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Il Paradosso di Cesira: Narratore Inattendibile - Gianni Turchetta: Autobiografia e Popola, Schemi e mappe concettuali di Letteratura Italiana

Teoria della NarrativaLinguistica comparataStoria della letteratura italiana

La distinzione linguistica, culturale e ideologica tra il narratore di la ciociara di moravia e il personaggio di cesira. Come la vicinanza storica e le esperienze reali di cesira creano un parlato/scritto irriducibile, nonostante la distanza linguistica e culturale tra di essi. Il testo inoltre discute il ruolo della dialettalità romanesca e la sua influenza sullo stile narrativo di moravia.

Cosa imparerai

  • Come la dialettalità romanesca influenza lo stile narrativo di Moravia in La Ciociara?
  • Come la vicinanza storica e le esperienze reali di Cesira influenzano la sua narrazione in La Ciociara?

Tipologia: Schemi e mappe concettuali

2018/2019

Caricato il 18/05/2022

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Scarica Il Paradosso di Cesira: Narratore Inattendibile - Gianni Turchetta: Autobiografia e Popola e più Schemi e mappe concettuali in PDF di Letteratura Italiana solo su Docsity! I PARADOSSI DI CESIRA: LA SAGGEZZA DI UN NARRATORE INATTENDIBILE – GIANNI TURCHETTA Autobiografismo e popolarizzazione La ciociara è uno dei libri più autobiografici di Moravia, nonostante abbia un narratore interno insieme protagonista e testimone, ma soprattutto femminile e popolare: perciò irriducibile all’autore che lo ha creato. Eppure il carattere autobiografico è testimoniato sia da varie dichiarazioni dell’autore, sia da 11 brevi racconti (“Racconti dispersi”), pubblicati su “Il Corriere d’Informazione” e su “Il Tempo” tra agosto 1945 e aprile 1946. La ciociara rievoca e rielabora il periodo che Moravia e la moglie Elsa Morante trascorsero da sfollati a Sant’Agata, presso Fondi, dopo essere fuggiti da Roma il 12 settembre 1943 (la fuga dura fino al 23 maggio 1944, quando lo sbarco degli Alleati consente loro di ripartire verso Napoli). Il romanzo costituisce la propria situazione narrativa a partire dalla tensione, strutturale e linguistica, verso Cesira, un narratore popolare che continua a ribadire la propria ben marcata identità linguistica, culturale e sociale. Il lettore affezionato avverte subito lo scarto tra questo romanzo e La romana (uscito dieci anni prima, nel 1947, con un periodo di gestazione brevissimo, di soli due anni; mentre La ciociara è stata più volte interrotta e ripresa, così da essere il libro di Moravia con la gestazione più lunga, 1945-’57), nonostante sia anch’esso fondato sulla medesima scelta strutturale del narratore interno femminile e popolare: la lingua del primo, infatti, tende molto più energicamente di quella del secondo alla simulazione di una lingua popolare, vicina al parlato, avvicinandosi più che altro ai Racconti romani. Laddove La romana si affidava a una medietà bassa, ricorrendo alla Umgangsprache (=lingua parlata), cioè a un linguaggio più comune che popolare/orale, La ciociara mostra invece un’esigente manifesta di abbassamento linguistico. Si può allora applicare anche a La ciociara ciò che Alberto Arbasino aveva scritto (1973) per i Racconti romani, ovvero che “il lavoro più difficile che si può fare oggi con la lingua è quello di reinventare sulla pagina il sound del parlato conservandogli quell’agio naturale, senza fatica e senza lacrime, che lo ricollega alla società e al momento in cui è stato prodotto”. L’operazione dei Racconti romani, però, si collocava sotto un segno serio-comico, mentre La ciociara fa i conti con l’amara tragedia della guerra, tuttavia l’adozione del punto di vista e della voce popolareggiante di Cesira implica tratti in qualche misura comicizzanti e coincide con una limitata attendibilità del narratore. Il paradosso fondante di La ciociara risiede, insomma, nella compresenza, da un lato, di una vistosa distanza linguistica, culturale e ideologica del narratore dall’autore e, dall’altro, di un’irriducibile vicinanza storica e comunanza di esperienze reali. Non si deve dimenticare però che il sostrato autobiografico è verificabile solo a partire dai dati extratestuali: è un’autobiografia deguisé, cioè mascherata, proprio perché la percezione strettamente testuale coglie subito lo scarto vistoso tra narratore e immagine dell’autore. La simulazione di oralità Lo sforzo di mimesi linguistica di La ciociara è evidente, anche se la critica ha più volte sottolineato che dopo i primi due capitoli esso si attenuerebbe: in verità bastano pochi prelievi per accertarsi che la strategia linguistico-stilistica moraviana resta in buona sostanza costante, nonostante qualche oscillazione “quantitativa”. Lo status linguistico, sociale e culturale di Cesira fa sì che il dettato narrativo si collochi in un territorio di confine, dove la distinzione tra scritto e parlato non è delineata con tratti distintivi ben individuati. Il racconto di Cesira è un parlato/scritto nonostante lei lo presenti come un resoconto scritto (anche se lo fa in modo molto discreto e molto raramente esplicito). Non si deve dimenticare che Moravia è andato costruendo il suo stile peculiare, con il suo proverbiale “grigiore” (che significa espunzione degli estremi stilistici, sia in alto che in basso), fin dai suoi esordi, quindi si può dire che il suo stile narrativo si è sempre presentato come un parlato/scritto, strutturalmente predisposto per un’immissione più massiccia di modi del parlato anche nel resoconto narrativo (cioè 1 nelle parti diegetiche oltre che in quelle dialogate). Cesira, inoltre, si caratterizza non solo come popolana, ma anche come “burina”, come una che viene dalla campagna anche se poi si è del tutto integrata in città, e il connotato stilistico che va a costruire questa immagine è proprio l’aumento dell’effetto di parlato. È significativo anche che, in corrispondenza con l’avvicinamento al parlato, il romanzo modifichi la propria impaginazione grafica: i dialoghi vengono fisicamente inglobati nel resoconto narrativo e, salvo rarissime eccezioni, non vengono evidenziati con lo stacco grafico tra le battute, diversamente da come avviene ne La romana. In quest’ultimo, infatti, Adriana si configura come narratrice interna che però si comporta quasi come un narratore esterno, perché spesso si ritira per lasciare parlare i personaggi del dialogo; la presenza di Cesira invece non viene mai meno, anzi continua a ribadire i propri tratti di narratore “parlante”. Non a caso questo suo atteggiamento chiama spesso in causa, seppur implicitamente, il narratario (es. “Ci credereste?), stabilendo una comunicazione dai tratti pseudo-orali che non lascia spazio per la “meta-dialogica” moraviana (cioè per le osservazioni sui modi di parlare, sulla voce e sull’intonazione altrui, cosa che Adriana fa spesso e che di norma sono frequentissime negli scritti di Moravia). Anche se il tempo dell’enunciazione narrativa non viene chiarito da nessuna delle due narratrici, si percepisce che il racconto di Adriana avviene molto tempo dopo i fatti narrati, mentre quello di Cesira sembra fatto “a caldo”, o quasi: ciò è solidale con gli effetti di oralità, in quanto ribadisce la difficoltà di stabilire una distanza sia emotiva che culturale dalle vicende narrate. Il romanesco della “ciociara”: una dialettalità moderata e costante Sul piano linguistico, un fattore importante dell’intensificazione dell’effetto “parlato” consiste nella moltiplicazione dei tratti di dialettalità, a vari livelli: lessico, fraseologia e repertorio figurale, morfologia, morfo-sintassi. Si evidenzia però che tali tratti dialettali, in contrasto quasi con il titolo, sono sistematicamente romaneschi e i pochissimi termini ciociari usati da Cesira vengono quasi sempre spiegati e inseriti con riserva (es. “minestrina; spasetta; macere; la pettola e i fasuli”). Ciò conferma che la radicalizzazione dell’effetto parlato può spingere verso soluzioni estremistiche e manieristiche che aumenterebbero la difficoltà di comprensione per il lettore. Tale parlato/scritto presuppone dunque un ascoltatore/lettore che non è in grado di comprendere il ciociaro, ma che conosce il romanesco. Si deve però a questo punto chiarire che Cesira non è in grado di distinguere il romanesco dall’italiano e che molte delle sue scelte linguistiche potrebbero quasi essere definite “non marcate”, in quanto perfettamente integrate allo standard comunicativo di un italiano naturalmente venato di tratti romaneschi, al punto che in molti casi la scelta del termine italiano apparirebbe poco verosimile (es. “menare” per “picchiare”; “zozzo” per “sporco”). Sullo stesso piano si collocano locuzioni dialettali ma ampiamente comprensibili su scala nazionale: “da mò”, “un macello”; “morì ammazzato”; alla patina romanesca collabora anche l’uso di pronomi come “noialtri” e “voialtri”; restano invece sporadici i casi di più accurata mimesi della morfo-sintassi e fono-sintassi dialettale. La spinta all’oralità si colloca su un territorio di confine sia perché mescola tratti dialettali e tratti di colloquialità non marcata sul piano diatopico, sia perché sovrappone l’abbassamento del registro stilistico al semplice ricorso allo stereotipo (es. “andare a letto con le galline; le sparava grosse; chiaro come il sole”). La necessità di marcare l’identità linguistica e socio-culturale di Cesira rende costante il ricorso al registro basso e addirittura al turpiloquio, cosa che rimanda anche a un fatto caratteriale: la sua propensione alla parolaccia fa tutt’uno con una semplicità e una schiettezza al limite della brutalità, ma comunque legate a una qualche rude autenticità sentimentale. Un esempio è la descrizione di Rosetta che si fa il bagno, in cui con cui Cesira usa con totale naturalezza il termine “culo”, ma si possono citare molte altre espressioni volgari, spesso legate alle difficoltà nell’espletamento dei bisogni corporali più elementari: ciò che si ricava è l’impressione che Cesira non sia in grado di distinguere il turpiloquio da un registro meramente colloquiale. Piuttosto frequenti sono espressioni volgari più direttamente marcate sul piano diatopico, nonostante in alcuni casi siano anch’esse ormai prossime a una diffusione nazionale (es. “frocio; stronzo; mortacci; mignotta” oppure 2
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