver partecipato a una congiura contro il sovrano egiziano Tolomeo. Apelle si era tuttavia dimostrato innocente, ma, scottato dall’esperienza, avrebbe dipinto un’opera per dimostrare a cosa possano portare le voci calunniose. Alberti riassume a sua volta il passo di Luciano di Samosata, ed è da questo riassunto che Botticelli avrebbe 71 tratto le coordinate per realizzare la sua opera, e difatti mostra di aderire perfettamente a quanto vi è scritto. A partire dai personaggi che vi compaiono, gli stessi elencati dall’Alberti:  Un uomo con delle orecchie grandissime, probabilmente da identificare col re Mida. Secondo il mito, Apollo avrebbe ingaggiato un certame musicale con Pan (o Marsia?), suonando l’uno la lira e l’altro il flauto, e avrebbe chiesto al re Mida di fare da giudice. Questi aveva assegnato la vittoria a Pan, e Apollo si era vendicato facendo crescere sulla testa del re due grandi orecchie da asino. Come quelle che vediamo nell’opera di Botticelli.  Ai due lati del re-giudice stanno Ignoranza e Sospetto, due donne e cattive consigliere.  Ai piedi del podio su cui si colloca lo scranno del re-giudice, c’è un giovane seminudo in atteggiamento di supplica: probabilmente è l’innocente calunniato.  Il giovane è trascinato per i capelli da una donna giovane che regge una fiaccola (simbolo dell’ardore di vendetta), bellissima ma nel contempo col viso troppo astuto: è la Calunnia.  Il primo aiutante ad assisterla è Livore, pallido, brutto, tutto loro. Poi ci sono una seconda e una terza aiutante, l’Insidia e la Frode, che acconciano capelli e vestiti della donna. Dunque, il livore è al guida della calunnia, mentre l’insidia e la frode presiedono alla forma in cui essa si presenta.  Alle spalle del gruppo sta la Penitenza, vestita in abiti funerei, che si guarda indietro ispirandosi alla Verità, una fanciulla nuda che indica il cielo (facendo dunque appello a una giustizia divina). La storia consiste dunque in una complessa allegoria, che mira a comunicare degli insegnamenti morali. La raccomandazione di Alberti funzionò: furono molti gli artisti che in epoca rinascimentale ne diedero una loro versione pittorica, oltre ovviamente al Brunelleschi. Copiosa e varia La calunnia di Apelle del Brunelleschi esemplifica in modo eloquente anche i caratteri narrativi della storia secondo Alberti, la quale deve essere copiosa e varia, come abbiamo visto. Quanto alla copiosità, l’opera del Brunelleschi mostra di amare il particolare, un amore che permea non solo la connotazione dei personaggi, ma anche la resa pittorica del fondale in cui è ambientata la scena. Il fondale è infatti un grande loggiato, finemente adorno di statue bassorilievi e dipinti, ciascuno dei quali rappresenta un soggetto mitologico biblico o di altra provenienza, ma sempre molto preciso. La storia principale, vale a dire il dramma dell’innocente calunniato, è dunque inserita in una costellazione di altre storie. Quanto alla varietà, l’opera del Brunelleschi è innovativa proprio nella scelta di popolare lo sfondo con tutte queste storie secondarie: è un programma iconografico vastissimo, e Brunelleschi è il solo, tra tutti gli artisti che si sono cimentati a rappresentare la scena della calunnia, ad aver elaborato questa soluzione. In questo è vario, cioè inedito. Il pittore sembra ingaggiare con il fruitore della sua opera una sorta di colta competizione, invitandolo a riconoscere l’argomento di ogni manufatto del loggiato e ad intuire la relazione fra questo e il soggetto principale. Prendiamo come esempio il bassorilievo che si colloca all’estrema destra del dipinto rispetto all’osservatore, proprio sopra il podio del re-giudice. È chiamato il bassorilievo di Cimone ed Efigenia, proprio perché è stato riconosciuto (da Meltzoff, un critico tedesco) come una trasposizione pittorica della novella del Decameron di Cimone ed Efigenia. Il bassorilievo rappresenta infatti una giovane donna distesa a terra, con gli occhi chiusi e l capo appoggiato sul braccio destro, mentre il sinistro poggia sulla vita, tra le pieghe della veste. La osserva un uomo in piedi, vestito con abiti laceri, appoggiato ad un bastone. In effetti l’identificazione col Decameron non è infondata: 1. Il bassorilievo rappresenta fedelmente la descrizione dell’incontro tra i due personaggi nella novella boccaccesca: siamo in un pratello d’altissimi alberi circuito, e Efigenia è una bellissima giovane con un vestimento indosso tanto sottile che quasi niente delle candide carni nascondea, e lo stesso Cimone fermatosi sopra il suo bastone rimane a contemplarla. 2. La versione di Botticelli è coerente anche con la tradizione iconografica di questo episodio. Due miniature apposte a due rispettivi manoscritti del Decameron rappresentano Efigenia nella stessa posa, 72 con la stessa fonte di fianco, con lo stesso Cimone poggiato al bastone, proprio come nella versione del Botticelli. Morale Notavamo che i caratteri di copia e varietà raccomandati da Alberti non sono fini a se stessi: la storia deve elevare l’animo dello spettatore, promuovendone l’adesione a contenuti morali e religiosi. Di nuovo, il dipinto di Brunelleschi si confà a questi dettami, esprimendo una morale edificante sia nel soggetto principale che in quelli del fondale. Nel suo insieme, l’opera sarebbe un’apologia della poesia e dell’arte in genere contro il rigorismo della predicazione savonaroliana.  Questa la tesi dello stesso Meltzoff: l’innocente calunniato sarebbe allegoria non del pittore né di Savonarola, come alcuni hanno pensato, bensì della bellezza artistica stessa. È contro di essa che si accaniscono le calunnie dei suoi avversari, ovvero di Savonarola e dei suoi seguaci.  Sempre secondo Meltzoff, l’opera sarebbe stata realizzata da Botticelli per impulso del celebre poeta ed erudito Poliziano, e non sarebbe stata volta alla fruizione del pubblico, bensì a Piero de’ Medici (figlio e successore di Lorenzo).  Vasari sostiene che Botticelli vendette il quadro alla nobile famiglia fiorentina dei Segni, ma secondo Meltzoff si tratta di un’evoluzione successiva al momento della composizione del quadro: mentre lo realizzava, Botticelli intendeva ancora donarlo a Piero de’ Medici, ma poi, convertitosi alle dottrine di Savonarola, aveva sentito il bisogno di liberarsene, vendendola così ai Segni. Anche l’identificazione del soggetto dei rilievi sembra confermare la lettura di Meltzoff. Il caso di Cimone e Efigenia esalta la capacità della bellezza sensibile, incarnata dal personaggio femminile, di raffinare ed elevare spiritualmente chi entra in contatto con essa.  Nella novella boccaccesca, infatti, Cimone è figlio di un ricco mercante, ma viene deriso dai suoi concittadini per la sua ignoranza e la rozzezza dei suoi modi. Sarà l’incontro con Efigenia e il desiderio di essere degno della grazia di lei a cambiarlo radicalmente, facendolo diventare un esperto di lettere e filosofia nonché un campione di eleganza.  Savonarola riteneva che la fruizione del bello estetico, diversamente rappresentando in poesia o nelle arti, si opponesse pericolosamente alle istanze del bene e del vero, sollecitando gli animi ad aderire alla sfera del sensibile per trascurare quella metafisica. Al contrario, qui Botticelli mostra come il bello possa essere una via che conduce al vero supremo; a quella nuda Verità che punta il dito al cielo. La retorica dell’inconscio Secondo lo psicanalista Rocchitelli, le figure retoriche accomunano il lavoro dell’analista e quello del letterato. In psicanalisi infatti le figure retoriche sono espressioni linguistiche che condensano significati psichici cruciali; vere e proprie cerniere, capaci di mettere in comunicazione differenti strati psichici. Secondo il linguista Benveniste, il linguaggio letterario e quello onirico sono omogenei quanto a stile: l’inconscio si serve di una vera e propria retorica, che, come nello stile, ha le sue figure. Figure di sostituzione e di sottrazione, generate dai tabù: la metafora, la litote, l’allegoria, la metonimia, la sineddoche, l’ellissi. Già Freud coglieva nella retorica uno strumento fondamentale per l’analisi delle manifestazioni psichiche, come si evince da tre delle sue opere in particolare: L’interpretazione dei sogni, Psicopatologia della vita quotidiana e Il motto di spirito (tutte elaborate a cavallo dei primissimi del Novecento). Lo psicanalista studia il soggetto in base a ciò che egli dice. Ascolta quello che dice, lo osserva mentre lo dice, gli risponde a sua volta: e in questo percorso raccoglie gli elementi che lo inducono a scovare un altro discorso, sotteso a quello verbale, sepolto nell’inconscio. Individuata la cura, conduce il paziente attraverso di essa, e ne constata la risposta positiva o negativa di nuovo basandosi sull’atto locutorio. Un passaggio verbale che dunque richiede l’ausilio di specifiche figure retoriche. 75 L’actio L’actio e le sue componenti Il discorso è pronto per essere recitato davanti al pubblico: è il momento dell’actio, che vuol dire appunto “recitazione”. Essa ha una composizione duplice: una componente verbale (pronuncia, modulazione del tono e dell’altezza della voce) e una non verbale (linguaggio corporeo). Per una definizione di eloquentia corporis L’actio ci mostra che l’oratore non deve essere esprimersi solo con la lingua, ma con tutti il corpo: dimostreremo come gesti e posture siano tanto eloquenti quanto le parole, anzi di più. Ce lo spiegano Cicerone e Quintiliano. Due sono i punti sui quali i due autori concordano. 1. L’actio è una partitio complessa, che fonde parola modulata e gesto. L’espressione eloquentia corporis è ottima a riassumere entrambe queste componenti, poiché indica l’associazione organica, la sintonia fra gestire e parlare. Tutto il corpo dell’oratore è impegnato nella trasmissione efficace del messaggio. 2. La gestualità ha una funzione primaria. Non è semplice esornazione alla recitazione del discorso, ma è fondamentale ai fini della persuasione dell’uditorio. 3. L’esempio di Demostene. Entrambi gli autori propongono un aneddoto che ha per protagonista il grande oratore greco del IV sec. a.C. Questi, interrogato su quale elemento dell’arte oratoria detenesse la palma del primo posto, rispose che essa spettava all’actio, così come, aggiungeva per enfatizzarne l’importanza, il secondo e il terzo posto. CICERONE (Orator) L’Orator è un trattato in forma epistolare, indirizzato a Bruto, politico e oratore egli stesso, noto per il suo ruolo fondamentale nella congiura contro Giulio Cesare. L’opera è incentrata sulla definizione dell’oratore e dell’oratoria ideali. Fu composta introno al 45 a.C. (dunque circa dieci anni dopo il De oratore). (1) L’elocuzione (ovvero l’actio, che è una specie di eloquenza del corpo) comprende due cose: il gestire e il modo di parlare. Quanto al primo, i gesti sono strettamente legati agli atteggiamenti del viso: cose che hanno un’importanza enorme per l’oratore. Quanto al secondo, le inflessioni della voce sono tante quante sono i sentimenti nell’animo umano, perché è appunto la voce che commuove gli animi. (2) L’autore constata, sulla base della propria esperienza nel foro, che a vincere le cause sono quegli oratori che, pur essendo magari mediocri quanto ad elaborazione del discorso, sono però dotati di buone capacità di recitazioni; essi infatti sanno vivificare il testo dell’orazione con una verve drammatica, di fatto persuadendo comunque l’uditorio. Dunque, se l’eloquenza non vale nulla senza una buona actio, ma l’actio vale tanto anche senza una buona eloquenza, dobbiamo riconoscere che l’actio (o eloquentia corporis) è di importanza cruciale nell’arte oratoria. QUINTILIANO (Institutio oratoria, XI) 76 Il libro XI dell’opera si concentra sulle partitiones di memoria e actio. (1) Riprende la bipartizione di Cicerone, chiarendo anche una confusione terminologica: la comunicazione del discorso può essere chiamata sia pronuntiatio che actio. L’una pare rinviare alla voce, l’altra al gesto; in realtà le due definizioni si possono usare indifferentemente, poiché Cicerone sostiene che l’actio sia quasi un linguaggio del corpo, un’eloquenza del corpo, non semplice gestualità fine a se stessa; dunque è perfettamente sovrapponibile alla semantica dell’altro termine (2) L’eloquenza del corpo ha un potere enorme nei discorsi: non importa la qualità di ciò che abbiamo elaborato nella nostra mente, quanto come lo esponiamo. Ogni emozione che possiamo suscitare con la sola elaborazione, infatti, si affievolisce subito se non è sostenuta e mantenuta vivida dalla voce, dal volto, da un atteggiamento di tutto il corpo. Lo provano gli attori di teatro, che recitando non solo aggiungono ai poeti di più alto valore tanta grazia da renderli infinitamente più belli da ascoltare che da leggere, ma riescono ad attirare l’attenzione degli spettatori anche sui poeti di più bassa qualità (al che tante opere che non trovano spazio nelle biblioteche vengono invece accolte a teatro). L’autore non esita ad affermare che un discorso pur mediocre, ma che venga affidato ad una recitazione efficace, ha più efficacia di un buon discorso che tuttavia ne è privo. Potenza dell’eloquentia corporis: motivazioni Continuiamo coi discorsi di Cicerone e Quintiliano per capire quali siano le motivazioni per cui l’eloquenza del corpo è tanto efficace al fine persuasivo. Tale efficacia scaturisce da due caratteristiche proprie del linguaggio non-verbale: a. La sua immediatezza. Il gesto arriva prima della parola, colpisce l’interlocutore a prescindere dalla parola, ed è autonomo rispetto alla parola. b. La sua universalità. Mentre la parola è compresa solo da chi partecipa di un certo codice linguistico, il gesto è in grado di comunicare a tutti gli uomini. In particolare, Cicerone si concentra sugli occhi e Quintiliano sulle mani. CICERONE (ora De oratore) A parlare è Licinio Crasso, illustre oratore e maestro di Cicerone. (a) Il gesto è indipendente dalla parola: non la sostituisce, bensì la accompagna. La gestualità più efficace è quella che si limita a semplici cenni: per intenderci, non quella esibita dei teatranti, ma quella calcolata di chi sa usare le armi. L’actio scaturisce direttamente dall’anima; il volto è lo specchio dell’anima, e gli occhi ne sono gli interpreti, in quanto essi sono la sola parte del corpo capace di dare un’espressione diversa a tutte le passioni. L’autore sorregge el sue informazioni con un duplice riferimento alla storia teatrale. Primo, in positivo, la storia di Roscio, uno dei massimi autori latini del I sec. a.C.: egli recitava ora calzando la maschera, alla greca, ora senza, alla latina; inutile dire che a volto scoperto riscuoteva molto più successo presso il pubblico. Secondo, in negativo, la storia di Taurìsco, un attore greco del IV sec. a.C., che passò ai posteri come campione di inespressività perché recitando teneva lo sguardo fisso; addirittura, insinua malignamente Cicerone, sarebbe stato lo stesso se avesse recitato volgendo le spalle al pubblico. (b) La natura ci ha fornito gli occhi per manifestare quello che abbiamo nell’animo, proprio come al leone ha dato criniera orecchie e coda. Insomma, nell’actio c’è una forza che proviene dalla sua naturalità: ecco perché essa ha effetto anche sugli ignoranti e sui barbari. Perché, essendo essa la manifestazione delle emozioni, ed essendo le emozioni uguali per tutti, espresse da tutti con le stesse manifestazioni, è comprensibile a tutti. QUINTILIANO (Institutio oratoria, XI) 77 (a) Le mani: a stento potremmo dire quanti movimenti siano in grado di fare, perché sono quasi tanti quanti le parole. Se le altre parti del corpo aiutano l’oratore, le mani invece parlano da sé. (b) Per questo, nonostante i popoli abbiano tante lingue diverse, i movimenti delle mani sono un linguaggio comune a tutti. L’uomo sarebbe insomma una sorta di “animale gestico”. Il processo spettacolo e l’oratore “quasi actor” Abbiamo constatato l’importanza che l’eloquentia corporis ricopriva nella retorica antica, e ne abbiamo visto le motivazioni. Osserviamo ora la conseguenza più importante di ciò: la spettacolarizzazione del processo giudiziario. I romani sono stati i primi ad aver inventato il processo-spettacolo, ad averne fatto uno show il cui fine è quello di trascinare giudici e pubblico alla meta della persuasione. Per poter far ciò, l’oratore deve essere una specie di attore: deve recitare la tesi del proprio discorso, non limitarsi ad enunciarla. Di nuovo, leggiamo cosa hanno da dire Cicerone e Quintiliano in proposito. 1. Sul punto di partenza, i due sono concordanti: entrambi ritengono che l’oratore debba essere investito di un profondo coinvolgimento emotivo della propria persona con la causa trattata. Fa emozionare gli altri solo chi è intimamente emozionato. I giudici sono persuasi di una tesi solo se chi la impersona lo fa con passione. 2. Sui mezzi con cui conseguire questo coinvolgimento emotivo, i due sono discordanti. Cicerone consiglia di adottare un processo di regolazione, mentre Quintiliano preferisce l’induzione emotiva. CICERONE (De oratore, II) (1) È impossibile che l’ascoltatore provi una qualunque emozione, se quell’emozione che l’oratore intende suscitare non si mostra come impressa a fuoco nell’oratore stesso. Come esempio, l’autore porta una rappresentazione cui aveva assistito, quella della tragedia Teucro di Pacuvio (III sec. a.C.): il protagonista Teucro fa ritorno in patria, l’isola greca di Salamina, reduce dalla guerra di Troia; si presenta dal padre Telamone, re dell’isola, ma non ha con sé il cadavere di Aiace, suo fratello, morto alla fine della guerra; per questo, Teucro è condannato all’esilio. Attraverso due citazioni di un monologo di Telamone, l’autore revoca le forti emozioni di paura e pietà che l’attore che lo impersonava era stato in grado di suscitare in lui. (2) Il coinvolgimento emotivo dell’oratore è un dato scontato, inevitabile. E questo perché consegue a due motivi. Primo, la forza oggettivamente trascinante delle parole che si pronunciano. È tanta la forza insita nei pensieri e negli argomenti che l’oratore mette in campo nell’orazione, che non c’è bisogno che egli finga di esserne commosso: la natura stessa del suo parlare commuove non solo gli altri, ma anche lui. Anzi, lo commuove forse anche più di quanto commuove chi lo ascolta. Secondo, la difesa e la promozione della propria immagine sociale da parte dell’oratore. L’oratore è consapevole che è in gioco non solo il destino del suo assistito, ma anche il proprio prestigio e la propria credibilità; un’eventuale sconfitta sarebbe uno sfregio anche al proprio volto pubblico di difensore. Questa solidarietà tra difensore e assistito, secondo Cicerone, è il fondamento del coinvolgimento emozionale dell’oratore: alla retorica spetta allora il compito di mettere in luce questo coinvolgimento, dando ad esso voce e regolandolo secondo toni e colori vari. QUINTILIANO (Institutio oratoria, VI) (1) C’è un’identificazione emozionale tra l’oratore e il suo assistito, simile a quella dell’attore che è 80 GLI ASTANTI Gli astanti erano coloro che semplicemente assistevano al processo, senza nemmeno svolgere un ruolo fondamentale ai fini della difesa. Quintiliano (Institutio oratoria) ci documenta che i difensori latini, pur di impietosire i giudici per la sorte dell’imputato, ne convocassero spesso i figli piccoli, i genitori anziani, o tutta la famiglia. Con ciò, si voleva mettere in risalto la statura morale dell’assistito, la sua dimensione di buon padre di famiglia o di figlio rispettoso, per rendere incredibili le accuse avanzate contro di lui.  Nel II sec. a.C., Servio Galba, uomo politico e militare, pretore nella provincia della Spagna ulteriore, combatté la popolazione locale dei Lusitani con metodi brutali e sleali: massacrò alcune tribù che pure avevano chiesto la pace, e vendette come schiavi i superstiti. Allo scadere del mandato, era stato per questo messo sotto processo da Catone il Censore. Questi, uno dei più grandi oratori della Roma arcaica, aveva pronunciato un discorso di formidabile durezza, ma Servio riuscì a farla franca facendosi accompagnare in processo dai figli: teneva issato sulle spalle il figlio adottivo, e affidò i figlioletti al popolo romano, invocandolo come tutore per loro, futuri orfani nel caso in cui egli, il padre, fosse stato condannato. E come poteva essersi macchiato di atti tanto violenti un uomo che si mostrava così tenero padre di famiglia? Tecniche di costruzione dell’atmosfera I testi che proponiamo attestano che nell’oratoria antica era diffusa anche una tecnica di costruzione dell’atmosfera, attraverso una forte caratterizzazione simbolica del luogo in cui si svolgeva l’actio. Sempre Quintiliano (Institutio oratoria) ci dice che i difensori usavano portare in tribunale degli oggetti “di scena”: spade insanguinate, schegge d’ossa, abiti grondanti sangue, bende, o spogliavano corpi martoriati. Insomma, questi oggetti, mostrati al pubblico, dovevano insieme suscitare odo per i carnefici e pietà per le vittime.  Quando Antonio, luogotenente di Giulio Cesare, tenne il discorso funebre per quest’ultimo, davanti alla fola venne esibita la toga insanguinata della vittima: Quintiliano commenta osservando che la vista di quella toga, per il pubblico, equivalse emotivamente a vedere morire di nuovo Cesare in quel preciso momento. In un batttibaleno la ferocia della folla fu stornata sui cesaricidi. Cicerone, nella sua orazione contro Catilina, sfrutta abilmente un “effetto fondale”. Le cose erano andate così: Catilina, politico a lui contemporaneo, aveva tentato un colpo di stato. Cicerone, console proprio in quell’anno (63 a.C.), l’aveva scoperto, e ora teneva un discorso contro di lui. Il discorso doveva tenersi nella solenne cornice del Foro Repubblicano (la piazza principale della Roma antica), sovrastato dai colli Palatino e Campidoglio. Dall’alto di quest’ultimo dominava una statua di Giove (la suprema divinità latina). Danneggiata da un fulmine insieme ad altri monumenti, questa era stata di recente sostituita. Nel suo discorso, allora, Cicerone si mise a descrivere lo scenario in cui si trovava a pronunciare l’orazione. Raccontò che gli aruspici, quando la statua di Giove era stata abbattuta dal fulmine, avevano prescritto che se ne costruisse una più grande e collocata su un piedistallo più alto, e soprattutto che il volto della statua fosse rivolto ad oriente. In questo modo la statua avrebbe guardato verso il sorgere del sole, ovvero verso il Foro sottostante; e avrebbe visto le trame che venivano ordite contro la salvezza dell’Urbe, e le avrebbe investite di una luce così viva che senato e popolo romano non avrebbero potuto fingere di non vederle a loro volta. In questo modo, Cicerone fa sì che la statua sembri guardare verso il foro per vegliare sulla pace di Roma; ora lui stesso, denunciando Catilina e i congiurati, ha realizzato di fatto questa vigilanza divina sul bene della città. Cicerone insomma si sta presentando come “mano degli dèi” di fronte ai giudici, come strumento di salvezza per Roma. Linguaggio gestuale, retorica antica e persuasone pittorica Un primo punto in comune tra la teoria e la prassi dell’actio che abbiam visto sin qui e il linguaggio pittorico 81 rinascimentale consiste nel ricorso alla gestualità (e alla chironomia in particolare) a scopo persuasivo. L’efficacia espressiva della gestualità era già stata rivalutata, nell’alveo dell’elaborazione della “paleocritica dell’immagine” ispirata alla retorica latina, anzitutto dall’Alberti. Questi raccomandava ai pittori di curare la gestualità dei loro personaggi proprio come mezzo per coinvolgere emotivamente lo spettatore. Tra tutti i movimenti del corpo a cui fare attenzione, egli raccomanda in particolare l’apostrofe al pubblico per mezzo dello sguardo e del linguaggio delle mani. La Trinità di Masaccio Le righe appena citate del De pictura, dove si legge che la storia un personaggio dovrebbe “chiamare con la mano a vedere”, paiono ispirate ad un affresco del Masaccuo, dipinto solo un decennio prima (1425) per la basilica fiorentina di santa Maria Novella. La composizione dell’opera è di per sé solenne nella sua sobrietà, ma è molto elaborata quanto a retorica visiva.  Climax: i personaggi sono disposti su piani spaziali differenti in base alla loro gerarchia. Dal basso verso l’alto: i committenti, Maria e Giovanni, il Figlio e il Padre.  Apostrofe: a compierla è la figura di Maria, ils olo personaggio della storia che si rivolga al pubblico. Se il suo sguardo è ambiguo (non si capisce se sia rivolto allo spettatore o semplicemente assorto a fissare il vuoto), il gesto della sua mano non lascia spazio ad equivoci: ci invita a guardare verso il Figlio in croce. In questo modo, viene simboleggiata la funzione prima di Maria, mediatrice tra l’uomo e il divino.  Memento mori: uno scheletro adagiato su un sepolcro, in basso, ci fa capire a cosa dovremmo guardare: alla morte. Il figlio in croce muore esattamente come muore l’uomo. Lo conferma l’iscrizione sul sepolcro: io fu’ già quel che voi sete, e quel ch’i’ son voi anco sarete.  Antitesi: seguendo la mano di Maria, il nostro sguardo abbraccia contemporaneamente il Figlio e il Padre, che nella composizione non sono scindibili. Ma tra i due c’è un antitesi: Dio è una sorta di Giove cristiano, che esprime potenza (il volto virile), impassibilità (guarda un punto indeterminato), somma onniscienza (la barba e le lunghe vesti). Di contro, il Figlio è debole sulla croce, in soggezione e sofferenza. A simboleggiare la duplice natura del Mistero: il Verbo si è fatto carne e ha sofferto come gli uomini. Il Cenacolo di Leonardo Lo stesso Leonardo nei suoi scritti esorta i pittori a sfruttare l’efficacia retorica dei gesti (e in particolare della chironomia raccomandata da Quintiliano). Tuttavia nella scelta dei gesti, probabilmente, i pittori rinascimentali si ispirarono non tanto all’antica trattatistica retorica, quanto ai bassorilievi antichi, specialmente a quelli dei sarcofagi. La mimica manuale, la sua diffusione e diversificazione per personaggio, è uno degli aspetti che più colpiscono l’osservatore posto di fronte al Cenacolo, dipinto da Leonardo per il refettorio del convento domenicano milanese di santa Maria delle Grazie (nel 1495). Lo stesso Goethe, che lo visitò alla fine del Settecento, dichiarò di essere rimasto impressionato soprattutto dal movimento delle mani dei personaggi, talmente commovente che “è impossibile, di fronte ad una simile vista, limitarsi alla contemplazione”. Dunque Leonardo fa sua la rinnovata attenzione del suo tempo per la rappresentazione dei movimenti dell’animo, ma insieme la rivoluziona in due sensi. Primo, distinguendo fra «natura» e «moti mentali». È Leonardo il primo artista a distinguere due esigenze, diverse ma concomitanti, nella caratterizzazione pittorica di un personaggio. a. Una cosa infatti è la natura dell’uomo, ovvero il suo carattere permanente, fatto di vizi e virtù; b. un’altra sono i moti mentali, cioè le reazioni emotive che occasionalmente lo animano. Ora, in pittura si rappresenta (a) la prima componente con la fisiognomica, (b) e la seconda con i moti corporei (mimica facciale e gesti). Basti vedere il Cenacolo: quando Gesù dichiara “uno di voi mi tradirà”, i moti mentali suscitati nei discepoli 82 sono vari: meraviglia, incredulità, ira, paura. Ma sono ancora più vari perché vengono declinati secondo la natura di ognuno di loro. Per dirla in termini poveri, ogni emozione è diversa se provata da persone di carattere diverso. Secondo, studiando scientificamente il carattere e le emozioni. È Leonardo il primo artista a dare spessore scientifico all’espressione pittorica tanto del carattere quanto delle emozioni di un personaggio. Egli è interessato a capire la connessione tra anima e corpo, come la psiche si esprime nella fisicità, come le emozioni o il carattere traspaiono nella muscolatura nella struttura ossea nel colorito e nelle alterazioni di questi. Non a caso il Cenacolo fu preceduto da una serie di esperimenti di ricerca anatomica, come testimoniano i disegni preparatori (si veda quello per le mani di Giovanni). Date queste premesse, è chiaro che con Leonardo il ricorso alla chironomia diventa un potente indicatore dello stato psicologico individuale e delle sue alterazioni. Ma guardiamo il Cenacolo.  La disposizione degli apostoli crea un isocòlo: essi sono divisi in gruppi da tre, sei a destra e sei a sinistra di Gesù, che siede al centro (isolato, come chi si prepara a morire).  Gesù è raffigurato con le braccia aperte, immagine prolettica dell’imminente crocifissione (è infatti la postura tipica della imago pietatis, dove di solito Cristo è mostrato, appena deposto dalla croce, con le braccia aperte e degli angeli a sorreggerlo, perché sia adorato). La posizione delle sue mani invece rimanda ad un significato eucaristico: la mano sinistra è aperta in atto di offerta, posata accanto al pane e al vino (vi offro il mio corpo e il mio sangue); la mano destra sta per porgere a Giuda un boccone (mi consegno a colui che mi tradisce). Dunque Gesù è caratterizzato da un ruolo insieme attivo (si offre) e passivo (attende di essere preso dai nemici). Quanto alla descrizione dei discepoli, ci limitiamo al primo gruppo di tre alla destra di Gesù.  Giovanni è immediata destra di Gesù (occupa dunque una posizione d’onore, è il discepolo che Egli amava), ma appare anche arretrato rispetto a Giuda (così Cristo appare ancora più solo). Le sue mani sono sì giunte (come di chi è in preghiera) ma a ben vedere anche serrate (come di chi sta resistendo ad una passione violenta). Gli occhi sono chiusi e il capo reclinato (come di chi si abbandona). Sommando tutto, di Giovanni è espressa la SOTTOMISSIONE alla Grazia.  Pietro scuote con la mano sinistra Giovanni per interrogarlo (come chi è incredulo), e nella destra brandisce un coltello (come chi sta per commettere violenza). Si conferma così come quel discepolo iracondo che di lì a poco taglierà l’orecchio al servo del sommo sacerdote nell’orto del Getsemani. Di Pietro allora è espressa la RIBELLIONE alla Grazia.  Giuda è interessantissimo perché larappresentazione leonardesca di lui devia dalla consuetudine dell’iconografia fiorentina tre e quattrocentesca. Di solito infatti Giuda è raffigurato al lato opposto della tavola, solo (dunque isolato), privo di aureola (dunque non santo) e con la borsa dei denari bene in vista (dunque avido traditore), spesso con un piccolo diavolo che gli insidia un orecchio (dunque tentato). Nel Cenacolo di Leonardo, invece, non c’è alcun segno che faccia presagire la sua predestinazione al male: anzi. Giuda compete con Giovanni quanto a vicinanza al Maestro. Questo evidenzia un aspettoc he stava molto a cuore alla predicazione domenicana, quello del libero arbitrio: Giuda non è predestinato al male, e durante l’Ultima Cena ha ancora la possibilità di scegliere. Semmai, colpiscono la sua circospezione e la sua freddezza: in lui la sola anomalia è la mancanza di una reazione emotiva, ottenuta con una “prossemica della sottrazione”. Le sue mani infatti sono le uniche “mute”: con la destra prende furtivamente il boccone che Gesù gli offre, mentre la sinistra è adagiata sulla borsa a nasconderla. Anche il suo volto è seminascosto nella penombra. Di Giuda insomma è espressa l’INDIFFERENZA alla Grazia. Effetti di scena Un ulteriore punto di contatto tra actio e pittura rinascimentale consiste nello sfruttamento, a fini persuasivi, del rapporto fra il messaggio e l’ambiente (fisico e culturale) in cui questo si trova a risuonare.
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