Docsity
Docsity

Prepara i tuoi esami
Prepara i tuoi esami

Studia grazie alle numerose risorse presenti su Docsity


Ottieni i punti per scaricare
Ottieni i punti per scaricare

Guadagna punti aiutando altri studenti oppure acquistali con un piano Premium


Guide e consigli
Guide e consigli

La Pittura a Siena: Duccio, Simone Martini e Ambrogio Lorenzetti, Sintesi del corso di Storia dell'arte medievale

Come Siena, nella seconda metà del XIII secolo, diventa un importante centro artistico grazie alla committenza pubblica. Duccio, Simone Martini e Ambrogio Lorenzetti sono i principali artisti che lavorano per la Repubblica di Siena, creando opere che riflettono il gusto e il pensiero del tempo. Il documento illustra come le opere di questi artisti influenzano il panorama artistico senese e oltre, contribuendo alla nascita del gotico internazionale.

Tipologia: Sintesi del corso

2016/2017

Caricato il 05/02/2022

beatrice-castellini-1
beatrice-castellini-1 🇮🇹

4

(1)

3 documenti

1 / 36

Toggle sidebar

Documenti correlati


Anteprima parziale del testo

Scarica La Pittura a Siena: Duccio, Simone Martini e Ambrogio Lorenzetti e più Sintesi del corso in PDF di Storia dell'arte medievale solo su Docsity! Duccio alle origini della pittura senese Siena nell’età di Duccio La civiltà comunale italiana al suo apogeo Gli anni dal 1278 al 1318 sono quelli dell’attività documentata a Siena di Duccio. Allora come era Siena? Sono anni di sviluppo per la storia italiana, perché c’è una forte crescita demografica, soprattutto in città, e perché il comune raggiunge lo sviluppo massimo (non in modo eguale in tutta Italia). Sono anni di crescita e di svolta: iniziano a essere elaborate nuove forme sul piano economico, politico, culturale, religioso. La Toscana era una regione particolarmente urbanizzata: molte città sono grandi, come Firenze e Siena, e molte città sono poli economici. Il culmine demografico è proprio a fine ‘200 (popolazione città = a pop campagne). Le difese diventano sempre più imponenti, le campagne hanno case sparse sui campi. Siena in Toscana Siena ha una grande ripresa economica ma non è mai nei secoli alla guida della Toscana. Anche lei però ha un momento molto breve in cui si illude di essere egemone in Toscana: Provenzano Salvani fu capo dei ghibellini in appoggio a re Manfredi contro guelfi e Firenze, cerca di dare un ruolo politico egemone a Siena. Illusione nata attorno alla battaglia di Montaperti del 1260 -> battaglia vittoriosa per Siena (maturazione di autocoscienza cittadina di Siena). Siena è filoimperiale ma non per questo antipapale, ma il radicalismo di Provenzano porta a una lacerazione della società, e il gruppo dirigente senese si spacca. Con la morte di Provenzano e la sua damnatio memoriae ci sono alterne vicende tra guelfi e ghibellini, ma ne escono regimi di governo guelfo: nel 1271 il regime dei Trentasei, e poi dei Nove dal 1287 al 1355, che diede a Siena tranquillità politica. E’ un governo popolare composto da mercanti (Duccio ora è giovane). Una parabola in crescita con segni di cedimento In questi anni Siena raggiunge la massima consistenza demografica con 50.000 abitanti nel ‘300 (1324-31 culmine demografia). Gli spazi all’interno delle mura sono pieni, bisogna costruire borghi al di fuori. Già nel 1220 è costruita una terza cerchia di mura, segno di un’espansione di popolazione, a metà ‘200 c’è un nuovo ampliamento, nel 1323 c’è un’ultima cinta per difendere tutti i borghi. Duccio vive negli anni della parabola demografica di Siena: quindi anche dello sviluppo della sua economia sui mercati internazionali (coincidente con l’espansione). La fortuna e potenza delle città toscane in Europa si basa sul commercio a distanza e su credito e scambio di monete. Da metà ‘200 c’è in questo campo il predominio dei toscani sui lombardi, i senesi in particolare dominano credito e banca. I primi segni dell’espansione delle banche senesi si vedono a fine XII, ma esplodono a inizio ‘200. Perno degli affari è l’area della Champagne (centro degli scambi d’Europa): i senesi acquistano e vendono , ma soprattutto fanno operazioni di credito, contratti di cambio. I senesi hanno affari anche con Fiandre, Inghilterra, Germania e curia. Con questa economia anche lo spazio urbano cambia: finora c’erano torri e case-torri in pietra difensive (castellari). Nel XIII si costruiscono i primi palazzi, con al piano terra le botteghe e spazi di riunione (legame con gli affari), come il palazzo dei Salimbeni e dei Tolomei. Ma l’espansione economica senese dura solo un secolo. Già nell’età di Duccio la curva il salita si ferma e i cambiamenti sono visibili da metà ‘300: trasformazione economia senese, perché con la fine delle fiere della Champagne a fine ‘200 e il mercato monetario che privilegia l’oro invece che l’argento i senesi non ce la fanno più. Siena non ha mai sviluppato la manifattura come Firenze, perché non ha né fiumi né mare. Ha solo la strada francigena che le rende vicine Roma e le città europee e l’argento. Firenze intanto è una potenza economica internazionale, ma anche culturale, perché ci abitano Dante, Giotto e Arnolfo di Cambio. Così quando la moneta d’oro soppianta quella d’argento, Siena investe nello stato. Dagli anni di Duccio il territorio senese aumenta fino a comprendere 1 terzo della Toscana. La ricchezza ora si impiega nel prestito al comune di Siena. Le società si orientano a soddisfare la domanda interna di credito al consumo. Alcuni uomini d’affari (Piccolomini) si rendono conto che il mercato internazionale ormai per loro è chiuso e cessano le attività e convertono i capitali nel locale, nella finanza pubblica. Per il resto i capitali privati si orientano alla rendita fondiaria: comprano terre, vivono dalla rendita delle terre coltivate -> il contado si fa più vasto, cresce l’interesse per allevamento e agricoltura -> ruralizzazione dell’economia. Due imprese di carattere pubblico: l’Ospedale Santa Maria della Scala e l’Opera del Duomo Siena ha un forte senso del pubblico: lo Studio (Università) fin dal ‘200 è configurato come un ufficio comunale; il Monte Pio nasce nel ‘400 come iniziativa pubblica (gli altri sono iniziativa francescana); molte iniziative imprenditoriali di carattere pubblico come l’Ospedale di Santa Maria della Scala e l’Opera del Duomo. Nel 1309 il consiglio di Siena (che sostiene l’ospedale) vuole mettere le proprie insegne ai lati dell’ingresso, segno simbolico per dire che l’ospedale è del comune -> impegno del comune sul versante dell’aiuto ai poveri, è quindi un servizio pubblico, del comune. Dal 1348 l’ospedale è anche banca pubblica, perché prende in custodia i depositi dei pellegrini e i risparmi dei cittadini. L’ospedale assiste poveri, vedove, malati; le sue proprietà nel tempo sono sempre più ampie (es palazzo a parte dove abita il rettore); è emersa una strada interna (in origine via pubblica) che si è trovata nella parte di espansione del complesso, quindi diventata percorso interno privato dell’ospedale. E’ formato da una serie di corpi addossati che si appoggiano sulla collina o sono costruiti dentro la collina, una pianta quindi non riproducibile. Sulla facciata nel 1335 i fratelli Lorenzetti e Simone M affrescano le 4 Storie della Vergine, perdute: sono modelli per i pittori successivi e simbolo della grandezza della pittura senese a inizio ‘300. Anche l’Opera di Santa Maria (del duomo), che nasce per accompagnare la manutenzione della fabbrica del duomo, diventa nel ‘200 istituzione civica. Frate Melano (converso di san Galgano), è operaio dal 1275, anche altri cistercensi hanno incarichi rilevanti. Alcune fonti testimoniano di una fase in cui il comune ha diretta responsabilità su ogni iniziativa sulla costruzione della fabbrica, nel 1296-96 il comune nomina gli operai direttamente. Gli anni del governo dei Nove, splendori e memorie Gli anni del governo dei Nove (quando vive Duccio) sono l’età d’oro senese, perché la città vive in pace e sono costruite grandi opere pubbliche: la costruzione del nuovo palazzo pubblico dal 1298 (nel 1310 il governo si stabilisce lì). Nel 1325 è messa la pietra angolare della torre della Mangia. C’è necessità di gare consenso a un governo popolare e guelfo -> programmi di abbellimento di Siena (nuovo acquedotto, nuovo battistero, ampliamenti del duomo, etc), è commissionata la Maestà di Simone e il Buono e Cattivo governo a Ambrogio per mostrare un’immagine del governo di paladino del benessere e sicurezza. Il comune commissiona anche la Maestà di Duccio e la vetrata -> mecenatismo pubblico di Siena. Il denaro dei banchieri è dunque investito anche sulla città, permettendo di costruire gli edifici pubblici. I Nove danno vita a sperimentazioni di amministrazione come la magistrature dei Viarii, o la volgarizzazione dello statuto cittadino, o fanno il primo catasto comunale nel 1316 (Tavola delle possessioni). Già a inizio ‘300 però ci sono le prime rivolte al governo, e anche carestie. Duccio quindi conosce la Siena con alta demografia, nascita di nuovi palazzi e opere pubbliche grazie alla finanza dei senesi. Vetrata di Duccio Vetri colorati e dipinti a grisaglia (pittura trasparente che definisce panneggi e modellato dei volti), duomo di Siena. E’ stata restaurata più volte, il restauro più radicale è nel 1697 di Giulio Francesco Agazzini di Armeno (ne lascia memoria nell’incorniciatura della vetrata). La vetrata è in buone condizioni; Carli (studia la vetrata)dice che i vetri sostituiti sono pochi, soprattutto nella parte bassa, mentre le parti alte sono state ripassate nel disegno dal pittore Andreini. Il restauro recente è fatto da Camillo Tarozzi, per consolidare l’orditura di piombo. La vetrata dell’abside è stata considerata opera di Jacopo di Castello e datata 1369, solo nel 1946 si inizia a parlare di Duccio con Carli: sulla base di 2 documenti (1287-88) che dicono che la finestra dell’altare della Maria deve essere chiusa a vetri e che il vetro verrà comprato dal comune. Carli pensa che il disegno sia opera di Duccio (corretamente) per l’affinità delle storie mariane con la Maestà e con opere sue giovanili: il trono dell’Incoronazione sostenuto da archetti ribassati è simile in Madonna Rucellai e Madonna dei francescani. Inoltre è presente san Bartolomeo, non san Vittore: nella Maestà c’è san Vittore, dunque la vetrata è precedente. Carli indica che l’opera che più si avvicina alla vetrata è la Maestà del kunst-museum di Berna: entrambe per la prima volta hanno troni 1265: data importante per l’oreficeria (anche data del pulpito di NP a Siena), inizio dell’egemonia degli orafi senesi che li porterà a servizi prestigiosi. Nel 1265 Pace di Valentino è chiamato a Pistoia dall’opera di san Iacopo per fare un calice d’oro e una legatura di un codice (nel recto Maiestas Domini e nel verso Crocifisso), con una tale quantità di perle e pietre che l’oreficeria si inserisce nella tradizione carolingia, ottoniana, e continua nella romanica. 5 anni dopo fa una patena d’oro per il calice e il calice di sant’Atto. Nel 1270 ca fa il reliquiario della testa di san Galgano: mostra l’alto livello dell’oreficeria. Si vede però la distanza di quest’opera con il calice di Guccio, in quanto c’è apertura verso il linguaggio gotico (nell’architettura ma non nei rilievi a sbalzo, ancora bizantini), ma è col calice che l’acquisizione del gotico è matura. Il calice risale agli anni in cui Duccio termina Madonna Rucellai e la vetrata e Giotto fa le Storie francescane. E’ un totale rinnovamento stilistico e tecnico, che ha ripercussioni anche sulla pittura. Infatti Guccio inventa lo smalto traslucido: stesura di paste vitree macinate su un bassorilievo d’argento -> così grandi possibilità espressive e estetiche mai viste con i precedenti smalti (usati in modo marginale), simili ai risultati della pittura. Gli smalti del calice hanno un linguaggio gotico, simile alle miniature di Maitre Honoré o alla pittura inglese del ‘200 o agli affreschi oltremontani a Assisi -> il calice è riferimento per la diffusione del gotico in Italia, anzi il calice contribuisce alla diffusione dell’arte senese in Europa. Nella pittura non c’è niente di così moderno. Le figure degli smalti hanno un marcato espressionismo (nei volti e atteggiamenti), capelli con boccoli, barbe fluenti, panneggi naturalistici. Il cfr. con Madonna Rucellai del 1285 mostra come Duccio abbia molto meno acquisito elementi gotici rispetto a Guccio, essendo più bizantineggiante. Guccio è importante per gli esiti della pittura: Simone M viene influenzato dal gotico, come anche Pietro L, entrambi in rapporto stretto con oreficeria. Guccio adatta il gotico alla cultura senese, con originalità: le figure hanno una saldezza, una caratterizzazione personale e vigore assente nel gotico transalpino (uniformità di espressioni). Il Crocifisso nel calice: Cristo pende in modo realistico dalla croce -> dialogo con Giovanni Pisano e i suoi crocifissi. L’oreficeria senese fino ai primi anni ‘300 è vitale, occupando una posizione di avanguardia sulla pittura e conducendola al gotico. A fine ‘200 il duomo di Siena mostra come pittura e scultura non siano alla pari: la vetrata di D si rifà di più a schemi di vetrate tedesche che gotiche; mentre contemporaneamente GP fa facciata e ciclo statuario che si rifà a principi gotici. Alcuni studiosi dicevano che G vide direttamente le sculture delle cattedrali gotiche, ora si pensa che fu solo conoscenza indiretta, tramite statuette d’avorio, tesori di grandi cattedrali (san Francesco), circolazione di maestranza e taccuini. Nel duomo di Siena la colonna a fianco del portale maggiore fatta con G ha 2 episodi della storia di Davide e Betsabea identici dal lato iconografico alle storie della cattedrale di Auxerre-> indica l’uso di disegni che circolano. Gli artisti circolano molto: come nella fabbrica del duomo di Orvieto,che aveva artisti di ogni nazionalità (a Siena era uguale). GP fa nel duomo di Siena un ciclo statuario che non ha precedenti al nord: le statue di Profeti e Filosofi sono affrancate dal contesto architettonico (in Francia no), inoltre la tensione piega il gotico a esiti espressivi. Anche i crocifissi di GP non hanno eguali contemporanei. Grazie a lui a Siena inizia il gotico nella scultura: molti però si discostano dal suo esempio, dalla sua intensità, dinamismo, forte espressività. Ciò si vede nei rilievi della basilica di san Francesco a Siena, come in Predica del santo agli uccelli: senso di pacatezza, razionalità e chiarezza. Anche lo scultore Marco Romano si distacca: nel monumento funebre di Beltramo degli Aringhieri (a Casole d’Elsa), avvocato della curia, c’è un classicismo gotico -> naturalezza, volontà ritrattistica. Per gli scultori importante è anche l’esempio della pittura contemporanea: si afferma la pittura giottesca (monumentalità, razionalità, equilibrio compositivo), all’opposto dello stile di GP. Un caso è Gano di Fazio, documentato dal 1302, fa il sepolcro per il vescovo Tommaso d’Andrea nella collegiata di Casole d’Elsa: si firma e adotta una nuova tipologia funeraria, la tomba pensile. Evida ogni allusione al goticismo inquieto di GP, che tra l’altro conosce tardi. E’ la produzione orafa che a Siena diffonde il gotico: importante per P Lorenzetti e Simone M, ma anche per la scultura -> apre al gotico di Goro di Gregorio. Come Simone anche lui adottano alcuni elementi degli orafi (figure ornate, elegantemente mosse) e ne rifiutano altri (espressività caricaturale). Madonna con Bambino di Goro si rifà a immagini di placchette smaltate per il panneggio mosso e nell’ondulazione del corpo. La ricca articolazione delle superfici si rifà ai sigilli. La sua opera maggiore è l’arca di san Cerbone (Massa Marittima): si rifà all’oreficeria, infatti sembra (dicono i critici) più un’opera di oreficeria che di scultura. Le decorazioni con girali scolpiti nelle cronici e nei fondi delle storie di san Cerbone derivano dalla decorazioni dell’oreficeria francese, che poi si diffonde nell’oreficeria di Siena. Anche la decorazione con animaletti fantastici è una particolarità nella scultura: presi dall’oreficeria francese e poi senese. I paralleli maggiori con le figure dell’arca si trovano nelle microsculture orafe, come quelle del pastorale del Museo capitolare di Castello o quelle della croce del duomo di Padova. L.Bellosi, Il percorso di Duccio Il primo documento che ricorda D come pittore è del 1278. Nel 1285 ha la commissione pr Madonna Rucellai: dimensioni eccezionali, è il più grande dipinto mobile del ‘200 italiano, infatti è destinato per la chiesa di Santa Maria Novella, che è molto grande (la crescita di Firenze esige edifici grandi). Anche il Crocifisso di Giotto lì infatti è molto grande. Le 2 sono le immagini di culto maggiori della chiesa. La fama di D a FIrenze è dovuta al rapporto con Cimabue e la sua bottega: si vede il legame forte tra i 2 perché Madonna Rucellai è stata considerata fino all’800 opera di Cimabue. Ma ancora nel 1951 un grande storico dell’arte (Pietro Toesca) non ne è convinto. Anche la Flagellazione alla Frick di New York mostra lo stretto legame tra Cimabue e Duccio: Meiss pensava fosse di D, Longhi e Bellosi di Cimabue (per affinità del corpo con quello del crocifisso di santa Croce). Di recente è emersa una tavoletta di Maestà di Cimabue (simile a quella del Louvre), che è dello stesso complesso con la Flagellazione -> di sicuro è di Cimabue. Questi dilemmi mostrano la grande affinità tra C e D. Del resto D è solo uno dei tanti pittori che si rifanno a C, essendo il pittore più importante nel ‘200 nel centro e sud Italia. Madonna Rucellai in confronto alla Maestà del Louvre di C ha più gentilezza, perfezione esecutiva, nonostante si sia ispirato a C: il modellato del manto, con pieghe fitte e fascianti, si spiegano solo col precedente di C. Per certo essa viene prima la Maestà del Louvre (della Madonna Rucellai): il mantello nella testa di Maria si articola in pieghe concentriche e a semicerchio sopra la fronte (tradizione bizantina). Nella Madonna di santa Trinita di C le pieghe sono molto più verticali e provocano delle creste che modificano la profilatura della testa (più naturalezza). Madonna Rucellai ha le pieghe verticali ma non ci sono le creste, sta quindi a cavallo tra le 2. Anche le novità gotiche della M Rucellai non ci sono in C del Louvre. D non è andato a Parigi: il gotico lo conosce tramite le decorazioni di Assisi di pittori oltremontani e il crocifisso con scene di pittore oltremontano a santa Maria Novella. E’ a Siena che si elaborano le prime idee figurative gotiche (città avamposto del gotico in Italia): si vede nell’oreficeria e nello smalto (invenzione di smalto traslucido e adozione di modelli gotici). Il cfr. tra gli smalti contemporanei a D mostra che D è molto più filo bizantino che gotico, a causa della formazione con C. L’aspetto filo bizantino non lascerà mai D, come per C. Solo con Simone M la pittura diventa gotica. La commissione della M Rucellai arriva grazie alla decorazione della cappella di san Gregorio a santa Maria Novella. Nel ‘900 si sono tolti gli affreschi del ‘300 (perché passata in mano ai Bardi) e barocchi, mostrando la decorazione del ‘200. Meglio conservate sono le 2 lunette delle pareti laterali con San Gregorio in trono tra 2 accoliti e Eterno in trono tra 2 angeli. Sono a secco, il colore è quasi del tutto caduto a mostrare il disegno. La prima lunetta è meno conservata; mentre la seconda mostra il trono esile ma solido, l’eleganza e allungamento delle linee delle figure. Un angelo ha il volto dolce, un altro ha una veste leggera e ritmica -> elementi che mostrano che è opera di D, non di C. La pittura fiorentina dell’epoca è quindi influenzata non solo da C, ma anche da D, non si spiegano altrimenti opere come gli affreschi della basilica sup di Assisi (es Crocifissione) che sono molto più accurati delle opere di C. D da alla pittura fiorentina un influsso senese. C stesso lo subisce: Madonna di santa Trinita è più gentile delle precedenti, inoltre negli affreschi di Assisi suoi (nella navata con le storie di Isacco) si vede una dolcezza e finezza di modellato che derivano da D. Madonna Gualino è la più antica opera conosciuta di D: simile nell’iconografia e tipologia alla Madonna della chiesa dei servi di Bologna di C. Entrambe fanno il manto sulla testa di maria ancora con pieghe semicircolari. La MGualino ha il volto cimabuesco, inoltre il nimbo è decorato con motivi tipici di C, i “fiori di C”. Essa va in direzione della pittura senese contemporanea per la fluidità del panneggio e i colori preziosi (es lapis). Il volto del Bambino si ritrova identico in molte opere di D. Ha un pessimo stato di conservazione, perché è stata ridipinta nel ‘500. Si diceva che provenisse da un monastero vicino Firenze, fu acquistata da R. Gualino e poi dalla Galleria Sabauda. L’attribuzione era a Cimabue, solo Longhi, Bellosi e altri la attribuivano a D. Fu eseguita a Firenze perché ha forti affinità con C -> D ha molti contatti precoci con Firenze. Il crocifisso Odescalchi a Bracciano è di D, nel tempo ha subito perdite ma restano la figura e parte della croce blu (lapis); la figura è molto delicata e c’è un fine chiaroscuro; l’incarnato è rosa avorio non verdaccio; importante è che qui Cristo è raffigurato vivo (perché la committenza è romana e lì si usa così). La modellazione chiaroscurale è simile a quella di C ma più raffinata e accurata, uguale a quella di Madonna Rucellai. Non ci sono influssi gotici. A. Bagnoli fa crf. tra la testa di Cristo nel crocifisso e nel Seppellimento della Vergine della vetrata e dice che sono uguali; anche nella Maestà alcune fisionomie ricordano il crocifisso. Madonna di Crevole è stata fatta prima di M Rucellai perché non ci sono elementi gotici; per iconografia è simile a Madonna di Castelfiorentino (stesso gesto Bambino). Questi 2 sono contemporanei. Anche Madonna dei Francescani ha meno elementi gotici di M Rucellai, quindi è anteriore; iconografia è mediorientale, le mani artigliate e il volto un po’ accigliato sono cimabueschi; il Bambino invece è del tutto duccesco (mantello e gamba sx indietro). Lo smontaggio della vetrata del duomo è stata una rivelazione, perché la grande altezza in cui si trovava non ne permetteva uno studio. Fu Enzo Carli a dire che è opera di D: ha fatto i cartoni e in qualche parte eseguito. Prima la vetrata era attribuita a Iacopo di Castello e riferita a metà ‘300. Dallo studio si è confermato che D è l’autore. L’incoronazione della Vergine è risultata ripassata nei contorni delle figure, la parte più originale è il Seppellimento della Vergine, dove si vede bene la grisaglia (fatta a punta di pennello). A grisaglia sono fatte anche parti che di solito sono con la riga di piombo per essere meglio visibili. La novità è che per la prima volta i troni sono architettonici, in marmo (prima lignei, bizantini): si vede nell’incoronazione e nei 4 evangelisti. Questo dimostra che D è venuto in contatto con le idee del giovane Giotto a Firenze. Maestà di Berna: trono marmoreo; l’attribuzione a D non è sicura, perché le teste di Maria e Bambino sono poco conservate (però le teste degli angeli sono assimilabili a quelle di altre opere di D). Novità (da Giotto): fonte di luce unitaria (assente in M Rucellai), ma le novità gotiche non sono evidenti e l’allungamento degli angeli è bizantino. Maestà di Badia a Isola: trono marmoreo, Carli diceva che è di D in realtà è di un suo seguace (Maestro di Badia) -> la pittura di D si afferma a Siena in modo così forte che tutti i giovani pittori lo vogliono imitare (anche Segna di Bonaventura). 4 dipinti che mostrano l’evoluzione di D dagli influssi di C a quelli di G: 1. trittico di Budapest (Madonna con B, Stimmate di san Fra e crocifissione): gentilezza tipica di D 2. Crocifissione della pinacoteca di Siena: il corpo di Cristo fa una curva innaturale 3. trittico del Fogg Art Museum di Cambridge (Madonna con B, angeli, flagellazione, crocifissione, stimmate, predica agli uccelli): corpo di Cristo innaturale curva, trono ligneo 4. tabernacolo a sportelli di Oxford (Madonna con B, angeli, crocifissione, stimmate): trono architettonico, corpo di Cristo naturale (novità Giotto) Madonna delle 2 porte: affrescata nelle mura di Siena, era attribuita da Stabblebina al Maestro dell’affresco di Casole, il restauro mostra invece che è quasi opera di Giotto. Infatti è simile agli affreschi della bottega di Giotto nella b.superiore a Assisi, in particolare nell’Ascensione della controfacciata: uguali sono la pienezza chiaroscurale nel volto, palpebre inferiori gonfie, spigolo vivo della canna nasale, l’aggetto luminoso dello zigomo. La veste del Bambino, con le pieghe lunghe e taglienti è simile a quella di Isacco -> Giotto è stato a Siena. Le 3 tavole con Flagellazione, Crocifissione e Deposizione al Museo delle pie disposizioni di Siena: di D, formavano un trittico orizzontale. Cristo nella crocifissione ha un chiaroscuro e corruccio del volto tipico di D; nella Deposizione ci sono le patetiche espressioni e le labbra sporgenti. Se si considera il chiaroscuro trasparente di data al 1295 ca. Nelle opere successive c’è un cambiamento, inizia una seconda fase di D: le figure sono più regolari e normalizzate rispetto alle stilizzazioni, il colore e chiaroscuro si fa coprente. Compare un motivo nuovo, inventato da D e che si diffonde subito: la testa di Maria ha un velo sotto il mantello. Si vede nelle prime opere di D della seconda fase: Madonna di Perugia e la Madonna al centro del trittico di Londra. Negli angeli si vede ancora il chiaroscuro metallico, arcaico; ma le pieghe della Madonna e Bambino di Perugia hanno una nuova consistenza, scultorea-> nuova pittura del ‘300. Nel trittico di Londra il velo bianco a pieghe fitte è tirato dal Bambino. L’altarolo portatile a sportelli della collezione della regina d’Inghilterra: D per la prima volta conferma il rapporto tra S e gli orafi, e probabilmente con Guccio (comune interesse per gotico). Si pensa che i punzoni usati (anche a Assisi) fossero creati con l’aiuto di un orafo. L’uso di stampini in un affresco (in aureole e fondi) rimane un caso eccezionale nel ‘300. Struttura: la Maestà ha una struttura centralizzata, secondo modello di Giotto. Inizia con la cornice in alto a dx, poi si procede con la scena di Maestà (il baldacchino è la scatola prospettica nella quale si svolge la scena). I decori vegetali nella cornice e le specchiature marmoree della balza sono idee giottesche della cappella della Maddalena. La Maestà è un’opera lunga, che mostra lo sviluppo di S, il quale si rifà sia da Giotto sia dal gotico (naturalismo, elementi eleganti e sontuosi). L’architettura segue la razionalità giottesca; mentre le figure nella cornice sopra sono severe, attingono all’espressività di Duccio e alle figure gotiche (viste a Assisi)-> Mosè, Isacco, Giacobbe e Giovanni evangelista hanno barbe e capelli sinuose (come quelle di Guccio e gotiche). I tratti fisionomici e il chiaroscuro sono fortemente marcati. Santi e angeli attorno a Maria non hanno invece le arcaiche sigle fisionomiche, dipinti con una tessitura filamentosa e i capelli-sopracciglia descritti con cura. Questi volti sono più veri, ma hanno le stesse strutture facciali dei volti nei tondi in alto: sguardi seri e labbra chiuse mostrano la discendenza da Duccio. Sono omaggi a D i volti degli arcangeli Gabriele e Michele, sant’Agnese e Maddalena (uguale alla Maria di D). Nell’insieme S ha saputo dare alle figure volumi saldi come Giotto, panneggi fluenti e mani in posizioni eleganti. La prospettiva centrale del trono e il sorriso dell’angelo a dx del trono si rifanno alla Maestà di Ognissanti di G. La stesura è in 2 tappe, si vede dalla diversa cromia (della veste angelo sx trono): la prima comprende la scena, la seconda la porzione in basso (ultimi tondi ai lati e sotto la base del trono). I tondi della seconda parte mostrano una volumetria e spazialità assente prima: san Gregorio si inserisce nello spazio reale, oltre il tondo grazie al libro che fuoriesce e alla tiara. Lo stesso per san Girolamo, Vecchio e Nuovo T e sant’Agostino. Queste parti rimandano agli affreschi a Assisi di S, dove ci sono gli stessi effetti (es san Giorgio che fa sporgere la testa del drago). La lacuna dopo le lettere “vol…” nell’iscrizione con la data ha portato a diverse ipotesi: se c’era scritto “volte era”, allora l’opera era finita solo nel 1316; più probabile ci fosse scritto “volgea” e quindi l’anno di conclusione è il 1315. Era il 1315, a metà di giugno. A un certo punto S alterna il lavoro della Maestà con la cappella di san Martino Assisi: nel 1312 gli si affida la decorazione. Dopo aver lavorato a Assisi S torna a Siena prima del giugno 1315. Ci sono concordanze di stile tra la parte bassa Maestà e la cappella: a Assisi S recepisce la pittura dolce e unita di Giotto e la riporta nella Maestà (e nella cappella) -> la naturalezza, gli scorci, i colori intensi e vari, il nuovo senso dello spazio. S riprende da G lo scorcio di testa piegata in avanti (angelo sopra l’allegoria della povertà), si vede per es nella Morte di san Martino. La figura di Antico e Nuovo T riprende G per la doppia testa, l’aureola poligonale e le mani che si protendono fuori dal tondo. Anche la tecnica esecutiva tra la parte sopra e sotto Maestà mostra la differenza: nella parte sotto S usa il mezzo fresco (non affresco) e ottiene una pittura più fusa, con successive velature a tempera sopra una pittura monocroma a fresco (es san Marco). E’ un modo di adeguarsi alla pittura fusa e morbida di G. Nella parte alta si dipingeva per sottili filamenti i volti, infatti non c’era una vera carnagione. Nella parte finale S ha ancora più volontà di fare una pittura polimaterica. Solo nella pittura gotica troviamo qualcosa di simile: es il retablo (pala) dell’abbazia di Westminster a Londra ha vetri colorati e cammei oltre alla pittura. S vuole rendere la pittura vera: il libro di san Girolamo in latino è leggibile e reso su carta vera con inchiostro. Il cartiglio del Bambino era all’inizio scritto a affresco, poi con inchiostro su pergamena vera. La sospensione della Maestà forse era anche necessaria per lavori di tamponatura di aperture. Alcuni errori nella parte bassa mostrano che è passato del tempo: i tralci vegetali laterali non rispettano la sequenza decorativa. Iscrizioni e sigilli mostrano che la committenza è pubblica. La striscia con la data è chiusa da 2 sigilli, quello a dx ha la scritta rifatta nell’800, quello a sx mostra la Madonna in trono che offre il globo al Bambino, 2 angeli e un drago. Le 2 iscrizioni su finto porfido sono fatte grazie all’impressione di stampini; sono poste in zone ben visibili. Si presume che accanto alla prima iscrizione (quella con la data) ce ne fosse un’altra con i committenti, come si usava per gli affreschi civici. La seconda iscrizione (con la firma) è stato trascritto nell’800 da Ramboux, è l’incipit di un’altra poesia in volgare, forse un’invocazione alla Madonna (simile a quella di D nel trono Maestà), che terminava sotto il sigillo col leone. La Maestà di D e di S si assomigliano per iconografia, ma i significati sono diversi: quella di D ha senso religioso e è lontana dal rapporto col pubblico; quella di S ha senso etico-politico e cerca il contatto col pubblico, per trasmettere i suoi messaggi -> è necessario che la scena sia di forte efficacia e verosimile: la ricchezza decorativa, la razionalità spaziale riescono nello scopo. Il pubblico si trova davanti una reale scena di corte, dove la balza e la cornice sembrano il limite di una finestra dietro la quale si apre la scena. Maria è in un trono dorato, con corona, sotto baldacchino: sembra una regina. Le scritte sono parte della rappresentazione. La risposta della Madonna alle suppliche dei 4 santi è in volgare: è il nucleo del messaggio che S vuole dare-> è un’esortazione al buon governo, al rispetto della giustizia di coloro che si riuniscono nella sala. E’ anche un’allusione alla situazione politica: un’autolegittimazione del governo dei Nove, che doveva lottare contro le famiglie aristocratiche e gli strati bassi. L’invettiva contro i potenti (se i potenti ai debilfienmoelsti) si riferisce ai compiti del Capitano del Popolo: proprio negli anni di esecuzione della Maestà il consiglio ha conferito più poteri al capitano per difendere i deboli dai soprusi dei potenti. Questa è l’iscrizione più importante dell’opera. Nel 1315 c’era solo la ResponsioVirginis? E l’altra iscrizione sotto al trono? E’ su fondo nero e lettere d’oro. Le analisi filologiche hanno aiutato a stabilire la data. Il metro dei versi è lo stesso della Commedia di Dante. Nelle scritte della Maestà ci sono tracce dell’Inferno, del Purgatorio (termini che si ripetono) e del Paradiso (per la scritta sotto il trono). Ma il Paradiso non era stato scritto nel 1315, quindi gli studiosi in passato hanno pensato che entrambe le 2 scritte fossero del 1321. Brugnolo successivamento invece propone diversamente: nell’iscrizione Responso Virginis non ci sono segnali di rifacimento, pensa quindi che sia fatta nel 1315. L’altra scritta con gli ultravioletti mostra che la zona centrale è rovinata, mentre le parti esterne no. La parte centrale è quindi stata rifatta, raschiato un testo precedente del 1315: in base alla tecnica (a tempera la campitura nera, a secco) è del 1321. Nel 1318 c’è la sommossa dei carnaioli: i carnaioli, i fabbri, i notai e i giudici vogliono abbattere il governo dei Nove. In ottobre l’attacco al palazzo venne represso, e ne seguirono emanazioni punitive. Il popolo minuto e i magnati erano esclusi dal governo dei Nove, e in un’assemblea si discusse se fosse giusto continuare così e ognuno potè dire quale fosse per lui la migliore forma di governo. Alla fine il governo dei Nove riesce a stabilire la legittimità del loro regime, e che grazie a loro c’era stata pace. Per riaffermare il loro potere usarono anche la Maestà: la scritta del 1321 è dovuta alla sommossa. Il verso “chi per proprio stato” si riferisce all’interesse di parte che hanno avuto i carnaioli. Il penultimo verso si riferisce alle azioni dei rivoltosi. Questa scritta completa quindi l’altra più in basso, intimando di subordinare l’interesse privato a quello della comunità (stesso messaggio di A Lorenzetti). Chi parla è Maria. Il governo chiede quindi a S un aggiornamento del messaggio dell’opera nel 1321, perché la considerazione dei dipinti civici è la stessa di un documento ufficiale. Il nuovo testo del 1321 si rifà negli “angelichi fioretti” alle rose e gigli offerti dagli angeli a Maria. Nel 1315 la scritta riportava le suppliche dei santi, ma dopo la cancellatura nel 21 S è costretto a riportare le suppliche in nuovi cartigli in volgare posti nelle mani dei 4 protettori. In 3 santi S deve adattare apposta le mani; mentre in san Crescenzo distrusse parte della mano sx ma lascia 4 dita (coperte dal cartiglio), la dx lungo il fianco è cancellata da tempera e rifatta nel petto (in atto di commozione). Ora i santi sembrano dei sudditi inginocchiati alla loro regina, presentando suppliche. Vengono rifatti: le teste di Maria, Bambino, 2 sante ai lati, 2 angeli inginocchiati, sant’Ansano e Crescenzo, quasi tutte le loro mani, i piedi del Bambino. Nessun altra parte è toccata. I volti eseguiti nel 21 sono diversi da quelli della prima fase (si rifà a D, al senso plastico di G, forte espressività): prima la base era terra d’ombra naturale, ora è terra verde e c’è ampio uso di rosso e bianco. Sono lo sviluppo delle dolci fisionomie degli affreschi di Assisi, e c’è molta eleganza. San Crescenzio e sant’Ansano secondo tradizione sono simili, quindi quando S ha rifatto la testa di Crescenzo ha dovuto rifare anche l’altra. Il degrado dell’opera mostra le nuove teste (più piccole, perché gotiche) incorniciate dal disegno delle precedenti, a causa della perdita della doratura che li nascondeva. In alcune teste sono aggiornati elementi di moda (capelli di Crescenzio, il velo originale della Vergine poi tolto). la nuova versione è più vera e sofisticata, simula gli aspetti materici e fa una corona di tipo angioino per Maria. Andrew Martindale ha sostenuto che le parti rifatte a affresco e tempera del 21 sono pentimenti eseguiti entro il 1315, e sono modelli per la Maestà di Lippo Memmi nel palazzo pubblico di san Gimignano nel 1317 (falso). La Maestà di S del 1315 è l’esempio per la Maestà di L, così come la Maestà di Massa Marittima era stata voluta dai signori Nove per la cattedrale di san Cerbone come replica della Maestà di D. Commissionata da Nello di Mino Tolomei, podestà e capitano del popolo a san Gimignano. Memmo di Filippuccio era stato pittore civico del posto, ora è Lippo. Il significato della Maestà di L è diverso da quello di S: non c’è nessun dialogo tra santi e Maria, e i santi patroni ai piedi di Maria sono sostituiti dal committente inginocchiato (vestito con una guarnacca rossa foderata di vaio). Davanti a angeli ci sono coppie di santi a fianco di Maria. San Niccolò assolve la commendatioanimae di Nello, il quale non è più piccolo delle figure sante (no proporzione gerarchica, come G e S). L’opera ha valore civico, ma il messaggio si riduce al cartiglio del Bambino. Il fatto che ci sia Nello riporta alle immagini votive e a credere Nello persona rilevante. Lo stile mostra un rapporto stretto con la Maestà di S, un contatto diretto come apprendista di bottega. Solo così ha potuto avere una fedeltà così alta: simula gli aspetti polimaterici e le decorazioni. Il fermaglio della veste di Maria era di vero oro, mentre il piviale di san Gimignano ha mandorle dorate come quelle della veste di santa Agnese di S; i rombi delle mitrie dei santi vescovi ripropongono in pittura i vetri nel trono della Madonna di S. Anche i punzoni nelle aureole sono uguali. Le 2 sante in piedi ai lati di Maria riprendono quelle di S, i volti sono però diversi (quelle di L sono pallide e hanno capelli lunghi) perché le sante senesi hanno i volti rifatti nel 21. Anche la tecnica pittorica riprende S: le barbe e le capigliature delle figure di L sono rese con sottili filamenti come negli apostoli di S. Anche L alterna la campitura a tempera che completa la preparazione a fresco e solo affresco (nei volti). Negli incarnati ci sono eccezioni, come in S: volti e mani di Maria, Bambino e Nello sono a mezzo fresco (usato da S nel giugno 1315 per dare più tenerezza e verità nei tondi della cornice sotto): solo il disegno preparatorio è a affresco, il resto a tempera. Nel 1317 S fa la pala di san Ludovico da Tolosa: le fattezze delle figure sono veritiere, così come quelle di Nello, Roberto è il precedente per il ritratto di Nello, mentre Ludovico lo è per la Madonna (infatti entrambi hanno posa frontale e testa eretta). Grazie alla collaborazione con S, L ha una veloce crescita. Prima della Maestà ha fatto altre opere, legate allo stile del padre ma aperte alle novità di S. Fa l’affresco di santa Caterina d’Alessandria sul pilastro dell’entrata della Collegiata di san Gimignano: la santa ha il volto che si rifà alla Maestà di S del 1315. La Madonna del latte è affrescata nella chiesa di sant’Agostino: il trono prospettico si rifà a S e immagina le figure oltre una struttura architettonica. Maria è essenziale come le Madonne memmiane, ma le dita eleganti si rifanno al gotico di S, come anche la testa reclinata. Accanto dipinge Incoronazione della Vergine e due Apostoli: oggi resta poco, anche qui è presente una struttura architettonica, il trono è uguale a quello della Madonna del latte, le aureole sono più elaborate. L dipinge anche una serie di Santi in un parete: un’architettura inquadra un santo pellegrino e una Maddalena, lei ha volto delicato, la montagna dietro è morbida. Lo stesso stampino usato nell’opera precedente qui si ritrova -> in questi 2 affreschi di sant’Agostino L usa per la prima volta i punzoni che anche S aveva usato, e che anche lui userà nella Maestà (affreschi sono precedenti). Queste sono tutte opere legate alla Maestà di S. Nella Maestà di S, gli incarnati a fresco rifatti sono del 1321: abbandono delle sigle stilizzate e linee fluenti li differenziano dai volti del 1315. I tondi della cornice in alto con i tratti gotici e arcaici permettono di attribuire a S 2 dipinti su tavola dove ci sono i caratteri ducceschi e intensità espressiva giottesca: ● Madonna con Bambino n.583 di Siena: il volto del Bambino è dello stesso livello della Maestà ● Madonna della misericordia di Vertine: Lei ricorda i tondi della cornice sopra Maestà; anche i devoti sotto al manto ricordano la Maestà (le barbe dei devoti sono simili a quelle degli apostoli Giovanni e Matteo della Maestà) Esse hanno stesso stile nei volti, stesso punzone per le aureole, stessi motivi decorativi. Le Marie ricordano le figure della Maestà per i volti solidi e teneri. Queste 2 tavole mostrano l’inizio dell’attività di S, ma ormai S può competere col suo maestro D. sua costruzione è segno che i senesi sanno che l’assedio durerà a lungo (stesso segno sono le vigne). Il linguaggio della cronaca e dell’affresco sono quindi simili per simbologia. Anche la palizzata che cinge castello, battifolle e accampamenti è citata sia da Agnolo sia nel dipinto. La lunghezza dell’assedio ha portato a un costo molto alto, ribadito nel consiglio generale. Il battifolle ha funzioni sia offensive che difensive: serve da riparo per i senesi dall’esercito imperiale. La ribellione di Montemassi nel 1327 a Siena era avvenuta contemporaneamente al passaggio in Italia di Ludovico il Bavaro. Quindi l’assedio senese è conseguenza del conflitto tra comune e signori feudali sul possesso dei terreni. Il battifolle è quindi segno della vittoria ghibellina contro l’imperatore (guelfo). A molti studiosi non torna il fatto che Guidoriccio sia rappresentato da solo in modo glorioso. Lui era capitano di guerra di Siena, ruolo più elevato di semplice comandante. Comportava la funzione di giudice (per i ribelli, per chi parla contro il comune di Siena in pubblico), un ufficio personale e molti dipendenti-> è il supremo protettore della città, e così è rappresentato nell’affresco (che quindi celebra lui ma anche il suo ruolo). Lui è presente anche nella compra di Sassoforte: lui doveva eliminare ogni compratore concorrente. La sua importanza è dimostrata dalla lunghezza del suo incarico, ma anche dal cfr. del suo stipendio e quello del podestà (molto più basso). Guidoriccio è collegato con tutto il ciclo dei castelli: l’attacco senese contro i conti di Santa Fiora è nel 1331, a agosto cadono Scansano-Castel del Piano-Arcidosso e Santa Fiora. Arcidosso è dato dai conti a Guidoriccio. Poco dopo SM è qui inviato a vedere i castelli. Prima di incaricare S di dipingere i castelli il comune vuole essere certo di possererli, e aspetta il trattato di pace. Nel 1331 S affresca solo 2 dei castelli, perché Scansano era stato restituito ai conti. Se si trovassero nuovi affreschi, quali elementi ci permetterebbero di riconoscere Arcidosso? Si sa da Agnolo che c’erano nell’assedio 2 battifolle e un passaggio sotterraneo, necessario per espugnare un castello così imponente, circondato da mura. I borghi dipinti nel tempo hanno subito trasformazioni e rifacimenti, quindi è difficile confrontarli con gli affreschi. L’affresco di D si è supposto rappresenti un castello, e essendo il dipinto precedente a quello di Guidoriccio l’unica possibile soluzione in base ai documenti è che sia Giuncarico. Durante la sottomissione del castello Mino de Tolomei voleva includere nel contratto il palazzo e gli altri beni del signore feudale -> Siena vuole espandere i suoi possedimenti, contrattando direttamente col popolo, escludendo il signore feudale. Nella deliberazione del marzo 1314 si scrive che il dipinto col castello non deve essere rovinato: un dipinto come un documento non deve essere rovinato, perché testimonia un possesso. Il possesso è sempre all’interno del conflitto tra comune e privilegi feudali (Arrigo VII voleva liberare i territori usurpati ai feudatari e aveva scritto a Siena una lettera di minaccia nel 1312). Nel 1312 alla spedizione dell’imperatore in Italia partecipano anche i conti di SAnta Fiora e di Giuncarico. Lui muore nel 1313. Ci volle molto tempo per togliere i privilegi feudali ai conti, e la sottomissione di Giuncarico è una vittoria. Non è solo polemica antimperiale, perché i Nove avevano giurato di contribuire all’estensione dei territori di Siena. Il nome dell’artista che esegue il dipinto di Giuncarico non c’è perché i documenti relativi sono scomparsi. Giuncarico viene distrutta dopo la conquista, anche per questo gli abitanti aprono le porte ai nemici di Siena (un parente del signore feudale e un bandito da Siena): Siena è arrabbiata. Giuncarico nel 1330 era retto da Gaddo di conte d’Elci, che aveva ricevuto dall’imperatore i diritti feudali, ma con la ritirata dell'imperatore si deve di nuovo sottomettere a Siena nel 1330. Nel 1314 la sottomissione a Siena è spontanea: come si dice dai documenti e come si vede dal dipinto (le porte spalancate e la posizione eretta della figura di de, il sindaco di Giuncarico). Siamo sicuri sia il sindaco dalla spada e dallallocutio. A sx erano rappresentati i Nove e il podestà. Giuncarico oggi non si può paragonare alla Giuncarico dell’affresco, ma in entrambe si vede la collina ripida su cui sorse. La nuova rocca sorta nel 1314 era sopra della pieve, proprio la pieve è la più importante conferma topografica: l’abside è rivolta verso il ripido pendio. All’epoca non aveva una cinta di mura, solo una palizzata, come nell’affresco. Paolo Cammarosano ritiene che il castello sia Sticciano: dal punto di vista topografico e cronologico può essere, ma la pieve di Sticciano è orientata in senso opposto a quella dell’affresco. Inoltre Sticciano dal 1314 non rientra nel programma degli affreschi perché non è dominio di Siena, solo suo patronato (fino al 1324). La rappresentazione iconografica della cerimonia di un patronato e di un dominio è diversa: infatti nel 1324 i signori in ginocchio chiesero la cittadinanza senese, e sarebbero stati rappresentati così. In un documento fiorentino si stabilisce quali temi si possano rappresentare negli edifici pubblici: religiosi, delle conquiste, invece stemmi e insegne personali vietati. Molti erano i castelli dipinti negli edifici pubblici, i documenti che lo provano sono però pochi. Uno studioso ne cita 2: uno parla di affreschi nel Bargello del castello di Montaccianico e di Pistoia (fatti nel 1306); l’altro parla del castello di Pulicciano (si pensa fosse nel Bargello, sempre nel 1306). Quidni a Firenze prima che a Siena si rappresentano i castelli, e Siena prende spunto da Firenze. Luciano Bellosi – Castrum pingatur in palatio 2 È stato recuperato un affresco nella sala del Mappamondo, tagliato da uno dei Santi dipinti nel 1529- 30 e danneggiato dalle abrasioni circolari provocate dallo sfregamento sulla parete del Mappamondo di AL collocato le 1345. Nonostante questo, è un affresco di qualità altissima, tappa fondamentale del ritratto topografico sviluppatosi a Siena nel Trecento. Vicino ad un castello ci sono due figure stanti, diverse da Guidoriccio: questo fa pensare che i ritratti dei castelli conquistati da Siena avevano una diversa figurazione. È difficile però scoprire l’identità delle due persone, perché le fonti ci danno solo i nomi dei castelli e non delle figure rappresentate. Sappiamo che quello nell’affresco è il castello di Giuncarico, i cui cittadini si sottomisero a Siena nel marzo del 1314, e che in quella occasione si decise di ritrarre il castello nella sala. Non si sa però chi l’abbia fatto; si nota qualche elemento più arcaico rispetto al Guidoriccio: i personaggi sono del tutto fuori scala rispetto al castello, sono posti nello stesso piano, mentre Guidoriccio sta in primo piano e il castello sullo sfondo. Un paesaggio di questo tipo rimanda al tempo di Duccio, tra 1308 e 1311, come la “Tentazione di Cristo sul monte” di Duccio della collezione Frick di NY, in cui i personaggi e il paesaggio sono due vocaboli separati di una stessa storia. Un altro elemento arcaico sono le rocce scheggiate del paesaggio (in G il paesaggio è più tenero e friabile), che rimandano alla regola giottesca di ritrarre al naturale una pietra per farla figurare come una montagna. Le rocce richiamano le storie della Maestà di Duccio, sia per come sono scheggiate sia perché sono dipinte a pennellate bavose. Questo affresco possiede una cura descrittiva, una precisione nella resa dei dettagli che sembra una miniatura ingrandita. I caseggiati sono più poveri rispetto alla Maestà di Duccio, ma si usa lo stesso intonaco luminoso o colorato, le architetture sono scandite dalle stesse cornici snelle e chiare, ci sono gli stessi colpi di luce e la stessa attenzione ai singoli dettagli. La staccionata sembra vera, in alcuni punti è rappresentata in scorcio e a rendere la veridicità contribuisce anche il gioco di variazioni di intensità luminosa a seconda dell’incidenza della luce che la tocca. È lo stesso gioco che si trova nella Maestà: la luce crea continue sfaccettature, rendendo le cose molto dettagliate. Il castello è dipinto come se fosse illuminato dalla luce che viene dalle finestre della sala, collocate a sinistra; il pittore è stato attento a considerare le condizioni luminose reali, calcolando anche la luminosità che diminuisce via via che ci si allontana dalle finestre (verso destra cala l’intensità luminosa). La luce delicata si identifica con la spaziosità, anche se qui bisogna ammettere che rispetto alla Maestà, il pittore ha molto più spazio a disposizione e viene cronologicamente dopo di essa, per questo motivo possono essere migliorate le capacità tecnico-pittoriche. Inoltre, qui il pittore si trovava a fare i conti con un paesaggio vero, che doveva essere riconoscibile ed identificabile. Anche per questo le architetture sono più povere; le figure sulla sx hanno una qualità altissima, una caratterizzazione profana e laica, con vesti lunghe, copricapi dalle falde circolari di pelliccia bianca su cuffie quasi trasparenti. Quello a dx è un giovane con un abito verde, è grassottello, si nota la pancia gonfia stretta tra la cintura della veste e il cinturone della spada; quello a sx è anziano, asciutto, regge i guanti simbolo di autorità e indossa una veste lunga, senza cintura, scura, con pieghe morbide. Entrambi sono in linea con i modi figurativi ducceschi, ma bisogna non considerare il loro aspetto laico, perché non abbiamo niente di confrontabile con le opere di Duccio arrivate fino a noi, essendo tutte di carattere sacro; i profili delle due figure – mento rilevato, naso adunco, sguardo pungente – ricordano i profili di Duccio, caratterizzate da naso pronunciato, bocca stretta, labbra carnose, mento tondo e mascella tondeggiante. Il braccio alzato del giovane ha ancora qualcosa di rigido e la mano con le dita raccolte e il palmo incavato la ritroviamo continuamente in D, come anche la sua mano sx che tiene l’elsa della spada facendole girare intorno gli snodi delle dita (es. nella Derisione di Cristo nella Maestà). Il vecchio che regge il guanto ha un’inclinazione del polso e la curva del pollice di carattere duecentesco. Anche le loro vesti, pur di carattere laico, trovano riscontro nella Maestà: i colori, le pieghe rade e sottili ma rilevate come da scanalature, come negli Apostoli che ascoltano il Discorso sui monti di Galilea. A Bellosi sembra evidente il rapporto tra questo affresco e la tarda attività di Duccio, ma di quest’ultimo non si conoscono affreschi né abbiamo un documento che ne attesti la conoscenza. Lo conosciamo come pittore di storie religiose su tavola, ma non possiamo pensare seriamente che un pittore non conoscesse o non sapesse fare un affresco, come non possiamo pensare che abbia dipinto solo soggetti religiosi, questa è un’immagine approssimativa per difetto. Tuttavia, Carli attribuisce l’affresco a Memmo di Filippuccio, confrontandolo con gli affreschi del Palazzo Pubblico di San Gimignano. Ma l’affresco non ha la stessa qualità, le figure di Memmo sono più squadrate, primordiali e ruvide; anche le mani non sono morbide ed eleganti come quelle dell’affresco senese. Il Brandi propone che si tratti di un’opera giovanile di Pietro Lorenzetti, ma non può essere dato che l’affresco è stato poi coperto da suo fratello. Inoltre, gli affreschi di Pietro ad Assisi rivelano profili più netti e taglienti, una cromia più vivace, trasparente e smaltata. Federico Zeri lo attribuisce a SM e lo data al 1330, ma l’abbigliamento delle due figure fa capire che la datazione non può andare oltre il 1320: dopo di questa data i copricapi compatti con in vista la cuffia lasciano il posto a copricapi con foggia e becchetto; le maniche larghe dalle spalle ai gomiti diventano da qui in poi aderenti lungo gli avambracci. Due lastre tombali risalenti al 1310-14 provenienti da Roma sono un termine di confronto. Il Guidoriccio è vestito alla moda del 1330: il suo collare è più alto e più largo e il suo copricapo è già sviluppato; gli abiti lo distinguono come un uomo ricco. C’è un altro elemento che ci fa capire che Guido è stato dipinto prima degli inizi degli anni 40: in quest’epoca per l’uomo si passa dall’abito lungo ad uno stretto e corto, diviso tra cotta e calze e Guido ha una tunica lunga. Qualcuno potrebbe ribattere che si tratta di un caso di volontà storicizzante, ma di questo abbiamo pochissimi esempi di personaggi famosi, come per Dante, che però già dal 400 risulta difficile da ritrarre con le sue vesti. L’intonaco di Guido si posa sopra quello di Giuncarico e questo prova il fatto che quello più alto è stato dipinto dopo. Durante il restauro però si è notato che in un angolo della parete del Guido e di quella adiacente con l’affresco di Lippo Vanni del 1373 l’intonaco di quest’ultimo va sotto quello di Guido: ma questo può essere a seguito degli svariati terremoti che hanno colpito Siena, anche perché le due pareti sono solo appoggiate. Oltre a ciò, sul Guido ci sono anche i segni del Mappamondo, presente già dal 1345. Moran ha sollevato dubbi sull’attribuzione a Simone Martini e non è stato del tutto inutile, perché si sono fatte delle indagini che hanno portato alla luce Giuncarico. Durante il restauro si è scoperto che il castello e il monte sulla sx di Guido sono stati completamente rifatti. A riprova della paternità e della datazione di Guido abbiamo i documenti di pagamento a Simone nel 1330, ma anche i resti di Montemassi oggi visibili e la testimonianza dell’importanza della conquista. Per quanto riguarda lo stile, tutto è definito a grandi linee, per tratti molto semplificati, grandiosi e sintetici. Il cavaliere è collocato in primo piano, il castello e il battifolle sullo sfondo, così il rapporto tra figura e paesaggio è credibile, nonostante rimanga ancora simbolico. Lo scorcio di una costruzione merlata è vero, un’allusione alla situazione reale, con il castello sulla sommità e le case arroccate lungo il pendio del versante opposto a quello dipinto nell’affresco. Ancora oggi la parte più alta di Montemassi è rocciosa e per questo non è stata rappresentata la vegetazione, ma roccia tenera. Per avere una situazione simile bisogna ricorrere alle Storie di San Martino ad Assisi, in cui compare la stessa roccia brulla costruita per dolci linee leggere, con macchie scure per rendere l’ombra. Il cavaliere, il paesaggio, il castello e il battifolle sono collocati entro uno spazio visto dal basso, in modo che una cornice taglia una parte della palizzata. Nel volto del Guido ritroviamo le qualità pittoriche dell’artista: abbiamo testimonianze di suoi ritratti di profilo ad Avignone, come quello di Giovanni il Buono del Louvre. Gli occhi sono formati da tanti tratti scuri che indicano le ciglia, il sopracciglio ha un’arcata saliente, tesa che si rastrema verso l’estremità, la guancia si gonfia lievemente, c’è accenno al doppio mento. I tratti del volto sono modellati per teneri gonfiori e ammaccature. Le luci e le ombre si distribuiscono morbidamente, le pennellate sono fluide e la materia grassa è quasi trasparente nelle parti più in luce. È lo stesso effetto di alcune teste di Assisi. I capelli sono resi con pennellate grosse e rapide, che ottengono un effetto morbido e lanoso. Le pennellate irregolari con cui è resa l’ombra sotto la mascella vicino all’orecchio sono quelle che SM usa spesso ad Assisi. C’è un’evoluzione nella rapidità di esecuzione dell’artista: il Guido è vicino al 2º periodo della Maestà. I panneggi sono dolci e lenti, come tutti quelli di SM, che sembrano ondeggiare. Anche il cavallo di Guido ha affinità con i cavalli di SM, come quello nella Divisione del mantello col Verso il 1320 infatti, LM assimilava il suo stile a quello del cognato, ma la sua mano è riconoscibile, in lui manca il ritmo unificatore fra le figure e la concretezza dei gesti, come si vede nella sua Madonna di Santa Maria dei Servi. LM però, ha passione per i particolari, per la ricca decorazione a punzonatura e per l’iscrizione negli orli dei manti. Per questa sua caratteristica ha spesso aiutato SM. Nel trittico degli Uffizi non si riesce a distinguere nella Vergine, nell’Angelo e in Ansano qualcosa di caratteristico dello stile di Lippo; nello stesso anno egli dipinge un dittico, in cui il volto della Vergine è copiato da quello dell’Annunciazione, ma la sua Vergine è così tranquilla che sfiora la sonnolenza e nel volto c’è contrasto tra carnagione scura e colore del naso/labbra. Solo Santa Massima pare spettare per intero a LM; l’unica impronta di SM è nell’altezza della santa. SM infatti tende a dare una struttura organica del corpo sotto le vesti, mentre L fatica a rendere credibili i movimenti delle sue figure: in Massima infatti il piede portante non funziona con il ginocchio modellato sotto le vesti. Ci sono diverse caratteristiche stilistiche di L: lumeggiature accentuate e pieghe profonde del mantello. Sopra di lei c’è il tondo con il profeta Daniele: è di S come tutti gli altri profeti, ma L può avere preso parte alla composizione della figura, accentuando il modellato, che nel cognato di solito è più morbido e sfumato. La firma quindi è presente per Santa Massima, per aver lavorato sui tessuti e le altre parti, punzonate e graffite o satinate, per la decorazione della tavola centrale e per la modellazione di Daniele. Se si ipotizza l’esistenza della predella, possiamo anche supporre la realizzazione di alcune storie di Sant’Ansano. Alcuni hanno sostenuto che a seguito della partenza di SM per Avignone, la doppia firma avrebbe avuto lo scopo di legittimare il passaggio delle consegne della bottega a Lippo. Secondo Boskovits, L avrebbe completato l’altare eseguendo da solo Santa Massima, ma solo lei ha il nimbo a bordi concentrici, tutti gli altri ce lo hanno a raggiera. Lippo, dopo che SM crea il nimbo a raggiera, lo adotta nelle proprie opere (come si vede nell’Assunzione della Vergine), quindi possiamo supporre che lo avrebbe adottato anche per la Santa Massima se fosse stata l’ultima figura eseguita. Possiamo quindi immaginare che Lippo abbia iniziato a lavorare per primo al trittico, indipendentemente; quando Simone ebbe raggiunto la fase della decorazione, Lippo deve aver avuto modo di passare alla collaborazione diretta, a fianco del cognato. Il pagamento del 1333 fa intendere come egli fosse responsabile per la doratura e la decorazione della cornice e possiamo supporre che essa recasse figurine di Santi dipinte da Lippo Memmi. Con l’Annunciazione inizia il periodo di SM che si conclude con le opere per personaggi della curia papale, una fase caratterizzata da un’inversione di tendenza per quanto riguarda lo spazio. La tavoletta con San Ladislao d’Ungheria ha un’impostazione della figura simile al Sant’Ansano del Trittico, ma quale dei due è precedente? Secondo alcuni studiosi viene dopo Ladislao, perché alcuni punzoni sono utilizzati anche nella tavola del 1342 (non c’è scritto ma penso il ritorno di Gesù fanciullo dal Tempio). Ma Ladislao non ha la bellezza sinuosa delle figure del periodo avignonese. L’invenzione di S con una figura colonnare sul suo piedistallo esagonale dovrebbe risalire alla tavoletta di Altomonte, che fu riproposta nel Sant’Ansano. Non può essere una datazione tarda perché la committente originaria sarebbe stata Maria d’Ungheria, madre di Ludovico di Tolosa e Roberto d’Angiò. Lei era l’ultima discendente della casa reale ungherese degli Árpád, era stata la promotrice del culto dei suoi Santi antenati in Italia. La morte della regina nel 1322 costituirebbe un termine ante quem per la tavola di Altomonte. Pochi anni prima di Sant’Ansano, S dipinse una tavola destinata alla tomba-altare del Beato Agostino Novello nella chiesa di Sant’Agostino, un eremita. Il pittore raffigurò le sue virtù con realismo e drammaticità. Si pensa che la tavola sia antecedente al 1329, perché i miracoli rappresentati non corrispondono al catalogo redatto in quell’anno, forse intorno al 1324, per la vicinanza stilistica del Polittico di Orvieto. Nel 1980 fu scoperto un affresco al di sotto il Guidoriccio da Fogliano e alcuni pensano che si tratti della conquista di Arcidosso, uno dei dipinti pagati a SM nel 1331. La Hueck però sostiene che l’affresco risalga al 1314, Bellosi lo riconduce a Duccio, altri a Sm, Pietro Lorenzetti o Memmo di Filippuccio. Per quanto riguarda Guidoriccio, nel 1977 sono stati avanzati dubbi sulla paternità di SM, perché in un punto l’intonaco sovrastava l’affresco di Lippo Vanni: alcuni attribuiscono l’affresco al 1352, anno di morte del condottiero, fatto da Lippo Memmi, ma non è detto che questi fosse ancora in vita. Nel Guidoricco si notano una calma e una vigile padronanza dei mezzi che non si riscontra in LM, mentre validi appaiono i confronti con i dipinti di SM ad Assisi. Il Polzer sostiene che l’esecuzione possa essere avvenuta nel 1328 e questo spiegherebbe l’esecuzione frettolosa, perché lo scopo principale era la glorificazione della potenza militare di Siena nel periodo difficile delle lotte. Nel 1335 SM dipinse due scene nella facciata dell’ospedale di Santa Maria della Scala e quasi contemporanee potrebbero essere le tavolette del Polittico Orsini (Annunciazione, Crocifissione e Deposizione); i punzoni corrispondono a quelli usati nel periodo orvietano e nel Trittico degli Uffizi. Il polittico ha come tema l’annunciazione, ma rappresenta un momento posteriore alla scena del Trittico: l’angelo ha già persuaso la vergine, che è quasi pronta al consenso. Chi era il committente? C’è lo stemma degli Orsini e nella deposizione c’è inginocchiato un cardinale diacono. Se le tavole fossero state dipinte ad Avignone, potremmo pensare al cardinale Napoleone Orsini, ma è difficile credere che egli abbia richiesto il polittico per lettera. Le tavolette furono eseguite a Siena e il committente potrebbe essere Giovanni Gaetani degli Orsini, dal 1316 cardinale diacono di San Teodoro, che soggiornò a Siena nel 1327 (era legato del papa in Toscana e in terra di Roma). Il polittico pone l’accento in tutte le scene della Passione sulla disperazione della Maddalena, l’apostolo Giovanni era il santo patrono del cardinale e ha qui un ruolo preminente. Questo committente indusse SM a lasciare Siena: era in grado di promettergli commissioni da parte dei cardinali italiani suoi parenti, da Napoleone Orsini e Jacopo Stefaneschi. La prima opera di S ad Avignone fu il ritratto di Laura, non conservato; fece poi la miniatura virgiliana della Biblioteca Ambrosiana, dipinta dopo il ritrovamento del codice. Egli dipinse anche un componimento di Stefaneschi. Dipinse anche la decorazione murale del portico della Cattedrale di Avignone prima del 1341, per volere di Stefaneschi, che fu staccato nel 1960. Ora si possono ammirare le sinopie. Gabriella Piccinni – Siena negli anni di Ambrogio La peste del 1348 rappresenta per Siena lo spartiacque tra due mondi. Nel 1355 si interviene perché l’abbattimento di edifici pericolanti guasta la bellezza della città; questo principio estetico è espresso nello statuto del Comune di Siena, che deve rilasciare una autorizzazione per l’abbattimento degli edifici. L’immagine urbana di Siena è ispirata da un principio di tutela che si colloca negli anni di Ambrogio, il quale contribuì a fissare la bellezza della città nel Palazzo Pubblico. Nell’affresco da lui dipinto, i cittadini rappresentano la comunità dei cives, che camminano verso il Bene comune. Ambrogio riesce a mostrare la complessità della società urbana, presentata attraverso la varietà delle figure che la compongono: signori, servitori, contadini, pastori, borghesi, maestri, studenti, ambulanti, ecc… In questi anni però incominciano a intravedersi le prime crisi, in particolare una crisi finanziaria. Tra 1323-1324 ebbero inizio i lavori di costruzione della nuova cinta muraria, per includere nuovi borghi e nuovi territori, in cui nacquero nuovi quartieri; ciò è confermato da Agnolo di Tura (AdT). Il nuovo quartiere prese il nome di Borgo nuovo di Santa Maria. Il Palazzo Pubblico era già stato costruito a partire dal 1297 ed era circondato da palazzi, magazzini e botteghe che dovevano uniformarsi ad esso; contemporaneamente all’avvio del quartiere infatti, fu fatta una delibera che affermava che ogni finestra aperta sul Campo avesse forma di bifora o trifora. Ne derivò uno degli spazi più unitari che il Medioevo abbia creato nell’Italia Comunale. Dal 1338 si iniziò a costruire la torre civica del Mangia e la piazza fu anche abbellita dalla fonte Gaia. Nel 1339 nacque anche l’idea di rinnovare la cattedrale. Durante questi anni quindi, la città fu un grande cantiere e luogo di esperimenti di organizzazione urbanistica. Il nuovo assetto si consolidò negli anni Trenta, a seguito di un periodo di grande crescita sotto tutti i punti di vista. Oltre al cantiere, circolavano oggetti preziosi, c’era molto denaro ed espansione. Ma il declino economico era dietro l’angolo. Vediamo le fasi: 1.Nel 1200 Siena era il principale centro bancario europeo: i banchieri senesi prestavano denaro alla Curia e altri sovrani europei. 2.Negli anni di Duccio l’abbandono degli affari da parte di vari banchieri e mercanti aveva determinato una chiusura verso l’ambito internazionale, determinando una serie di cambiamenti: la più grande compagnia finanziaria del 1200 (Gran Tavola dei Bonsignori) fallì e Siena dovette affrontare la restituzione del denaro alla Curia e al re di Francia; i Piccolomini e i Salimbeni convertirono a scala locale i loro affari. Dato che le compagnie erano tutte legate tra loro, già dal 1310 si verificò l’effetto domino, cioè la ricaduta di una crisi sull’altra. 3.Nel 1338 ci fu una nuova crisi in cui fallirono altri banchi: avvenne la chiusura in ambito locale, Siena restò una città-banca ad ambito locale, completata dall’attività finanziaria di un ospedale civico che gestì i seguiti delle crisi. Durante queste fasi ci furono diverse sommosse o conflitti violenti: 1311 – 1315 – 1318: un conflitto e una congiura che fallì, ma produsse una riunione dei Nove in cui si discusse sul malcontento e si decise di riaffidare il governo a gente esclusivamente borghese. – 1325 – 1329 – 1346: voci dell’ostilità arrivarono a Firenze, dove alcuni cronisti parlarono di Siena e del malcontento. Molte di queste sommosse derivavano dal fatto che, nel 1323-24, si discusse sul finanziamento della spesa pubblica: il comune poteva scegliere la Lira (dazi), le gabelle (tasse dei consumi) o la tavola (cioè tasse sugli immobili); alla fine si protese per le gabelle, di cui godevano e se ne occupavano banchieri e mercanti, magnati e noveschi. Essi si strinsero in una relazione sempre più intima, tutti i più ricchi della città si legarono con alleanze sociali, politiche e parentele, favorendo l’arricchimento personale di queste persone. Da questo nasceva il malcontento; secondo un poeta senese, Bindo Bonichi, essi avevano tradito il proprio mandato politico, tanto che il sistema era degenerato verso la tirannia politica del ceto medio. Negli anni di Ambrogio regnava la chiusura politica e la corruzione, lo scontro politico aspro intorno a una spesa pubblica fuori controllo. In questi anni Siena aveva provveduto anche alla propria espansione: Maremma, Monte Amiata, Massa Marittima e Grosseto, dominando un terzo della attuale Toscana. Nel 1337 venne creata una nuova organizzazione territoriale e militare in vicariati e ogni castello aveva un castellano, dipendente da un vicario. Nello stesso anno ci fu una legge per organizzare la contribuzione fiscale dei mezzadri. Queste riforme trovarono eco nell’enfasi che il territorio assunse sulle pareti della grande sala in cui si riunì il Consiglio Generale, dove furono dipinte le vedute con i castelli conquistati e fu montato il Mappamondo, ma anche nella sala della Pace. Sono quindi anni di crescita ed espansione, ma anche di trasformazione sostanziale dell’assetto economico; una parte dei capitali ritirati dalla finanzia internazionale venne usata per comprare terre e poderi, un’altra finì nella cassa dell’ospedale civico e un’altra spinse verso l’alto certo consumi di lusso. Una parte venne prestata al territorio e un’altra venne impiegata per il finanziamento del debito pubblico, che iniziava ad essere considerato al di sopra di altre forme di prestito perché serviva al mantenimento del corpo civico. Nel 1336 però il sistema aveva mostrato qualche crepa: il debito pubblico aveva alzato i tassi d’interesse sul prestito su pegno, andando a colpire i più poveri. A seguito poi dell’inversione locale, crebbero i denari disponibili da impegnare nelle opere artistiche. Riassunto: mentre la città cresceva e si abbelliva, si ampliava e i Nove si arricchivano, gli scontri di piazza mostravano il malcontento per la chiusura politica, i ricchi erano divisi e le finanze dello stato strozzavano i creditori, tanti banchi erano in bancarotta, gli artigiani non avevano soldi per la loro attività e la carestia di grano colpiva duramente. È in questa fase che prende forma l’idea di esplicitare i principi che ispiravano la politica novesca, affidando ad Ambrogio il ruolo di illustrarli nella sala del palazzo in cui si riuniva il governo. Il pittore fu capace di presentare come realizzata l’utopia di una società operosa e unita, all’interno di una città bella, dall’idea del bene comune. Il racconto è: il Comune popolare gestito dal ceto medio, che ha escluso i magnati e i cavalieri dalla signoria, ha dato vita a un sistema di valori che porta alla progressiva diminuzione dell’uso delle armi e a un programma politico non più basato sulla forza, bensì sulla concordia, sulla giustizia e sul bene comune. Solo questo può garantire la prosperità; la vita pacifica della città scaturisce dall’ insieme di interessi particolari, dall’alleanza tra i ceti e la riprovazione delle violenze private e pubbliche. Da questo programma i Nove chiedevano la fiducia dei cittadini. Contrapponendo il Ben comune al Bene proprio mirava proprio a comunicare questo. Se gli artigiani, i contadini e i mercanti collaborano insieme si potrà vivere in un clima di pace. Per questo la città e la campagna vengono integrate in un solo racconto che mette in evidenza gli scambi e il controllo sul territorio. La canzone del Buon Governo spiega a chi guarda che il Vecchio è il Ben Comune, creato dall’unione del popolo; egli ha le insegne del potere, la veste bianca e nera che rimanda alla Balzana e il sigillo di Siena che regge come un globo del potere. È la raffigurazione del Comune. La corda che lo collega al popolo ci suggerisce che egli è legittimato dai cittadini. Il cartiglio tenuto in mano dalla Securitas stata racconciata un’Annunciata, ma non si allude strettamente a quella di AL. A riprova di questo abbiamo i nomi dei committenti, da cui capiamo che fin dall’origine il dipinto era stato pensato per l’ufficio di Gabella, situato al pianterreno dell’ala di Malborghetto, dalla parte del Mercato. I documenti Trecenteschi attestano che in quel luogo c’era una tavola mariana di devozione. Il tema è l’Annunciazione, ma la palma può far pensare che sia l’Annuncio della morte alla Vergine; ciononostante, la palma è spesso usata per questo tema in AL, come si vede nella sinopia dello stesso soggetto a Montesiepi. Ciò che colpisce è l’icasticità della raffigurazione (=efficace realismo rappresentativo), grazie alla gestualità e alle parole. I versetti di Luca infatti, si stagliano nel nimbo di Maria e sul fondo dorato. La gestualità dell’angelo rimanda a un dialogo, il pollice compie un cenno di auto-designazione. I passi del vangelo riportati nella tavola seguono lo svolgimento del dialogo: la salutazione angelica è nel nimbo della Vergine, Gabriele porta il messaggio alla Vergine e lei accoglie il dovere volgendo lo sguardo alla colomba dello SS. L’angelo ha 4 ali: è consuetudine di molti pittori, come possiamo vedere nell’Adorazione dei Magi di Gentile da Fabriano in cui Gabriele ha 6 ali. Nell’Annunciazione possiamo notare dei ripensamenti, visibili nella fascia decorativa della veste dell’angelo che era + corta e ornata da motivi geometrici o nell’iscrizione della predella, affiancata da due leoni e al centro una balzana: sotto notiamo una stesura precedente del testo. AL è indipendente dall’Annunciazione di SM e LM: in quest’ultima l’architettura è sacrificata per dare evidenza al campo dorato, AL adotta un’impostazione spaziale della scena, grazie allo scorciato pavimento a scacchiera, una resa empirica e non prospettica, ma che dà profondità; le piastrelle si rimpiccioliscono man mano. Una colonnina tortile divide le due figure che stanno sotto due archi trilobi; le due figure hanno una volumetria ampia e dilatata, la cromia è vivace e luminosa. Un meditato senso dello spazio si coniuga qui con la raffinatezza: Dio Padre è realizzato a sgraffito e i capelli biondi della Vergine sono in lamina d’oro con velature aranciate. Si nota la conoscenza del lessico di SM, che si può vedere anche sulle iniziali del libro adagiato sulle ginocchia di Maria. Il suo trono è marmoreo e tondeggiante, con intarsi cosmateschi. Le decorazioni degli archi trilobi rimandano all’oreficeria, eseguite in argento e lacche traslucide, contenenti figurine di animali fantastici. Ambrogio Lorenzetti, Allegoria del Comune di Siena, coperta di un registro di Gabella del secondo semestre 1344, tempera su tavola, Siena, Archivio di Stato. Ci sono alcune lacune risarcite a tratteggio ma le condizioni conservative sono buone. La superficie è bipartita da una banda orizzontale in cuoio. Questa coperta ornava il registro delle entrate e delle uscite del registro di Gabella nel secondo semestre del 1344, è un impiego noto fin dal 1200 originariamente dall’ufficio di Biccherna e in seguito anche da quello di Gabella e altre magistrature. Essa non figura negli inventari del 700, ma la ritroviamo nel 1859 nella Direzione del Registro della prefettura di Siena, annotata da Cavalcaselle, Crowe e altre studiose. Rowley mise in discussione la paternità della coperta. L’iscrizione presente nel campo inferiore della tavoletta riporta però gli stessi nomi dell’Annunciazione, a cui alludono anche le 3 insegne araldiche: lo stemma dei Forteguerri (a sx), dei Mignanelli e dei Ranuccini per i tre esecutori. L’iconografia è ricavata dal PP, in particolare dalla Sala della Pace: la veste è bianca e nera, è presente il sigillo cittadino sorretto a mo’ di globo. Nel 1985 Nicolai Rubinstein dice che il Vecchio canuto è la personificazione del Comune di Siena, affiancato dalla sigla CSCV; egli è anche simbolo del Bene Comune, che non è solo giudice (di cui è segno il copricapo di vaio), ma anche sovrano: ha lo scettro, ha una posa frontale, i calzari purpurei e il globo rimandano all’iconografia regale. Il modello deriva da un prototipo giottesco del Palazzo del Podestà a Firenze, ora perduto. Il vecchio posa i piedi sulla lupa di Roma, che allude all’origine romana di Siena (mito che prende vigore all’epoca dei Nove). Essa è molto importante perché quella della Sala della pace è stata rifatta da Andrea Vanni ancora all’epoca: in quest’ultima mancano la fantasia e la disinvoltura che contraddistinguono i bimbi della coperta, da cui traspare dinamismo e naturalezza negli atteggiamenti. L’impiego di alcuni accorgimenti spaziali rimanda alla paternità di AL: il gemello a sx lascia scivolare la gambetta al di là del basamento. Federica Siddi – “Anno Domini MCCCXLII”: la tavola di AL per l’altare di San Crescenzio nel duomo di Siena La Purificazione della Vergine ci conduce alla piena maturità di AL, negli anni precedenti al 1342, come ci dice l’iscrizione (in cui c’è anche il nome del pittore). Essa era posta nell’altare di San Crescenzio nel duomo di Siena, a seguito del progetto di celebrare i 4 santi patroni. Le fonti ci dicono che AL riceve un pagamento per questa tavola nel luglio del 1339; il progetto era già stato iniziato da SM a partire dal 1331, che aveva fatto l’altare di Sant’Ansano con l’Annunciazione, realizzata con LM entro il 1333. Nel 1335 sono registrati dei pagamenti a Pietro Lorenzetti (PL) per la tavola di San Savino con la Natività della Vergine; nello stesso anno si compra del legno per un’altra tavola e nel 1337 per la predella di essa, commissionata proprio ad AL. Entrambi i fratelli finiscono la tavola nel 1342. Nel 1351 abbiamo notizie della 4ª tavola, destinata a San Vittore e da due inventari 500eschi sappiamo che fu realizzata da Bartolomeo Bulgarini (BB), con la Natività di Cristo. Ansano e Savino erano venerati già dal 1190; Crescenzio era stato traslato da Roma a Siena in una data non precisata, ma la devozione è attestata dal tardo XII secolo. Inizialmente Vittore non era titolare di un altare e la sua reliquia era insieme a quella del vescovo Savino; tra la fine del 200 e l’inizio del 300 egli rimpiazza nel quartetto l’apostolo Bartolomeo: il cambiamento si vede dalla vetrata di Duccio del 1288 in cui era ancora presente Bartolomeo, ma nella Maestà di Duccio c’è già Vittore. Il progetto delle pale si colloca in anni in cui l’Opera del Duomo (con a capo Segna di Lino) aveva avviato grandi progetti: nel 1317 aveva preso avvio la costruzione del nuovo battistero e nel 1326 erano state chiuse le volte della chiesa di San Giovanni; il più monumentale riguardava la costruzione del duomo nuovo attorno al 1339, nel Piano di Santa Maria, ma il progetto naufragò. Le pale sono così importanti da essere documentate in una pianta per il duomo nuovo, ai lati della cupola vicini all’altare maggiore: San Crescenzio (purificazione AL) – San Savino (Natività Vergine PL) – Maestà di Duccio – Sant’Ansano (Annunciazione SM) – San Vittore (Natività di Cristo BB). Nella disposizione originaria Ansano e Savino erano invertiti. Tra il 1359 e il 1361 le tavole furono spostate, quelle di SM e PL nel presbiterio, quelle di BB e AL nel transetto. Negli inventari 400eschi quelle di BB e AL furono sistemate nelle cappelle tra il presbiterio e il transetto, mentre quelle di PL e AL nei transetti, rispettivamente a sx e a dx. Ci furono fin da subito numerose campagne decorative per assicurarne l’abbellimento: ad es. nel 1404 furono rimodernati i tabernacoli entro cui erano inserite le tavole, vennero realizzati degli stalli intarsiati e le cappelle furono decorate con cicli di affreschi dedicati alle storie di ogni santo patrono, oggi perduti: Spinello Aretino per Ansano, Andrea di Bartolo per Vittore, Martino di Bartolomeo per Crescenzio e Savino. Grazie alle fonti possiamo ricostruire la cappella di San Crescenzio: gli affreschi disposti su più registri narravano della decapitazione del santo, il rinvenimento del suo corpo, la traslazione delle reliquie e altri episodi della sua vita. Verso il 1450 i tabernacoli lignei vennero sostituiti da quelli marmorei: Pietro del Minella lavorò a quella per Crescenzio. Queste pale sono straordinarie perché sono frutto di un progetto coerente sia dal punto di vista del contenuto che della forma. Gli altari erano dedicati ai patroni e ai santi loro associati, ma vennero abbinati ad essi un episodio della Vergine, patrona della città, per celebrarla. Da questo deriva un formato innovativo dell’ancona: nel comparto centrale c’è una festa mariana, ai lati c’erano i santi, con la predella. I 4 episodi mariani hanno una sequenza narrativa precisa, che trova corrispondenza nella dislocazione dei diversi altari, tanto da pensare che una simile disposizione sia stata pensata fin dall’inizio: immagini introducevano la Maestà e ritrovavano riscontro nell’Assunta della vetrata, completando così il messaggio di profonda devozione nei confronti dei patroni. Le tavole sono arrivate a noi molto incomplete: -PL: ai lati dovevano esserci Savino e san Bartolomeo, la cui presenza ci è svelata da un inventario quattrocentesco; la tavola aveva anche una predella come ci documenta una fonte del 1335 in cui si dice che un maestro di grammatica era impegnato a tradurre in volgare episodi della vita del santo, della quale resta un frammento alla NG di Londra. -SM: ai lati ci sono Ansano e Massima, sua madrina di battesimo, ma non ci resta nulla della predella. -BB: tavola conservata a Cambridge, ai lati dovevano esserci Vittore e Corona, conservati a Copenaghen; ci sono due frammenti della predella conservati al Louvre e a Francoforte. AL: rappresenta la Purificazione di Maria, ma può essere anche ricordata come Presentazione di Gesù al Tempio: i due episodi secondo Luca sono connessi → la sacra famiglia si reca a Gerusalemme dopo che è trascorso il tempo necessario per sollevare la partoriente dall’impurità del parto, lì offrono il neonato al Signore e compiono il sacrificio di una coppia di tortore o di colombi. Simeone, giunto al tempio mentre Maria e Giuseppe portano Gesù, lo afferra tra le braccia e declama un cantico in suo onore; lì è presente anche la profetessa Anna che rivolge le sue lodi a Dio e parla del bambino a chi aspettava la redenzione di Israele, così come è dichiarato dal cartiglio che regge in mano sx. le figure sono identificate da un’iscrizione che corre nei nimbi. Ci sono poi altri profeti e eroi che sostengono la veridicità del racconto. Sulle due colonne che dividono lo spazio in tre parti ci sono Mosè con le tavole della Legge e Giosuè come un condottiero con il sole in mano, a mo’ di statuette. Nei cornicioni ci sono altri due profeti in statuette, di cui si scorge la parte finale del corpo e il cartiglio di quello di sx; dalle lunette delle navate laterali ci sono due anziani, mentre nella navata centrale c’è un Redentore sorretto da angeli. Sulla sommità del dipinto, di fianco al tiburio del tempio, ci sono due vegliardi: Mosè a sx con un cartiglio che allude al sacrificio sotto rappresentato, e un bonario profeta Malachia sulla dx, che ha un brano tratto dal suo libro. Negli inventari del 400 il dipinto è ricordato come Circoncisione, ma da essi sappiamo che ai lati erano presenti Crescenzio e Michele, oggi perduti. Alfonso Landi racconta nel 1655 che il patrono era raffigurato con la testa in mano, mentre non sappiamo nulla di San Michele. Egli indovina il soggetto e il nome del suo artefice, affermando che a fianco non c’erano due santi, ma bensì 4; la notizia è stata contraddetta da Pecci, Della Valle e Romagnoli che ne ricordano 2. La descrizione del Landi potrebbe però essere veritiera, come si può evincere dalla tavola della natività della Vergine di Paolo di Giovanni Fei, che propone imitando la tavola di PL. L’opera in origine doveva avere anche una predella, in cui possiamo immaginare delle storie del santo titolare. A completare l’insieme c’erano degli elementi cuspidati posti a coronamento della tavola centrale e di quelle laterali. Le 4 pale fungono da modelli per moltissimi artisti: quella di SM è ripresa da Matteo di Giovanni, PL da Paolo di Giovanni Fei e il Maestro dell’Osservanza, BB da Pietro di Giovanni d’Ambrosio. AL fu ripreso da Bartolo di Fredi nel 1338, Giovanni di Paolo e Sano di Pietro. Con il passare del tempo però, la popolarità di queste opere iniziò a venire meno: dal secondo 500 il rinnovamento degli spazi comportò l’allontanamento delle pale: la tavola di SM venne spostata in favore di una grande edicola marmorea, come avvenne per quella di BB → furono spostate per nuove tavole di Francesco Vanni e Alessandro Casolani: quella di SM venne spostata nella chiesa di Sant’Ansano in Castelvecchio a Siena e prese poi la via di Firenze, quella di BB fu acquistata da Francesco Trecerchi e venne progressivamente smembrata. La pala di PL fu concessa attorno al 1630 alla congregazione dei santi Pietro e Paolo, approdando infine al Museo dell’Opera. Nel 1651 la tavola di AL andò allo spedale di Monna Agnese, nel 1822 per volere del Granduca Ferdinando III la Purificazione fu spostata prima alle Gallerie dell’Accademia e infine agli Uffizi nel 1913. La sorte peggiore toccò a BB che fu riconosciuto solo nel 1900; la tavola di AL fu però ritenuta originaria dall’ospedale e non dalla cattedrale, forse anche a causa della testimonianza di Vasari, ma grazie al Landi sappiamo la sua vera prima collocazione. Egli offre una descrizione molto dettagliata, come anche Pecci. Della Valle e Romagnoli invece distinguono tra la Purificazione del Duomo e quella dell’ospedale. Nel 1827 la corretta provenienza fu sancita da von Rumohr, ma altri non lo ascoltarono; ancora nel 900 la corretta identificazione della provenienza è ancora discussa; essa è comunque citata nelle monografie di 900 di AL. Solo dal 1980 si è accettata la sua originaria collocazione e a seguito del restauro nel 1985 si è potuta fare una moderna valutazione della tavola. Nella Purificazione i personaggi si scalano, suggerendo un’ordinata profondità; la tavola è stretta e alta per l’impostazione architettonica della cattedrale gotica che richiama quella fatta anni prima di San Nicola ordinato vescovo di Myra degli Uffizi. Confrontando le due tavole si notano gli esiti di una sperimentazione: la complessità spaziale nella tavola del duomo è senza paragoni, l’edificio è descritto nei dettagli: le vetrate, le volte dipinte con cieli stellati, le arcate con intarsi marmorei e il tiburio poligonale. L’architettura è Siena. Possiamo pensare quindi che questa fase gotica è un fenomeno ricorrente quando vengono a mancare i modelli fiorentini. Si pensa che nel 1335 si recò a Cortona, dove stava lavorando il fratello, e lavorò nella chiesa di Santa Margherita. La collaborazione di aiuti in molte opere di Ambrogio è evidente ed è stata più volte rilevata, ma questa prassi è abituale in una bottega. Sappiamo che Ambrogio era un uomo colto, ne è stato delineato un profilo di pittore-filosofo, di artista intellettuale e letterato (delineato anche da Vasari). Un dato molto significativo è l’interesse per l’antico, temi e motivi classici sono frequenti nella sua opera: basti pensare ai medaglioni con imperatori romani nel fregio della Sala della Pace, alle rappresentazioni delle divinità nell’affresco in San Francesco. Panofsky dice che il rinnovamento dei modi degli scultori e degli architetti in Italia fu dovuto allo studio dei modelli antichi, mentre quello dei pittori grazie allo studio della natura: AL si muove in entrambe le direzioni, come testimoniano i paesaggi del buon governo e i fenomeni meteorologici , ma anche un interesse per le forme e i modi di tradizione classica, ma non conosceva il latino come il fratello, che nel 1335 impegnò un maestro di grammatica per tradurgli dal latino un testo agiografico. I suoi maggiori committenti furono: il Comune di Siena, l’Ospedale di Santa Maria della Scala, i Francescani, i Cistercensi (San Galgano, Montesiepi), gli Umiliati, i Benedettini, i Carmelitani e gli Agostiniani. I suoi interlocutori sono monaci, notai, teologi e giuristi. Quando cominciò la Sala della Pace, il suo punto di riferimento era Giotto, morto da un anno, che aveva spalancato l’accesso a una pittura civile. A quel tempo gli equilibri di Siena erano stati alterati dalla partenza di SM; i due fratelli vi dominavano, ricevevano le commissioni più importanti. Riempire il vuoto lasciato da SM significava continuare la tradizione senese della pittura topografica, cioè della pittura come strumento di conoscenza, dei tempi e dei luoghi. Da Duccio, a SM avevano riprodotto i castelli acquisiti; in qualche modo gli ampi panorami della città e delle campagne della Sala della Pace continuano, sviluppano e portano alle estreme conseguenze questa tradizione, con mezzi diversi, rendendo percorribile il territorio che si srotola davanti agli occhi di chi guarda, fondendo descrizione topografica e discorso allegorico. In questo ciclo si fondano la lezione di Giotto e di SM, lo scambio con il fratello e la riflessione sull’arte antica. Secondo Castelnuovo AL deve aver soggiornato a Roma attorno al 1335. A queste conoscenze bisogna aggiungere quella di qualche codice illustrato francese, in cui sono rappresentati ponti, mulini, porte cittadine, cavalieri e mercanti, falconi, carri e carrozze, figure di ogni tipo, mercanti e artigiani. Maria Monica Donato – La “bellissima inventiva”: immagini e idee nella Sala della Pace Gli affreschi nella sala della Pace sono stati eseguiti da AL nel 1338-39, quando egli ha già un rapporto privilegiato con la committenza del PP; nel 1337 infatti, AdT documenta una serie di storie romane eseguite dall’artista e nel 1340 una Madonna con le virtù cardinali, seguono nel 1344 l’Annunciazione per la Gabella e il Mappamondo nel 1345. Egli ha il ruolo di primo pittore della città, con rapporti privilegiati con i Nove, cui garantiva una serie di opere innovative, sia dal punto di vista formale che iconografico. In lui culmina quella politica monumentale, ambiziosa ed organica che è immagine di Siena durante il governo dei Nove. Quest’ultimi infatti furono molto attenti alla bellezza e all’immagine della città: dalla nomina di ufficiali sopra le bellezze, alle normative di tutela, alle coperte preziose dei registri degli uffici pubblici, alle miniature degli statuti pubblici e dei regolamenti. Una città ornata, in cui la bellezza è tutelata e ovunque ci sono segni visivi, araldici o figurati che rispecchiano l’efficienza del governo. L’impiego di artisti grandiosi all’interno del palazzo si inserisce in questo programma, perché aiutano a trasformare il potere in immagine. Nelle pitture di PP, sia SM e AL riproducono il sigillo cittadino, fanno riecheggiare temi e motivi. Il Buon Governo quindi nasce in un luogo segnato da un intenso uso ufficiale delle immagini, della piena fiducia nella loro capacità di rappresentare il potere e di veicolare messaggi politici. Esso si trova nella sala consiliare dei Nove, occupando tutto lo spazio disponibile: dispiega una solenne argomentazione politica, mettendo in scena il contrasto fra i principi del buono e del cattivo governo, i loro effetti in città e nel contado. L’opera divenne l’immagine della Siena dei Nove, ma anche l’esempio più celebre di pittura politica comunale, fornendo da copertina a libri e riviste, presa nei dettagli per ricavarne loghi di manifestazioni di cultura e di spettacolo. AL è conosciuto per rappresentare aspetti del reale mai colti prima, insieme a rare doti di ingegno e cultura; è ricordato come pittore di fenomeni naturali. Il suo gusto per l’antico visibile nella rappresentazione di Securitas, gli scenari urbani e rurali, il realismo atmosferico e d’ambiente; le Allegorie lo caratterizzavano come artista-pensatore, furono al centro di molte discussioni e molte volte venne avamposta la sensibilità etica dell’opera, in favore di quella estetica. Alcuni affermarono che c’era troppo contrasto tra la dottrina e la realtà; la percezione di un contrasto fra allegoria politica e scene realistiche persiste a lungo negli studi storico-artistici. Il contrasto ha prodotto alcuni studi storici che si sono focalizzati sull’idea che Ambrogio offri una vera veduta di Siena, mostrano quindi il costume, il commercio, le gerarchie sociali o il paesaggio agrario. L’allegoria ha aiutato i giuristi a studiare alcuni testi teorici. Questi esempi per far capire che il ciclo può condurre a una lettura settoriale, dal punto di vista degli storici o degli storici dell’arte. Al di là di questo, dobbiamo pensare che queste pitture sono state spesso al centro dell’attualità: basti pensare alle numerose citazioni fra Tre e Cinquecento, o alle riprese, come accadde nel 1425 quando San Bernardino le riprese per parlare ai senesi di pace e di giustizia, ripercorrendo a parole quello che gli pareva una “bellissima inventiva”. Per leggere l’opera, dobbiamo partire dal complesso delle immagini, assieme alle loro iscrizioni, per poi passare ai possibili modelli e generi della pittura politica che Ambrogio e committenti vedevano. La mancanza di confronti con altre opere rafforza la tendenza a ricondurre la genesi dell’opera a fonti scritte o a precise circostanze storiche. Nel Medioevo le pitture politiche erano fonte di comunicazione; per esserlo, dovevano possedere due fattori: l’alto grado di codificazione (la pittura infamante ad esempio era definita in dettaglio da normative), e la continua ripetizione di generi, temi, motivi che andavano a costituire un lessico riconoscibili. Inoltre, dovevano esserci delle iscrizioni, in volgare e in rima. Un esempio son le pitture del Duca d’Atene. L’uso politico della pittura è amplissimo: i temi ricorrenti erano le raffigurazioni di delitti, successi o scene di etica civica; a Siena la pittura infamante preesiste ai Nove, ma con loro inizia la rappresentazione dei castelli via via conquistati. Un altro filone tematico comune a Siena era quello romano: SM dipinge Attilio Regolo, AL le storie romane, richiamando il tema della subordinazione dell’interesse privato al bene comune. Questo tema era già nella Maestà di SM, nelle parole dette dalla Vergine a chi nella sua terra osi anteporre il ben proprio al ben comune. Si apre qui il genere della “poesia per pittura”, la cui tappa successiva è la canzone del BG (Buon Governo): testi calibrati e pregevoli, di cui non sappiamo gli autori, da escludere però i pittori. Nella Sala della Pace (SdP) ci sono iscrizioni ben leggibili, collocati ad altezza d’occhio, per i Nove, ma anche per qualsiasi visitatore (come dice un anonimo cronista, basta salire le scale, entrare nella prima porta a sx). Le iscrizioni facilitavano una lettura più complessa. Esse sono distribuite in modo da far capire che il dipinto era bipartito: una sotto l’Allegoria del BG, una sui suoi effetti e un cartiglio retto da Securitas; un’altra sotto l’allegoria e ancora una sotto gli effetti del Malgoverno, insieme al cartiglio retto da Timor. L’ordine di lettura è: iscrizione sotto allegoria BG -> suoi Effetti -> Malgoverno -> suoi effetti. Anche la lettera iniziale dell’allegoria BG indica che si parte da lì, perché è più grande di tutte le altre. La protagonista della sala è la Giustizia, che appare sia regnante che prostrata. Sul versante positivo, dalla Giustizia, ispirata dalla Sapienza, discende la Concordia che si traduce nel dominio del Bene Comune, il vecchio con i colori della balzana che raffigura anche il Comune stesso. Esso è garantito dalle virtù teologali e cardinali. Da questo clima discende la pace, che non è virtù ma conseguenza di tutto. Il legame tra giustizia e bene comune è ben figurato dalla corda. La pace conduce alla visione degli effetti, che sono conseguenza del dono di Giustizia, mantenuta dal Bene Comune, come afferma la Securitas. Sul versante negativo, continua il tema della corda, che è usata però per legare la Giustizia. Domina la Tirannia, sormontata e affiancata dai vizi. Nelle iscrizioni, compresa quella retta da Timor, sono descritti gli effetti della sopraffazione della giustizia, che la pittura mostra in città e campagna. Esse invitano a guardare, a provare sentimenti e ad agire: bisogna tutelare la giustizia, scacciando chi la minaccia. Guardando le pitture e le iscrizioni, è chiara l’impressione che chi le ha pensate mirasse a scongiurare l’approccio settoriale che è di norma negli studi, grazie al sistema di rimandi e simmetrie. Immagini e testi invitano alla lettura globale. L’intero programma potrebbe parafrasarsi in: “laddove si onori la giustizia c’è ogni bene, laddove la si calpesti, ogni sciagura”. Dalla giustizia deriva la “dolce vita e riposata” che AL seppe rappresentare in modo ricco e raffinato, come sull’altro versante evocò i danni dell’assenza della Giustizia. Essa è stata al centro di dibattiti che ricercavano le origini del pensiero repubblicano europeo: -Secondo Rubinstein nel 1958, giustizia, sapienza e bene comune erano i cardini del buon reggimento delle dottrine aristoteliche che erano state riprese da San Tommaso conciliandole con la dottrina cristiana, ed altri avevano adattato al contesto comunale. -Skinner però ha revocato l’incidenza di Aristotele nella genesi dell’ideologia comunale e ha visto come origine Cicerone, Sallustio e Seneca, filtrati in epoca medievale. -Brunetto Latini sostiene Skinner L’aristotelismo comunale ha lasciato segni nelle pitture, ma non possiamo tendere a stabilire rispondenze biunivoche tra immagini e fonti. Sappiamo infatti che l’allegoria politica di AL non era la prima: un modello anteriore è il perduto affresco al Palazzo del Podestà di Firenze di Giotto, in cui c’era un Comune in forma di giudice con lo scettro in mano, in trono e accompagnato dalle virtù cardinali; c’era poi una scena del Comune aggredito dai cittadini. Anche a Siena il comune è un giudice, con il cappello tipico, riflesso fedele del tipo giottesco. Un altro modello risale da due rilievi della tomba del vescovo e signore d’Arezzo Guido Tarlati, creato dai senesi Agostino di Giovanni e Agnolo di Ventura nel duomo cittadino: datati 1330, rappresentano il Comune prima pelato (cioè rubato) e poi in signoria (al potere, a seguito dell’ascesa dei Tarlati). Queste opere risentono di una cultura politica rappresentata dal “De bono communi” di Remigio de’ Girolami, del 1304, che definiva il comune come entità superiore, istituzionale ed etica. Sicuramente AL ha visto Giotto nel suo soggiorno fiorentino; abbiamo un altro modello giottesco, nelle allegorie di Giustizia e Ingiustizia della Cappella degli Scrovegni, che Al deve aver conosciuto tramite disegni o derivazioni. Esse sono al centro delle serie e sono le uniche ad avere le predelle che ne illustrano gli effetti; come quella giottesca, la giustizia senese tiene in equilibrio una bilancia calata dall’alto, con due angeli sui piatti, mentre l’Ingiustizia e la Tirannide hanno entrambe zanne ed artigli rapaci. Gli scarti rispetto al modello mettono in luce le novità del ciclo senese: non c’è il comune rubato, è la Giustizia ad essere legata, che soggiace alla Tirannide (non ingiustizia!), personaggio nuovo. Non viene inscenato il contrasto fra un concetto positivo – il comune, la giustizia – e la sua negazione, ma bensì due forme costituzionali differenti: il Comune e la Tirannide. Questo chiama in causa la dottrina delle costituzioni nella Politica di Aristotele, nei suoi adattamenti comunali. Inoltre, rispetto a Padova, il versante positivo non viene a seguito dell’Ingiustizia, ma precede il Malgoverno: c’è la paura di un mutamento costituzionale, non è una fase evocata per mettere paura ai malfattori. La Tirannide è degenerazione del Buon Governo (come in Aristotele era degenerazione della monarchia), a causa del tendere dei cittadini ai loro interessi privati, proprio mentre i comuni d’Italia cedevano alle signorie. I rilievi Tarlati delineavano come Comune in signoria un comune dato a un signore. Con questo non si vuole affermare che le pitture si fondano su Aristotele: Timor e Securitas si trovano in Seneca, ma ci sono anche tanti argomenti che non trovano riscontro in queste fonti, come le virtù cardinali e la Pace. Questo perché la cultura medievale è fatta di ibridazioni, di continue mescolanze di modelli autorevoli e, in pittura, tradizioni iconografiche. L’angelo su un piatto della Giustizia (i due angeli rispondono bene ad etichette aristoteliche) consegna a due uomini un oggetto cilindrico (potrebbe essere uno staio- unità di misura per aridi) e gli oggetti lineari potrebbero essere unità di misura lineari, quindi potrebbe essere che l’angelo consegni ai due mercanti gli strumenti che garantiscono regolarità nei commerci. La raffigurazione di Giustizia sfrutta un prototipo giottesco, complicandolo in senso aristotelico-scolastico. Venendo al Malgoverno, sedizione, frode e tradimento erano i più rappresentati nella cultura infamante e il bestiario di zanne, artigli, ibridi ferini attinge alla raffigurazione infernale, ma anche nella pittura infamante: nella cacciata del Duca d’Atene il tiranno ha in braccio una creatura, simbolo di Le immagini inserite nelle fasce sono importanti dal punto di vista iconografico. Nelle fasce sono inserite formelle quadrilobe in stretta relazione con le figurazioni principali, che hanno la funzione di inserire l’argomentazione in un più vasto contesto simbolico. Nelle fasce superiori pianeti e stagioni rimandano alla dimensione cosmica (ciclo astrologico fatto da Giotto a Padova). La posizione delle stagioni rispetta l’associazione consacrata da Isidoro di Siviglia con i punti cardinali: ad est la Primavera, sud Estate, ovest Autunno e nord l’Inverno; le prime due si trovano sopra gli effetti del BG, le ultime al Malgoverno. I pianeti riflettono l’associazione alle attività umane: sopra l’allegoria del BG ci sono i cavalli dorati del sole, associati al potere, i suoi effetti hanno Venere (amore, armonia, musica danza), Mercurio (commerci e studi) e Luna (pescatori e viaggiatori, fiumi, mulini, uomini e muli). Dominano il Malgoverno Saturno, Giove e Marte. Abbiamo poi lo stemma degli Angioini e del Papa, rispettivamente dalla parte positiva e negativa. Nei bordi inferiori, sul versante positivo abbiamo le arti liberali: sotto l’allegoria Grammatica, Retorica e Dialettica, sotto gli effetti Aritmetica e Musica. Sotto il malgoverno abbiamo invece famosi tiranni: Nerone e altri. In queste fasce AL attinge alla tradizione (nel pulpito di Pisa di Giovanni Pisano c’erano le arti) e alla fantasia. Basti vedere l’anticheggiante autunno e il sorprendente inverno, che attesta la capacità meteorologica. Le iscrizioni in volgare: testo e commento Le iscrizioni nell’affresco di AL costituiscono uno dei più importanti esempi di poesia per pittura: l’inserimento di un testo verbale in versi, all’interno di un dipinto, è legato alla figurazione pittorica e al suo programma. Essa fa parte integrante del dipinto, ma non ne ripete il messaggio, anzi lo completa e lo incrementa; a loro volta le immagini amplificano e precisano il loro discorso mediante le iscrizioni, che come abbiamo detto non sono un testo autonomo, ma hanno significato solo con le immagini. I concetti visivi delle immagini sono in rapporto con i concetti verbali delle iscrizioni, quindi il vero testo è dato dall’associazione del testo visivo al testo verbale. Bisogna comunque distinguere tra i dipinti che traducono in immagini i loro concetti ispiratori e dipinti il cui significato non può essere colto appieno se si prescinde dalla didascalia poetica; sono di due livelli diversi, presuppongono anche un diverso orientamento di chi guarda: al primo tipo appartiene il ciclo di AL, al secondo la Maestà di SM. Ritornando alle iscrizioni di AL, abbiamo: sotto l’allegoria e gli effetti del BG: la celebrazione della giustizia e dei suoi effetti sull’unità dei cittadini (in allegoria A1) e l’esortazione ai reggitori del Comune a seguire la giustizia, unica garante di libertà, equità e benessere (A2). C’è poi il cartiglio di Securitas. Sotto l’allegoria del Malgoverno e dei suoi effetti abbiamo la descrizione delle nefaste conseguenze di un governo senza giustizia e perciò votato alla tirannia (in allegoria B1) e l’invito a vigilare a fine di combattere la tirannia e i suoi sostenitori (B2); abbiamo poi il cartiglio di Timor. Le iscrizioni formano 4 perfette stanze di canzone, ognuna di 13 versi, a 2 a 2 contrapposte (A1-B1; A2-B2) e completate da due congedi (i cartigli) di 5 versi, per un totale di 62 versi. C’è una fitta rete di corrispondenze e parallelismi che oppongono le singole unità strofiche in un gioco di equivalenze biunivoche che coinvolge tutti i livelli del testo, da quello semantico-lessicale a quello metrico e morfosintattico. Ad es. a livello sintattico parallelismo tra A1 e B1: “là dove + verbo” come incipit. A2 e B2 sono le due sole strofe in cui ci si rivolge direttamente ai destinatari del dipinto, con funzione esortativa; ci sono poi collegamenti lessicali (es. fra A1 e A2 gli occhi rivolti >Volgiete gli occhi; splendor>risprende…) e rimici; echi e ripetizioni che sottolineano la coesione dell’insieme, confermano che ci troviamo davanti ad un artista abile e consapevole. Il linguaggio rivela numerosi punti di contatto con la poesia didascalica e moraleggiante del primo Trecento; non sembra ci sia un rapporto con la lirica stilnovistica, anche se nel v.6 di B2 si coglie una reminiscenza dantesca (“la mente e lo intelletto…” lo scrive anche Dante in un sonetto). È inoltre difficile individuare un ricorso al Dante comico, cui la poesia politico-civile del Trecento ricorreva. Certo, alla Commedia rimandano alcune rime, lessemi (civile, servata…), ma comunque l’impronta dantesca è limitata. C’è però un richiamo al canto di Cacciaguida, perché le iscrizioni sembrano reinterpretare la rappresentazione della città ideale che è la Firenze antica dei canti paradisiaci di Cacciaguida. AL ricorre anche alla contrapposizione Babilonia – Gerusalemme, i cittadini con la corda sono 24 come i vegliardi, ma è probabile che la fonte non sia l’Apocalisse, quanto il canto 29 del Purgatorio, dove c’è la processione di 24 signori che procedono a due a due, proprio come i cittadini di AL. Il vero ricorso a Dante è riscontrabile nell’ambito lirico: lo schema strofico è quello di una celeberrima canzone di Dante, la petrosa “Così nel mio parlar voglio esser aspro” (ABbC, ABbC, CDdEE) riprodotto con una piccola variazione che comporta la trasformazione in endecasillabi dei due settenari della fronte (A2 e B2); quindi lo schema della petrosa vale per A1 e B1, in A2 e B2 abbiamo ABBC, ABBC, cDdEE. Questo di AL è uno dei più antichi esempi di imitazione metrica della petrosa; dal suo congedo di 5 versi trae origine la pittura per poesia del Trecento, come le rime infamanti. Schema detto pentastico.
Docsity logo


Copyright © 2024 Ladybird Srl - Via Leonardo da Vinci 16, 10126, Torino, Italy - VAT 10816460017 - All rights reserved