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Riassunto saggi Van Aken - antropologia economica e dello sviluppo 2022/2023, Sintesi del corso di Antropologia

1-Van Aken, M., “Alberi tra identità e alterità. Negoziazione di categorie ecologiche nel Pakistan settentrionale” in Etnografia e culture, U.Fabietti (a cura di), Carocci, Roma, 1998, pag.124-142A. R. 2- Vasavi, “Hybrid Times, Hybrid People': Culture and Agriculture in South India”, Man, New Series, Vol. 29, No. 2. (June, 1994), pp. 283-300. 17 3-Francesco Danesi, Ucronia lagunare: temporalità umane e non-umane nella crisi climatica di Goro (Delta del Po), paper 4- Elaine Gan, Una competizione indesiderata. Il riso dei miracoli e la rivoluzione verde, Environmental Philosophy, Vol. 14, N. 1, con il titolo “An Uninted Race: Miracle Rice and the Green Revolution”. 5-Herta Nobauer, Weather, agency and values at work in a glacier ski resort in Austria, in The Anthroposcene of Weather and Climate: Ethnographic Contributions to the Climate Change Debate. Ed. by Paul Sillitoe. Oxford: Berghahn,(e-libro volume intero disponibile) 6-Noah Walker-Crawford, 2021, The moral climate of melting gl

Tipologia: Sintesi del corso

2022/2023

In vendita dal 16/09/2023

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Scarica Riassunto saggi Van Aken - antropologia economica e dello sviluppo 2022/2023 e più Sintesi del corso in PDF di Antropologia solo su Docsity! Van Aken, Alberi tra identità e alterità C’è una intima relazione tra le modalità di socializzazione della natura e le modalità di costruzione delle identità e dei confini sociali dell'alterità. In questo lavoro cercheremo di evidenziare le dinamiche di interazione e di costruzione culturale attraverso il caso etnografico di Golodas, un villaggio del Pakistan settentrionale. La ricerca di campo è stata condotta dal febbraio al maggio 1994, nel contesto di un lavoro di consulenza sull'impatto sociale di progetti di sviluppo agro-pastorali della AKRSP (Aga Khan Rural Support Programme), una organizzazione di sviluppo nongovernativa, fondata e sostenuta dal gruppo musulmano ismaelita - scissione della corrente sciita - che ha come referente e capo spirituale l'Aga Khan. Golodas è un villaggio di circa duemila abitanti nella valle del Punyal, nord del Pakistan, una regione caratterizzata da una alta eterogenità culturale e linguistica, dove differenti e molteplici criteri di identità, di esclusione o solidarietà si sovrappongono nel processo complessivo di costruzione identitaria. Il nord del Pakistan è una regione prevalentemente montuosa. Le valli scoscese e quasi incomunicanti tra loro furono organizzate per secoli in piccoli regni carismatici fino al 1947, quando la regione fu annessa allo Stato pakistano ed in seguito i Raja, o re, vennero privati dei loro poteri. Nonostante la notevole difficoltà di spostamenti e di accessibilità, il nord del Pakistan è sempre stato testimone di migrazioni e scambi commerciali, pur conservando, anche a causa del suo isolamento geografico, molte forme linguistiche e tratti culturali del tutto particolari. Sistemi di cooperazione ed organizzazione sociale complessi hanno permesso la costruzione di imponenti canali di irrigazione, base degli insediamenti agricoli nell'ambiente arido di queste montagne. L’economia tradizionale, è costituita dall' agricoltura integrata alla pastorizia: accanto alla coltivazione di grano, mais, orzo, ortaggi e alberi da frutta, importante nel sistema di sussistenza è l'allevamento di capre e pecore, e in misura minore, di bovini. Il Raja era simbolo dell'unità del sisterna di cooperazione ed organizzazione idraulica, perno del sistema politico ed ecologico. Golodas è un insediamento recente di immigrati da diverse valli del nord del Pakistan che, su iniziativa e direzione del Raja del regno del Punyal, costruirono negli anni Quaranta un canale di irrigazione che raccoglie le acque disciolte dai ghiacciai del fiume Y eshkuman che scorre nella valle. La costruzione del canale di irrigazione da parte dei primi immigrati dalla adiacente valle di Hunza è il presupposto storico e politico della vita del villaggio, che ha poi attirato migranti da diverse valli contigue in un contesto multietnico caratteristico di questa regione. I villaggi sono una specie di oasi di montagna. Una caratteristica fondamentale della vita tra queste catene montuose è il sistema verticale di sfruttamento delle risorse. Ci sono due gruppi principali: gli appartenenti alla setta ismaelita, che si rifà al suo capo spirituale, l'Aga Khan, unisce ed accomuna popolazioni di diversa provenienza geografica in opposizione identitaria ai Gujur, gruppo pastorale di fede sunnità, il quale ha avuto la tendenza ad occupare, negli ultimi decenni, nicchie ecologiche lasciate inutilizzate dai primi immigrati. I diversi gruppi sociali sono accomunati nell'unità geografica del villaggio solo e soprattutto in occasione del Rajaaki, i lavori collettivi e obbligatori per il Raja, pur se è stato destituito. Il sistema sociale di cooperazione è rimasto in parte inalterato ed è stato assorbito dalle "unità di sviluppo". La relazione che si è sviluppata tra la popolazione Gujur e i gruppi sociali che si oppongono a questi, è di carattere simbiotico: gli animali e le risorse pastorali sono gestiti tanto sui pascoli quanto all'interno del villaggio da famiglie Gujur transumanti, le quali hanno una base nel villaggio, diventando in tal modo un gruppo specializzato di pastori. Gli animali sono associati simbolicamente ai Gujur, in contrasto con la stessa tradizione pastorale degli immigrati ormai sedentarizzatisi, tanto da diventare un segno di demarcazione e di esclusione, in quanto connesso a valori di impurità. La stessa divisione sociale si è sovrapposta alle unità sociali introdotte dalla cooperazione allo sviluppo: i Gujur sono di fatto esclusi, nonostante siano integrati nel villaggio, da questa unità di sviluppo. I programmi agricoli e pastorali contribuiscono alla "crescita di ignoranza" reciproca, piuttosto che ad un insieme di conoscenze, saperi ed esperienze. La negoziazione dell'identità coinvolge rapporti di forza tra gruppi che si coagulano intorno ad interessi comuni; il processo di costruzione dell'identità è una strategia per l'allocazione delle risorse. Definizioni del sé e dell'altro collettivi, come attributi negativi o positivi, legittimano alleanze e divisioni; ma nella formazione di immagini del sé e dell'altro spesso si costituiscono, accanto a gerarchie tra gruppi umani differenti, anche gerarchie e connessioni sociali tra cose, animali, piante. Lo studio delle pratiche ecologiche come principi simbolici della costruzione della realtà assume quindi un'importanza rilevante all'interno dei processi di costituzione identitaria. La popolazione di lingua Burushask, che è la lingua maggioritaria a Golodas, utilizza il termine abadi per definire il villaggio, in contrapposizione a das, terra arida ed incolta. Abadi assume due significati paralleli e complementari nelle rappresentazioni locali: a) civiltà, popolazione; b) terra coltivata, irrigata, dove crescono gli alberi. I due significati sono profondamente connessi nelle rappresentazioni ecologiche proprio perché solo dove arriva il canale di irrigazione è possibile la nascita di un insediamento; ed uno dei segni più evidenti e costitutivi del paesaggio sono gli alberi da frutta, risultato di un investimento nel tempo e base stessa dell'economia di sussistenza del villaggio. L‘albero da frutta delimita il terreno coltivato ed è segno della storia, presenza della crescita del villaggio. All'interno del sistema agricolo integrato tradizionale l'albero da frutta e gli animali sono internamente connessi; essi costituiscono una agricoltura mista di montagna, dove gli animali allevati forniscono il concime necessario per la coltivazione intensiva e dove, a sua volta, I’agricoltura supplisce, con la produzione di foraggio, alla scarsità di pascoli. Entrambi i calendari sono interrelati. Gli alberi da frutta costituiscono un'importante fonte di sussistenza invernale, quando le risorse sono scarse, sotto forma di albicocche e prugne essiccate, noci, mandorle. Inoltre, fungono da riferimento temporale, in quanto sono gli indicatori delle attività e del calendario dell' economia integrata. Tuttavia l'albero e gli animali rappresentano due tipi di investimento lavorativo opposto: gli alberi richiedono una vita sedentaria ed un investimento a lungo termine, mentre l'allevamento necessita di cicli di transumanza stagionale. delle popolazioni locali. Vasavi cerca di riempire questo buco, analizzando l’interfaccia tra i due sistemi locali e moderni. La modernizzazione in India è parte dell’agenda politica e sta ricostituendo le culture rurali del subcontinente. Pertinenti a tale ricostituzione sono diverse questioni emergenti: l'autonomia degli agricoltori, lo spostamento della conoscenza agricola locale, l'erosione dei valori agrari locali e i cambiamenti di identità vissuti dai residenti rurali. Gli agricoltori di Bijapur oscillano tra due metanarrative: una dell'omogeneizzazione, l'altra dell'emergenza; uno di perdita, l'altro di invenzione (Clifford). Ma la cornice all'interno di questi commenti e di "strutture del sentimento" (Williams), è radicata in un ethos preesistente che vede le condizioni della terra, dei semi e delle persone strettamente legate tra loro. Bijapur Bijapur è parte di un'ampia distesa di terre semiaride che raccolgono la pioggia delle catene montuose occidentali. A causa delle siccità periodiche, in media una ogni quattro anni, la scarsità di cibo e le carestie sono endemiche nella regione. Così la pratica agricola locale mira ad alleviare tale mancanza ricorrente delle risorse. La maggior parte dei grandi proprietari terrieri proviene dalla casta dominante, i Lingayat. I coltivatori e gli affittuari proprietari di medie dimensioni sono i Kuruba (pastore), i Kumbara (vasaio) e altre caste. Sebbene i membri degli Holeya (intoccabili) siano prevalentemente braccianti agricoli, ci sono alcune famiglie di queste caste che possiedono appezzamenti di terra meno fertile concessa loro dal governo. L'agricoltura di Bijapur, nonostante abbia dovuto adattarsi a una serie di impatti esterni nel corso degli anni, ha mantenuto le sue basi ecologiche e simboliche. Agricoltori e pastori utilizzano diverse risorse regionali in periodi stagionali separati. Gli agricoltori coltivano diversi tipi di terreno in due stagioni principali (giugno-settembre e ottobre-gennaio), mentre i pastori pascolano greggi di pecore comuni sulle rive del fiume. Nonostante questo allineamento delle attività a un calendario climatico, l'agricoltura a Bijapur è condotta anche attraverso un discorso che attinge al modo in cui gli esseri umani si relazionano alla terra e gli uni agli altri. Metafore derivate dal contesto sociale e culturale sono usate per descrivere varie attività agricole. Ad esempio, l'irrigazione della terra è chiamata niim wunusuwudu ("nutrire l'acqua"), e alcuni riti propiziatori agricoli sono indicati come shanthi nuiduvudu ("fare la pace"). Il lavoro agricolo è soggetto alle prescrizioni di tempi propizi e nefasti, e anche il tempo propizio per iniziare le attività agricole si basa su calcoli celesti. I rapporti di lavoro di scambio sono chiamati muye, termine è identico a quello in cui fare regali in altri contesti. La terra fertile è indicata come madi, un termine riservato a oggetti e persone di buon auspicio. Questa appropriazione culturale della natura (Ingold) è condotta principalmente attraverso tre precetti principali: bhumi-guna ("qualità della terra"), hada ("appropriatezza") e hulige ("abbondanza conferita"). Questi precetti sono le strutture generali, i marcatori e gli orientamenti attraverso i quali viene compresa e utilizzata la specificità ecologica dell'area. Qualità della terra (bhumi-guna) Nella classificazione della terra (bhumi) sulla base del guna, vengono identificati tre tipi principali di terra: yere (terreno alluvionale nero), maddi (terreno asciutto e sabbioso) e thota (terreno o giardini irrigui). La yere è una terra con elevate proprietà di conservazione dell'umidità ed è stata chiamata la "terra che si coltiva da sola". Questo tipo di terra ha un valore economico e aumenta lo status di coltivatore. Il maddi, come la yere, è completamente dipendente dalla pioggia. A differenza della yere, tuttavia, la terra maddi consiste in una miscela di terra nera, rossa e bianca con varie quantità e tipi di pietre e ha il potenziale di contenere l'acqua sotterranea. I terreni coltivati con l'acqua dei pozzi o dei tubi sono chiamati thota ("terreno da giardino"). A differenza degli altri due tipi di terra, le terre thota sono tutte coltivate dai proprietari - la maggior parte da membri del gruppo dominante delle caste Lingayat - e vengono utilizzate durante tutto l'anno. Curcuma, canna da zucchero, grano, verdure e più recentemente uva e melograni sono colture thota comuni e sono coltivate principalmente per scopi commerciali. In quanto aree basate sulla coltivazione intensiva dell'acqua, le terre thota sono state soggette alle prescrizioni di tecniche e conoscenze agricole "moderne". Si ritiene che le colture acquisiscano determinate qualità dalla terra e, a loro volta, le trasferiscano alle persone. Le colture da semi locali coltivate senza irrigazione artificiale sono chiamate javari (locali / organiche) e sono considerate più gustose e rinforzanti rispetto ai raccolti coltivati con l'acqua. "Coloro che mangiano il riso sono come gli uccelli e quelli che mangiano il sorgo sono come i lupi", è un detto popolare che indica associazioni popolari tra la scelta del cibo e la forza. Questa categorizzazione dei tipi di terreno e delle colture e la nozione di corrispondenza umorale, in cui le colture acquisiscono qualità dal suolo che vengono poi trasferite ai consumatori, si è rivelata applicabile alla pratica della scienza medica dell'Ayurveda (Zimmermann). Il sostanzialismo come base delle pratiche agrarie è forse un'estensione dell'epistemologia generale che Marriott (1976) e altri riconoscono come non dualismo dell'Induismo. 'Appropriatezza' (hada) Hada nel contesto agrario si riferisce allo stato dei campi o delle colture che, in relazione a diversi fattori o situazioni, si trovano nel "tempo / fase / condizione giusti" per svolgere diversi compiti agricoli. Come il principio di satmya (appropriatezza) che Zimmermann (1980) considera il principio centrale della pratica ayurvedica, l'agricoltura locale a Bijapur è condotta correlando 'appropriatamente' la guna (qualità) dei suoli a quella di una stagione appropriata, e quindi condurre le attività agricole necessarie. Questa variabilità dettagliata nella pratica agricola, indica un complesso agricolo radicalmente differente dall'agricoltura "scientifica moderna", che ha l'uniformità come base. 'Abbondanza' (hulige) Sebbene l'agricoltura autoctona e non moderna sia spesso considerata orientata alla sussistenza, il complesso agricolo di Bijapur contiene molteplici indicazioni di orientamento intorno alla "produttività". Diverse canzoni contengono suppliche per "benedire i nostri contadini del villaggio con abbondanza". I riti semestrali charige chaluvudu ("spargere / versare un pasto") sono riti di fertilità e connotano esplicitamente una forte valorizzazione culturale della produzione. Queste cerimonie vengono condotte appena prima della raccolta sia del raccolto yere che di quello maddi. I membri della famiglia di coltivatori preparano cibo speciale e, accompagnati dai lavoratori, eseguono i riti nei campi che contengono raccolti completamente maturi. Un membro della famiglia propizia per primo Laksmi, la dea della prosperità, qui solitamente rappresentata con una pietra e posta al centro del campo o sotto un albero di acacia, dove le viene offerto il cibo. Questi rituali di pre raccolta sono importanti nel ciclo agro-rituale e il loro svolgimento è considerato vitale per il benessere della terra e per l'unità della famiglia e della comunità, tanto che chi non ha la propria terra è spesso invitato alla festa. I riti hulige rappresentano una fonte di produzione culturalmente riconosciuta in termini di abbondanza che la terra conferisce. In quanto abbondanza donata, l'hulige è diverso da un orientamento puramente economico alla produttività come output lavorato e comprende l'idea che la produttività abbia origini sacre e sia legata agli obblighi sociali. Sebbene la produttività in questo contesto locale sia un concetto sociale e morale, non preclude un fine economico verso la produttività. Questi riti indicano sia la fonte di produzione riconosciuta (la terra), sia l'orientamento sociale e morale (per soddisfare i bisogni economici e gli obblighi sociali) di tale produzione. Indipendentemente dalle distinzioni di casta e proprietà, questi precetti di guna, hada e hulige consentono agli agricoltori di collegare terra, stagioni e raccolti e di negoziare prescrizioni culturali e transazioni sociali. Inoltre, questi precetti promuovono pratiche come la coltivazione a rotazione, la consociazione e il maggese periodico - metodi che consentono ciò che gli agricoltori usano chiamare la forza della terra. Queste pratiche sono state il fondamento del sostentamento per generazioni. Nonostante queste caratteristiche, l'agricoltura locale è sempre più soggetta a mutamenti; cambiamento che è diretto dall'agenda di sviluppo nazionale. Cambiamenti nel paesaggio Bijapur, in quanto area semiarida soggetta a siccità, è doppiamente soggetta a programmi e politiche che cercano di rielaborare sia la sua base ecologica che il suo orientamento culturale all'agricoltura. L'agricoltura secca, la forma predominante di agricoltura a Bijapur, ha connotazioni negative per la burocrazia dei servizi agricoli e per gli scienziati. Il “Servizio di Estensione Agricola” lavora con gli agricoltori, con l'intenzione di cambiare i modelli agrari locali. La promozione dei semi ibridi, in particolare, avviene in termini comparativi: i semi locali producono meno della metà di quelli ibridi e un aumento della produzione significa maggiori profitti. L'aumento palese e nettamente evidente della produzione che i fertilizzanti chimici e le sementi ibride consentono, è l'incentivo principale per gli agricoltori a cambiare le loro pratiche agricole locali per il nuovo. Con l'accesso all'acqua perenne, la terra thota (giardino) è più compatibile con i requisiti delle moderne tecniche agricole rispetto a maddi e yere. C'è poca considerazione per abbinare la qualità del suolo alle esigenze delle colture. Diversi fertilizzanti renderanno la terra "hada" (appropriata), solo se lavorano in modo "sistam" (sistematico) per aumentare la produzione. La diffusione dei metodi agricoli moderni implica l'inscrizione di un intero complesso di nuovi significati nelle relazioni uomo-terra e nelle relazioni uomo-uomo. Diventare 'sistam' Sistam significa uniformità e rispetto di rigide regole con l'unico scopo di massimizzare la produzione delle colture. La nozione più ampia e socialmente inclusiva di hulige è ristretta al suo aspetto puramente strumentale e orientato al reddito di utpati. La dimensione dell'agricoltura moderna impone un insieme di azioni e linee guida imitative e indotte dall'esterno gli agricoltori. Agenti come insegnanti del villaggio, operatori sanitari in visita e operatori dello "sviluppo" forniscono direttive ai residenti del villaggio per modificare le loro conoscenze, il know-how e la cultura in generale. school day through homework, the making and consumption of family meals, the supply of entertainment and leisure through radio, television, and magazines, and the regulation of fertility implied by all of those activities Nascondimento When they are functioning as intended, infrastructures tend to disappear into the background: they become invisible. In homes, pipes carrying water, waste, electrical wires, and phone and telecommunication wires are all hidden inside walls; in cities, these infrastructures are often hidden under streets. They become visible only when they break down—when the walls have to be broken because of a leaking pipe, or when roads have to be dug up to install new highspeed telecommunication cables. Unlike consumer objects like cars, refrigerators, and television sets, infrastructures are not intended to be displayed and aestheticized.3 Infrastructures have been critical to the biopolitical project of managing the welfare of the population Normatività The normative in social science is often that which is presupposed. n the case of electricity, the normative is smuggled in through the idea that all individuals should be connected to a grid, which supplies them with a continuous flow of electricity. In the mid-1980s, I lived in a small village in Uttar Pradesh in northern India where homes had not been connected to the grid. In official parlance, the village had been “electrified,” which conveyed the image of being jolted into modernity. In reality, though, the wires reached only the tube wells in the fields, not the homes of villagers.5 There were no streetlights, and the few television sets found in the village drew power from diesel generators Yet the lack of electricity in this village was conducive to the creation of a lively social and political sphere. After dark, once all of the day’s chores were done and before going to sleep, there was time for amiable sociability. Small groups of men would gather on the porches of homes, while women would gather at each other’s homes, exchanging information, gossip, and news. Children would play in the streets. With no other entertainment and with no light to elongate the working day, this time was spent in creating and maintaining a public sphere. The darkness, paradoxically, enabled a sense of community to be built in the village Rischi Far from seeing electricity as a form of liberation, some villagers experienced it as increasing the possibilities of surveillance and control. However, I do not want to give the impression that living in the dark was a positive feature of social life for all segments of the population. For example, when women had to go out to the fields at night to irrigate fields or to defecate, they faced an increased risk of sexual violence. The darkness hid the trysts of lovers, but it also hid forms of gendered violence that made everyday life much more difficult for women What this makes clear is that although the focus of government policy and popular perception is on whether people are connected to the grid, this fact alone is less important than the quality of electricity to which people have access. Gupta lavora in città: As soon as dusk approached, the voltage would drop alarmingly. Hundred-watt light bulbs would glow as feebly as candles, and tube lights stopped working altogether. The elements in the electric heaters that I used to keep warm were barely visible. I poveri e l’elettricità The relationship between electric power and the poor is a particularly vexed one for states in the global South. while connecting all citizens to the grid might be an index of the modernity of the nation-state, the problem remains how poor people can afford to pay for this relatively expensive product. Paradosso del Sud Africa Many poor Africans who were off the grid now have access to electricity, but do not have the money to pay for its use. The only way to benefit from a good that has supposedly been provided to them is to doctor the meters so that they can use electricity for free. Thus, we arrive at a paradoxical situation where the poor are connected to the grid, but cannot use electric power. Modernity has arrived without delivering on its promise: it has not made the lives of the poor easier Slum in India Since the large majority of the urban poor live in unauthorized settlements—that is, slums—they cannot officially be granted electrical connections. Once such connections are officially granted, they can be leveraged to prove residence and thereby to convert unauthorized hutments into legal occupancy. Therefore, power companies refuse to give official connections to residents of slums. However, they recognize that people need electricity to live in an urban environment. Thus, they unofficially allow slum residents to tap into power lines. Politicians, police, and bureaucrats are all complicit in this lawbreaking India rurale providing free power to farmers has many undesirable consequences, apart from its impact on the bottom line of power companies. It encourages farmers to pump groundwater excessively, leading to a lowering of the water table. It encourages them to grow water-hungry crops even in arid environments. And it increases inequality in rural areas, because richer farmers are able to afford the cost of tube wells and pumps more easily. As a consequence, most people in rural areas receive electricity for only a few hours every day Antropologia dell’elettricità As social scientists, we know almost nothing about what consumers in the global South are doing with energy: what sources of energy they use in daily activities, what they use them for, how, when, and why they switch from one source to another, and so on.7 Electricity is particularly important because it is seen as clean and modern, and because it mitigates existing local air pollution caused by the use of petroleum, kerosene, and wood for transportation, cooking, and heating. How electricity is generated, transmitted, distributed, and consumed is fashioned by existing social arrangements, but also profoundly shapes political and social structures. Energopolitics is also closely linked to biopolitics (Boyer 2014). The manner in which electricity is generated and distributed has a profound impact on daily life. The biopolitical uses of electricity—its role in lighting streets and homes, in creating and regulating the desire for commodities involved with entertainment and domestic work, in shaping design and architecture by heating and cooling indoor spaces, in making life more comfortable for the population—have received almost no attention in anthropology The supply of electricity is unable to keep up with demand, and there is a persistent shortfall of approximately 11 percent at peak power. Futuri elettrici The dystopian future embodied in the eco-suicidal age of the Anthropocene makes it clear that nation-states in the global South cannot emulate the developmental trajectory of the global North. Furthermore, it is equally clear that nation-states in the global North cannot continue on the trajectories they have followed until now. Bringing more people to the grid so that they can consume more electricity is neither feasible nor desirable. Yet this is precisely what so many solutions to climate change seek to do. Generating and using more electricity is taken as a foregone conclusion: the question is merely how to do it with the least impact on the environment. One of Mahatma Gandhi’s critiques of electrical power was the worry that it would bring centralized control over the lives of people in remote villages and prevent communities from becoming self-sufficient for their energy needs (Kale 2014, 28). A combination of wind, solar, biomass, and electric power could meet all of a community’s energy needs and, whether we like it or not, that is the future of energy sustainability on the planet, since we cannot continue to burn the energy stored inside the earth. Soluzione The first step towards such a model of sustainable energy use is to match the quality of energy to its end use. The availability of cheap electricity has led to its misuse. It is thermodynamically inefficient to convert low-quality forms of energy like solar and wind power into electricity and then to use that electricity for low-quality uses such as heating, cooling, and cooking. Electricity is needed for very few functions and, by carefully matching energy quality to use and through better demand-side management, a high quality of life could be attained with a fraction of the energy that we use today. The failure of development discourse lies in the fact that it seeks to replicate globally the condition of the global North, even as it is increasingly evident that such a condition is unsustainable and leads to eco-suicide. Gandhi was prescient about the unsustainability of modern developmental models when he reportedly said: “If it took Britain half the resources of the world to be what it is today, how many worlds would India need?” Tuttavia, come per gran parte del delta, la riforma ebbe effetti piuttosto contraddittori se non del tutto fallimentari: i pochi ettari concessi agli assegnatari avevano rese molto al di sotto della aspettative. 2. Abbandono, migrazione, ritorno il nascente mercato comunitario europeo cambiò sostanzialmente i valori economici del settore agricolo e in mancanza di misure adeguate il delta fu fortemente penalizzato. Gli assegnatari cominciarono così a svendere poderi e case per emigrare verso l’entroterra urbano o per tornare alla pesca in laguna e in mare 3. Grandi Alluvioni Tra gli anni Cinquanta e Settanta, tuttavia, si verificarono anche alcuni dei più gravi disastri alluvionali nella storia del delta padano, a partire dalla Grande Alluvione che nel 1951 travolse il Polesine. Goro stessa, nel 1958, fu sommersa da una rotta arginale a mare di enormi proporzioni. La violenza di tali fenomeni fu amplificata, se non addirittura favorita, dall’abbassamento del suolo provocato dall’attività di estrazione del metano Storia delle vongole La corsa all’oro nero di Goro – per utilizzare un’espressione ricorrente tra i vongolari e le vongolare – ha una data d’inizio molto precisa. È nel 1986, infatti, che un giovane biologo goranto, il Dottor Paesanti, dopo aver convinto il Consorzio dei Pescatori, decide di tentare la semina sperimentale di un mollusco alloctono, nome scientifico: Ruditapes Philippinarum – vale a dire: la vongola delle Filippine. L’esperimento va ben oltre le aspettative e in meno di tre anni Goro e Gorino vengono travolte da un vero e proprio boom economico senza precedenti. Negli anni Novanta, la vicenda viene descritta come la “febbre della vongola” o la “febbre dell’oro”: il valore di mercato del 4 mollusco fa triplicare i redditi locali e in lasso di tempo rapidissimo le precedenti attività di pesca vengono sostituite da quella che assumerà i tratti di un’effettiva monocoltura acquatica estremamente profittevole Industrializzazione con connotati socio-ambientali unici 1. Un primo aspetto che vale la pena sottolineare è quello che concerne il processo di domesticazione del non-umano, da intendersi come l’espressione tecnico-scientifica di un’ideologia modernista tipicamente occidentale, secondo la quale lo stato di avanzamento di una società sarebbe determinato dal controllo e dal dominio che questa è in grado di esercitare sul vivente – e in particolare su quei soggetti cui è attribuito un valore produttivo, reddituale e commerciale. La deriva capitalistica delle tecniche di domesticazione, tuttavia, si realizza nella de-soggettivazione del non-umano, nella sua riduzione a risorsa quantificabile e dunque a disposizione. La vongola delle Filippine, de-localizzata dalla sua origine geografica attraverso le pratiche di ricerca laboratoriale globale, è stata trasfigurata localmente in “seme”, “oro”, “farina”, “pietruzza” o “prodotto”, negandole di fatto la natura soggettiva e agentiva che le è propria in quanto animale 2. Un secondo aspetto utile al prosieguo della nostra analisi riguarda l’ecologia culturale locale, che in meno di una generazione ha abbracciato e introiettato un paradigma socio-ambientale marcatamente estrattivista. In questo caso, il concetto di estrattivismo è utile per far emergere un’altra direttrice dell’ideologia ultra-modernista e capitalista, vale a dire l’esasperazione di pratiche monofocalizzate che nella maggior parte dei casi finiscono per rivelarsi insostenibili, ignorando le conseguenze ambientali a lungo termine a vantaggio di ritorni economici di breve termine. La semantica emica fin qui rintracciata è una chiara testimonianza del rovesciamento ecologico vissuto localmente: laddove le antiche tradizioni di pesca, ormai sul punto di scomparire, esprimevano un’eterogeneità di pratiche “anfibie” e flessibili fondate sull’interdipendenza, sul riconoscimento e sul carattere incerto del non-umano la rivoluzione della venericoltura ha instaurato un’inevitabile disconnessione ecologica dal vivente, riducendo a una singolarità tecnico-scientifica il senso stesso dell’ambiente lagunare. Duplice effetto: ➢ le molteplici frequenze non-umane della laguna sono state silenziate a vantaggio del virtuosismo solistico della vongola filippina; ➢ dall’altro, l’assolo di questo miracoloso oggetto di laboratorio ha finito per rendere egemonica, anche sul piano sociale, l’infrastruttura del suo motivo e del suo ritmo estrattivo Predeterminazione Le ritmiche lagunari sono un continuo divenire di molteplici frequenze, intensità e tonalità, il cui tempo d’esecuzione non è mai dato a priori ma è esso stesso frutto di un arrangiamento “anarchico” che può suonare tanto meraviglioso quanto catastrofico. Il destino degli specchi lagunari è in linea di principio prestabilito: 1. il continuo deposito di sedimenti fluviali produce nel tempo lunghi dossi sabbiosi detti scanni, 2. il cui continuo accumulo e prolungamento sotto forma di cordone litoraneo porta alla chiusura della laguna stessa. 3. Una volta interrotto lo scambio di acque dolci e salate, la laguna diviene dapprima acquitrinosa e poi definitivamente paludosa. 4. Il mutamento dell’habitat conduce al deperimento e alla morte della polifonia vivente lagunare, innescando nel contempo nuove proliferazioni vitali e altrettante ritmiche ecologiche. La predeterminazione – affatto rigida e unidirezionale – di questo processo è alla base dell’esplosiva creatività biologica degli ecosistemi deltizi, vere e proprie fucine artistiche del vivere e del morire. In anni recenti, la ricchissima biodiversità di questi ambienti è stata oggetto di più o meno legittime strategie di tutela ambientale e promozione turistica, che hanno consolidato l’idea di una natura incontaminata e selvatica da preservare Capitalismo come assenza del non umano Ciò mostra l’ambivalenza ideologica e performativa propria della nozione moderna di Natura: - nel mito fondativo della venericoltura goranta, il successo della semina sperimentale è stato perlopiù attribuito al sapere esperto di un biologo, alle sue tecniche di ricerca scientifica e alla sua innegabile intuizione; - allo stesso modo, il successivo boom economico è stato orgogliosamente rivendicato come il frutto del duro lavoro di riprogettazione tecnica e industriale della laguna, con la creazione di tecnologie meccanizzate uniche nel loro genere e con lo sviluppo di strutture in grado di sostenere elevati carichi produttivi. A ben vedere, il non-umano, nell’«impresa della vongola», è quasi del tutto assente Ciò mostra un processo di selezione semantica e culturale. 1. la domesticazione del soggetto vongola è stata resa possibile dalla sua riduzione a un set di parametri biologici e una conseguente indicizzazione del prezzo di mercato: il sapere tecnico-scientifico ha cioè convertito la sua agentività ecologica in prestazione biologica misurabile, mentre l’elevato valore di mercato ne ha convalidato la presenza in quanto vettore di scambi economici altamente profittevoli. 2. In secondo luogo, la mono-focalizzazione di questa narrativa si presenta come una forma di ascolto storico che ammutolisce, più o meno intenzionalmente, le restanti voci di quell’arrangiamento più-che-umano. In tal senso, la nascita della venericoltura goranta, pur dovendo moltissimo all’audacia di un giovane scienziato e all’inventiva pratica delle comunità locali, è propriamente il frutto di una composizione polifonica e di una convergenza imprevedibile di flussi, sostanze, capitali, tecnologie, organismi, atmosfere e significati: una jam session Acqua, vento e sale: La recente formazione della Sacca di Goro – esito della deviazione del Po operata dagli ingegneri veneziani agli inizi del Seicento –, il suo orientamento e l’ampia bocca di affaccio sull’Adriatico, le hanno permesso di stabilire relazioni uniche con le maree, con i venti di Scirocco provenienti dal Mediterraneo meridionale e con quelli di Bora dalle regioni continentali, generando una vivace mescolanza di acque salmastre e fondali fangosi in cui una ricca fauna ittica ha potuto continuare a prosperare per secoli. Azoto e fosforo Con l’affermarsi della agricoltura intensiva in Pianura Padana, a partire dal Secondo Dopo Guerra, gli sversamenti, gli scarichi e le infiltrazioni di fertilizzanti chimici a base di fosforo e azoto sono aumentati in misura esponenziale e ininterrotta sino ad oggi. Tali composti chimici sono le principali sostanze nutrienti del fitoplancton lagunare, di cui si alimenta gran parte della flora e della fauna di questi ecosistemi – che proprio in virtù di tale abbondanza nutritiva sono talvolta detti “eutrofici” Combustibili fossili: le principali tecniche e strumentazioni di semina e raccolta della venericoltura dipendono dall’ausilio di motori a scoppio alimentati da combustibili fossili come benzina e gasolio Calore: le emissioni di gas climalteranti hanno suscitato negli ultimi cinquant’anni un evidente aumento delle temperature medie di mari e oceani. Nel Mar Adriatico, per restare nel contesto di nostro interesse, tale dinamica risulta particolarmente esasperata, con un incremento di circa 1.3 gradi centigradi sulla scala di un secolo. L’esito è una sempre più marcata tropicalizzazione degli ecosistemi costieri La vongola delle Filippine: si tratta di una specie proveniente dal Mar del Giappone che si è diffusa in gran parte delle regioni dell’Oceano Indiano e del Pacifico. Si insedia a bassa profondità nei fondali sabbiosi o fangosi di contesti con maree non eccessivamente turbolente o marcate. Il suo alimento principale è il fitoplancton. Raggiunge la maturità sessuale in circa un anno e il suo periodo riproduttivo copre i mesi che vanno che da maggio a ottobre, mentre nel periodo invernale tende a riposare. Gan, Il riso dei miracoli e la rivoluzione verde Negli anni Sessanta, nel Sud-Est Asiatico gli agricoltori cominciarono a piantare i semi di una varietà nota come il “riso dei miracoli”, sviluppata dagli agronomi dell’International Rice Research Institute (IRRI) nelle Filippine. ➢ colture a crescita rapida e ad alto rendimento, ➢ con tempistiche di raccolta drasticamente ridotte grazie a nuovi input, ○ quali fertilizzanti chimici, ○ insetticidi, ○ attrezzature meccaniche, ○ nuove infrastrutture che includevano reti di irrigazione, centri di divulgazione agricola e servizi bancari rurali Queste varietà, che gli scienziati dell’IRRI e i centri di divulgazione definivano come “moderne” o “d’élite”, segnarono una transizione netta dalla coltivazione del riso come stile di vita alla risicoltura in quanto pacchetto tecnico-scientifico La coltivazione del riso, nell’ambito della produzione alimentare, è considerata oggi una delle attività a più alto consumo di terra, acqua e forza lavoro. Attraverso: - le trasformazioni coloniali dell’Indocina a partire dal Diciannovesimo secolo, - la rivoluzione verde nel Sud-Est Asiatico negli anni Sessanta - l’impiego sempre maggiore delle tecnologie per la ricombinazione del DNA negli anni Ottanta il riso commerciale è diventato la principale fonte alimentare per mezzo mondo. In che modo possiamo spiegare trasformazioni che, essendo così varie e al contempo interrelate, si dispiegano su piani e intervalli temporali differenti? 1. Le convenzionali unità di misura del tempo come gli anni, i mesi e i giorni, le periodizzazioni storiche con cui gli eventi vengono racchiusi all’interno di blocchi temporali definiti, 2. anche le stratificazioni della geologia, che organizzano le epoche come se fossero gli strati di una torta, si rivelano del tutto insufficienti per analizzare la complessità insita nella continuità, nel cambiamento e nell’emergere dei fenomeni. Abbiamo bisogno di nuove prospettive critiche e di una maggiore creatività analitica sulla temporalità: solo così, forse, potremo comprendere più a fondo quella materialità contingente e indeterminata che condiziona, in modo non trascurabile, non solo i nostri stili di vita contemporanei, ma anche le possibilità di futuri diversi e condivisi. Intento: idea di una competizione indesiderata per spiegare il modo in cui le molteplici vite di una pianta possono esprimere un cambiamento rivoluzionario. Per farlo, seguo: 1. le tracce materiali dell’IR36 – la varietà di riso dei miracoli più seminata fino ad oggi – e la sua forte dipendenza da fertilizzanti a base di azoto; 2. ma seguo anche le inedite attitudini vegetali, animali e virali che emergono dalle contaminazioni chimiche e dalle accelerazioni forzate dei raccolti. Seguire l’IR36 ci permette di analizzare una configurazione aleatoria di umani, non-umani e macchine che può produrre e mettere in moto una congiuntura in grado di cambiare il mondo. In questo caso, mi concentro su una particolare configurazione dell’IR36, descrivendola come una macchina del tempo che, attraverso le molteplici interazioni di processi più-che-umani, viene continuamente assemblata, smontata e riconfigurata. Emerge una ricostruzione alternativa di cambiamenti storici e contemporanei che, di fatto, mettono in discussione le narrazioni antropocentriche e teleologiche del progresso. Se la modernità può essere intesa come l’esito di processi di rapida accelerazione, il caso del riso dei miracoli ci permette allora di esplorare le temporalità che guidano tali accelerazioni, indagando di che tipo siano e a quali soggetti siano riconducibili. punto di vista contromodernista: Mentre la modernità si auto-rappresenta come una forma di progresso che può solo avanzare, o come un’infrastruttura estremamente efficiente costruita e resa funzionante dagli umani, i quali possono così standardizzare, accelerare e garantire risultati , questo lavoro è un invito a «scrivere una storia alternativa». Quando specie diverse si incontrano, lo sviluppo di capacità inedite e le predisposizioni naturali acquisiscono senso in modo differenziato. Il mio approccio intende decentrare l’azione dell’uomo, inteso come soggetto preminente dotato di telos – cioè in grado di conferire un ordine al mondo – e cerca di far avanzare il racconto storico facendolo confluire su di un unico binario Peraltro, decentrare l’umano non significa rimpiazzarlo con il protagonismo univoco di un’altra specie – che nel mio caso sarebbe il riso. Al contrario, la mia narrazione e il mio interesse si rivolgono a una “configurazione temporale”, cioè a un soggetto coordinante che oltre a essere collettivo, è sempre e comunque più-che-umano se non è il prodotto dell’agentività e dell’intenzionalità umana, in che modo una configurazione temporale si manifesta? Come avverrebbe dunque una rivoluzione e come farebbe ad affermarsi? Nel resoconto che segue, per risolvere l’enigma mi sono messa ad armeggiare con una sorta di “macchina del tempo”, un metodo che mi ha permesso di analizzare le variegate relazioni di coordinazione da cui emerge una configurazione inedita. Oryza: un varco temporale Il genere Oryza comprende almeno venti specie e un migliaio di varietà di erbe graminacee che la maggior parte di noi chiama riso. Diciotto di queste specie sono classificate come “selvatiche”, e hanno proliferato per millenni indipendentemente dall’intervento umano. Due sono invece considerate “domesticate” o cultivar, cioè varietà che almeno da diecimila anni gli umani hanno attivamente coltivato attraverso continue pratiche di selezione: Oryza sativa o riso asiatico, e Oryza glaberrima o riso africano. Le varietà O. sativa (l’indica, robusta e dai chicchi di forma allungata; e la japonica, con chicchi morbidi e appiccicosi) derivano da due progenitori selvatici, O. rufipogon, una specie perenne, e O. nivara, una specie annuale. O. glaberrima, con i suoi grani rossi, deriva invece da O. barthii, un riso selvatico galleggiante che è stato in grado di sopravvivere alle dinamiche alluvionali del fiume Niger. Essendo una pianta estremamente adattabile, il riso prospera in un’ampia varietà di condizioni climatiche e nicchie ecologiche. Dunque, non c’è una singola varietà di riso, ma una vivace gamma di forme relazionali e attitudini mutevoli. Si potrebbe dire che il riso è ontologicamente metamorfico; trova cioè il modo di prosperare giocando con la dimensione del tempo. Il riso dipende da chi o cosa incontra, dove e quando. Donna Haraway definisce il gioco come una forma di sintonia non-mimetica, una modalità di fusione e sincronizzazione multispecie che rende possibile l’apertura di un varco nel tempo: Come il linguaggio, il gioco riorganizza gli elementi in nuove sequenze per creare nuovi significati. Per ogni ciclo che porta dal seme al chicco, diversi flussi di energia si uniscono, aprendo i confini tra il possibile e l’impossibile. Il giusto equilibrio tra acqua, nutrienti e temperatura porta alla rottura del tegumento e così inizia la crescita. Si sviluppano il germoglio, le radici, e poi le foglie. Durante la crescita la pianta sviluppa un gambo più robusto, da cui spuntano nuovi germogli. Sulle estremità iniziano a comparire piccole spighe e pannocchie. La pianta si àncora ulteriormente nel terreno grazie alle sue radici, la cui lunghezza varia in coordinazione con il suolo, l’umidità e la presenza di batteri e micorrize, a loro volta intrecciate in altri insiemi di coordinamenti. Non appena sulla punta appare l’ultima foglia (chiamata anche “bandiera”), le spighette cominciano a fiorire e nell’arco di qualche giorno sbocciano; avendo una durata di poche ore, la finestra di tempo per l’autoimpollinazione, per l’impollinazione da vento e per la fertilizzazione è stretta. Successivamente, i chicchi iniziano a maturare, sviluppandosi nell’arco di quindici-quaranta giorni, in base alla varietà di riso e alla temperatura. Dal momento in cui si riempiono di amido, cominciano ad assorbire la maggior parte dei metaboliti della pianta, e così ha inizio la fase di invecchiamento delle foglie, cioè la senescenza. È solo grazie a una moltitudine di processi di sintesi e conversione che i 5 chicchi riescono ad assimilare l’amido: la luce solare viene convertita in carboidrati, i batteri partecipano alla fissazione dell’azoto, mentre l’anidride carbonica e l’acqua si trasformano in ossigeno. Ogni ciclo è differente. Ogni seme è dunque un fenomeno ricorsivo: al suo interno si trovano le possibilità in continuo divenire che un insieme differenze, incontrandosi al momento giusto, può generare. In tal senso, l’agentività del riso si situa e si esprime attraverso un’attitudine ludica. tipiche di un assemblaggio ecologico, all’efficienza tecnica della rapida catena di montaggio fordista. Con il supporto delle fondazioni Ford e Rockfeller, l’IRRI divenne il primo istituto di ricerca transnazionale del suo genere, la cui missione era quella di garantire la continuità di queste colture. Ai paesaggi risicoli fu così imposta una programmazione di tipo industriale, che generò una sorta di universo a orologeria meccanica, scandito dalla precisa ciclicità organica di semi incredibilmente resistenti e puntuali. Tuttavia, l’intensificazione del riso si basava sulla diminuzione della sua diversità, cioè sul ridurre la sua forma di vita a una base genetica pericolosamente stretta. Le varietà di riso dei miracoli divennero così dei “mattoncini genetici”, le cui caratteristiche ben si prestavano alla costruzione delle pratiche colturali. L’antropologo James J. Fox rintracciò le origini del riso dei miracoli indonesiano risalendo fino al progenitore materno, una varietà cinese nota come Cina, che fu introdotta a Java nel 1914. Nel diagramma, Cina si trova nel riquadro in alto a sinistra. Proseguendo verso destra nello schema, Fox mostra le ibridazioni che furono sviluppate tra gli anni Quaranta e gli anni Ottanta. Nel 1940, attraverso un programma di ibridazione olandese-indonesiano, Cina fu incrociata con Latisail, una varietà bengalese: si trattò di un evento senza precedenti per la storia del riso. L’incrocio produsse delle varietà caratterizzate da stelo robusto e crescita rapida: una di questa fu denominata Peta. Vent’anni dopo, Peta fu incrociata con una varietà taiwanese semi-nana nota come Dee-geo-woo-gen (o DGWG): ne uscì l’IR8, la prima varietà di riso dei miracoli sviluppata dall’IRRI. A partire dall’IR8, Fox ha ricostruito il processo di «massiccia erosione della diversità genetica che ha coinvolto tutta l’Asia tropicale». Proseguendo da sinistra verso destra nel diagramma, Fox mostra che, nel 1981, più di tre quarti delle risaie nelle Filippine erano stati coltivati con varietà IR – tutte derivate da Cina. Il 90% di quelle risaie era stato seminato con una sola varietà: l’IR36 (Plucknett e Smith 1987: 171-185). Questi campi di semi sovrannaturali e perfettamente identici richiedevano però un sostanziale reindirizzamento di energia. Se il riso era stato convertito in una macchina, assemblata come una Ford Model-T, quale fonte alimentava la sua nuova velocità? Propagazione: l’azoto Nell’epoca moderna, la rivoluzione verde si è rivelata come uno dei più grandi sconvolgimenti antropogenici del ciclo globale dell’azoto. A partire dagli anni Sessanta, il tasso di utilizzo di azoto sintetico nel mondo è cresciuto di almeno sette volte. Un raddoppio dei raccolti risicoli è dipeso, di fatto, da un aumento di trenta volte superiore nell’impiego di fertilizzanti a base di azoto. Il tempismo è un fattore cruciale quando si concima il riso; molti agricoltori finiscono per esagerare, non essendo abituati alla rigorosa programmazione di questi miracoli tecnico-scientifici. Fino a due terzi dei fertilizzanti azotati si riversano così in ecosistemi non-agricoli, provocando contaminazioni di vaste proporzioni e fenomeni di eutrofizzazione. Tali processi soffocano – letteralmente – le reti di interdipendenza terrestri, acquatiche e atmosferiche. In un articolo del 1998 pubblicato su Nature, l’ecologo David Tilman scriveva: L’intensificazione dell’agricoltura ha spezzato quello che un tempo, nelle attività agricole locali, era il processo localizzato ed equilibrato di riciclo dei nutrienti. A ben vedere, la rivoluzione verde e gli allevamenti su larga scala che ne sono derivati ricordano le prime fasi della rivoluzione industriale, quando le fabbriche, oltre a essere inefficienti, inquinavano senza alcun tipo di restrizione […] Questo ha portato a una falla nel ciclo dell’azoto che sta rapidamente degradando molti altri ecosistemi (1998: 211). C’è qui in gioco un doppio movimento che è stato scarsamente approfondito: Considerando la materialità del riso considerando ora la materialità dell’azoto c’è stato un rapido consolidamento di varietà selezionate, frutto dell’erosione della biodiversità c’è stata come un’eruzione, una sovrabbondanza che ha soffocato altri cicli. L'azoto è un elemento presente ovunque e costituisce l'80% dell'atmosfera terrestre. Ha legami chimici forti, in particolare un triplo legame che lo rende estremamente stabile e poco incline a reagire in altri processi chimici. Tuttavia, per sostenere la vita degli organismi come le piante, l'azoto atmosferico deve essere trasformato o fissato. In passato, sembrava che solo i batteri o alcune forze abiotiche come i fulmini, l'attività vulcanica o il fuoco potessero innescare la fissazione dell'azoto, limitando la proliferazione della vita. Tuttavia, nel 1909, il chimico tedesco Fritz Haber, presso l'Università di Karlsruhe, sviluppò con successo un processo per fissare artificialmente l'azoto combinandolo con l'idrogeno per formare l'ammoniaca (NH3). In collaborazione con il suo collega Carl Bosch, Haber industrializzò il processo, consentendo la fissazione dell'azoto e la produzione su larga scala di ammoniaca. Questo risultato fu un'importante svolta poiché rese possibile superare il limite precedente e fornire una fonte abbondante di azoto per l'agricoltura e l'industria. La qualità e l’intensità delle relazioni di coordinazione cambiò: Prima, la fertilità del suolo era legata alla luce solare, alla presenza e alla decomposizione di nutrienti organici come il letame, e alle diverse periodicità dei batteri e dell’ossigeno Con il processo Haber-Bosch la fertilità fu vincolata ai combustibili fossili. Per generare il calore e la pressione necessari a creare l’ammoniaca, combinando l’azoto e l’idrogeno, erano necessari grandi quantitativi di energia elettrica. L’idrogeno stesso derivava dall’estrazione di carbone, petrolio e gas naturale. Le relazioni tra umani e non-umani procedevano in modo ciclico, attraverso fluttuazioni che si dispiegavano in rapporti di vicinanza localizzati e negoziati in stretta reciprocità. gli input agricoli cominciarono a dipendere in misura crescente dal reindirizzamento e dal trasporto di energia su lunghe distanze sotto forma di fertilizzanti sintetici È importante sottolineare che il passaggio dalla ciclicità locale dei nutrienti al commercio transazionale di fertilizzanti aveva già preso piede in periodi storici antecedenti. Il globale non è poi una scala tanto inedita. Gli storici Edward Melillo (2012) e Gregory Cushman (2013) hanno dimostrato come l'estrazione e l'esportazione di nitrati di sodio dal Cile e di guano ricco di azoto dal Perù abbiano influenzato la realtà moderna del Pacifico. A partire dalla metà del XVIII secolo fino alla Prima Guerra Mondiale, questi fertilizzanti hanno collegato luoghi molto distanti tra loro, come la California, il Cile, la Virginia, la Prussia, la Gran Bretagna e la Francia. La diffusione di questi fertilizzanti non si basava solo su nuove modalità di sfruttamento della forza-lavoro o sul sistema del peonaggio per debito, ma anche sull'uso di moderne tecnologie di trasporto come il treno, la nave a vapore e il clipper con scafo in acciaio. In ogni caso, i nitrati rimpiazzarono in fretta il guano verso la fine degli anni Settanta dell’Ottocento e l’ammoniaca sostituì il nitrato di sodio a partire dagli anni Trenta del Novecento. Durante la Seconda Guerra Mondiale, il processo industriale Haber-Bosch con cui veniva sintetizzata l’ammoniaca fu impiegato per la produzione su larga scala non solo degli esplosivi, ma anche delle sostanze asfissianti letali utilizzate nelle camere a gas di Hitler. Finita la guerra, le riserve di azoto inutilizzato – quelle destinate alle fabbriche di esplosivi e ai campi di concentramento – divennero disponibili per l’attività agricola, facendo crollare il prezzo dei fertilizzanti. Queste vicende coincisero con lo sviluppo di grano e mais ad alta intensità di input in Messico, e poco più tardi, con quello del riso dei miracoli nelle Filippine. L’abbondanza crescente di sementi ibride delle tre colture più importanti – il grano, il mais e il riso –, insieme alla diffusione di fertilizzanti chimici a basso prezzo, concretizzò nel mondo un ritmo inedito e potente. Nonostante l’accelerazione dei raccolti risicoli, la restante parte del paesaggio non rimase immobile. Le altre specie si attivarono in modi differenti, manifestando nuove capacità di sincronia. Una coppia in particolare reagì al cambiamento con un vigore inaspettato. Risveglio: la cicalina bruna e il virus Le risaie, saturate di fertilizzanti a base di azoto, divennero habitat favorevoli per più di 200 specie di insetti erbivori. Per quanto possa suonare allarmante, una situazione del genere non è necessariamente disastrosa: normalmente una risaia è popolata da un centinaio di specie; a causa di diverse forme di coordinamento ambientale ed ecologico nessuna specie in particolare ha la tendenza a diventare dominante. Un intreccio di ritmi ricorrenti e di eventi contingenti mantiene ogni cosa al suo posto. multidisciplinari che possano seguire queste dinamiche spazio-temporali, che per il loro carattere disarticolato sfuggono agli attuali metodi di ricerca e analisi. Una competizione indesiderata, un groviglio di relazioni coordinanti L’IR36 fu ritirato dalle colture nello stesso decennio della sua distribuzione. Fu presto sostituito. E poi sostituito di nuovo. E di nuovo ancora. I laboratori che sviluppano il riso impiegano tra i dieci e i quindici anni per creare una varietà che, nel giro di quattro-dieci anni, diventa obsoleta. Diversi ecologi e attivisti ambientali hanno sostenuto che questo tipo di agricoltura, che si focalizza sull’ottenimento di cicli di crescita brevi e grandi raccolti di una singola coltura – anziché sulla coltivazione di assemblaggi di specie in grado di sviluppare resistenze collettive –, costa molta più forza lavoro ed energia di quanto restituisca. La realtà è che non esiste un mondo inteso come sistema di approvvigionamento di calorie umane a basso costo. Nonostante ciò, si continua a spingere sull’acceleratore per renderlo tale. In che modo, allora, possiamo esprimere una frenata di questo processo? La frenata potrebbe realizzarsi grazie a una spiegazione alternativa dell’agentività, ovvero la capacità di fare e disfare mondi. In tal senso, render conto delle catastrofi ambientali provocate dal riso dei miracoli, dai fertilizzanti e dagli insetticidi non rappresenta qui la mia preoccupazione principale. Il mio obiettivo è quello di «scrivere una storia alternativa», osservando da vicino certe relazioni di coordinazione temporale. Ognuno di questi elementi è simultaneamente: - un organismo - una macchina - uno spettro Vita e non vita, politica e biogeochimica insieme. La tecno-scienza moderna viene ingerita dalle cicaline attraverso la linfa arricchita di azoto delle piante di riso, di cui ha bisogno per sopravvivere. Allo stesso tempo, attraverso le confezioni di riso che compriamo nei supermercati locali, noi stessi consumiamo gli spettri di virus, insetti, esplosivi e vegetali infestanti. A guidare questa storia non sono né le innovazioni tecnico-scientifiche, né le forze indomabili della natura. Per mappare le relazioni tra il riso dei miracoli e la rivoluzione verde, cioè le modalità con cui una semente tecnico-scientifica esprime una congiuntura in grado di cambiare il mondo, ho impiegato una macchina del tempo, un congegno metodologico con cui ho analizzato il groviglio dinamico di relazioni coordinanti. Ho dedicato particolare attenzione a una serie di temporalità significative, la cui articolazione va oltre le rappresentazioni convenzionali del passato-presente-futuro, tra cui: ● le forme giocose con le quali il riso, inteso come erba graminacea, si armonizza con altre entità e prolifera, evolvendosi su archi temporali di lunga durata e rendendo possibili gli insediamenti umani; ● i programmi accelerati e precisamente scanditi del riso dei miracoli; ● la temporalità dell’azione preventiva che si manifesta attraverso i piani securitari nazionali, il commercio e la domesticazione; ● i tempi appena percettibili della quiescenza dei semi e della conservazione nei silos; ● la rapida e concomitante diffusione dei fertilizzanti sintetici a base di azoto e degli esplosivi; ● il ritmo sempre più veloce delle ibridazioni e del processo di erosione genetica; ● la frenesia dei processi di riproduzione e migrazione della cicalina bruna, intossicata con la linfa azotata; ● le esuberanti sincronie dei simbionti, le replicazioni virali, le epidemie; ● le oscillazioni stagionali e le scale temporali del clima; ● la persistenza di entità spettrali e la ciclicità delle infestazioni che sincronizzano meta-popolazioni di insetti. Questi e molti altri ancora sono gli elementi che coordinano una sorta di competizione indesiderata, in cui velocità differenziali, eppure coesistenti, interagiscono con durate contingenti e indeterminate. Per concludere, vorrei sintetizzare il modo in cui concepisco una possibile frenata: insistere con l’idea che solo certi soggetti umani hanno il potere di innescare un cambiamento significa esercitare quella che Deborah Bird Rose ha definito una “doppia violenza”: «Una serie di ferimenti continui che non solo uccide le parti di un sistema vivente ma, di fatto, disabilita o elimina la capacità che il sistema vivente stesso ha di ripararsi». Ho provato reagire a queste forme di doppia violenza e a dare voce agli spettri di una rivoluzione: per farlo ho proposto un resoconto della materialità vegetale, chimica, animale, microbica e umana che, mescolandosi, esprime una congiuntura in grado di cambiare il mondo. Dunque, ritengo sia necessaria una forma di attenzione critica che riguarda tanto le relazioni di coordinazione temporale, quanto l’articolazione creativa di “macchine del tempo”, le quali ci possono rivelare il modo in cui certe differenze significative si dispiegano e resistono – senza certezza o determinazione alcuna. Queste prospettive sono cruciali per la coesistenza multispecie. Nöbauer, Weather, Agency and Values at Work in a Glacier Ski Resort in Austria glacier ski area of the high alpine valley of Pitztal (Alpi austriache) I propose that snow, like a glacier, is a unique and forceful materialization of the atmosphere and the weather. I conceive of it as a vital materiality. Ski resort provide a good site and entry point for learning more about the multifaceted processes, discrepancies and paradoxes shaping the human–snow–cryosphere relations in the European Alps, which are deeply shaped by global tourism. Vital materiality Political theorist Jane Bennett elaborates a conception of the ‘vitality of materiality’, or what she calls ‘thing-power’, in which ‘vitality’ indicates ‘the capacity of things – edibles, commodities, storms, metals – not only to impede or block the will and designs of humans, but also to act as quasi agents or forces with trajectories, propensities, or tendencies of their own’ Western science Atmospheric cultural and social Western sciences for a long time viewed snow and glaciers as ‘dead matter’, sterile and inhospitable, though they are now acknowledging their physical vitality. The vital and flexible character of snow makes it an essential atmospheric, geological and ecological actor in climate shaping, landscape and glacier formation and soil humidification. Its social and cultural capacities are no less significant, as it can act as a conduit for such vital things as lumber, sledges and snow mobiles, or people such as hikers, hunters and skiers. Conversely, it can impede the movement of humans and of modes of locomotion such as cars, trains, tractors and aircraft. In the destructive force of blizzards and avalanches, snow can destroy humans, animals, forests and the built environment. Lastly, declining natural snowfall and retreating snow cover, which are regarded as prominent casualties of global warming, have the potential to destabilize the skiing industry, which is very important for the national and regional economies of Austria. Multifaceted human-snow relation The multifaceted relationship between snow and humans, two vital bodies acting upon and affecting each other in multiple ways- Intento: In order to give the human–snow interconnectivity a theoretical frame, I will, as already mentioned, draw on Bennett’s theorization of a political ecology of things beyond the human– nonhuman and life–matter binaries, as well as proposing a theory of the distributive agency of the human–nonhuman congregation. In contrast to the dominant strand of political ecology, which often does not explicitly deal with theories of materiality or material culture, Bennett makes a plea for a change in environmentalist rhetoric towards ‘vital materiality’ in order to challenge the human domination of nonhumans Making Snow Reliable: Practices and Values I describe the three most important practices of making ‘snow reliable’ and the pistes secure on the Pitztal glacier ski area: 1. . These are making snow depots and covering these with geotextiles, 2. covering sensitive and dangerous areas of the glacier and permafrost with textiles, 3. and making snow by means of technology. this mixture of practices can be understood in terms of Lévi-Strauss’ notion of ‘bricolage’: different available materialities are combined with a variety of experimental and technological or scientific forms of knowledge to ensure snow reliability. Queste strategie hanno valore economico ma anche sociale e culturale The most crucial practice in providing ‘snow reliability’ takes place at the beginning of the season in September and consists of making pistes out of the snow stored in huge outdoor depots. These are made by workers either during the season, or at its end in May, when they use snow groomers to collect the snow, ready for redistribution again in August and early September. Once distributed, this snow has the appearance of thick (50 cm) white stripes running across the brown-grey rocky landscape. This method has been in use for more than a decade. This harvested snow comprises two-thirds natural and one-third technologically produced snow, which together amounted to approximately 3,000–4,000 m3 in 2015. These depots present a materialized assemblage of natural snow, the bacteria within it, glacier water and the technical snow that is made from it, weather, human labour, snow-making technology, snow groomers, diesel, textile materials and, last but not least, environmental legislation. Depending on the weather, producing the snow depots takes between four and six weeks. Once collection is complete, the workers cover the hills with large white geotextiles in order to prevent the snow from melting too soon. During my fieldwork stay in 2015, there were seven such huge hills of snow awaiting distribution and 7.5 hectares of textiles were protecting them. Usually the textiles can be reused for three seasons. However, as was explained to me by Heinrich, some covered snow depots might, depending on the natural snow cover In addition to the snow depots, certain glacier and permafrost areas are also covered with textiles during the summer period. The aim of this is to prevent the ice and permafrost from rapid melting and to keep the pistes safe. The specific ‘sensitive’ and dangerous zones protected in this way are around the ski-lift towers, the rocky outcrops on the glaciers, and retreating and collapsing glacier terminuses Scoperte scientifiche This was before glaciologists from the University of Innsbruck had experimented with project with different textiles to protect glaciers in ski areas in Austria, including the Pitztal, between 2004 and 2008. This research has shown that the covering method resulted in a 60 per cent decrease in ice and snow ablation (Fischer, Olefs and Abermann 2011: 95). These scientific findings were echoed in the narratives of several glacier workers when they attributed a social and ecological value to the snowmanagement practices. ‘We are sometimes blamed by environmentalists for destroying the glacier’, Heinrich emphasized with strong feeling. He continued: ‘But the opposite is the case. Snow-Making: Attempts to Imitate and Modify the Weather It was already used on a few glacier termini in the 1980s. What is new, since the mid-1990s, is its employment for economic reasons at high elevations. snow-making by means of ‘modern’ technology goes back as far as the 1930s. The first experiments were initiated in a laboratory in Japan by the physicist Ukichiro Nakaya, whose research on the composition and capacities of snow is still relevant for today’s meteorologists. Snow-making can be conceived of as a sociotechnological-ecological system shaped and driven by a political ecology. The political ecology consists of numerous actors and quasi-actors standing in particular relations to each other: 1 Human ● The most significant human actors include lift-company shareholders, ski-resort managers and workers, as well as various experts, such as technicians and researchers, and managers within the construction and snow technology industries, environmentalists and political administrators. ● An essential precondition and effect of enabling the snow production described above are the consumers, the tourists and competitive sportspeople who ski on the snow. 2 Non-human ● The most prominent nonhuman actors are the weather forces ● weather-measurement technology, environmental impact assessments and water legislation; ● also relevant are vast amounts of water and the infrastructure for storing and distributing it, ● energy and the infrastructure for producing and distributing it, machinery for making snow (primarily snow cannons) and, last but not least, ● the computer systems that control and activate the daily making of snow. The physical principle of snow-making imitates natural snowfall. The formation of snow basically relies on a specific interplay of air and wind, to which water and energy are added by humans using technological means. To produce snow, the water droplets that are sprayed out from snow cannons under high pressure must freeze. Cold air temperature (usually between -4 and 0°C), low relative humidity and cold water temperature (around 0°C) are essential conditions. The drier the air, the more snow can be produced. Large amounts of water and energy are required for this process. ➢ The water is taken from communal water sources, collected in large, specifically constructed pools and then pumped through a wide network of pipes to the snow cannons. The quantity and quality of water used is strictly regulated by provincial and national legislation in Austria. Glacier water is used for snow-making in the Pitztal glacier resort. ➢ Two-thirds of the energy required is taken from the Tyrolean power grid (widely based on hydropower) and one-third is derived from the glacier company’s own photovoltaic solar-power plant. Thus, to be precise, it is not the snow itself that is technical; rather, it is the application of technology and energy to make snow out of water that can be described as such. The glacier workers, like many people in Austria, use the term ‘technical snow’ instead of the more widely used ‘artificial snow’. Snow-making has given rise to a significantly broader and stronger critique of its ecological impact than has the use of textiles. This is primarily due to its high consumption of energy and water. Contrasting environmentalist standpoints are echoed by equally contrasting scientific discourses on snow-making. However, the different environmental legislative frameworks related to the use of water and the diverse energy sources (fossil fuels, hydropower and solar power) are often not taken into account in the controversy about the ecological impacts of snow-making. Lo snow-maker ‘all-weather snow-maker’, which is fixed into a building specially constructed for it, at an elevation of around 2,900 m. As its name indicates, the machine, which made a long and challenging journey from Israel to the Pitztal glacier, works independently of the weather and is capable of producing snow even at ambient temperatures as high as 30°C. The desire for such weather-independent technological capability on a glacier attracted my interest from the very beginning of my research on snow and in fact prompted my decision to conduct fieldwork in the Pitztal in particular. The ‘snow-maker’, as it is called by the workers and the majority of local people, is, in contrast to the snow cannons, based on vacuum ice. The principle of transforming water into ice and snow by using a vacuum has been applied in various extreme environments and at varying heights and depths (such as in sea-water desalination and gold mining) in different regions of the world. A few workers criticized the power consumption of the snow-maker as being ‘much too high’. Heinrich explained that this machine goes ‘against nature because it would be unnatural to have snow at warm temperatures’ As the snow-maker is enclosed within a building and was inaccessible to me during my previous stays, by the time of my fieldwork in 2015, I was curious to witness its snow-making procedure. Its operation was expected to start one month before the intended opening of the season. However, I was to be disappointed because I could see only occasional, small batches of snow slowly ‘spat out’ and transported on its conveyor belt to the outdoor space. I had heard from a few workers that ‘there would not be enough glacier water’ and that the snow-maker ‘would not be compatible with the glacier water’. I asked them and myself: ‘What does this mean?’ It took me some time to find the explanation for this awkward relationship between glacier water and a machine meant to bring independence from provides significant income for rural farmers in the area. Glacial meltwater feeds the rivers that farmers rely on for drinking water and irrigation. Saúl has expressed fear that the area might dry up if glaciers disappear, making agriculture impossible. Making the Local Legible Couched in scientific and legal terminology, the lawsuit presents evidence that differs greatly from Saúl’s experience of climate change in his daily life. While the lawsuit describes how industrial greenhouse-gas emissions likely contributed to measurable glacial retreat in the Peruvian Andes, climate change for Saúl means that his life is steadily turning upside down. Marino and Schweitzer warn of an epistemological politics that haunts climate-change discussions and gives precedence to scientific insights over experiential knowledge. Nygren argues that traditional scientific approaches often posit a dichotomy between scientific and local knowledge. Within this framework, science is seen as the only valid form of universal knowledge Scaling simplifies complex social relations and transnational linkages by ordering discourses and phenomena into different categories of varying significance. According to Anna Tsing, general-circulation models that represent the global climate rely on a scalar framework whereby the ‘global scale is privileged above all others’. The German court system draws on such a framework to set the standards of epistemological legitimacy: it privileges scientific knowledge over contributions from Saúl based on his engagement with the Andean environment. Saúl could merely provide anecdotal knowledge that exemplifies scientific insights In recent decades, scientific researchers have sought to integrate local perspectives into studies of the environment. In the field of natural resource management, academics and practitioners have incorporated ‘traditional ecological knowledge’ into scientific frameworks.Seeking to participate in scientific discussions, anthropologists and other researchers have drawn on ethnographic insights to produce data that is legible for natural scientists Ingold and Kurtilla suggest that such approaches may involve a conflation of concepts. Describing a research project that sought to determine how scientific data on climate change relates to local experience, they found that scientists talked about climate while locals were concerned with weather: ‘Climate is an abstraction compounded from a number of variables … that are isolated for purposes of measurement. Weather, by contrast, is what it feels like to be warm or cold, drenched in rain, caught in a storm and so on’. If researchers seek to integrate local approaches, they risk subordinating them to dominant scientific frameworks. Through synthesizing and systematizing knowledge, we may lose the human experience at its base. Local insights become an ‘object for science rather than [being] intelligence that could inform science’ . In her ethnography of climate-change discourses among scientists, policy-makers and activists, Callison (2014) traces how different groups translate climate change into terms that are meaningful and relevant for them. These often relate to moral and ethical concerns about how humans should interact with each other and their environment. In this context, facts gain legitimacy and significance from varying epistemological frameworks. As suggested above, Saúl’s lawsuit draws on a scalar notion of climate change that privileges a global perspective over local insights. His conception of climate change is based both on scientific accounts and his engagement with the Andean environment – what Ingold and Kurtilla might call ‘weather’. While Saúl’s opinion had a subordinate standing in the courtroom, the lawsuit gave him a platform to make a broad argument for climate justice based on multiple forms of knowledge. Addressing Climate Change: Technopolitics in the Courthouse After filing the lawsuit in Essen, I accompanied Saúl with a Germanwatch delegation to Paris, where we attended the UN Climate Summit.While these summits revolve around technical negotiations between national delegates, they also involve numerous side-events staged by NGOs and activists trying to make their voices heard. As thousands of delegates ran about the conference grounds and campaigners vied for attention, Saúl fed the media’s and general public’s appetite for human stories representing the complex processes of climate change. For many, his struggle gave a face to the countless people confronting the injustices of global warming. Exemplifying the UN summit’s inherent scalar politics, Saúl came to epitomize the local ‘victim’ of climate change.While he made a strong moral argument for climate action, Saúl had difficulty engaging with technical and political discussions around climate change at the conference. Though his claim was at the forefront, Saúl felt he had little to contribute. He followed the discussion through an interpreter and possessed limited technical knowledge of the issues at stake. Soon, he began to doze off. As some of the world’s top climate scientists and environmental lawyers discussed his lawsuit’s strategy and its political ramifications, he struggled to keep his eyes open. He later explained that while scientists did valuable research and handled statistics about climate change, they might not always grasp how communities experience these processes. Every place has its own beliefs, practices and histories that are interwoven with past and contemporary environmental change. For Saúl, the mountains gave his community life. ‘In a scientific sense’, he told me in an interview, ‘the mountains conserve water which people, animals and plants depend on, but they’re something more than that as well.’ For him, the snow-capped mountains surrounding his village were beings that he respected.12 He worried what would happen to these beings when the glaciers melt and the snow disappears. At the panel discussion in Paris, his experiential knowledge of climate change seemed out of place – it was merely a nonscientific ‘local’ example in a ‘global’ scientific discussion. Delegates at the conference talked about climate change, but in a way that he could not easily engage with. The climate negotiations involved a ‘technopolitics’ that sought to keep the ongoing transformation of the planet’s environment under control. Timothy Mitchell defines the term ‘technopolitics’ in reference to scientific projects in colonial and postcolonial Egypt to harness the powers of nature. In practice, these projects often failed when the environment did not fit the scientific conceptions, but offered unexpected resistance Saúl found it difficult to relate to these technopolitical discussions, which spoke little to his own experience of watching glaciers disappear and feeling rain patterns change. The negotiations revolved around a technopolitics that hailed a grand project to limit the extent and impact of global warming, but that largely excluded local and subnational perspectives that did not meet scientific standards of evidence. Technopolitical terminology serves policy-makers as a means to quantify and document climate processes in their search for effective solutions. Quantifying problems can create an impetus to offset a measurable loss by offering benefits of an equal value. For example, economic losses in a particular area due to climate change can be balanced by creating new economic opportunities. This involves a ‘logic of equivalence’. Fabiana Li defines the latter concept in her ethnographic research in the northern Peruvian Andes, where conflicts between farmers and mining companies often involved claims of equivalence. When the expansion of mining led to the contamination of farmers’ water sources, the company offered to provide treated water and compensation payments. Many farmers rejected this logic of equivalence, which emerged from a scientific understanding of the environment and disregarded alternative knowledges and forms of value attributed to the landscape (Li 2015). Legal cases often involve claims of equivalence, which can turn political debates into technical discussions that ultimately turn on a monetary calculus. In a similar vein, Saúl’s lawsuit demands that RWE contribute a share of the costs of reducing flood risk at Palcacocha proportionate to the company’s historic contribution to anthropogenic climate change. It builds on a scalar approach that invokes climate change as a global process with both local causes and local impacts. Building on a scientific quantification of RWE’s historical emissions, it draws a line of causation from the company’s factories in Europe to climate-change impacts in Peru and then translates this relation into the sum of US$20,000. Legal cases usually depend on expertise to set the parameters for an issue, showing the court what is relevant and where it can intervene. This often produces a ‘legal technopolitics’ that turns political questions into legal-technical issues. Saúl’s lawsuit involves a technopolitics that turns the broad issue of who should assume responsibility for climate change impacts into a legal-technical question of how much RWE should pay Saúl in proportion to its emissions. At the UN, negotiators framed the political question of engaging climate change as a technopolitical issue of equivalence when they proposed technical solutions to problems that are made visible through scientific measurement. Saúl expressed his worry that policy-makers might come up with misguided solutions if they insufficiently addressed people’s concerns with climate change impacts. They had scientific facts and statistics, but these did not tell the full story of climate change. Every area had its own problems. Reading scientific reports was useful, he said, but to truly know a problem, you must live it. For him, the elites of the international climate circuit typically lacked this intimate and crucial knowledge of climate change. Waquant, Three steps to a historical anthropology of actually existing neoliberalism Quando 20 anni fa Dove I carried out ethnographic observation amidst the utter desolation of Chicago’s historic South Side and in the defamed housing projects of La Courneuve, against the backdrop of the dualising landscape of outer Paris. Woodlawn, a section of the vestiges of Chicago’s ‘Bronzeville’ Come analytic comparison Through a series of circumstances narrated elsewhere, I became a member of a local boxing gym, learned the craft of prizefighting and used the club as a springboard to venture out into the neighbourhood (Wacquant 2004 [2000]) and reconstruct my grasp of the ghetto from the ground up and from the inside out. Oggetto rise of a new regime of ‘advanced marginality’ propelled by the fragmentation of wage labour, the recoiling of the social state and the spread of territorial stigmatisation. Conseguenze I had no inkling then that this research on the predicament of the Urban Outcasts of the new century (Wacquant 2008a) would take me from the streets of the hyperghetto deep into the bowels of America’s gargantuan carceral system →and thence to the vexed issue of neoliberalism and state-crafting on a global scale To elucidate the determinants and modalities of relegation in the American metropolis at century’s close, I had to find a way around two major epistemological obstacles: 1. the coalescing scholarly myth of the ‘underclass’, that new subcategory of the black poor said to ravage the inner city 2. the long-standing trope of ‘disorganisation’ inherited from the ecological school of urban sociology Il boom delle incarcerazioni Drawing up the lifestories of my ring mates, I soon discovered that nearly all of them had passed through jail or done time in prison so that, to make sense of their trajectories, I had to understand the ‘great penal leap backward’ that turned the United States from a beacon of progressive penality in the 1960s to the world leader in incarceration and global exporter of aggressive crime control policies by the 1990s (Wacquant 2009b). Mapping America’s carceral boom after 1973, it became clear that the accelerating retraction of social welfare, leading to the infamous ‘welfare reform’ of 1996, and the explosive expansion of criminal justice were two convergent and complementary shifts toward the punitive regulation of racialised poverty. In sum, the penalisation of poverty emerged as a core element of the domestic implementation and transborder diffusion of the neoliberal project, the ‘iron fist’ of the penal state mating with the ‘invisible hand’ of the market in conjunction with the fraying of the social safety net. Market rule versus governmentality Neoliberismo = a concept polarised between: 1 2 Definizio ni delle due parti a hegemonic economic conception anchored by (neoclassical and neo-Marxist) variants of market rule an insurgent approach fuelled by loose derivations of the Foucaultian notion of governmentality Difetti the one is exceedingly narrow, shorn of institutions and verges on the apologetic when it takes the discourse of neoliberalism at face value the other is overly broad and promiscuous, overpopulated with proliferating institutions all seemingly infected by the neoliberal virus, and veers toward critical solipsism. Consegu enze neoliberalism is the straightforward imposition of neoclassical economics as the supreme mode of thought and the market as the optimal yet inflexible contraption to organise all exchanges it is a malleable and mutable political rationality that mates with many kinds of regimes and insinuates itself in all spheres of life, with no firm outside ground on which to stand to oppose it 1 Neoliberism as a hegemonic economic conception Logically and historically, the coming of ‘market fundamentalism’ implies the retrenchment, withdrawal or recusal of the state, portrayed either as an impediment to efficiency or as a mere instrumentality serving to boost the regained supremacy of capital. ● the concurrent decline of the manual working class, ● rise of financial capital, ● spread of new technologies of communication, ● liberalisation of economic flows across national borders → have ushered in a ‘shorttermist, pure-market, constraint free form of capitalism’. David Harvey sostiene che: ‘neoliberalism = a theory of political economic practices that proposes that human well-being can best be advanced by liberating individual entrepreneurial freedoms within an institutional framework characterised by strong private property rights, free markets and free trade. Il ruolo dello stato allora è to create and preserve an institutional framework appropriate to such practices’. The turn to neoliberalism entails the triadic combination of: Much anthropology of neoliberalism consists of transporting this schema to different countries around the globe or taking it to the continental scale to capture the cultural trappings of, and social reactions to, market rule (Soprattutto in America Latina, Africa e paesi sovietici) Esempio di un autore: Ferguson 2 Foucaultian approach: governmentability Against this ‘neat’ view of neoliberalism as a coherent if not monolithic whole, students of governmentality propound a ‘messy’ view of neoliberalism as a flowing and flexible conglomeration of calculative notions, strategies and technologies aimed at fashioning populations and people. Through this optic, neoliberalism is not an economic ideology or policy package but a ‘generalized normativity’ that ‘tends to structure and organize, not only the actions of the governing, but also the conduct of the governed themselves’ and even their self-conception according to principles of: 3. from its origins in the crisis of the 1930s, neoliberalism has endeavoured not to restore late 19th-century liberalism but to overcome the latter’s flawed conception of the state: Neoliberalism originates a double opposition: ● on the one side, to collectivist solutions (first socialist and later Keynesian) to economic problems ● on the other, to the minimalist and negative vision of the ‘watchman state’ of classic liberalism Il neoliberal reengineering 1. (i) Estensione dei meccanismi del mercato oltre il mercato 2. (ii) Disciplinary social policy, con il cambiamento DA il diritto al welfare protettivo → A corrective workfare Corrective workface => - social assistance is made conditional - flexible employment - specific behavioural mandates (training, testing, job search, and work even for subpoverty wages, but also curtailing fertility, abiding by the law, etc.) 3. (iii) Expansive and pornographic penal policy aimed at curbing the disorders generated by diffusing social insecurity in the urban zones impacted by flexible labour 4. The trope of individual responsibility as motivating discourse and cultural glue that pastes these various components of state activity together. Thesis 2: Neoliberalism entails a rightward tilting of the bureaucratic field and spawns a Centaur-state If the state is not being ‘withdrawn’ or ‘hollowed out’ but indeed rebuilt and redeployed, how are we to grasp this revamping? Burocrazia di Bourdieu Bureaucratic field = the set of organisations that successfully monopolise the definition and distribution of public goods. A major virtue of this notion is to remind us that ‘the state’ is not a monolith, a coherent actor (whether operating autonomously or as the diligent servant of the dominant), or a single lever liable to being captured by special interests or movements springing from civil society. Rather, it is a space of forces and struggles over the very perimeter, prerogatives and priorities of public authority. Bourdieu (1998 [1993]) further suggests that the contemporary state is traversed by two internal battles that are homologous with clashes roiling across social space: Aggiunta di Waquant In Punishing the poor, I adapt this concept to bring into a single analytic framework the punitive shifts in welfare and penal policies that have converged to establish the ‘double regulation’ of advanced marginality through supervisory workfare and castigatory prisonfare. And I add the criminal justice arm –the police, the courts, the prison and their extensions: probation, parole, judicial data bases, civil and bureaucratic liabilities attached to criminal sanctions, etc. – as a core component of the Right hand of the state, alongside the Treasury and the Economics ministry it is the structurally conditioned but historically contingent outcome of material and symbolic struggles, waged inside as well from outside the bureaucratic field, over the responsibilities and modalities of operation of public authority. As a result of this rightward slanting, the neoliberal Leviathan resembles a Centaur-state that displays opposite visages at the two ends of the class structure: Questa situazione ha portato alla crescita di un movimento di opposizione, composto da agricoltori, comunità locali e gruppi organizzati come la Asamblea de los Pueblos Indígenas del Istmo en Defensa de la Tierra y el Territorio (APIIDTT), che si oppongono ai progetti eolici. Questo conflitto ha attirato l'attenzione degli antropologi che lo vedono come un caso emblematico delle politiche neoliberiste legate all'economia verde e delle tensioni tra i processi locali e le dinamiche globali. Gli sostenitori dei parchi eolici enfatizzano la sostenibilità ambientale, ma questa retorica nasconde una matrice neoliberista, in cui il vento e il territorio sono considerati risorse monetizzabili separate dall'umanità. Inoltre, il consenso per i progetti eolici è ottenuto attraverso minacce, violenza organizzata e corruzione politica. L’autorevolezza e il consenso immaginati a partire dal discorso ecologico assumono il volto autoritario del potere (pubblico e privato) attraverso meccanismi basati sulla minaccia, la violenza organizzata, la corruzione delle cariche politiche, la produzione dell’ignoranza. l’egemonia fondata sull’imperativo ecologico fallisce e pertanto si manifesta la necessità del dominio. Lo stesso dominio, però, non può essere praticato fino in fondo, fino alla repressione e all’annientamento fisico e violento di tipo aperto e generalizzato. ciò che frena l’uso esplicito del dominio sia contenuto nei fondamenti stessi del discorso egemonico ecologista, che si intreccia storicamente con la rappresentazione dei popoli indigeni e con la tutela del diritto ad essere consultati in merito allo sfruttamento dei territori dove risiedono. Da un lato, gli antropologi cercano di evidenziare i problemi associati a questo conflitto, mentre dall'altro tentano di individuare soluzioni equitabili per le popolazioni coinvolte. Alcuni studiosi hanno anche collegato questo conflitto al cambiamento climatico e all'interazione tra il sistema energetico messicano, gli interessi internazionali legati all'economia verde e le pratiche di resistenza locali. Il caso specifico del "Parco eolico San Dionisio" ha suscitato molta opposizione ed è stato oggetto di contenzioso legale. Il progetto del “Parco eolico San Dionisio” è stato promosso inizialmente da una multinazionale a capitale prevalentemente spagnolo, per poi passare, attraverso la mano di intermediari messicani, a una impresa multinazionale con capitali australiani e olandesi. Si tratta dell’unico esempio di parco eolico al mondo progettato lungo una striscia di terra all’interno di un sistema lagunare e pertanto gli effetti sulla pesca e sull’allevamento dei gamberi che prosperano nel delicato ecosistema di acque salmastre sono al momento sconosciuti anche ai tecnici ambientali. La popolazione locale si è opposta al progetto, citando la minaccia ambientale, la mancanza di informazione adeguata e accordi economici sfavorevoli: - La comunità era preoccupata per gli impatti ambientali del progetto dei parchi eolici sulla laguna. - Gli attivisti della APIIDTT avevano tenuto riunioni per informare la comunità sui problemi potenziali del progetto. - Gli attivisti ritenevano che i lavori avrebbero intorbidito l'acqua e che l'illuminazione degli aerogeneratori avrebbe spaventato i pesci. - I pesanti basamenti di cemento delle pale eoliche potevano alterare gli scambi d'acqua tra le lagune separate dalla penisola. - Il progetto includeva la costruzione di moli di attracco vicino agli allevamenti di gambero e la posa di un grosso cavo subacqueo. In seguito all’annuncio dato dal presidente municipal, venne occupata la sede del governo locale dall’assemblea raggruppatasi in opposizione alla firma del contratto e il presidente municipal fu costretto ad abbandonare frettolosamente il suo ufficio, trasferendolo nella propria abitazione e continuando a svolgere l’ordinaria amministrazione, ma senza poter dar seguito agli accordi presi con la compagnia. Alla fine, un ricorso legale (diritto dei popoli indigeni al consenso previo e informato per le azioni realizzate sui loro territori. Nella sua sentenza, il giudice raccomandava che, alla fine di tale percorso, dovesse essere tenuta una consultazione popolare) ha portato all'annullamento del progetto. ➢ sul versante politico queste popolazioni non accettano di cedere il diritto sulla terra e sul territorio a soggetti esterni che pretendono di prenderne il possesso (Howe, Boyer, Barrera 2015: 108). ➢ ul versante economico, la sovranità si estende all’intero sistema lagunare, che costituisce per loro un continuum ambientale e che garantisce la sopravvivenza e l’esistenza anche alle generazioni future. Si tratta, dal punto di vista economico, di sovvertire un sistema che si è rivelato misuratamente sostenibile lungo i secoli van a acabar con la laguna» (“distruggeranno la laguna”), mentre si riferiva all’ambiente acquatico con termini vezzeggiativi e già nostalgici («¡ahí mi lagunita!»), sottolineando la riconoscenza per la fonte che aveva dato la vita a lei e alle generazioni che l’avevano preceduta, e al contempo manifestando la preoccupazione per le generazioni future: «nuestros hijos ¿qué van a comer?» (cosa mangeranno i nostri figli?) Inoltre, la narrazione mitica e la comprensione della realtà da parte delle popolazioni locali sono legate all'ambiente naturale, e i parchi eolici rappresentano una sfida ontologica poiché cercano di trasformare lo spazio aereo e acquatico, componenti vitali della loro visione del mondo. A questo proposito è utile fare cenno al fatto che, durante la settimana di Pasqua, la laguna Santa Teresa (laguna Superior) è un soggetto al quale i terapeuti tradizionali e le persone comuni rivolgono le orazioni che accompagnano la pratica curativa della limpia (lett. “pulizia”), consistente nello sfregamento sul corpo della persona interessata di un ramo, accompagnato dall’aspersione di acqua prelevata dalla laguna. Lo spazio acquatico non è semplicemente una risorsa per l’alimentazione, ma è nella sua interezza un elemento di vita e di restaurazione dell’equilibrio psico-fisico. La politica nell’ontologia: tra mito e realtà «¿Vamos a morir?» è un quesito che si riferisce al timore di un etnocidio. 1. La minaccia della violenza fisica contro il popolo in resistenza 2. quella dello sconvolgimento dell’ecosistema lagunare, fonte dell’economia locale, 3. culminano in una terza e più radicale minaccia, che assume i toni apocalittici della fine del mondo, di un modo specifico di essere-nel-mondo Perché l’installazione delle pale eoliche nella laguna può arrivare a significare addirittura la fine di un mondo? Propongo di cercare chiarimenti a tale quesito facendo un giro lungo attraverso l’analisi di due diverse versioni dello stesso mito del tyety ñutyok (“signore, padre prodigioso”) o ndeaj (“l’orfano”) e qualche incursione in un secondo mito. Le indagini che da circa quarant’anni sono state condotte nell’area hanno dimostrato, attraverso l’analisi della mitologia locale, che nell’ontologia huave esiste una connessione tra esseri umani ed entità animiche extra umane, in particolare quelle legate agli elementi atmosferici (vento, pioggia, uragani) e del paesaggio (montagne, grotte, lagune, mare). Tre versioni del mito: 1. In una versione del mito dello "ndeaj" (l'orfano), raccolta da Ramírez a San Mateo del Mar, un bambino prodigioso viene maltrattato dagli Huave e decide di abbandonare la regione. Tuttavia, prima di partire, vuole lasciare un segno di sé stesso e crea gli elementi del paesaggio, compreso il gambero, che è la principale fonte di cibo e commercio per la popolazione lagunare. Utilizza parti del suo corpo per creare queste caratteristiche geografiche, come la saliva per le lagune, i denti per il sale e i baffi per i gamberi. Questo mito rientra in un sistema di analogie tra animali, fenomeni meteorici ed esseri umani. Alcune persone prodigiose sono associate a entità eccezionalmente potenti come fulmini, venti del sud o serpenti d'acqua. Il paesaggio stesso è considerato una manifestazione di questi esseri, con elementi atmosferici che si fondono con la terra, le dune, le lagune e il mare. 2. Un altro mito proveniente da San Mateo del Mar, raccolto da Lupo, chiamato "El hijo del pregonero tonto," racconta di un bambino che può comprendere le caratteristiche del serpente-uragano e sfidarlo per prevenire inondazioni nelle terre lagunari. Oltre a indicarci il ruolo attivo che gli Huave attribuiscono agli agenti atmosferici nel modellare il paesaggio, il mito introduce anche la dimensione del potere, legato alla conoscenza che gli esseri umani possono esercitare per regolare, o quanto meno mitigare, gli effetti tanto benefici quanto potenzialmente distruttivi del clima. In particolare, gli “anziani”, ossia le persone alle quali si riconosce collettivamente l’autorevolezza, hanno tradizionalmente l’incarico di svolgere i rituali necessari per il controllo dei venti e degli uragani così come i rituali di richiesta delle piogge. Non a caso, riflette Lupo, il bambino che nel mito osa sovvertire questa gerarchia sociale finisce per soccombere. In passato, le persone con incarichi politici elevati nella comunità di San Mateo del Mar erano associate a entità meteoriche, rafforzando così il loro potere. 3. Versione registrata da Zanotelli: è rivelatrice a mio parere di una modalità di intendere il rapporto con l’alterità che getta nuova luce sulla dimensione politico-ambientale degli attuali potenziali cambiamenti. Nel momento in cui l’ho raccolto – il settembre del 2009 – ancora non era scoppiato il conflitto aperto tra le fazioni a favore o contrarie al progetto del parco eolico, ma a San Dionisio del Mar erano presenti già da tempo tutti gli elementi che avrebbero contribuito a esacerbare gli animi negli anni successivi: corruzione delle autorità, mancanza di informazione, presenza di più forze politiche contrapposte e organizzate in clientele.
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