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RIASSUNTO Salvatore Settis, Tommaso Montanari “Arte. Una storia naturale e civile” Vol.3, Sintesi del corso di Storia dell'Arte Moderna

Riassunto Libro Volume 3 per esame di Storia dell'arte Moderna con professore Ghersi. (IULM)

Tipologia: Sintesi del corso

2019/2020

Caricato il 01/12/2021

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Scarica RIASSUNTO Salvatore Settis, Tommaso Montanari “Arte. Una storia naturale e civile” Vol.3 e più Sintesi del corso in PDF di Storia dell'Arte Moderna solo su Docsity! RIASSUNTO LUNETTO GLADIS Il Anno - Arti, Spettacoli, Eventi culturali - Università IULM Salvatore Settis, Tommaso Montanari “Arte. Una storia naturale e civile” Vol.3 Dal Quattrocento alla Controriforma INTRODUZIONE RINASCIMENTO Rinascimento = periodo di rinascita tra i secoli XV e XVI, in cui l’uomo guarda alla grandezza degli antichi e ritrova nelle arti figurative un campo di eccellenza. Spesso il rinascimento finisce per essere svuotato del suo contenuto e adattato ad esigenze di un mercato di massa; il rischio è che Leonardo, Raffaello, Michelangelo e Donatello non siano conosciuti per quello che hanno creato ma solo per il loro nome. Tra Quattrocento e Cinquecento l’Italia, grazie ai suoi principali centri artistici (Firenze, Roma e Venezia) aveva vissuto una fase di rinascita grazie al recupero della cultura antica e allo studio della natura, una rinascita che avrebbe rotto definitivamente con il passato medievale in virtù di una visione del mondeo in cui l’uomo, non più le divinità, era al centro di tutto, andando a segnare l’inizio dell’arte moderna. In seguito si sostenne una profonda continuità tra medioevo e rinascimento perché dal punto di vista storico la scoperta dell’America (1492) segna la fine del medioevo e l’inizio del rinascimento ma in realtà in campo artistico la questione è più difficile, la parola rinascimento ci appare come un’etichetta apposta a fenomeni storici e culturali ma che in realtà hanno avuto un percorso più tumultuoso difficile da schematizzare. All’inizio del Quattrocento Brunelleschi e Donatello cominciarono a studiare le rovine di Roma e a capire che da Îì poteva nascere un nuovo linguaggio attento alla realtà delle cose. L’architettura antica si fondava infatti sulle razionali proporzioni degli edifici, mentre le statue romane indicavano la via allo studio della figura umana. Nell’arte del Quattrocento inoltre nasce la prospettiva, un mezzo per rappresentare la terza dimensione in uno spazio bidimensionale. —> Antonello da Messina, San Girolamo nello studio, 1475, Londra, National Gallery Il santo è raffigurato nelle vesti di un umanista intento alla lettura, in uno spazio costruito attraverso la prospettiva, dove gli oggetti e i dettagli sono rappresentati con realismo estremo, figlio della pittura fiamminga. Agli inizi del Cinquecento grazie a maestri come Leonardo, Raffaello e Michelangelo, lo studio dell’antico e della natura giunse a vertici tali che gli artisti successivi per proporre qualcosa di nuovo dovettero elaborare un linguaggio più artificioso, che prese il nome di Manierismo, che avrebbe segnato gran parte del secolo fino alla controriforma. Giorgio Vasari forgiò il concetto e anche il termine di Rinascimento, parla dell’idea di una rinascita artistica tra i secoli XV e XVI in Italia, in particolare a Firenze e a Roma. Vasari era toscano ed era al servizio del Duca di Firenze Cosimo I, ciò spiega la sua visione di un rinascimento incentrato su Firenze considerando meno quello veneziano, lombardo e meridionale. Leggere le opere del Quattrocento e del Cinquecento con gli occhi di chi le creò risulta uno degli strumenti migliore per comprenderne il significato originale e liberarsi dalle etichette recenti. Spesso nella storia dell’arte si sceglie il 1401 come data di inizio del rinascimento facendo riferimento al concorso vinto da Lorenzo Ghiberti per la seconda Porta del Battistero fiorentino. Anche se è difficile dare una data di inizio ad un fenomeno così complesso. SEZIONE I IL GOTICO INTERNAZIONALE Il Quattrocento è considerato di norma il secolo dell’Umanesimo e del Rinascimento, grazie alle novità che emersero proprio in Italia che non si affermarono subito ma convissero a lungo con la tradizione gotica. Dalla seconda metà del Trecento si diffuse in Europa un linguaggio artistico prezioso e aristocratico, per definirlo si utilizza di solito l’etichetta di Gotico Internazionale. CAPITOLO 1 - LO STILE DELLE CORTI EUROPEE 1) Le miniature dei fratelli De Limbourg: les très riches beures du Duc de Berry Nel castello di Chantilly, a nord di Parigi, si conserva quello che è considerato il più bel codice miniato del tramonto del Medioevo -> le ricchissime ore del Buca di Berry. Si tratta di una raccolta di preghiere da recitare secondo i diversi periodi dell’anno e del giorno. La ricchezza del volume viene corredata da preziose pagine miniate che sono di mano dei fratelli De Limbourg. Le immagini più significative del codice sono quelle dei dodici fogli di apertura, dove sono illustrate a tutta pagina le allegorie dei mesi dell’anno, che però non alludono al duro lavoro della popolazione, come nelle cattedrali romaniche, ma agli ozi di una ristretta cerchia. -> Fratelli De Limbourg, APRILE, 1413-16, miniatura, Chantilly (Francia), Museè Condé, p.12 Aprile, il mese del fidanzamento. Nel semicerchio in alto è raffigurato un calendario astrologico, con il carro del sole al centro e la volta celeste con i segni zodiacali del mese: l’Ariete e il Toro. Le caselle in questa miniatura sono vuote, ci sarebbero dovuti esser scritti i giorni che troviamo poi nella miniatura di Luglio ultimata in ogni dettaglio. Siamo in primavera, si vede in primo piano una nobile coppia che si scambia l’anello di fidanzamento, i protagonisti vestono elegantemente, gli abiti sono riccamente ornati e innaturalmente lunghi, la figura della fidanzata è slanciata, ha il collo allungato, le braccia sottili e la posa imposta su di un’ampia curva, ha tutte le caratteristiche di una statua gotica condotta a un'estrema raffinatezza. Alle loro spalle, due giovani stanno raccogliendo fiori, dimostrando una passione per la natura che risalta anche nel resto della miniatura, i fratelli De Limbourg hanno ambientato il fidanzamento in aperta campagna, offrendo una veduta di paesaggio che riflette la realtà pur trasfigurandola in termini fiabeschi. Sullo sfondo, il castello del signore, fortezza che è anche una dimora di lusso come testimoniano anche le torri circolari, elemento non solo di difesa ma anche di decoro. Dietro le mura del castello, sorgono e case di un piccolo villaggio, scendo verso il primo piano uno specchio d’acqua con barche di pescatori, alberi ben ordinati dei boschi, distesa verde del prato e sulla destra muratura di un palazzo merlato con sul suo giardino, dove le piante ben curate stanno iniziando a crescere. -> Fratelli De Limbourg, LUGLIO, 1413-16, miniatura, Chantilly (Francia), Musèe Condé, p.13 Il calendario in alto ha le didascalie e i segni del Cancro e del Leone. Nel caldo dell’estate la scena non è riservata agli svaghi del signore ma al lavoro degli umile (= “vicini alla terra”). Poderoso ed elegante castello munito di ponte levatoio in legno, i contadini e i pastori sono impegnati, rispettivamente, nella mietitura di un campo di grano, e nella tosatura delle pecore. Sono attività dure e faticose, ma nella miniatura non c’è traccia di tutto ciò, i contadini e i pastori sembrano lavorare per hobby o per divertimento. Contadino in veste bianca è atteggiato in posa aggraziata, come se stesse facendo un passo di danza. | colori sono scesi nel raffinato panneggio dei due pastori. Minuziosa attenzione per il mondo reale, ovini, spighe di grano, alberi più o meno cresciuti, dettagli dell’architettura del castello e del ponte di legno, fino al cielo solcato da nubi. Non è penato per essere poggiato a una parete, ma si erge isolato sui 4 lati. Lungo i fianchi corre un’ininterrotta galleria di pleurants, figure a tutto tondo di addolorati incappucciati e piangenti, avvolti in ampi panneggiamenti. Figure antinaturalistiche che affogano i corpi in un oceano di pieghe raffinate e capricciose, eppure riescono a rendere con una forza impressionante un sentimento naturalissimo: il dolore invincibile che proviamo quando muore qualcuno. | pleurants di Sluter provocano le corde più profonde della nostra umanità senza mostrarci un volto o una lacrima, ma solo un panneggio artificioso e astratto. CAPITOLO 2 - GIAN GALEAZZO VISCONTI E IL RUOLO DELLA LOMBARDIA 1) Il Ducato di Milano Fin dagli ultimi decenni del Trecento il Gotico internazionale si impose come linguaggio artistico del Ducato di Milano, il quale aveva come signore: Gian Galeazzo Visconti, fu il maggiore capo di Stato dell’Italia del suo tempo, combinando le doti politiche e militari con una notevole passione per le arti. 2) Michelino da Besozzo La corte di Gian Galeazzo Visconti ebbe una sede prestigiosa nel castello edificato tra il 1360-65 dal padre, Galeazzo Il Visconti, a Pavia antica capitale longobarda. Protetta da solidi torrioni angolari, raffinata dimora come fanno intendere le ampie bifore utili a illuminare gli interi (p.20). Galeazzo Il fondò nel castello anche una biblioteca con splendidi volumi illustrati da miniatori della sua corte, oggi è la sede dei Musei Civici, che comprendono pure la Pinacoteca Malaspina. A Pavia i Visconti appoggiavano una scuola di miniatura capace di farsi conoscere pure oltralpe e nella quale si formò negli anni 80 del Trecento Michelino da Besozzo, miniatore e pittore che agli inizi del nuovo secolo era già artista di primissimo livello. -> Michelino da Besozzo, GIAN GALEAZZO VISCONTI INCORONATO NELLA CORTE CELESTE. dal frontespizio dell’Elogio funebre di Gian Galeazzo Visconti, di Pietro da Castelletto, 1403 miniatura, Parigi, Bibliothèque Nationale, p.20 Durante le cerimonie funebri di Gian Galeazzo Visconti, Pietro da Castelletto compose e recitò un sermone (= un componimento poetico sacro) in memoria del duca, presto venne trascritto in diversi codici e uno di questi venne miniato nel 1403 da Michelino da Besozzo, che nel frontespizio illustrò una sontuosa scenetta dove Gian Galeazzo Visconti appare incoronato dal Bambin Gesù in paradiso. Nella miniatura non vi sono lacrime né facce tristi, Michelino preferisce la magnificenza di una scena cortese. Si vede rappresentato Gian Galeazzo che di profilo e con il suo mantello ducale si sta inchinando di fronte a qualcuno più autorevole di lui: la Vergine e il Figlio, accompagnati da 12 Virtù, nelle vesti di eleganti giovani dai capelli raccolti, e 8 angeli che sostengono le insegne viscontee. Il Biscione visconteo è inquartato (= inserito in uno o due quarti di uno stemma suddiviso in quattro) o accompagnato dall’aquila imperiale in campo oro, dettaglio che ricorda come lui nel 1895 avesse ottenuto il titolo di Duca di Milano. Michelino da Besozzo non mostra interesse per la resa dello spazio, le sue figure si stagliano bidimensionali su un fondo decorato a motivi geometrici tipico delle miniature, in quella che i raggi emanati dalla Vergine fanno intendere come una visione paradisiaca, sfrenato impulso per la decorazione, vivaci e ricercatissimi colori infiorettati (= adornati come elementi floreali) d’oro convivono con la tenerezza dei visi fanciulleschi, tutto tende a tradursi in una danza di linee sinuose, forme fantasiose e guizzanti delle coloratissime figure quasi incorporee, che Michelino adottò non solo nella miniatura ma anche in pittura. -> Michelino da Besozzo, MATRIMONIO MISTICO DI SANTA CATERINA D’ALESSANDRIA, CONI SANTI GIOVANNI BATTISTA E ANTONIO ABATE, 1403-10, tempera e oro su tavola, Siena, Pinacoteca Nazionale, p.21 5 Della lunga carriera di Michelino rimane ben poco, questa è l’unica opera firmata. Dipinto a fondo oro del quale si ignora la provenienza originale. Atmosfera di un sogno dove manca ogni concretezza spaziale e le figure esili e guizzanti si accalcano in superficie, nel fuggire delle vesti e con le timide facce che paiono modellate con la cera fusa. L’adolescente Caterina si inginocchia a ricevere l'anello dal Bambino, seduto sulle ginocchia della Madre, mentre i magrissimi santi si inarcano a guardare il miracoloso sposalizio. Michelin come tanti altri pittori del Gotico internazionale, utilizza una tecnica da orafo per impreziosire il dipinto: l'architettura del trono, le aureole, le corone, le scritte sono realizzate in rilievo, attraverso un sapiente uso della pastiglia dorata, una pasta di bello e colla che fu utilizzata soprattutto per decorare la mobilia, ma adottata anche nella pittura su tavola e ad affresco. L'effetto finale è una sorta di grande oreficeria, tanto più che in origine alcune vere gemme completavano le corone e l'anello. 8) Nel cantiere del Duomo di Milano -> DUOMO, 1387, Milano, p.22 Nel 1387 Gian Galeazzo Visconti diede inizio alla fabbrica del Duomo di Milano. La nuova cattedrale fu fondata nel luogo della precedente dedicata a Santa Maria Maggiore ed eretta secondo un grandioso progetto, che prevedeva una pianta a 5 navate, le forme geometriche e il marmo bianco. Con l’avvio di un’impresa tanto colossale, definitivamente ultimata solo nell'Ottocento, Gian Galeazzo Visconti lasciò un segno indelebile nell’urbanistica di Milano. Il Duomo di Milano voleva competere con le cattedrali d’Oltralpe e fu dunque pensato come un edificio fiorito di decori e sculture, molto più ricco rispetto ai gotici due-trecenteschi del Duomo di Siena e di Orvieto. La costruzione iniziò dalla zona absidale dove le pareti sono alleggerite da enormi finestrini ad arco acuto e da un’accentuata profusione di guglie e pinnacoli, secondo un’interpretazione dell’architettura gotica europea che non avrebbe trovato uguali in Italia, e nella quale gli ornamenti tendono a prevaricare sulle strutture. Allo stile “internazionale” della Cattedrale corrisponde un cantiere quanto mai cosmopolita, che non si interruppe con la morte di Gian Galeazzo Visconti e vide il coinvolgimento di uno gran numero di maestranze provenienti non solo dai territori viscontei ma anche da Francia e Germania. -> Jacopino da Tradate, PAPA MARTINO V, 1420, marmo, Milano, Duomo, p.23 Tra costoro si distinse uno scultore lombardo di notevole qualità: Jacopino da Tradate. A questo maestro si deve un grande rilievo raffigurante Martino V, commissionatogli nel 1420 per rendere onore al papa che aveva chiuso lo Scisma d’Occidente e consacrato l’altare maggiore della Cattedrale milanese nel 1418. La scultura è collocata nel deambulatorio del Duomo e trae il pontefice seduto e benedicente in posa frontale, si contrappone lo sfrenato panneggiare della lunga veste, animata dal sottile ondulare delle pieghe. E il segno della raffinata indole gotica dello scultore che trova conferma nelle infiorescenze intagliate nel piede del basamento. -> Jacopino da Tradate, MADONNA COL BAMBINO, 1420-30, marmo, Milano, Castello Sfrorzesco, p.23 Questa sintonia che si ritrova nell'opera di papa Martino si ritrova anche nella Madonna con Bambino del museo del castello sforzesco. Nella sua grazia lo scultore ha saputo tradurre ancora meglio nelmarmo le figure colorate di Michelino, con garbo estremo e signorile che la Vergine fasciata dal moto sinuoso ed elegante dei drappeggi, inclina la testa a esprimere l’amore materno per il fanciullo. 4) Filippo Maria Visconti: fiabe e tarocchi Intorno al 1420 il signore di Milano era Filippo Maria Visconti, secondogenito di Gian Galeazzo Visconti. Filippo di circondò di una corte nella quale il linguaggio gotico internazionale rimase preponderante. 6 -> CAPPELLA DI TEODOLINDA, 1441-46, affresco, Monza, Duomo, p.24-25 E di Filippo Maria Visconti lo stemma che firma la decorazione della cappella della sovrana longobarda Teodolinda nella Cattedrale di San Giovanni Battista, il Duomo di Monza. La sovrana godeva di grande venerazione perché aveva fondato la Cattedrale, grazie a lei il suo popolo si era convertito alla fede cattolica. A ciò si deve la scelta di raccontarne la vita in un ciclo di affreschi dispiegato sulle pareti della cappella che ne conserva le spoglie. La biografia di Teodolinda è rappresentata in una sorta di avventuroso romanzo cavalleresco, dipanato in ben 45 episodi disposti su 5 registri sovrapposti, così da riempire di colori d’oro e di colori la cappella, la fiaba della regina viene raccontata come una fiaba sfarzosa, narrata con il linguaggio tardo gotico della Lombardia. Il ciclo è tutto un riprendersi di scene di corte che sembrano miniature ma in dimensioni amplificate, come nel doppio episodio: Teodolinda parte per la caccia con il marito Agilulfo (a sinistra), sogna di fondare il Duomo di Monza (al centro), e va in cerca col suo seguito del luogo adatto (a destra). In questo episodio vediamo a sinistra Teodolinda e i marito Agilulfo partono per la caccia e a destra la regina, con il suo fidato seguito, va in cerca del luogo dove fondare il futuro Duomo di Monza. Episodio di lusso, abiti alla moda, belle cavalcature, battute di caccia in campagna e nei boschi. La realtà è lontana: al posto del cielo vi è un fondale dorato con motivi geometrici e la città merlata che divide le due storie, in cui si intravede la camerata in cui Teodolinda ha il sogno premonitore della fondazione della chiesa. Non vi è rigore spaziale, volti incantati, esili figure, uso della pastiglia per fare risaltare gli oggetti preziosi, dipendono dalla lezione di Michelino da Besozzo. Le scene recano in basso, sulle mura merlate, la data 1444: il ciclo era stato iniziato qualche anno prima e sarebbe stato ultimato solo nel 1446. Poco sotto c’è una scritta in cui sono ricordati come autori degli affreschi gli Zavattari. -> Bottega dei Bembo, CAVALLO DI LANCE e RUOTA DELLA FORTUNA, dal mazzo dei tarocchi visconteo detto “Brambilla”, 1447, miniatura su cartoncino, Milano, Pinacoteca di Brera, p.25 | pittori lombardi non decorarono solo libri minati, pale d’altare e affreschi ma anche oggetti di uso più comune e quotidiano, come le carte da gioco, in particolare quelle dei tarocchi. Nella prima metà del Quattrocento il gioco delle carte si diffuse rapidamente come apprezzato passatempo nelle corti dell’Italia settentrionale. Intorno al 1420 Marziano da Tortona, segretario di Filippo Maria Visconti, scrisse un trattato nel quale descrisse i soggetti diun mazzo che sarebbe stato ideato dal duca e dipinto da Michelino da Besozzo, conservato a Milano nella Pinacoteca di Brera. Osservando un paio di carte è facile riconoscere lo stesso linguaggio fantasioso e lussuoso delle storie di Teodolinda, tanto che questi tarocchi furono attribuiti agli stessi Zavattari, in realtà oggi si preferisce credere che siano stati prodotti da un’altra bottega, quella dei fratelli Brembo. CAPITOLO 3 - TRE ARTISTI IN VIAGGIO: GENTILE DA FABRIANO, PISANELLO E JACOPO DELLA QUERCIA 1) Gentile da Fabriano: da Pavia a Venezia Il Gotico internazionale fu un linguaggio che dalla Lombardia entrò in tutta la penisola, trovando i suoi maggiori esponenti in Gentile da Fabriano e Pisanello nel campo della pittura, sin Jacopo della Quercia in quello della scultura: tre artisti che godettero di grande fama, che percorsero ripetutamente le strade d’Italia passando di corte in corte, di città in città. GENTILE DA FABRIANO Nacque verso il 1370 a Fabriano, nelle Marche, fu grazie ai rapporti con Gian Galeazzo Visconti che Gentile potè formarsi entri i confini viscontei, a Pavia. ->Gentile da Fabriano, MADONNA COL BAMBINO, | SANTI NICOLA, CATERINA D’ALESSANDRIA E UN DONATORE, 1400, tempera e olio su tavola, Berlino 7 Pisanello prese spunto dalle monete romane per creare il suo prototipo, di medaglia, ma non si interessò alle peculiarità stilistiche dell’arte antica che tanto stava influenzando altri artisti italiani di allora. 5) Due cantieri di Jacopo della Quercia: Lucca e Siena -> Jacopo della Quercia, SEPOLCRO DI ILARIA DEL CARRETTO, 1406-08, marmo, Lucca, Cattedrale, p.33 Ilaria del Carretto morì di parto. Era la bellissima moglie del signore di Lucca Paolo Guinigi, che per lei volle un sepolcro nel Duomo. A realizzare la tomba fu Jacopo della Quercia, che a Lucca era stato già sul finire del Trecento e che qui avrebbe operato anche in seguito. Il “gisant” (= giacente) di Ilaria è disteso sul sarcofago con ai piedi un fedele cagnolino (dettaglio caro alla scultura funeraria d’Oltralpe) e si distingue per il naturalismo del volto incantevole e dell’elegantissimo abito alla moda, solcato da pieghe e chiuso sopra la gola dall’altissimo colletto. Sui fianchi del sepolcro corre un motivo di spiritelli reggifestone, nei quali Jacopo recupera un tema iconografico della scultura antica, interpretandolo con uno spirito spiccatamente gotico, evidente nelle mosse capigliature. -> Jacopo della Quercia, FONTE GAIA, 1414-19, Siena, Piazza del Campo, p.34 Nel 1408 Jacopo della Quercia rientrò nella nativa Siena e ottenne dal Comune la commissione della Fonte Gaia per la Piazza del Campo. Venne avviato seriamente il cantiere solo dopo il 1414. Siena si era distinta come uno dei centri artistici più rilevanti del Trecento europeo. Il Comune chissà a Jacopo di realizzare una fontana pubblica per la piazza più importante della città, dove l’acqua zampillava fin dal 1348, grazie a un complesso acquedotto sotterraneo, realizzato grazie a notevoli competenze ingegneristiche. La fonte di Jacopo andò a completare il paesaggio della piazza trecentesca e per la sua decorazione si scelsero soggetti connessi con i tempi civili espressi nell’antistante Palazzo Pubblico attraverso cicli di affreschi. Le raffigurazioni giravano per tutta la vasca, al centro delle quali eden ala Vergine con il Figlio, accompagnata nelle nicchie dalle Virtù. A chiudere la decorazione sui fianchi c'erano le scene della Creazione di Adamo ed Eva e del Peccato originale, al di sopra delle quali ergevano le statue della madre di Romolo e Remo. Si voleva in questo modo alludere alla leggenda secondo la quale Siena fu fondata dai figli di Remo. La versione di Jacopo fu sostituita nel 1869 da una copia perché l’originale era malridotto per l’usura e la lunga esposizione agli agenti atmosferici. 6) San Pietro a Bologna: una chiesa civica e un portale di Jacopo Jacopo della Quercia andò a Bologna, dove nel 1425 aveva ricevuto l’incarico di scolpire un gigantesco portale per la Basilica di San Petronio. La chiesa, da non confondere con la Cattedrale dedicata invece a San Pietro, fu fondata come tempio civico dell’autorità comunale nel 1390 ed è un edificio monumentale a 3 navate. La chiesa si affaccia su Piazza Maggiore, così come i maggiori edifici pubblici di Bologna: di fronte c’è il Palazzo del Podestà e la fontana di Nettuno del Gaimbologna (Fig.24 p.489), ai lati vi sono il Palazzo Comunale e quello dei Banchi. Grazie a un cantiere affollato di maestri d’oltralpe la Basilica di san Petronio fu innalzata piuttosto rapidamente, seguendo un progetto dell’architetto Antonio da Vincenzo che era aggiornato su quanto Sio stava facendo nella fabbrica visconte del Duomo di Milano. La decorazione marmorea della facciata, tuttavia non fu mai completata, come si vede ancora oggi. -> Jacopo della Quercia, PORTALE CENTRALE , 1425-38, marmo, Bologna, Basilica San Petronio, p.37 A Jacopo della Quercia si deve il progetto del portale centrale che riuscì a completare solo in parte. 10 Manca infatti il coronamento gotico che avrebbe dovuto innalzarsi sopra la lunetta, popolata dal gruppo della Madonna col Bambino e i Santi Ambrogio e Petronio. Furono invece realizzati nel 1426-28, tutti i rilievi dei fianchi, con Profeti e storie dell’Antico Testamento. Le figure umane si ergono sulla superficie liscia del fondo, plastiche, danno l’effetto di statue a tutto tondo. La scena del Peccato originale (p.37), dominata da possenti nudi dei progenitori affiancati all’albero del bene e del male da qui spunta il serpente tentatore. Il giardino dell’Edenè totalmente spoglio, privo di prato fiorito e decorazioni care ai pittori “internazionali”. Jacopo riduce infatti l'episodio ai soli protagonisti, inarcando il vigoroso Adamo in un fiero contrapposto, cioè in una posa che alterna parti in tensione e parti rilassate. La testa scarta bruscamente di lato rispetto al corpo, dove il braccio destro si stira violentemente e la sottostante gamba si piega, mentre gli arti all'opposto rimangono in riposo. Adamo in questo caso può essere considerato un?antenato del David di Michelangelo (fig.1-2, p.317). Del resto Mic helangelo sul finire del ‘400 soggiornò un paio di anni a Bologna e studiò le sculture di San Petronio, che furono decisive per la sua formazione. -> Giovanni da Modena, RITORNO DEI MAGI IN ORIENTE PER MARE, 1412-15, affresco Bologna, San Petronio, Cappella Bolognini, p.39 San Petronio rimane una chiesa gotica, varando il portale querceto si entra in un tempio a pianta longitudinale, suddiviso il 3 navate voltate a crociera da robusti pilastri a fascio, che sostengono eleganti archi acuti. Gotica pure l'architettura delle cappelle che si aprono sulle pareti delle navate laterali e, generalmente, sono state alterate negli arredi e nelle decorazioni durante i secoli più vicini a noi. Una di queste, però mantiene l'originale aspetto dei primi decenni del Quattrocento. E la cappella voluta da Bartolomeo Bolognini culminante negli affreschi eseguiti dal migliore pittore che allora si potesse trovare a Bologna: Giovanni da Modena. Egli può essere considerato il più alto rappresentante del gotico internazionale nella pittura emiliana, e il ciclo della Cappella Bolognini è la sua opera più illustre, vi narrò la storia dei Re Magi, ampliata a illustrare il raro e fiabesco episodio del loro avventuroso viaggio di ritorno per mare, dalla Palestina all’Oriente. SEZIONE Il FIRENZE E IL PRIMO RINASCIMENTO CAPITOLO 4 - TRA IL DUOMO E ORSANMICHELE: GHIBERTI, BRUNELLESCHI, DONATELLO 1) Firenze cambia Il testo che spiega meglio ciò che oggi chiamiamo Rinascimento è la dedica a Filippo Brunelleschi che nel 1436 Leon Battista Alberti colloco in apertura al suo trattato sulla pittura. Alberti membro di una famiglia dell’aristocrazia fiorentina esiliata a Genova, racconta l'impressione sconvolgente che ebbe quando mise piede a Firenze nel 1443. Fino a quel momento egli aveva guardato al suo tempo, come una tappa di quella che gli appariva la lunga decadenza medievale, un’epoca in cui una natura ormai stanca non riusciva più a partorire gli uomini geniali di cui si leggeva nei testi greci e romani. Ma quando aveva finalmente conosciuto la sua vera patria, Alberti aveva visto le architetture sconvolgenti di Brunelleschi, le sculture di Donatello, Lorenzo Ghiberti e Luca della Robbia, le pitture di Masaccio... e aveva capito che l’antichità era rinata, anzi, era nato qualcosa di radicalmente nuovo. La generazione eroica che inventa il rinascimento lo fa dal nulla, ricreando più che riscoprendo. Il simbolo di questa stagione senza precedenti è agli occhi di Alberti e ancora oggi, la Cupola del Duomo di Firenze, prodigio strutturale di una modernità che guarda all’antichità dall’alto al basso. 11 La storia della cultura aveva voltato pagina. Se un secolo prima Giotto aveva tagliato ponti con la trascendente arte bizantina, formulando una pittura che voleva rendere la natura delle cose, ora una nuova generazione di maestri elaborava un linguaggio nuovo che trovava ispirazione nella letteratura e nell’arte antica, scoprendo nella prospettiva lo strumento per riprodurre scientificamente la tridimensionalità dello spazio reale su una superficie bidimensionale di un dipinto, di un rilievo, di un affresco. Brunelleschi, Donatello e Masaccio furono i promotori di questo rinnovamento artistico e culturale cui si da il nome di Rinascimento. 2) Il concorso del 1401 Nel 1401 fu bandito un concorso tra i migliori artisti toscani, il vincitore avrebbe realizzato una grande porta bronzea per il Battistero fiorentino di San Giovanni. A indire la competizione fu l’Arte di Calimala, una delle corporazioni professionali. La chiesa aveva 3 ingressi (pianta del battistero di San Giovanni a Firenze pag 47), uno dei quali era già chiuso da due battenti bronzei compiti nel 1336 e istoriati da Andrea Pisano, la porta sud. A tale modello doveva attenersi la nuova porta, oggi nell'accesso nord che da lontano sembra una vera e propria replica di quella trecentesca. Per il concorso ogni maestro doveva eseguire una formella mistilinea (cioè con una cornice gotica come quelle dei rilievi di Andre Pisano) con una storia trattata dal’Antico Testamento: Il Sacrificio di Isacco. La storia narra che Abramo per dimostrare a Dio la propria incontrollabile fede stava per sacrificare il figlio Isacco ma un angelo lo ferma e gli dica di immolare un ariete. | partecipanti al concorso furono sette e tra i nomi più illustri vi erano: Ghiberti, Brunelleschi Jacopo della Quercia. Vinse Ghiberti. L’opera di Brunelleschi era un vero e proprio manifesto del Rinascimento, mentre l’opera di Ghiberti era ancora del tutto gotica. In realtà entrambi gli artisti appartenevano alla cultura figurativa del gotico morente, ma in entrambi si possono cogliere i primi annunci di un nuovo modo di vedere il mondo. -> Lorenzo Ghiberti, SACRIFICIO DI ISACCO, 1401-1402, bronzo dorato, Firenze, Museo Nazionale del Bargello, p.48 Ghiberti, figlio di un’orafo, aveva un’ottima dimestichezza a lavorare il bronzo, e mise in scena un sacrificio di Isacco raffinatamente gotico. Il paesaggio è contraddistinto dalle rocce di tradizione trecentesca, e la composizione è centrata sulla figura di Abramo che, in un’elegantissima posa arcuata, viene bloccato dall’arrivo dell'angelo mentre sta per sacrificare il figlio. Solo nella figura di quest’ultimo si può riconoscere qualcosa di non troppo medievale poiché il giovane nudo appare ispirato all’anatomia di un torso antico. -> Filippo Brunelleschi, SACRIFICIO DI ISACCO, 1401-1402, bronzo dorato, Firenze, Museo Nazionale del Bargello, p.48 Nonostante la disposizione centrale del protagonista nella scena non vi è alcun rigore spaziale prospettico, il tutto è giocato alla finezza delle figure. Il personaggio in basso a sinistra sembra omaggiare la posa di una celebre scultura antica, lo Spinario, senza farne però rivivere l'energia classica. -> Filippo Brunelleschi, PROFETI, 1400, bronzo dorato, Pistoia, Cattedrale, Altare di San Jacopo. p.49 Anche Brunelleschi si era presentato al concorso e anche lui aveva un’esperienza di orafo, aveva infatti appena finito di lavorare ad alcune figure per l’altare di San Jacopo, nella Cattedrale di Pistoia. Qui entro un paio di cornici mistilinee spiccano un paio di profeti con lo stesso tipo di barba arricciata e calligrafica (=pettinata con grande eleganza lineare, crine per crine) dell’Abramo della formella. 3) La prima porta di Ghiberti per il Battistero 12 -> Nanni di Banco, SANTI QUATTRO CORONATI, entro il Tabernacolo dell’Arte dei Maestri della Pietra e del Leganme, 1409-17, marmo, Firenze, Orsanmichele (edicola restaurata nel 2015 e replica del gruppo scultoreo , ora conservato all’interno del museo), p.58 al centro Nel Tabernacolo dell'Arte dei Maestri della Pietra e del Legname, Nanni di Banco allestì qualcosa di radicalmente diverso: dato che la corporazione venerava come patroni i Santi Quattro Coronati (quattro scalpellini cristiani che subirono il martirio al tempo di Diocleziano) lo scultore inscenò all’interno della nicchia una sorta di silenziosa conversazione tra il quartetto di santi disposti a semicerchio, a seguire l’incurvatura della parete. -> Donatello, SAN GIORGIO, entro il Tabernacolo dell’Arte dei Corazzai, 1417, marmo, Firenze Museo Nazionale del Bargello, p.58 a dx La marcata volumetria e il recupero dell’antico segnano un superamento della tradizione gotica, lo dimostra il San Giorgio posto all’esterno di Orsanmichele, realizzato intorno al 1417 da Donatello per il tabernacolo dell'Arte dei Corazzai. Il santo cavaliere viene spogliato da ogni raffinatezza gotica e viene rappresentato saldo e severo, mentre guarda l’orizzonte, ostentando avanti a se il grande scudo. | piedi sono ben piantati a terra e la figura appare armonica e ben proporzionata, come fosse una statua antica. Una scultura così moderna viene inserita da Donatello in un tabernacolo con un coronamento ancora gotico, mentre nel basamento (p.59) risalta una scenetta raccontata con un senso di verità che non si era ancora mia visto prima, questo dimostra come in quel periodo convivessero due linguaggi artistici differenti. -> Donatello, SAN GIORGIO CHE SCONFIGGE IL DRAGO, predella del Tabernacolo dell’Arte dei corazzai, 1417, marmo, Firenze, Museo Nazionale del Bargello, p.59 in basso La storia di San Giorgio che sconfigge il drago nella predella del Tabernacolo dell’Arte dei Corazzai, è il più antico esperimento di prospettiva giunto fino a noi. Utilizzando la tecnica dello stiacciato, ovvero un rilievo basso, con effetti simili al disegno, che d’ora in poi farà parte del più tipo repertorio donatelliano. La predella vede al centro il cavaliere che uccide il drago, a sx un antro roccioso, la tana del drago, e a destra da un palazzo segnato da archi a tutto sesto compare la principessa. Il punto di fuga è centrale, secondo le migliori norme della prospettiva lineare, norme che Donatello doveva aver appreso da Brunelleschi. Un nuovo elemento s’insedia nella storia accrescendone il sentimento: il cielo atmosferico, primo cielo atmosferico dell’arte europea, un cielo che sovrasta dolci colline toscane e che si deve allo scalpello di uno scultore e non al pennello di un pittore. -> Donatello, SAN LUDOVICO, entro una replica del Tabernacolo di Parte Guelfa di Donatello 1420-26, bronzo dorato, Firenze, Museo di Santa Croce, p.59 in alto Per l'esterno di Orsanmichele Donatello eseguì anche la sua prima grande prova in bronzo, una statua raffigurante San Ludovico di Tolosa, per il Tabernacolo della Parte Guelfa (il partito dominante in città). Nel 1468 la Parte Guelfa cedette la sua nicchia all’Arte della Mercanzia, che vi avrebbe collocato il gruppo dell’Incredulità di San Tommaso del Verrocchio (pag.232). Il San Ludovico era stato rimosso dal Tabernacolo e finì sulla facciata della Chiesa di Santa Croce, ecco perché oggi si conserva al Museo di Santa Croce e nel tabernacolo una replica a calco. Il San Ludovico a differenza del San Giorgio appare quasi privo di struttura e progettato sull’incresparsi dei panni al vibrante sbattere della luce. E il segno di quanto Donatello sapesse far evolvere il proprio linguaggio. Il San Ludovico fu accolto in una nicchia innalzata verso il 14283 e nella quale per la prima volta a Orsanmichele, si preferiva al coronamento gotico un arco a tutto sesto, uno degli elementi per eccellenza del nuovo linguaggio architettonico elaborato da Brunelleschi. 7) L'invenzione della prospettiva Si assegna a Brunelleschi l’invenzione della cosiddetta prospettiva contralte o lineare, intesa come tecnica per rappresentare razionalmente gli oggetti nello spazio, così da ottenere l’effetto della terza dimensione in una superficie bidimensionale e farli apparire come l’osservatore li vede nella realtà da un determinato punto di vista. 15 Giotto nel secolo precedente aveva cercato di raggiungere simili effetti con accorgimenti empirici, Brunelleschi invece utilizzò un rigoroso metodo matematico che prevedeva di individuare sulla superficie un punto di fuga, corrispondete al centro dell’orizzonte al centro dell'orizzonte verso il quale guarda l’occhio dell'osservatore, e fare convergere in direzione di esso una serie di linee per creare una gabbia spaziale dentro la quale collocare gli oggetti secondo le loro relazioni proporzionali. Ai nostri occhi ciò che è vicino appare più grande e ciò che è lontano più piccolo. La prospettiva lineare era dunque uno strumento matematico capace di individuare scientificamente tali relazioni proporzionali, permettendo all'uomo di riprodurre con esattezza ciò che il suo occhio vedeva, con diversi secoli di anticipo all'invenzione della fotografia. A Roma Brunelleschi aveva potuto studiare sculture e architetture antiche scoprendone l'armonia proporzionale. Insieme a Donatello egli aveva trovato dunque dei modelli da imitare, ma altrettanto non aveva potuto fare con la pittura dato che non erano pervenuti dipinti antichi. Così Brunelleschi escogitò la prospettiva così da rendere quei caratteri di ordine e simmetria anche in pittura, oltre che in scultura e architettura come dimostrano gli edifici brunelleschinai e le statue donatelliane. -> Donatello, CONVITO DI ERODE, 1423-27, bronzo, Siena, Battistero, Fonte battesimale, p.61 Il soggetto è il Convinto di Erode che segna la sorte di Giovanni il Battista. Scena tridimensionale eseguita con la tecnica dello stiacciato e della prospettiva. Ci troviamo in uno spazio tridimensionale, in primo piano la testa del Battista è presentata a un Erode inorridito, mentre di fronte Salomè danza accompagnata da una musica provenienti da suonatori colti di profilo in secondo piano, al di là di una loggia. Ancora oltre si riconosce un momento precedente della storia, quando la testa del Battista è offerta a Erodiade; di fianco troviamo un apertura su delle scale che portano ai piani superiori del palazzo. La monumentale scenografia con gli archi a tutto sesto e il paramento murario a mattoni è palesemente ispirata all’antichità. Così con la prospettiva Donatello riesce a raccontare episodi che avvengono in tempi differenti manella stessa scena, attraverso la diversità dei piani spaziali, dunque, son rappresentati non solo spazi ma tempi diversi. Questa scena fa parte di un ciclo di Storie del Battista voluto dall’Opera del Duomo di Siena per decorare le pareti esterne della vasca di un grande Fonte battesimale. A quel ciclo furono chiamati a partecipare anche gli altri due maggiori scultori toscani del momento: Ghiberti e Jacopo della Quercia. Quest'ultimo eseguì nel 1428-30 la scena con l'Annuncio a Zaccaria, provando a imitare le novità donatelliane nello sfondo architettonico ma senza successo. Nel 1427 Ghiberti consegnò una formella con il Battesimo di Cristo, dove provò ad adottare lo “stiacciato” di Donatello, ma l’artista rimaneva ancora del tutto gotico. Questa volta i tre artisti non furono chiamati a sfidarsi in un concorso ma è ovvio che il ciclo senese rappresentò una competizione, dalla quale Donatello emerse come il più moderno scultore dell’epoca. 8) La nuova architettura di Brunelleschi La cattedrale di Firenze era stata ricostruita agli inizi del Trecento su un disegno di Arnolfo di Cambio, ma senza che si riuscisse a innalzare la cupola che siccome sarebbe dovuta essere di enormi dimensioni non si sapeva come costruirla. Nel 1418 l'Opera del Duomo bandì un concorso per risolvere il problema, cui seguì la nomina di due capomastri: Brunelleschi e Ghiberti. -> Filippo Brunelleschi, CUPOLA DELLA CATTEDRALE DI SANTA MARIA DEL FIORE, 1418-36 Firenze, p.63 Si tratta ancora oggi della più grande cupola in muratura del mondo: ha un diametro di 45,5 metri all’interno e 54,8 metri all’esterno, l'altezza totale è di 116,5 metri, compresa la lanterna, progettata da Brunelleschi, ma compiuta solo dopo la sua morte, nella seconda metà del Quattrocento. Per Brunelleschi era giunto il momento di prendersi la rivincita sul concorso del 1401, riuscì a diventare l’unico direttore del cantiere. 16 Il progetto brunelleschiano prevedeva una cupola con otto costoloni e vele, mettendo in atto quanto imparato a Roma sui monumenti antichi pensò a una copertura a doppia calotta, utilizzando una particolare muratura con mattoni a spina di pesce. Nel 1486 la cupola venne ultimata stagliandosi su Firenze come un vero e proprio miracolo, manifesto civile e politico di una comunità che non aveva paura di arrivare a scavalcare il cielo stesso. Brunelleschi guardò all’antico per le tecniche ma non per la forma: ragioni strutturali imposero infatti il ricorso a grandi costoloni ogivali che creano una verticalità di matrice gotica, assai diverso dal formato della cupola romana per eccellenza, il Pantheon. Negli stessi anni Brunelleschi esibisce una nuova visione architettonica con l’utilizzo di elementi antichi come l’arco a tutto sesto e la colonna recuperati per definire spazi razionali e ben proporzionati che vogliono richiamarsi al rigoroso ordine della prospettiva. Diede vita a due edifici dove la rinuncia del gotico è definitiva, con questi edifici nasce il Rinascimento in architettura: la loggia dell'Ospedale degli Innocenti e la chiesa di San Lorenzo. -> Filippo Brunelleschi, OSPEDALE DEGLI INNOCENTI, post 1421, Firenze, Piazza della Santissima Annunziata, p.64 o pp.40-41 Nel 1419 Brunelleschi ricevette l’incarico di progettare l'Ospedale degli Innocenti, la committente derivava dall’Arte della Seta della quale Brunelleschi faceva parte. l'Ospedale è una pubblica istituzione che aveva lo scopo di accogliere e crescere i bambini abbandonati. Tra il 1421-1424 fu innalzato il loggiato costituito da campate e arcate a tutto sesto impostate su colonne che si susseguono. Negli oculi progettati tra gli archi da Brunelleschi furono posti una serie di tondi in terracotta invetriata com piuti da Andrea della Robbia nel 1487, ognuno di essi raffigura un bambino in fasce in relazione alla funzione dell’edificio e ai Santi Innocenti, cioè i bambini sterminati da Erode. Il portico degli Innocenti si può considerare la prima architettura/spazio urbano Rinascimentale, l'incipit della città moderna. Qui per la prima volta troviamo un vocabolario classico: colonne, paraste, archi, capitelli, trabeazioni... Per la prima volta l'architettura è pensata in termini geometrici e aritmetici, si vede dall’altezza della colonna che è 9 volte il suo diametro, e tutti gli altri rapporti modulari sono costruiti sulla distanza tra le due colonne. Significativo è il fatto che tutto questo non avvenga in un palazzo destinato alla corte di un signore ma in un centro di assistenza per l’infanzia abbandonata, cioè in un edificio pubblico. -> Filippo Brunelleschi, BASILICA DI SAN LORENZO, post 1421, Firenze, p.65 Fin dai primi anni ’20 Brunelleschi si occupò pure della ricostruzione della chiesa di San Lorenzo, il progetto prevedeva una suddivisione in 3 navate alternando la copertura piana al centro con le volte nei corridoi laterali e utilizzando per le campate il proporzionale modulo cubico già sperimentato nell'ospedale degli Innocenti. Era una pianta simile a quelle gotiche ma il vocabolario dell’architettura e il senso dello spazio erano radicalmente nuovi, cioè ispirati all’antico, all'architettura romana e a quella paleocristiana. Brunelleschi per la decorazione degli altari richiese non più polittici gotici ma tavole quadrate, prive di cuspidi e pinnacoli. Il cantiere fu assai lungo, finì nel 1442. All’interno della chiesa Brunelleschi lavora alla cappella di famiglia Medici, dedicata ai santi Cosa e Damiano, che si trova all'estremità meridionale del transetto. CAPITOLO 5 - MASACCIO E I SUOI 1) Masaccio e Masolino Le arti guida del primo rinascimento furono architettura e scultura, a raccogliere in pittura la lezione di Brunelleschi e Donatello fu Masaccio (di Arezzo). Lui ebbe una carriera fulminea racchiusa negli anni "20 ma capace di sconvolgere l’ambiente artistico fiorentino. Il ritardo della pittura veniva così finalmente finalmente colmato. 17 L’unica concessione al lusso è la sedia dorata della vergine che ricorda la sedia pieghevole da viaggio utilizzata dalle più alte magistrature romane. È enorme la differenza con l’Adorazione dei Magi di Gentile da Fabriano del 1428, si passa da una lunga e dettagliata descrizione a una istantanea. -> Gentile da Fabriano, MADONNA CON BAMBINO E ANGELI, del Polittico Quaratesi per la chiesa fiorentina di San Niccolò Oltrarno, 1425, tempera e oro su tavola, Londra, National Gallery, p.73 -> Masaccio, MADONNA COL BAMBINO E ANGELI, dal Polittico di Pisa, 1426, tempera e oro su tavola, Londra, National Gallery, p.73 Il soggetto è lo stesso ma il linguaggio è antitetico. Nella tavola di Gentile regna l'eleganza delle figure e lo sfarzo dei broccati che rivestono il trono. L'assenza di una ricerca della terza dimensione è lampante al confronto con la prova masaccesca, sul proscenio due angioletti musicanti, la vergine veste un mantello sapientemente panneggiato che struttura la figura avendo a mente quello che Donatello stava facendo soprattutto guardando al San Giovanni Evangelista del Duomo. Il Bambino è piccolo, ben scorciato, si protende verso lo spettatore. Colpisce l’utilizzo della luce fortissima cui si deve il netto contrasto tra le parti in luce e in ombra dando consistenza al trono in pietra nel quale non c’è più traccia di elementi gotici. -> Masaccio, CROCIFISSIONE, dal Polittico di Pisa, 1426, tempera e oro su tavola, Napoli, Museo Nazionale di Capodimonte, p.74 Un’identica illuminazione rischiara la Crocifissione che in origine costituiva il vertice del polittico pisano. Masaccio vi esplicita la terza dimensione attraverso il poderoso gesto della piangente Maddalena che allarga le braccia di spalle, la studiata disposizione dei piedi del San Giovanni e la scelta di raffigurare il cristo quasi senza collo, in un realistico scorcio di sottinsù della testa ormai senza vita. 4) La Trinità di Santa Maria Novella -> Masaccio, TRINITÀ, 1427, affresco, Firenze, Santa Maria Novella, p.75 Il passo successivo nell’uso della prospettiva è nuovamente a Firenze, in Santa Maria Novella dove Masaccio utilizzò questo strumento per affrescare sulla parete un'architettura illusionistica che finge un’intera cappella, in mezzo a una sorta di arco trionfale all'antica un padre eterno colossale sorregge e ostenta la croce da cui pende il Figlio. Ai piedi della croce, la Vergine e San Giovanni saldano l’immagine della Trinità e quella della Crocifissione. Sulla soglia di questo spazio pregano in adorazione eterna Berto di Bartolomeo (architetto che collaborò al cantiere della cupola brunelleschiana) e sua moglie Sandra. Immediatamente sotto di loro doveva trovarsi la mensa fissa o mobile che dava a tutto l’affresco il senso di una pala d’altare, anzi, di una vera cappella funebre visto che si celebravano le messe in memoria dei committenti e dei loro discendenti, sepolti sotto il pavimento della navata. Sotto l’altare (registro inferiore) giace uno scheletro, alludendo a dello di Adamo che una tradizione voleva sepolto sotto il Calvario, esso proclama che la passione, la orte e la resurrezione di Cristo hanno sconfitto la morte di ogni uomo, una morte fisica che domina cupamente l’esperienza quotidiana, tanto che lo scheletro parla ai fedeli tramite un’iscrizione. Nell'arte medievale era consueto che committenti e devoti fossero raffigurati sottodimensionati rispetto alla divinità e ai santi. Masaccio scardina questa tradizione, per lui le ragioni della prospettiva e della realtà contano molto più delle abituali gerarchie, nella consapevolezza che in uno spazio tridimensionale le figure, umane e divine, devono rispettare i rapporti proporzionali imposti dalle norme implacabili della prospettiva. L'architettura della cappella sembra dettata da Brunelleschi nell’utilizzo di elementi del linguaggio antico: paraste scanalate, colonne con capitello ionici, arco a tutto sesto, volta a botte decorata a lacunari (vedi schema p.75) E, nel susseguirsi dei piani, Masaccio pare ben conoscere quanto sperimentato da Donatello nel Convinto di Erode (p.61). La Trinità di Masaccio segna la fine dell’opera fiorentina, trasferitosi a Roma, per ricongiungersi con Masolino e per lavorare a commissioni provenienti da papa Martino V. 20 Morirà nel 1929. Le sue opere rivoluzioneranno l’arte di molti artisti toscani. 5) Sulla scia di Masaccio: Sassetta, gli esordi di Beato Angelico e di Filippo Lippi -> Stefano di Giovanni detto il Sassetta, SANT'ANTONIO BATTUTO DAI DIAVOLI, dalla Pala dell'Arte della Lana di Siena, 1423-24, tempera e oro su tavola, Siena, Pinacoteca Nazionale, p.76 Tra i primi a intendere le novità fiorentine in pittura ci fu Stefano di Giovanni detto il Sassetta, che sarebbe stato protagonista della pittura senese del primo Quattrocento. Intorno al 1423-24 il Sasseta dipinse un polittico per l’Arte della Lana di Siena che è andato smembrato ma rimase un frammento di predella Sant'Antonio battuto dai diavoli vediamo come le novità brunelleschiane cominciassero ad essere note oltre i confini fiorentini. Compare un cielo atmosferico e i tre demoni sembrano disporsi a semicerchio intorno all’eremita a dare il senso dello spazio. Le figure conservano una sottigliezza gotica, cui il Sasseta resterà legato per l’intera carriera. Con la tradizione del Gotico Internazionale si trovò a fare i conti anche il fiorentino Guido di Pietro meglio noto come Beato Angelico, l'aspetto grazioso e leggiadro delle figure era la conseguenza di una formazione segnata dal Gotico internazionale, quando Firenze non aveva ancora conosciuto le novità di Masaccio. Era un frate domenicano e tante volte fu chiamato a lavorare per le chiese del suo ordine: il suo soprannome indicava una fama di santità che sarà poi riconosciuta formalmente nel 1982. -> Beato Angelico, MADONNA COL BAMBINO E | SANTI DOMENICO, GIOVANNIBATTISTA, PIETRO MARTIRE E TOMMASO D’AQUINO (Trittico di San Pietro Martire), da San Pietro Martire 1429, tempera e oro su tavola, Firenze, Museo di San Marco, p.77 Il trittico è incorniciato da una lunetta e negli spazi tra questa e le cuspidi sono dipinti gli episodi della predica e del martirio del domenicano Pietro Martire. Nel trittico riecheggia la lezione Masaccesca del Polittico di Pisa. Anche qui osserviamo simultaneamente il formato gotico della carpenteria, il fondo dorato e la scelta di unificare lo spazio del registro principale dove la Vergine si staglia ancora con la grazia di una regina gotica, ma i tre santi dalle vesti bianche e mantello nero dei Domenicani si ergono con statuaria solidità. Il raffinatissimo pavimento in marmi screziati è un motivo che il Beato Angelico ripeterà tante volte nel corso della sua vita. Filippo Lippi appartenne all'ordine carmelitano e prese i voti nel 1421 nel convento fiorentino del Carmine, prima che Masaccio lavorasse alla Cappella Brancacci. La possibilità di avere ogni giorno sotto occhi quel clamoroso ciclo di affreschi permise a Filippo di essere il più precoce e autentico seguace di Masaccio. -> Filippo Lippi, MADONNA DELL’UMILTà E SANTI, da Santa Maria del Carmine di Firenze 1429-32, tempera e oro su tavola trasportata su tela, Milano, Pinacoteca del Castello Sforzesco pIZ Si tratta di una pala d’altare di piccole dimensioni e dal curioso formato, dove il soggetto prediletto dai pittori gotici è tradotto in termini dichiaratamente masacceschi. La rigorosa composizione rinuncia alla ridondanza di fiori tipica deltema, il fondo è azzurro anziché dorato, le figure sono salde, tanto che il gruppo della Versione col Figlio sembra avere la geometrica compattezza di un cono anche per il modo in cui il pesante mantello cala dalle spalle a terra. L'ampia cappa bianca identifica i due santi a dx, due carmelitani non troppo noti: il martire Angelo di Sicilia reca sulla testa la spada con la quale fu ucciso mentre un fiorito giglio distingue Alberto da Trapani. Ben assimilato l'insegnamento masaccesco, in quest'opera Filippo Lippi si presta ad andare anche oltre: le fisionomie e le capigliature dei fanciulli intorno alla Vergine annunciano infatti la scultura di Luca della Robbia. 21 6) Paolo Uccello: condottieri e battaglie Altro protagonista del primo rinascimento fiorentino fu Polo Doni, detto Paolo Uccello per le pitture di animali con cui aveva decorato la propria casa. Dopo un soggiorno nel cantiere ghibertiano della Porta Nord e un soggiorno a Venezia nella seconda metà degli anni Venti, egli si innamorò perdutamente della prospettiva. -> Paolo Uccello, MONUMENTO EQUESTRE DI GIOVANNI ACUTO, 1436, affresco, Firenze, Santa Maria del Fiore, p.78 Affrescato su una parete del Duomo di Firenze per rendere onore a un condottiero inglese che aveva scritto la Repubblica fiorentina nel secolo precedente. Facendo tesoro dell’illusionismo della Trinità masaccesca di santa Maria Novella, per simulare con il pennello un complesso scultoreo, il risultato è impressionante, tanto nella resa spaziale della cassa, quanto nell’accentuato plasticammo del gruppo del cavallo e del condottiero, un tema che fu caro al pittore e che presto anche gli scultori si trovarono a dover riesumare dalla tradizione classica. -> Paolo Uccello, BATTAGLIA DI SAN ROMANO, episodio con Niccolò da Tolentino alla testa dei Fiorentini, 1438, tempera e oro su tavola, Londra, National Gallery, p.79 prima figura -> Paolo Uccello, BATTAGLIA DI SAN ROMANO, episodio del Disarcionamento del condottiero senese Bernardino della Carda, Firenze, Galleria degli Uffizi, p.79 seconda figura -> Paolo Uccello, BATTAGLIA DI SAN ROMANO, episodio in cui Michele Attendolo guida i Fiorentini alla vittoria, Parigi. Musèe du Louvre, p.79 ultima figura Verso il 1438 Paolo Uccello dipinse per il fiorentino Leonardo Bartolini Salimbeni tre grandi tavole che raccontano le principali fasi della Battaglia di San Romano combattuta tra fiorentini e senesi nel 1482, durante la Guerra di Lucca. l tre pannelli narrativi che nel corso del Quattrocento sarebbero passati nelle mani dei Medici sono oggi divisi tra differenti musei. In questi dipinti si nota una vera e propria ossessione per gli scorci difficili e le geometrie volumetriche delle figure e degli ampi copricapi, in particolare quelli circolari. Una composizione prospettica, lo si capisce osservando la disposizione dei cavalli, dei soldati e delle lunghe lance. Affollatissima composizione di figure. Nella prima immagine troviamo la battaglia in primo piano e altre scene di lotta nei lontani paesaggi nei quali il pittore evoca preziosità gotiche. In origine, l’attuale formato rettangolare delle tavole doveva essere completato da cuspidi e sulle armature dei guerrieri brillavano lamine d’argento oggi perdute o offuscate dal tempo. Retaggi di un mondo gotico duro a morire. CAPITOLO 6 - PITTURA DI LUCE 1) Domenico Veneziano: il maestro di Piero della Francesca Dieci anni dopo la morte di Masaccio ci sono stati maestri che mossi dalla sua esperienza misero a punto una pittura fondata sul rigore prospettico e sulla scelta di un registro cromatico vivace e luminoso. Quest’arte è stata chiamata “pittura di luce”, e be origine a Firenze, sul finire degli anni Trenta per impulso di Domenico Veneziano e rapidamente si diffuse nelle regioni del centro Italia grazie al suo allievo Piero della Francesca. La pittura di luce ha i suoi cardini nella prospettiva, nell’elaborazione di una composizione essenziale e lineare, in una ordinata narrazione della storia e nell’utilizzo di colori chiari e luminosi. -> Domenico Veneziano, ADORAZIONE DEI MAGI, da Palazzo Medici a Firenze, 1439-40. tempera e oro su tavola, Berlino, p.80 Domenico è a Firenze dal 1489 fino alla morte, nonostante il nome dice di una provenienza da Venezia. Sono presenti elementi tardogotici, come la ricchezza degli abiti dei sovrani orientali. Muovendo l’occhio dal gruppo della Vergine con il Figlio e i Magi, notiamo che il popoloso corteo attraverso le studiate proporzioni ci guida a comprendere l’accorta tridimensionalità del dipinto, dall’umile capanna, ai prati, ai castelli e alle alture del lontano paesaggio toscano. 22 4) Il capolavoro di Piero ad Arezzo: le Storie della Vera Croce -> Piero della Francesca, STORIE DELLA VERA CROCE, insieme degli affreschi nella cappella Maggiore della Chiesa di San Francesco ad Arezzo, pp.86-87 Piero della Francesca deve la sua celebrità al ciclo di storie illustrate nella Cappella Maggiore della chiesa di San Francesco ad Arezzo. Inizialmente questo lavoro venne commissionato a Bicci di Lorenzo che però morì nel 1452 avendo decorato soltanto le vele di quello spazio, negli anni successivi Piero dispiegò sulle pareti una serie di affreschi che raccontano la storia del legno della croce di Cristo, uno degli oggetti maggiormente legati alla devozione francescana. Rispetto a quello che aveva fatto Masaccio nella Cappella Brancacci, raccontano le vicende dei Vangeli e degli Atti degli Apostoli. La solenne narrazione, che segue la corrispondenza della tipologia di scene più che la successione cronologica degli eventi, inizia dalla lunetta dx con la scena della morte di Adamo (vedi p.87) a lui il figlio mette in bocca il germoglio dal quale crescerà l’albero dal quale sarà ricavato il futuro legno della croce. -> Piero della Francesca, LA REGINA DI SARA ADORA IL FUTURO LEGNO DELLA CROCE E INCONTRA SALOMONE, dalle Storie della Vera Croce, p.88 in alto Nel successivo riquadro ci sono due episodi, in un paesaggio la regina di Saba durante il suo viaggio per andare a incontrare Salomone, si inginocchia di fronte a un ponte prevedendo che il legno di esso sarebbe servito a formare lo strumento di morte del salvatore del mondo. Il cerimonioso incontro tra la ricca regina e col saggio sovrano israelita si compie si compie nell’altra metà del riquadro entro un porticato all’antico, prezioso nelle colonne e nei mari policromi (ricorda quelli di Leon Battista Alberti). La soluzione di usare uno spazio unico per raccontare una storia in diversi momenti viene usata in tutto il ciclo e ha alle spalle l'esempio del Tributo di Masaccio. Per quanto un’episodio si svolge all’esterno e l’altro all'intento, l’artista riesce a rendere l’effetto di un’ambiente unificato strutturando la colonna centrale come perno per la piramide prospettica. -> Piero della Francesca, FLAGELLAZIONE, 1445-50, tempera grassa su tavola, Urbino, Galleria Nazionale delle Marche, p.88 in basso Realizzata prima del ciclo, è una virtuosistica prova di prospettiva nata con la funzione di dimostrare le doti del pittore. Il supplizio di Cristo ha luogo a sx in un porticato simile a quello dove si incontrano Salomone e la regina, mentre in primo piano a dx tre personaggi, non identificati, sono disposti su un proscenio di un fondale urbano. Nonostante il soggetto sacro, la singolarità di questa di questa composizione mostra che essa non dovette essere concepita per una chiesa. Abiti ricchi e solenni delle tre figure sulla dx e altri particolari come i loro gesti, i piedi scalzi del giovane al centro, invitano a vedervi personaggi a cui Piero intendeva dare un nome, anche se noi non sappiamo bene quale. -> Piero della Francesca, BATTAGLIA DI PONTE MILVIO, dalle Storie della Vera Croce, p.89 Il volto di Giovanni VIII Paleologo compare in una delle principali scene del ciclo, lo si riconosce nella figura di Costantino che ostentando la croce guida le sue truppe contro Massenzio, nella Battaglia di Ponte Milvio. Euna chiara allusione a quotidiani fatti di cronaca che preoccupavano l'Europa, nel 1453 Costantinopoli fu presa dai Turchi e così ebbe fine la millenaria vicenda di un impero che era divenuto cristiano attraverso Costantinopoli. Nell’ottica di Piero il vincitore di Ponte Milvio poteva essere rappresentato con il volto del suo legittimo erede Giovanni VIII Paleologo, che il pittore aveva visto a Firenze nel 1439 e che morì nel 1448 lasciando al fratello Costantino XI il poco entusiasmante destino di essere l’ultimo imperatore bizantino. Nel ritrarre con quel volto il protagonista di una simile scena Piero vuole evocare una possibile rivincita cristiana e bizantina, una rivincita che nella realtà non vi fu. Nell’impaginare una battaglia come una parata Piero seppe esprimere efficacemente la paura, l’animosità, la destrezza, la forza dei combattenti, seppe condurre meravigliosamente un gruppo di cavalli in scorcio. 25 -> Piero della Francesca, IL SOGNO DI COSTANTINO, dalle Storie della Vera Croce, p.90 In questa scena si riconoscono tutte le qualità della pittura pierfrancescana: la resa tridimensionale del padiglione in cui dorme l’imperatore, lo scorcio dell’angelo che si cala dall’alto a mostrargli a croce, il cielo stellato, lo studio luministico culminante nei netti contrasti tra le superfici oscure e i lucenti profili della creatura angelica e del soldato di spalle in primo piano. Un modo colto per dire che il ciclo contiene scene che hanno conquistato nell'immaginario degli uomini del Novecento un posto davvero centrale. -> Piero della Francesca, RITROVAMENTO E VERIFICA DELLA CROCE, dalle Storie della Vera Croce, p.91 Fu la madre di Costantino, Elena, a ritrovare la reliquia della croce in Terrasanta, la si vede dapprima osservare il recupero delle tre croci del Golgota, che erano state sotterrate poco lontano da Gerusalemme, e poi inginocchiarsi di fronte alla croce che, col solo contano, aveva resuscitato un morto, facendosi così riconoscere per quella di Cristo. Qui Piero fa risaltare il sacro legno con l’ennesimo virtuosismo di uno scorcio attentamente calcolato e dovendo alludere all'architettura di un’antico tempio di Venere, innalza il prospetto tripartito e impanato di un sacro edificio che potrebbe essere stato disegnato da Leon Battista Alberti. Ancora una volta troviamo due episodi in uno spazio unico. CAPITOLO 7 - LUCA DELLA ROBBIA E LA FORTUNA DELLE “ROBBIANE” 1) Le Cantorie del Duomo di Firenze Nella Firenze del primo rinascimento anche la scultura, in parallelo con le ricerche di Domenico Veneziano in pittura, seppe crearsi un nuovo linguaggio nel quale il colore e la luce riuscirono a giocare un ruolo decisivo grazie all'invenzione di una nuova tecnica, quella della terracotta invetriata. Il merito di ciò spetta a Luca della Robbia, nome preso dalla robbia, un’erba colorante. Prima di cimentarsi con la terracotta invetriata Luca seppe dimostrare di essere un grande scultore in marmo, confrontandosi nel corso degli anni Trenta con Donatello nell'esecuzione delle cantorie per il Duomo di Firenze. Brunelleschi non si era occupato soltanto del cantiere della cupola del Duomo fiorentino, ma aveva anche progettato l’arredo della zona sottostante, intorno all'altare maggiore, dotandolo di una coppia di cantorie, ovvero di due balconi deputati ad accogliere il nuovo organo e coristi della cattedrale, affacciandosi l’uno di fronte all’altro, al di sopra delle porte delle due sagrestie. La musica aveva un grande rilievo. La cantoria dal lato sx, sopra l’ingresso della Sagrestia delle Messe, era stata commissionata a Luca della Robbia, che l'avrebbe completata nel 1438, quando era praticamente pronta anche l’altra ordinata nel 1433 a Donatello e collocata sopra l'ingresso dea Sagrestia dei Canonici (vedi schema della pianta p.93). I due complessi sono oggi conservati al museo dell’Opera del Duomo e costituiscono una evidente prova della decisiva svolta della scultura fiorentina negli anni Trenta, quando Donatello accelerò la tensione espressiva del suo personale linguaggio, allontanandosi dallo stile ben composto di Brunelleschi, il quale al tempo stesso trovò un nuovo interprete, Luca della Robbia. -> Donatello, CANTORIA, da Santa Maria del Fiore, 1433-38, marmo, bronzo e inserti vitrei Firenze, Museo dell'Opera del Duomo, p.93 Quando 1433 ottenne la commissione della cantoria. Volendo richiamare il tema della musica, Donatello allestisce sul prospetto del balcone una sfrenata e instancabile danza di putti alati che volteggiano esuberanti entro lo spazio continuo di una galleria impreziosita sul fondo e nelle colonne da colorati inserti musivi. Donatello sembra andare in direzione contraria rispetto alla misura e all’equilibrio dell’architettura di Brunelleschi. Donatello utilizzava tessere vitree colorate, il rifiuto di una rigida composizione e la scelta di lasciare le figure abbozzate. 26 -> Luca della Robbia, CANTORIA, da Santa Maria del Fiore, 1431-38, marmo, Firenze, Museo dell'Opera del Duomo, p.92 A differenza degli indisciplinati spiritelli di Donatello, la cantoria di Luca della Robbia è popolata da fanciulli. Il Salmo 150 che si legge nella doppia iscrizione latina della cornice e invita a lodare Dio al suono della tromba, tamburi, danze e flauti. Grazie a una sapienza scultorea maturata nella bottega di Nanni di Banco, Luca mette a punto una serie di dieci rilievi quadrati dove gruppi di cantori e danzatori ben in carne sono levigati nel marmo. Le pose sono tratte dall’antico, le teste si muovono a cercare virtuosistici scorci dal sotto in suma domina sempre un’armoniosa serenità. Inflessibile è l'ordine architettonico scandito rispettivamente su due registri dalle mensole del balcone e da coppie di paraste. 2) Pittura come scultura: Filippo Lippi e Domenico di Bartolo Il placato linguaggio di Luca della Robbia dimostrato nella cantoria trova un preciso parallelo in pittura, in aleune opere eseguite nella prima metà degli anni Trenta da Filippo Lippi e dal senese Domenico di Bartolo. -> Filippo Lippi, TRITTICO CON LA MADONNA COL BAMBINO, QUATTRO ANGELI, IL DONATORE, SAN GIOVANNI BATTISTA E SAN GIORGIO, 1430-34, tempera e oro su tavola, Cambridge (Regno Unito) Fiotzwilliam Museum, p.94 Agli esordi fedelmente masacceschi, Lippi fece seguire alcuni dipinti in cui le forme delle figure si fanno più larghe e pacate. In questo trittico dal fondo ancora una volta dorato ma senza cuspidi gotiche, che innalza sullo scomparto centrale un timpano all’antica che contiene lo stemma del committente che compare di profilo con la metà inferiore del corpo tagliata dalla cornice come se stesse spuntando dal basso a raccogliere la benedizione del Bambino. La madre è deformata da un grosso ventre, gli angeli che la circondano le reggo un morbido cuscino. Ai alti abbia San Giovanni Battista e San Giorgio. Nello scomparto centrale ci sono tre colonne che danno il senso dello spazio. Non si deve scambiare per una Madonna dell’Umiltà poiché la Vergine sembra accoccolata a terra ma in realtà è sospesa sopra un tappeto di nuvole dalle quali piovono raggi dorati. -> Domenico di Bartolo, MADONNA DELL’UMILTà, 1483, tempera e oro su tavola, Siena Pinacoteca Nazionale, p.94 È invece proprio una Madonna dell’Umiltà quella di Domenico di Bartolo, opera aggiornata sulle novità fiorentine. Nonostante il fondo oro, la tavola è di formato rettangolare e ha lasciato i complicati ornati delle cornici gotiche. L’esuberanza vegetale e animale delle più celebri Madonne dell’Umiltà dei pittori internazionali cede il passo a una scena che conserva il prato fiorito ma è tutta centrata sulla possente figura di Maria, dal manto azzurro accartocciato a rendere le forme delle sottostanti gambe grassocce, come andava insegnando Donatello nei Profeti del campanile di Giotto. Il solido bambino nudo, con l’aureola in scorcio, denota una buona conoscenza di Masaccio, e gli angeli musicanti in secondo piano pare voler tradurre in pittura i gesti e la quieta consistenza delle figure di Luca della Robbia che stava scolpendo per la cantoria. 8) La terracotta invetriata e la sua fortuna Per mezzo della cantoria Luca della Robbia seppe farsi apprezzare da Filippo Brunelleschi, che simultaneamente non doveva trovare troppo opportuna l’accentuazione espressiva di Donatello. 27 Mentre Donatello e Luca della Robbia si sfidavano nelle cantorie del Duomo, Ghiberti rimaneva fedele alle proprie sottigliezze gotiche, adottando nella porta del Paradiso il linguaggio preannuncia nel Battesimo di Cristo del Fonte Battesimale di Siena (p.61): le figure acquistavano appena un po’ di volume rispetto alla Porta Nord, la prospettiva gli rimaneva sostanzialmente oscura e lo “stiacciato” donatelliano veniva utilizzato non per costruire uno spazio tridimensionale ma per rifinire elegantissimi dettagli. -> Lorenzo Ghiberti, STORIA DI ADAMO ED EVA, particolare della Porta del Paradiso, p.101 sx -> Lorenzo Ghiberti, STORIA DI GIUSEPPE EBREO, particolare della Porta del Paradiso, p.101 dx Il coro angelico reso con lo stiacciato nel Battesimo senese torna a fare da corona alla creazione di Eva nella prima delle formelle della porta del Paradiso, in cui Ghiberti racconta la storia dei progenitori in un unico fondale. Si inizia a sinistra con la creazione di Adamo e si prosegue al centro con quella di Eva. La narrazione continua poi con il momento del peccato originale, illustrato a bassissimo rilievo in secondo piano a sx, che ha come conseguenza la cacciata dal paradiso terrestre sulla dx, con i progenitori spinti dall’angelo al di fuori di un semplice portale in diagonale, su mandato di un dio padre che occupa i cieli col suo coro angelico. La cacciata ricorda la versione della scena nella Cappella Brancacci anche se qui non c’è nulla di masaccesco e donatelliano: la materia è preziosissima e levigata come i marmi robbiani, i personaggi tendono più alla bellezza che al dramma, gli alberi sono lussureggianti e il paesaggio è descritto accuratamente. Come fece anche Piero della Francesca nelle Storie della Vera Croce di Arezzo (p.86), Ghiberti racconta più episodi della stessa storia in una sola scena. Nel breve spazio quadrato della formella hanno luogo 4 momenti del racconto intrecciati e combinati tra loro, questo per dire che Ghiberti non rinuncia ad articolare la figurazione per episodi uniti dal filo narrativo più che dalla razionalità prospettica. Le difficoltà a intendere la prospettiva emergono nella formella in cui Ghiberti narra la Storia di Giuseppe ebreo, figlio preferito di Giacobbe, Giuseppe fu venduto dai fratelli invidiosi e giunto in Egitto fece fortuna interpretando i sogni del faraone che lo volle come suo ministro, quando in un periodo di carestia i fratelli andarono in Egitto a cercare il grano, Giuseppe si fece riconoscere e perdonandoli li accolse presso di sé. La romanzesca vicenda è raccontata nella formella attraverso 7 episodi predisposti attorno a una grande loggia circolare che Ghiberti non riesce a collocare correttamente nello spazio. Lo scultore si esalta nella minuzia delle elegantissime figure arcuate, segnate dai panneggi ricurvi o dalla perfezione calligrafica delle acconciature. Registro cortese, per esempio per papa Eugenio IV eseguì una mitria ornata di pietre preziose. 4) Il David e la Giuditta di Donatello -> Donatello, DAVID, 1435-40, bronzo con tracce di dorature, Firenze, Museo Nazionale del Bargello, p.102 sx C’è una scultura in cui Donatello esprime una grazia eccezionale che per una volta lo accomuna a Ghiberti, è il David. Un adolescente dai lunghi capelli, completamente nudo, se non per il cappello in testa e i calzari, nella destra ha la spada e nella sinistra il sasso con il quale ha abbattuto Golia. Il giovinetto trionfante poggia un piede sul capo del gigante morto, come se fosse un cacciatore che vuole farsi ritrarre con la sua preda. Nella posa ancheggiante, con la mano sinistra al fianco, il giovane è di un’eleganza estrema ma rispetto a quanto avrebbe saputo fare Ghiberti popone una novità decisiva , è infatti una vera e propria statua a tutto tondo, studiata affinché le si possa girare intorno, Donatello lo realizzo per una sala del vecchio palazzo di Cosimo de’ Medici, dove si ergeva sopra una colonna propri come i monumenti antichi. Osservandolo dal sotto in su si poteva così incrociarne lo sguardo rivolto verso il basso e altrimenti quasi nascosto dal cappello che sulla cima doveva recare un pennacchio vero. -> Donatello, GIUDITTA E OLOFERNE, da Palazzo Medici, 1457-64, bronzo dorato, Firenze Palazzo Vecchio, p.102 dx Donatello avrebbe eseguito per Cosimo un altro bronzo monumentale di soggetto biblico: l’eroina Giuditta in atto di decapitare Oloferne. 30 Gruppo scultoreo pensato di nuovo a tutto tondo ma di una forza impressionante nello scarto della figura che sta per essere decapitata, nel gesto dell'eroina che alza la spada, nel fremente panneggio della sua veste e nelle storcete ai piedi del basamento. Giuditta uccise Oloferne dopo averlo fatto ubriacare. Un tempo il gruppo della Giuditta recava una scritta latina che nominava il committente ed esaltava la funzione civile dell’opera ricordando come Piero, figlio di Cosimo dedicasse la statua femminile all’unione di fortezza e libertà. L’eroina biblica aveva salvato la città di Betulia dall'assedio degli Assiri, seducendo il loro comandante Oloferne e poi decapitandolo di notte nel suo accampamento. Il gruppo donatelliano raffigurava quindi un esempio di virtù civile e amore per la patria. A seguito della cacciata dei Medici da Firenze l’opera sarebbe stata requisita dalla repubblica ed esposta di fronte al Palazzo Vecchio (oggi c’è una copia) ma in origine Cosimo aveva ordinato la Giuditta perché si innalzasse nel giardino della sua nuova dimora, poco lontano dal David che nel frattempo dalla sala del vecchio Palazzo medici aveva trovato posto nel cortile di quello nuovo. 5) Michelozzo da Bartolomeo architetto di Cosimo Si formò nel cantiere ghibertiano della Porta Nord, fu socio di Donatello, seppe affermarsi come architetto guardando alla lezione di Brunelleschi, alla morte del quale, nel 1446, ebbe l’incarico di capomastro del Duomo, e diventò l'architetto di fiducia di Cosimo de’ Medici, che gli aveva affidato il progetto della sua nuova dimora. -> Michelozzo da Bartolomeo, PALAZZO MEDICI, 1444-60, Firenze, p.103 Il palazzo mediceo rappresenta un vero e proprio prototipo di edificio gentilizio (cioè appartenente a famiglie nobili) rinascimentale. La sua sobria magnificenza risponde all’esigenza del signore di dimostrare la propria ricchezza e il proprio potere, evitando tuttavia un fasto eccessivo e offensivo per i cittadini della Repubblica. Inizialmente era una struttura cubica organizzata intorno al cortile. La facciata è stata alterata in età moderna, le finestre al piano terra sono cinquecentesca e attribuite a Michelangelo, mentre il prolungamento sulla scala risale al tardo Seicento e alla volontà della famiglia Riccardi, cui i Medici avevano venduto l’edificio. Per il resto l’edificio conserva le forme michelozziane nella serie di bifore con archi a tutto sesto. 6) Beato Angelico al Convento di San Marco Poco lontano dall’area di palazzo Michelozzo si era occupato dal 1437-43 della ristrutturazione del Convento di San Marco, finanziata da Cosimo il Vecchio. Si stabilì che angelico pensasse non solo alle opere mobili della chiesa, ma che affrescasse anche le pareti del complesso michelozziano, perfino nella parte riservata alla comunità. Il risultato furono le celle conventuali più belle che si fossero mai viste. Con oltre quaranta affreschi eseguiti dall’Angelico e dalla sua bottega intorno al 1440, il Convento di San Marco, oggi museo pubblico. -> Beato Angelico, ANNUNCIAZIONE, 1440, affresco, Firenze, Convento di San Marco, p.104 In cima a una scala che induce al primo piano dove si snodano le celle dei frati appare una serena immagine dell’Annunciazione. Qui l’Angelico istituisce un profondo dialogo con la severità brunelleschiana dell’architettura di Michelozzo, cui si richiama lo spazio misurato e prospettico del porticato dove fa apparire Gabriele alla Vergine. Le solide figure sono le uniche protagoniste e nulla è concesso a eccessi decorativi. Maria siede umilmente su un povero sgabello, al di fuori dell’edificio si vede un prato diviso, da una staccionata in legno, dal bosco retrostante. In un simile dettaglio la pittura del Gotico Internazionale avrebbe lasciato campo aperto all’esuberanza della natura. La povertà dei domenicani si sposava alla perfezione con la sobria essenzialità della nuova pittura scaturita da Masaccio. 31 -> Beato Angelico, MADONNA COL BAMBINO E SANTI, dalla Pala di San Marco, 1440, tempera e oro su tavola, Firenze, Museo di San Marco, p.105 in alto -> Beato Angelico, GUARIGIONE DEL DIACONO GIUSTINIANO, dalla predella della Pala di San Marco, 1440, tempera e oro su tavola, Firenze, Museo di San Marco, p.105 in basso All’angelico si deve anche la pala per l’altare maggiore della chiesa di San Marco, ora nel museo del convento. Il dipinto adotta un formato quadrato come quello che Brunelleschi voleva per le tavole della chiesa di San Lorenzo e che si sarebbe affermato come uno dei formati per eccellenza delle Pale d’altare rinascimentali (vedi p.28). I santi che un tempo stavano negli scomparti laterali di un polittico qui si raggruppano in uno spazio unico intorno alla Vergine. La pala appare impoverita nella superficie da antichi restauri, un tempo i suoi colori saranno Tati sicuramente più vivi e lo fanno capire gli elementi della predella, oggi smembrati tra vari musei, come per esempio la scena con la Guarigione dei diacono Giustiniano, che si distingue soprattutto per la raffigurazione di un ambiente domestico tirato in prospettiva e illuminato da una luce che trapela dalla finestra e dalla porta, mettendo in rilievo certi dettagli delle tende, del letto e delle vesti. SEZIONE III RINASCIMENTO E RINASCENZE: LA PITTURA FIAMMINGA E FRANCESE CAPITOLO 9 - L'ITALIA E LE FIANDRE 1) Relazioni artistiche e commerciali tra due mondi lontani Nel corso del 400 tra l’Italia e le Fiandre intercorsero rapporti molto stretti, rapporti mercantili e finanziari che includevano anche committenze e opere d’arte oltre a merci e denaro. In questo contesto, tra la Francia nord orientale e i Paesi Bassi nacque un nuovo tipo di pittura, i cui pionieri furono Jan van Eyck e Rogier van der Weyden. Loro indagarono la quotidiana realtà delle cose con un luce e uno sguardo nuovo e acutissimo, scrupolosamente attenti ai minimi particolari, grazie anche all’utilizzo della tecnica ad olio. Un Rinascimento differente da quello fiorentino dove le arti maturavano obbedendo al rigore matematico della prospettiva, celebrando la materialità dei corpi umani e delle loro ombre, e resuscitando i fasti dell’antichità. 2) Filippo Lippi: tra Masaccio e van Eyck -> Filippo Lippi, MADONNA DI TARQUINIA, 1437, tempera su tavola, Roma, Galleria Nazionale dell’Arte Antica di palazzo Barberini, p.114 Nonostante l’utilizzo di una cornice ancora gotica, la Madonna di Tarquinia parla il linguaggio del più vigoroso rinascimento masaccesco. La figura del Bambino assomiglia alle raffigurazioni irrequiete delle cantorie di Luca della Robbia e di Donatello. Quel che appare invece senza confronti è l'ambientazione che appare nella prospettiva di un interno, uno spazio domestico, cosa che a Firenze non si era mai vista prima. La camera da letto è rischiarata d aut luce tenue che entra dalla finestra laterale e si riflette sulle preziose superfici dei marmi screziati del trono. Filippo si dedica con minuziosa attenzione ai dettagli degli oggetti che sembrano uscire dalla bidimensionalità del quadro per venire verso lo spettatore, come il libro poggiato di traverso sul bracciolo del trono, cartellino che in basso reca la scritta “1437” in numeri romani. Lo scenario, l'illuminazione e questi oggetti studiati nei minimi dettagli non hanno nulla a che fare con la pittura di Masaccio, sono ispirati alle novità della pittura fiamminga che aveva trovato, da oltre dieci anni, il suo padre fondatore in Jan van Eyck e che stava cominciando a diffondersi in questi anni anche a Firenze. Novità fiamminghe e fiorentine convergono in questa tavola. 32 -> Rogier van der Weyden, FILIPPO IL BUONO RICEVE LE CHRONIQUES DE HAINAUT, frontespizio delle Cboniques de Hainaut, 1446-48, miniatura su pergamena, Bruxelles Bibliothegue Royale de Belgique, p.122 Verso il 1446-48 il letterato Jean Wauquelin tradusse in francese per Filippo il Buono le Cbroniques de Hainaut, un testo latino di fine Trecento in cui lo storico Jaques de Guyse aveva raccontato la storia della contea di Hainaut. Oltre a una cornice carica di emblematici araldici, il frontespizio del manoscritto reca una miniatura in cui Rogier van der Weyden ha raffigurato il momento in cui Filippo il Buono riceve le cbroniques de Hainaut. Si tratta di una vera e propria scena di corte in cui l'offerta del libro sottintende un atto di vassallaggio nei confronti del signore della contea. L'uomo inginocchiato in grigio con i libro in mano è il committente, si erge davanti a lui a ricevere il dono Filippo il Buono in elegantissimo abito nero corredato dal collare d’oro che tutti imembri della corte disposti alla sua sx indossano; un docile cane ai piedi del signore. All’interpretazione fiabesca dei soggetti cortesi cui ci avevano abituato i fratelli De Limbourg (p.12) e Michelino da Besozzo (p.20), Rogier contrappone una scena quotidiana in cui si respira la stessa atmosfera dei Coniugi Arnolfini di van Eyck (p.116), anche per l'ambientazione, la sala è più domestica che regale. Il pittore predilige la fedeltà al vero dei ritratti, la resa materica delle stoffe e delle cose, creando tra i presenti un clima di intimità. Tra il 1449 e il 1450 Rogier van der Weyden è in Italia per partecipare all’Anno Santo di metà secolo, soggiornando sicuramente a Ferrara, a Roma e a Firenze. Quando torna a casa realizza la Deposizione di Cristo nel sepolcro che poi avrebbe inviato dalle Fiandre ai Medici per abbellire la cappella della villa di Careggi alle porte di Firenze. Una volta tornato a Bruxelles Rogier avrebbe continuato a lavorarvi fino alla morte soddisfacendo commissioni che gli arrivavano non solo dalle sue terre e formando una nuova generazione di maestri. I rapporti tra Fiandre e Italia erano continui. 5) Hans Memling: un protagonista del secondo Quattrocento Hans Memling fece il suo apprendistato nelle Fiandre con van der Weyden. Si trasferì a Bruges dove avviò una bottega che gli avrebbe permesso di ergersi a primo attore della pittura fiamminga fino alla morte, ottenendo un successo di portata europea. -> Hans Memling, GIUDIZIO UNIVERSALE (Trittico Tani), 1473, olio su tavola, Danzica (Polonia) Museo Nazionale, p.124 Il dipinto era stato commissionato da Angelo Tani e dalla città nordico fu inviato nel 1473 a Firenze, per essere collocato nella cappella di famiglia nella Badia di Fiesole, ma in toscana tuttavia non arrivò mai a causa di problemi navali che portò il Giudizio nel porto baltico dove rimase da quel momento in poi. Presenta 3 scomparti, quindi è una struttura tripartita : alla corte celeste è dedicata la parte alta dello scomparto centrale, in mezzo al quale l’arcangelo Michele si erge a dividere una folla di nudi in beati e dannati, i primi, nello comparto sinistro, sono accolti da san Pietro ai piedi della porta del Paradiso, raffigurata nelle forme di una cattedrale gotica; ai dannati spettano invece, nello scomparto destro, le fiamme dell’inferno. Composizione dinamica, forti accensioni cromatiche e attenzione al corpo nudo. -> Hans Memling, MADONNA COL BAMBINO, | SANTI CATERINA D’ALESSANDRIA, BARBARA, GIOVANNI BATTISTA ED EVANGELISTA E | DONATORI (Trittico Donne), 1478, olio su tavola, Londra, National Gallery, p.125 Trittico di piccole dimensioni destinato a devozione privata, non più grandi trittici per pale d’altare. In questo trittico l’artista si allinea al più tipico verismo fiammingo ma dimostra anche la volontà di aprirsi alla pittura italiana, unificando lo spazio in 3 scomparti e rivelando qualche traccia di gusto antiquario. AI centro la Madonna col Bambino è affiancata a un paio di angeli musicanti e dalle sante Caterina e Barbara. 35 Il committente, la moglie e la figlia si inginocchiano a riverire le figure divine, mentre negli scomparti laterali ci stagliano i santi Giovanni Battista ed Evangelista. Il tutto avviene in un interno, una camera di cui Memling vuole sottolinearne la tridimensionalità tramite la fuga prospettica degli elementi geometrici del pavimento. La porta, la finestra nelle pareti laterali e il loggiato retrostante alla scena si aprono a mostrare un quieto paesaggio facendo entrare una luce tenue che lascia in ombra le preziose colonne all’antica del portico alle spalle del baldacchino della vergine. -> Hans, Memling, RITRATTO D'UOMO CON MONETA ROMANA, 1473-74, olio su tavola, Anversa (Belgio) Koninklijk Museum door Schone Kunsten, p.125 La predilezione per il paesaggio portò l’artista ad apportare una decisiva novità alla tipologia del ritratto nordico, sostituendo al tradizionale sfondo scuro, le alture di una campagna verdeggiante di vegetazione, solcata da uno specchio d’acqua e illuminata dal chiarore azzurro di un cielo povero di nubi, il tutto alle spalle di un distinto uomo in nero, effigiato a mezzo busto, con il volto di tre quarti. Si percepisce l’impalpabile leggerezza della lunga capigliatura, la soffice morbidezza dei tessuti, la carezzevole perfezione delle carni, la nitidezza dello sguardo. A queste tipiche caratteristiche dei ritratti nordici l'artista aggiunge un elemento inconsueto, l’uomo presenta con la sinistra una moneta romana con l’effigie dell’imperatore Nerone. E un omaggio alla passione per l’antico e al collezionismo che era in voga in Italia. Interpreti di questo tipo di ritratto saranno Leonardo e Perugino. Le Fiandre e l’Italia dialogavano strettamente sia per pittura sia per commerci vari. CAPITOLO 10 - TRA FRANCIA E ITALIA: BARTHELEMY D’EYCK E JEAN FOUQUET 1) Non solo Fiandre: le esperienze francesi Non furono soltanto i pittori fiamminghi a dare una svolta al linguaggio figurativo d'Oltralpe ma anche i francesi, nel corso del Quattrocento l’Italia condivise esperienze artistiche essenziali non solo con le fiandre ma anche con la Francia. 2) Renato d’Angiò, Barthélemy d’Eyck e la scuola provenzale -> Barthélemy d’Eyck, RICOSTRUZIONE DEL TRITTICO PER LA CATTEDRALE DI AIX-EN- PROVENCE, 1443-45, olio su tavola, p.126 Barthélemy d’Eyck, pittore miniatore, fu per molti decenni al servizio di Renato d’Angiò. Si assegna a Barthélemy d’Eyck un trittico per la Cattedrale di Aix-en-Provencee oggi smembrato tra la Chiesa della Maddalena della città provenzale, Rotterdam, Amsterdam e Bruxelles. Fu il mercante Pierre Corpici a volere questo complesso pittorico, in cui le figure si stagliavano isolate. Lo scomparto centrale inquadra l’episodio dell’Annunciazione entro un solenne edificio gotico, che alle spalle della Vergine inginocchiata si prolunga diagonalmente in due navate, a richiamare le forme di una cattedrale nordica. Attraverso i finestroni il tempore di un lume tipicamente fiammingo si diffonde a rischiarare gli spazi, e un’identica luce definisce nelle tavole laterali, le realistiche ombre delle figure dei profeti Isaia e Geremia, inserite nelle nicchie. Al di sopra di ogni profeta il pittore ha ritratto con impressionante perizia uno scaffale colmo di libri e di oggetti, questa idea si riallaccia alla pittura di Jan van Eyck e si diffuse in tutta Europa come una sorta di “marchio di fabbrica”. -> Enguerrand Quarton, INCORONAZIONE DELLA VERGINE, 1453-54, olio e oro su tavola, Villeneuve-le-Avignon (Francia), Musée Pierre du Luxembourg, p.127 Opera commissionata per la Certosa di Villeneuve-les-Avignon. La tavola è ordinata secondo una gerarchia che ingigantisce i personaggi principali al centro della composizione. In totale assenza della prospettiva, il compito di uniformare il tutto spetta a una luce proveniente dall’alto che pervade la composizione definendo tanto il compatto volume del volto e la veste 36 preziosa della Vergine quanto le microscopiche finezze di un paesaggio osservato a volo d’uccello e dilatato in una eccezionale lontananza, ma non è un paesaggio realistico, il crocifisso che lo domina al centro annienta la distanza tra Roma e Gerusalemme, e trasforma le due città in entità simboliche, degne di fare da contrappunto alla scena celeste che le sovrasta e alle minute figure le Giudizio che corre al di sotto. Tanto più risalta l’accanita osservazione dei dettagli nelle mura, nelle strade, negli edifici delle due città, nel verde prato che le circonda, nel braccio di mare che le separa. Interpretazione della veduta di paesaggio che in quegli anni veniva usato spesso in Europa da maestri di origine diversa. -> Konrad Witz, PESCA MIRACOLOSA, 1444, olio su tavola, Ginevra (Svizzera), Musée d’Art et d’Historie, p.128 L'artista tedesco dipinse per la Cattedrale di Ginevra una pala d'altare cui appartiene La Pesca miracolosa dove il brano evangelico non è ambientato nel lago di Galilea, ma in quello ginevrino. Il panorama padroneggia la scena, rasserenata da una luce alpina che si diffonde sulle alture distanti e sulle acque in primo piano. Le sue sperimentazioni paesaggistiche ebbero immediato successo, raggiungendo l’Italia meridionale con Antonello da Messina. 8) Jean Fouquet: un francese e l’Italia Nel momento in cui gli italiani furono sbalorditi dall’efficacia ottica del lume nordico, vi fu anche chi che viaggiando verso Firenze si confronta con le novità prospettiche. -> Jean Fouquet, ETIENNE CHEVALIER E SANTO STEFANO, dal Dittico di Melun, 1452, olio su tavola, Berlino, Gemaldegalerie, p.129 L’artista dipinse un dittico per la morte della moglie di Etienne, dalla cornice di questo dittico proviene un piccolissimo tondo, oggi al Louvre, con l’autoritratto del pittore e la firma. ll mezzobusto dipinto di tre quarti a monocromo su fondo scuro è un’immagine esemplare dell’eccezionale perizia di miniatore e ritrattista del maestro francese. Le ante del dittico richiamano invece le novità italiane, a sx il devoto Etienne Chevalier, in veste scarlatta, è presentato al suo santo eponimo, Stefano, il quale si fa riconoscere per l’attributo del sasso del martirio (il santo era stato infatti lapidato) ostentato in una pietra preziosa e scheggiata sul libro retto con la sx. | due guardano verso sx dov’era un tempo la figura della Vergine con Figlio circondata da cherubini e serafini, che si trova oggi al museo di Anversa. Illuminata da una luce gelida e astratta Maria ha le forme provocanti di una giovane dalla vita stretta, il seno prosperoso e la pelle cristallina che contrasta con il rosso e l'azzurro intenso delle figure angeliche. La scultorea tridimensionalità del suo corpo fa pensare alla pittura di Piero della Francesca, riletta con una sottigliezza tutta francese. Il riferimento all'Italia si trova nell’anta di sx, lo sfondo è infatti costituito da una parete disposta prospetticamente in diagonale che presenta forme geometriche di marmi preziosi, richiamando i gusti di Leon Battista Alberti. Il lume nitidissimo, la saldezza dei personaggi e la netta definizione delle teste sono segni di una profonda convergenza con la pittura di Beato Angelico. 37 della cinta muraria e degli acquedotti e a un rinnovamento della basilica costantiniana di San Pietro, pianificata del fiorentino Bernardo Rossellino. Nel 1619 l’architetto Martino Ferrabosco delineò una ricostruzione delineò una ricostruzione della pianta del progetto rosselliniano. Secondo il quale l’antica basilica avrebbe dovuto mantenere il nartece e il corpo longitudinale a cinque navate, rinnovandosi in forme grandiose nel transetto e nel coro. Il progetto fu soltanto avviato, ma rappresentò una premessa per il totale rifacimento della chiesa, che sarebbe stato avviato mezzo secolo dopo da Giulio Il e Bramante. In tali vicende giocò un ruolo decisivo Leon Battista Alberti, la sua solida preparazione umanistica gli permise di afre carriera nella curia pontificia quando il app Eugenio V lo reclutò nella sua cancelleria con il ruolo di abbreviatore apostolico. Leon Battista Alberti ci ha lasciato un autoritratto plasmato da una piccola placchetta (p.145) metallica dove, per il vigore del severo profilo e la corta capigliatura pare voler somigliare a un imperatore romano. Con questo bronzo anticipò di qualche anno l'invenzione della medaglia umanistica. La scelta del profilo derivava da ritratti dinastici dell’antichità che doveva conoscere attraverso le monete o le gemme, il formato ovale ricorda proprio quello di una gemma romana. CAPITOLO 13 - RIMINI E IL CANTIERE DEL TEMPIO MALATESTIANO 1) Sigismondo Pandolfo Malatesta e il Tempio Malatestiano Rimini è una delle capitali del Rinascimento: il ponte e l’Arco di Augusto ci ricordano l’importanza dell’antica città romana, mentre il secolare dominio della famiglia Malatesta ha asciato memorie monumentali nel Castel Sismondo e nel Tempio Malatestiano, due edifici voluti da Sigismondo Pandolfo Malatesta, erede di una famiglia che dominava su Rimini, che univa alle competenze belliche una grande passione per le lettere e per la cultura antica. Lui decise di rinnovare a chiesa medievale di San Francesco, in cui Giotto aveva lasciato una Croce dipinta agli inizi del Trecento. Dunque, volle costruire in mezzo alla città un mirabile tempio di marmo pario. In un primo momento Sigismondo aveva in mente di ristrutturare due cappelle della parete destra, per farne il luogo della propria sepoltura e di quella dell’amata. Una volta compiute le murature delle cappelle (1447-48) Sigismondo decise di cambiare programma e trasformare l’intero edificio in quello che sarebbe stato chiamato il Tempio Malatestiano (p.147), chiamato così perché ancora oggi l'esterno della chiesa richiama alla mente le forme di un tempio antico. L’interno invece è radicalmente diverso, perché l'ampio spazio della navata ì affiancato da 6 grandi cappelle gotiche, questo perché operarono due progetti diversi, uno di Leon Battista Alberti e l’altro di Matteo de’ Pasti. 2) Il ruolo di Matteo de’ Pasti e quello di Leon Battista Alberti -> INTERNO DEL TEMPIO MALATESTIANO (su disegno di Matteo de’ Pasti), 1449, Rimini, p.148 Lungo la cornice che corre sopra gli archi gotici della parete sx della navata del Tempio, si legge “opera del veronese Matteo de’ Pasti, nobilissimo architetto dell’illustre signore di Rimini”. Con questa firma dichiarò la piena responsabilità del progetto di allestimento della navata e delle cappelle del Tempio, che trasformò la chiesa francescana in un ricchissimo edificio atto a celebrare Sigismondo Pandolfo Malatesta. Nello spazio della navata si aprono i vasti archi acuti di 6 cappelle, tre per parte, decoratissime da un’apparato scultoreo nelle transenne, cornici e pilastri, il tuto eseguito dallo scultore Agostino di Duccio e dalla sua bottega. Il fasto delle cappelle contrasta con la semplicità della copertura a capriate della navata e con l’essenzialità dello spazio del transetto e del coro della chiesa. Tutte queste parti non furono mai completate secondo il progetto originale, così il tempio rimase un sogno incompiuto tanto all’interno quanto all’esterno, che si era iniziato a costruire secondo il progetto di Leon Battista Alberti. 40 -> FACCIATA DEL TEMPIO MALATESTIANO (su disegno di Leon Battista Alberti), 1453-57, Rimini p.147 Matteo de’ Pastri aveva già progettato e iniziato l'interno gotico della chiesa francescana, quando il signore di Rimini decide si dare l’aspetto di un’architettura all’antica all’esterno. Non ci potrebbe essere immagine più efficace del modo in cui il Rinascimento sorprese il Medioevo, come un’agguato improvviso. L’involucro di marmo bianco appare spartito da colonne e archi tutto sesto, presentando al centro della facciata un portale sormontato da un motivo che richiama il romano opus sestile (cioè la decorazione a marmi policromi che tanto piaceva a Piero della Francesca) attraverso l'accertamento di lastre riquadrate di porfido rosso, verde e altri marmi di spoglio (provenienti da edifici antichi). La parte alta del prospetto non è finita, avrebbe dovuto presentare un coronamento pure tripartito grazie all’utilizzo di grandi volute laterali sul fondo del quale si prevedeva una cupola rotonda simile a quella del Pantheon. Lo testimonia il rovescio ella medaglia accelerativa del Tempio Malatestiano. Un progetto tanto ambizioso fu assegnato da Sisgimondo a Leon Battista Alberti. Interno ed esterno si differenziano quindi il primo per uno stile gotico e il secondo per uno stile rinascimentale. 3) L'affresco di Piero della Francesca -> Piero della Francesca, SIGISMONDO PANDOLFO MALATESTA DI FRONTE A SAN SIGISMONDO, 1451, affresco, Rimini, Tempio Malatestiano, p.150 Nella versione definitiva dell’interno del Tempio Malatestiano la scultura di figure è predominante, a discapito della pittura. Ma all’inizio n on dovette essere così, perché nel 1449 Sigismondo cercò un bile pittore per le sue cappelle, la scelta cadde su Piero della Francesca, cui si deve un affresco esposto attualmente nel transetto della chiesa. Piero fu chiamato a dipingere una scena di corte, ambientata nello scrupoloso spazio prospettico di un’aula chiusa da una coppia di lesene architrave all’antica e ornate di festoni. Sigismondo spicca al centro del netto profilo che rimanda ai ritratti di stile pisannelliano. Alle spalle del signore sono sdraiati due aristocratici levrieri, uno bianco e uno nero, mentre sulla sx della composizione si erge di tre quarti, seduto su uno scranno, un san Sigismondo che ha il volto dell'omonimo imperatore Sigismondo del Lussemburgo, il quale nel 1433 era passato da Rimini e aveva confermato la signoria del giovane Malatesta. Sulla dx troviamo la geniale invenzione dell’ocello prospettico, aperto a fingere illusionisticamente una finestra su Castel Sismondo, la resistenza fortificata malatestiana. Nella parte inferiore dell’affresco una scritta lacunosa contiene il nome di Piero e la data 1451, facendo di questo dipinto la più antica opra documentata del maestro. In questo affresco di Piero troviamo il retaggio degli studi prospettici masacceschi riletti con il lume chiaro di Domenico Veneziano, evidente nel dettaglio del cielo azzurro su cui si staglia il castello. In origine l’immagine fu affrescata dentro la piccola sagrestia che divide le prime due cappelle del Tempio, in una posizione infelice, subito sopra la porta di ingresso. La scena di corte fu pensata probabilmente per stare al centro della prima cappella del Tempio, dedicata a San Sigismondo. Li avrebbe avuto perfettamente senso non solo il soggetto ma anche loculo prospettico perché avrebbe finto la realtà di una finestra circolare, dato che il castello resta da quel lato della chiesa. Nel lasso di tempo trascorso evidentemente Sigismondo decise che per la decorazione del Tempio avrebbe preferito la scultura alla pittura, e l’affresco di Piero finì in sagrestia. 4) Agostino di Duccio scultore Oltre alla firma di Matteo de’ Pasti, nella cornice della navata del Tempio si legge pure quella dell’autore della decorazione scultorea “opera del tagliapietre fiorentino Agostino”. Si tratta si Agostino di Duccio uno scultore toscano che si era formato nella bottega di Donatello prima di essere reclutato da Sigismondo Malatesta. 41 Agostino si occupò dell’estesa decorazione della navata e delle sei cappelle, trovandosi a raffigurare soggetti per niente banali, dettai spesso dagli umanisti malatestiani che pescavano a piene mani nella letteratura antica e tardomedievale. Temi raffigurati nei pilastri o sugli altari danno il nome alle cappelle. Entrando in chiesa a dx troviamo la Cappella di San Sigismondo (con al centro la statua del titolare ), quella di Isotta degli Atti (con il sepolcro di lei) e quella dei Pianeti (cosiddetta perché i pilastri riaffiorano un ciclo astronomico). Dall’altro lato, si susseguono la Cappella delle Sibille, dei Giochi infantili, e delle Muse e delle Arti liberali. Per il tema dello zodiaco e dei pianeti per la terza cappella di dx, Agostino scelse di rappresentare le collezioni e i corpi celesti nelle vesti di figure mitologiche dell’antichità. Marte compare alla guida del suo carro a guerra, con le falci sulle ruote (p.151 in alto), preceduto dall’altra divinità della guerra, Bellona, e accompagnato dai suoi animali sacri: il lupo in primo piano e il picchio sull’albero. In questo riquadro Agostino di Duccio adotta lo stiacciato donatelliano senza alcun interesse per la tridimensionalità e la concretezza delle forme. Ciò si nota ancora di più in altri rilievi di Agostino in cui si trovano gruppi di putti che rispetto a quelli compiti da Luca della Robbia e Donatello nelle cantorie, quelli di Agostino appaiono del tutto bidimensionale privi di consistenza. Nel 1457 Agostino di Duccio decise di abbandonare Rimini per trasferirsi a Perugia e il Tempio Malatestiano rimase incompleto. CAPITOLO 14 - LEON BATTISTA ALBERTI A FIRENZE 1) La Facciata di Santa Maria Novella Leon Battista Alberti aveva anche rapporti con Roma e Firenze. Era molto amico del ricco mercante Giovanni Rucellai, il quale si rivolse a lui per un paio di progetti che gli stavano particolarmente a cuore: il palazzo di famiglia e il completamento della facciata della chiesa di Santa Maria Novella. Alla metà del Quattrocento la Chiesa di Santa Maria Novella attendeva ancora di vedere ultimata la decorazione del prospetto avviata nel secolo precedente con un rivestimento di marmi bianchi e verdi ispirati ai motivi decorativi del Romanico fiorentino. Abitando poco lontano dalla chiesa Giovanni Rucellai sentì l'esigenza di completare l’opera, meritando di apporre, nell’architrave sottostante il timpano, il suo nome accompagnato alla data del completamento, 1470. Nell’elaborare una soluzione per la facciata di Santa Maria Novella, Alberti non poteva procedere a pianificare un nuovo involucro come a Rimini, ma doveva necessariamente armonizzarsi con quanto era stato già fatto. Fu così che dimostrò un’eccezionale intelligenza nel raccordare la predilezione per l'antico con una personale attenzione al recupero della tradizione architettonica tardomedievale fiorentina. Lo spirito classicista erompe nel portale principale, dalle quattro colonne dell’ordine inferiore e dal formato del timpano, che tuttavia è ornato, così come la sottostante parete dai motivi geometrici e decorativi suggestionati dagli edifici del cosiddetto Romanico fiorentino. Nella facciata si manifesta un’analoga volontà di riconoscere un pieno valore al lessico architettonico della tradizione medievale fiorentina. Inoltre, Leon Battista approfitta dell'occasione per formulare nuovi espedienti utili a mascherare la differenza di altezza tra la navata centrale e le laterali. 2) Palazzo Rucellai e il recupero degli ordini antichi Ancora prima della facciata di Santa Maria Novella, Leon Battista Alberti aveva ricevuto da Giovanni Rucellai l’incarico di programmare il suo nuovo palazzo fiorentino che sarebbe stato finito verso il 1465. Si tratta ancora una volta di intervenire su edifici preesistenti. 42 Piero della Francesca seppe dimostrare di essere padrone degli elementi più peculiari dei maestri fiamminghi. In questo dipinto vediamo un’atmosfera ovattata e domestica di un’interno rischiarato dai raggi di luce filtrata dalla finestra. Dall’altro lato è una piccola nicchia rinascimentale, simile a quelle del palazzo Ducale, dove un paio di mensole sorreggono i brani di natura morta del cesto di panni e del soprastante contenitore, secondo un gusto veramente nordico. -> Piero della Francesca, MADONNA COL BAMBINO, | SANTI GIOVANNI BATTISTA, BERNARDINO, GIROLAMO, FRANCESCO, PIETRO MARTIRE E GIOVANNI EVANGELISTA, ANGELI E FEDERICO DA MONTEFELTRO, (Pala da Montefeltro), 1472-74, olio e tempera su tavola, Milano Pinacoteca di Brera, p.160 Federico torna protagonista nella Pala Montefeltro della Pinacoteca di Brera a Milano. Chiuso in una lustra matura, il duca è ritratto ancora una volta di profilo a mostrare sempre il lato del volto con l’occhio buono (perché altro occhio lo aveva perso in guerra), ci appare come un devoto committente inginocchiato di fronte alla Vergine, la quale reca sulle ginocchia il Figlio ed è accompagnata da una corte di santi e di angeli. E lei il centro di una rigorosa composizione prospettica che ha il punto di fuga in mezzo al viso e continua con l’assoluta razionalità nelle forme architettoniche dell’area presbiterale in cui è ordinata la sacra conversazione. E uno spazio all’antica che ancora una volta avrebbe potuto essere stato disegnato da Leon Battista Alberti: partito decorate con riquadri di marmi policromi, lesene scanalate e capitelli, una perfetta valva di conchiglia nella calotta absidale, i possenti lacunari della volta a botte. In virtù di un simile fasto pagano, la pala si sarebbe adattata alla perfezione al Tempio Malatestiano, dimostrando che, nonostante l’odio che li divideva, Sigismondo Malatesta e Federico da Montefeltro condividevano gli stessi gusti. L’uovo di struzzo sopra la vergine Piero ha voluto rappresentarlo per accentuare l’effetto tridimensionale dell’architettura, quasi fosse uno studio matematico. Il crudo dettaglio della mano di Federico da Montefeltro non spetta al pennello di Piero ma a un artista non italiano, Pedro Berruguete. 8) Presenze fiamminghe a Urbino: Giusto di Gand e Pedro Berruguete Nel Montefeltro si dovette conservare anche un dipinto di Jan van Eyck che attestava il successo della pittura fiamminga anche a Urbino, ma il destino di quest'opera rimane ignoto, rimangono le opere di un paio di maestri che lavorarono per il duca verso la metà degli anni Settanta: Giusto di Gand e Pedro Berruguette. -> Giusto di Gand, COMUNIONE DEGLI APOSTOLI (Pala del Corpus Domini), olio su tavola Urbino, Galleria Nazionale delle Marche, p.162 E il culmine dell’ultima cena e tutti hanno abbandonato la tavola, i discepoli sono inginocchiati intorno a Cristo che, in piedi, offre il sacramento al primo di loro. Dalla scenografia alla cura dei dettagli, dalle fisionomie dei personaggi alle forme degli angeli, dall’irrazionalità della composizione agli edifici visibili al di là delle aperture laterali: in questa immagine non c’è davvero nulla di italiano, fatta eccezione per una faccia conosciuta, quella del duca Federico, dall’inconfondibile profilo, ritratto sulla dx. -> Paolo Uccello, MIRACOLO DELL’OSTIA PROFANATA, predella della Pala del Corpus Domini 1467-68, tempera su tavola, Urbino, Galleria Nazionale delle Marche, p.162 al centro -> Paolo Uccello, VENDITA SACRILEGA, particolare del Miracolo dell’ostia profanata, primo episodio, p.162 in basso Riallacciandosi al tema eucaristico, Paolo Uccello aveva narrato in 6 episodi i Miracolo dell’ostia profanata, la storia appartenente alle persecuzioni antisemite di un ebreo parigino che avendo oltraggiato il sacramento ed essendo stato scoperto finì sul rogo con tutta la famiglia. La vicenda inizia con la sacrilega vendita dell’ostia l'ebreo: l'ambientazione in un interno offre a Paolo Uccello l'occasione di allestire una essenziale scatola prospettica, veramente emblematica dei suoi interessi. 45 Sembra incredibile ma ad Urbino Giusto di Gand incontrò un pittore spagnolo che parlava fiammingo, era il castigliano Pedro Berruguete, che in conseguenza dei profondi rapporti tra le Fiandre e la Penisola Iberica, aveva maturato un linguaggio dichiaratamente eyckiano. Giusto e Pedro collaborarono al ciclo degli Uomini illustri dello studiolo di Palazzo Ducale, dove resta difficile riconoscere la mano dell’uno e dell’altro, tanto il loro stile è affine. Allo spagnolo si riconosce inoltre un commovente ritratto urbinate di Federico da Montefeltro (p.163). Il duca si è preso un attimo di riposo dalle incombenze quotidiane, ancora in armi, siede su di uno scranno intento alla lettura di un libro, mentre un fanciullo elegantissimo si appoggia appena sul ginocchio e non lo vuole disturbare. L'atmosfera è intima, la luce soffusa e la pittura oleosa di Berruguete indaga ogni dettaglio, soffermandosi sui bagliori metallici dell’armata, sulla coperta rossa del volume, sulle gemme luccicanti della veste dell’infante, e sulle carni dei due protagonisti: quella ormai corrosa dal tempo del duca e quella ancora liscia e delicata del figlio. L’agghindatissimo bambino è Guidobaldo da Montefeltro, erede di Federico. Piero della Francesca, Paolo Uccello, Pedro Berruguete, Giusto di Gand: queste convivenze alla stessa corte mostrano la vita curiosa del committente per espressioni e modi stilistici di cui certi si avvertiva la diversità, ma che proprio nel loro accostarsi rivelano la ricchezza di una cultura che si compiaceva non solo delle opere d’arte, ma della possibilità di intrecciare intorno a esse commenti, dialoghi, conversazioni di corte. 4) Fortezze e città ideali In questo periodo Federico da Montefeltro accolse a Urbino il senese Francesco di Giorgio Martini, affidandogli non solo il carattere del Palazzo Ducale ma an che il compito di rendere più sicuri i suoi domini, costruendo una serie di nuove fortificazioni. Francesco di Giorgio fu il primo grande interprete di una nuova architettura militare, studiata per difendersi dalla potenza delle armi da fuoco. Tra le fortezze di Federico da Montefeltro spicca la rocca di Sassocorvaro (p.164), fortezza costruita da Francesco di Giorgio e che in pianta ricorda la forma di una tartaruga, questi si chiamano edifici antropomorfi o zoomorfi, cioè con piante ispirate o alle forme del corpo o alle forme di animali, strutture capaci di opporsi alla veemenza delle armi da fuoco, con possenti e compatte murature. Un’altra attività di Francesco di Giorgio per il signore di Urbino fu l'ammodernamento delle difese di San Leo (p.165), piazzaforte ubicata in cima a uno sperone roccioso al confine con lo stato riminese. Francesco di Giorgio con queste fortificazioni emanò un’innovativa interpretazione dell’architettura militare, destinata a trovare immediatamente numerosi seguaci in tutta Italia. Non furono solo le fortezze a rinnovare il paesaggio nella seconda metà del Quattrocento, si volle realizzare una progettazione delle città più ambiziosa e funzionale, che non si limitava solo a prevedere nuove chiese e palazzi ma città fondate su disegni urbanistici tanto razionali da apparire ideali. Lo stesso Federico da Montefeltro aveva riorganizzato Urbino intorno al suo palazzo, accanto al quale aveva fatto costruire da Francesco di Giorgio una nuova cattedrale. Oggi la chiesa non è più quella originale perché a causa del terremoto venne ricostruita in forme neoclassiche. Le forme delle absidi corrispondono quelle Quattrocentesce e svettano sul profilo urbano della città. Nella Galleria Nazionale di Urbino si conserva un dipinto noto con il titoloni Città ideale (p.165). vi è raffigurata l'ampia piazza di una città, imperniata su di un edificio a pianta rotonda e di gusto antiquario, chiusa lateralmente da palazzi che fanno l’effetto di quinte teatrali. Non ci sono abitanti ed emerge come assoluta protagonista la prospettiva a individuare le solide e proporzionate forme geometriche degli edifici. L’autore è ignoto ma si allinea agli interessi matematico-prospettici di Piero della Francesca, facendo l’effetto di una scenografia teatrale. Ma è stato attribuito anche a Donato Bramante, l’architetto di origine urbinate. 46 CAPITOLO 16 - PIO II: UN PAPA UMANISTA TRA PIENZA E SIENA 1) Pienza:la città di Pio Il e di Bernardo Rossellino -> CATTEDRALE DI SANTA MARIA ASSUNTA (su disegno di Bernardo Rossellino), 1459-62 Pienza (Siena), p.168 Nel 1458 Enea Silvio Piccolomini fu eletto papa e scelse il nome di Pio Il. Era un colto uomo di lettere ed era ossessionato dalla cultura antica e dall'idea che la Cristianità dovesse organizzare una crociata per togliere Costantino poli ai Turchi. Fece costruire una nuova città che oggi prende il suo nome, Pienza. Pio Il affidò il progetto a Bernardo Rossellino, che approntò un piano urbanistico incentrato su una piazza. Allestì la piazza come un palcoscenico teatrale adottando una pianta trapezoidale (vedi figura p.167) capace di dare un senso di maggiore ampiezza allo spazio. La cattedrale di Pienza si innalza al centro della piazza con una facciata in travertino, tripartita dalle grandi arcate a tutto sesto e sormontata da un timpano con al centro lo stemma del pontefice. L’interno della chiesa è gotico, nelle volte a crociera sostenute da pilastri e negli alti finestroni. Pio Il chiese a Rossellino di attenersi al modello delle cosiddette chiese ad aula nelle quali navate centrale e laterale condividono la stessa altezza. | finestroni erano studiati per diffondere la luce naturale. -> PALAZZO PICCOLOMINI (vedi foto p.166) La quinta destra della piazza è costituita da Palazzo Piccolomini, per il prospetto Rossellino si ispirò alla facciata della dimora che Leon Battista Alberti aveva disegnato per Giovanni Rucellai a Firenze (p.153). Il Palazzo Piccolomini organizzato come tanti edifici del Rinascimento intorno a un cortile centrale, era destinato ad essere dimora del pontefice nei periodi di vacanza trascorsi a Pienza. Così come a Urbino,a cena a Pienza il Palazzo Piccolomini si innalza di fianco alla Cattedrale. L’aspetto più originale del palazzo non si coglie dalla piazza ma solo entrandovi e giungendo fino alla loggia aperta sul giardino pensile. -> Matteo di Giovanni, MADONNA COL BAMBINO E | SANTI CATERINA D’ALESSANDRIA MATTEO, BARTOLOMEO E LUCIA (sul coronamento la Flagellazione), 1460-62, tempera e oro su tavola, Pienza (Siena), Cattedrale di Santa Maria Assunta, p.169 Il papa chiesa ai migliori pittori senesi di dipingere per la cattedrale di Pienza non più polittici gotici ma tavole quadrate, di formato quindi rinascimentale. ll modello progettato da Rossellino è stato ben illustrato dalla pala di Francesco di Giovanni. Essa reca nel registro principale una luminosa Madonna col bambino e Santi affiancata da lesene e coronata da una lunetta con la Flagellazione, dove le figure degli aguzzini si distinguono per un dinamismo aggressivo, frutto di un precocissimo aggiornamento su quanto di nuovo andava facendo a Firenze Antonio del Pollaio. Un solo aspetto di tradizione gotica rimane, il fondo oro. Dopo queste opere senesi i polittici iniziarono a passare di moda e le pale di forma quadrata rinunciarono anche all’uso del fondo oro. 2) Donatello a Siena A scatenare la decisiva svolta dell’arte senese, negli anni del pontificato di Pio II, concorse anche il soggiorno in città di Donatello per lavorare a un apreziosa impresa: le porte in bronzo della Cattedrale, ma quel progetto falli e Donatello se ne tornò in patria. A Siena lo scultore fiorentino lasciò un fiero San Giovanni Battista in bronzo che si conserva in Cattedrale, una statua di impressionante e crudo vigore, nella quale è esternata al meglio quell’accentuazione espressiva che infervora le opere di Donatello di cui seppero fare tesoro in molti in articolare il Vecchiettache avrebbe preso spunto dal Battista per un monumentale Cristo risorto in bronzo ultimato nel 1476 per la chiesa senese della Santissima Annunziata. In questa scultura il amestro dimostra una fedeltà donatelliana nelle anatomie tirate, nella brutale maschera del volto, nel perizoma aderente alle forme. 47 La pala fu ultimata nel 1459 e ancora oggi si trova sull’altare maggiore della chiesa romanica veronese. Nel formato del dipinto Mantegna offrì una propria variante dell’allestimento donatelliano dell’altare maggiore della basilica del Santo, che era completato da una struttura architettonica in pietra: un quadripartito sormontato da una lunetta, entro il quale le sette statue erano raggruppate in una sacra conversazione a fare l’effetto di una pala tridimensionale (p.172); nella tavola di Mantegna il quadripartito è costruito attraverso l’interagire tra la fastosa cornice lignea e l’architettura illusionistica di gusto antiquario, dipinta in prospettiva e aperta sul fondo a mostrare il cielo. In questo spazio unificato si ergono le figure statuarie della Madonna con Bambino e di otto santi, accompagnate da cloni spiritelli: figure dallo spudorato carattere donatelliano nella fierezza di certi volti, nella difficoltà di alcuni scorci, nell’aspetto turgido e metallico delle vesti. E invece dovuta dalla formazione squarcionesca la decorazione esorbitante che alterna i rilievi all’antica degli elementi architettonici con lussureggianti festoni di frutta calati dall’architrave. -> Andrea Mantegna, CROCIFISSIONE, dalla predella della Pala di San Zeno, a Verona, 1457-59. tempera su tavola, Parigi, Musée du Louvre, p.179 Nel gradino sottostante al registro principale della pala sono raffigurate tre storie di Cristo, in tutti e tre i casi si tratta di copie, perchè gli originali furono condotti in Francia altempo di Napoleone Bonaparte li sono rimasti. Gli episodi laterali si conservano nel museo di Tours, mentre la Crocifissione è esposta al Louvredi Parigi. Narrato con colori esuberanti e vivaci il doloroso evento evangelico appare come pietrificato nella compattezza dei protagonisti, colti in scorci arditi, attentamente studiati nelle anatomie. Rocce appuntite svettano eccentricamente a fare da quinte, mentre in lontananza una città sulla cima di un colle gremita di torri ed edifici, tra i quali si riconosce una cupola simile a quella del Panthon. -> Andrea Mantegna, ORAZIONE DI CRISTO NELL’ORTO, 1455-60, tempera su tavola, Londra. National Gallery, p.179 Un commovente racconto in cui gli apostoli dormo serenamente, mentre Cristo recita la sua ultima preghiera in attesa dei soldati che vengono ad arrestarlo. Costoro arrivano da una curiosa Gerusalemme che, dentro le sue possenti mura, alterna architetture venete e romane, in omaggio alla passione antiquaria del pittore. CAPITOLO 18 - MANTOVA E I GONZAGA: MANTEGNA PITTORE DI CORTE 1) Un intellettuale di corte Mantena si trasferisce a Mantova presso la corte di Ludovico Gonzaga. Ludovico combinava il mestiere delle armi e la passione per le lettere e l’antichità. A Mantova Mantegna trovò una corte attratta dagli studi e dal recupero dell’antico. -> Andrea mantegna, MORTE DELLA VERGINE, dalla Cappella del Castello di San Giorgio a Mantova, 1460-64, tempera e oro su tavola, Madrid, Museo del Prado, p.181 Il primo compito affidato da Ludovico Gonzaga a Mantegna fu quello di decorare una cappella privata all’interno del castello, che fu compiuta probabilmente entro il 1464 e che oggi none siste più. A quell’ambiente dovette essere destinata una tavola del Museo del Prado in cui raffigurata una versione singolare della Morte della Vergine. La vecchia Maria è distesa senza vita, nel letto funebre, circondata da un gruppo di apostoli profondamente donatelliani, per vigore e temperamento. Sul fondo della sala ben messa in prospettiva si apre una grande finestra a mostrare un paesaggio che non è quello di Gerusalemme o di Efeso, i due possibili luoghi dove la tradizione vuole che sia morta Maria, ma una realistica venuta di quanto si poteva ammirare affacciandosi dalla dimora dei Gonzaga. E uno scorcio del dell’antico ponte di san Giorgio e del circostante bacino lacustre. 50 Ponte costruito dal comune di Mantova alla fine del XII secolo per regolare il fiume Mincio e attraverso una serie di studiate operazioni idrauliche fecero si che Mantova non fosse più circondata da una palude ma da 5 laghi (oggi sono 4). Questa operazione servì per proteggere Mantova da attacchi nemici. 2) La Camera degli Sposi -> Andrea Mantegna, CAMERA DEGLI SPOSI, 1465-74, affresco e tempera, Mantova, Castello di San Giorgio, p.182 Gianfrancesco Gonzaga, padre di Ludovico, aveva chiamato molto tempo prima in città Pisanello, per fargli affrescare una sala nel Castello di San Giorgio. Pisanello aveva dipinto negli anni ’30 del Quattrocento un ciclo cavalleresco ancora ispirato alle tendenze del Gotico Internazionale. Alla temperie rinascimentale si ispirano gli affreschi che Mantegna realizzò tra il 1465 e il 1474, nella così detta “camera picta” di uno dei torrioni del castello, meglio nota come Camera degli Sposi. Nel giro di qualche decennio i gusti dei committenti e della corte si erano radicalmente modificati. In questa aula di rappresentanza, alla fantasia dei romanzi francesi si preferisce la concretezza del racconto di quotidiane scene di corte, illustrate da Mantegna sulle pareti, tramite un finto loggiato coronato di festoni, dove i tendaggi si aprono a mostrare solidi personaggi su sfondi di paese. Nella scena Ludovico Gonzaga e la sua corte vediamo Ludovico comodante seduto accanto alla moglie, e davanti alla sua corte riceve da un segretario una lettera. In un altra scena, /ncontro tra Ludovico Gonzaga e il figlio Francesco cardinale, il signore mantovano incontra il figlio ormai divenuto cardinale. L’alto prelato reca per mano il fratello minore Ludovico, che tiene a sua volta il piccolo Sigismondo (futuro cardinale) mentre accanto al marchese si riconosce il nipotino Francesco, che ne erediterà il titolo. E in tutto e per tuto una celebrazione dinastica, corredata da gruppi dia servitori, cani e destrieri. Alle spalle del cardinale Mantegna allestisce un paesaggio dominato da una città fortificata dove la cinta muraria è ispirata alle mura Aureliane di Roma, e gli stessi edifici si vestono all’antica. 3) Il soffitto della Camera degli Sposi e il prodigio degli scorci -> Andrea Mantegna, VOLTA CON BUSTI DI CESARI E OCULO PROSPETTICO, 1465-74 affresco, Mantova, Castello di San Giorgio, Camera degli Sposi, p.184 Nel soffitto della Camera degli Sposi il tema antiquario è chiamato a fare da cornice a una collusione prospettica straordinariamente innovativa. Nella volta della camera Mantegna finge con la pittura una serie di elementi architettonici e una fastosa sequenza di busti di Cesari inseriti entro un cerchio che richiama la forma di un clipeo, ovvero di uno scudo rotondo. I medaglioni con gli imperatori, ognuno identificato da una scritta fanno da contorno alla geniale idea di sfondare il centro del soffitto con un ovulo prospettico aperto sul cielo, quasi un omaggio a quello della volta del Panthon, dal quale si affacciano con curiosità acini spiritelli. E un espediente illusionistico che ha alle spalle la piccola finestra aperta su castel Sismondo da Piero della Francesca (p.150) e col quale Mantegna avrebbe fatto scuola. -> Andrea Mantegna, CRISTO MORTO, 1475-80, tempera su tela, Milano, Pinacoteca di Brera p.185 Mantegna aveva eccezionali capacità prospettiche,. Lo testimonia loculo della Camera degli Sposi, una capacità che emerge di continuo nelle sue opere e che tocca il suo vertice con il Cristo Morto. Molti sono gli aspetti singolari di questa immagine tra i quali il fatto che non è dipinta su tavola ma su tela cosa abbastanza inconsueta per il Quattrocento. Il soggetto è un compianto di Cristo morto ma i dolenti si fanno di lato ridotti a poco più che teste piangenti. Il corpo di Gesù poggiato sulla dura pietra dell’unzione (pietra sulla quale fu preparato per la sepoltura), monopolizza la scena; il sudario dalle pieghe metalliche cala dal bacino poco sopra le caviglie. Mantegna si dedica per la figura a un attento studio anatomico. 51 L'atmosfera è cupa, i colori sono spenti, l’effetto è scultoreo. 4) Leon Battista Alberti a Mantova: San Sebastiano e Sant'Andrea Tra lui e Ludovico Gonzaga ci fu una fruttuosa collaborazione. A Leon Battista Alberti si devono i progetti di un paio di chiese mantovane. -> CHIESA DI SAN SEBASTIANO (progetto di Leon Battista Alberti, direzione del cantiere Luca Fancelli), 1460, Mantova, p.186 Verso il 1460 Leon Battista disegnò la chiesa di San Sebastiano, che si sarebbe distinta non solo per l'aspetto classico del prospetto ma soprattutto per l’originalissima struttura rialzata su di una cripta e concepita con una pianta centrale che giocava a mettere proporzionalmente insieme le forme geometriche del cerchio e del quadrato. Preannunciando la predilezione per gli edifici a croce greca che tanto avrebbe percorso il maturo Rinascimento. La ricostruzione della facciata della chiesa per mano di Leon Battista Alberti doveva prevedere una scalinata e più lesene, immaginata come un tempio antico ma realizzata in modo diverso. -> CHIESA DI SANT'ANDREA (progetto di Leon Battista Alberti: direzione del cantiere di Luca Fancelli), Mantova, p.187 Cantiere inteso a ricostruire in forme moderne la chiesa medievale di Sant'Andrea, che custodiva la venerata reliquia del sangue di Cristo. Per questo grandioso edificio Alberti studiò una facciata ispirata a un tempio antico e un maestoso interno a pianta basilicale, che nelle imponenti arcate a lacunari della navata e della cappelle laterali ricorda la possente grandiosità dell’antica Basilica di Massenzio a Roma. In entrambi i progetti architettonici mantovani, Leon Battista Alberti si distingue per la scelta di compattare le superfici dei suoi prospetti, preferendo alle consuete colonne l’uso delle lesene. CAPITOLO 19 - FERRARA E GLI ESTENSI: TRE PITTORI E UN PROGETTO URBANISTICO 1) Nella Ferrara di Lionello e Borso d’Este Andrea Mantegna prima di Mantova aveva fatto una breve apparizione anche a Ferrara, presso la corte del marchese Lionello d’Este. Nel decennio in cui Lionello d’Este fu signore di Ferrara in città si incontrarono artisti eterogenei: da Pisanello a Piero della Francesca, dal fiammingo Roger van der Weyden a Leon Battista Alberti. -> Niccolò Baroncelli, ARCO DEL CAVALLO, 1450-51, marmo, Ferrara, Piazza Municipale, p.190 Nella principale piazza ferrarese, ai piedi del Palazzo Ducale e di fronte alla facciata romanica della cattedrale, si innalza un monumento pubblico che, nel carattere antiquario, reca il segno del passaggio in città di Leon Battista Alberti, avvenuto verso il 1444. Baroncelli si era occupato del destriero, mentre la soprastante statua era stata eseguita da un altro fiorentino Antonio di Cristoforo. La tipologia di monumento evoca immediatamente il Gattamelata di Donatello, rispetto al quale si distingue per un’invenzione antiquaria ancor più sofisticata: porre la statua equestre in cima a un arco era un modo per innalzare la scultura. 2) Lo stile rovente di Cosmè Tura -> Cosmè Tura, MUSA (Calliope?), dallo Studio di Belfiore a Ferrara, 1458-63, tempera grassa su tavola, Londra, National Gallery, p.191 Alla morte di Lionello nel 1450, Ferrara passò nelle mani del fratello Borso d’Este, anche lui appassionato di arti. 52 La torre originale andò distrutta nel 1521 a causa di una esplosione, quella attuale è una ricostruzione risalente al 1901-05 con il fine di restituire al castello l'aspetto quattrocentesco. La torre è denominata del Filarete in virtù dello scultore-architetto che ne fece il progetto originario. 2) Vincenzo Foppa: solidità rinascimentale e verismo nordico -> SANT’EUSTORGIO, CAPPELLA PORTINARI, 1462-68, Milano, p.201 La cappella privata del fiorentino Pifello Portinari nella chiesa domenicana di Sant’Eustorgio, consacrata alla conservazione della reliquia della testa di San Pietro Martire. Si ingera chi abbia progettato l’architettura della cappella ma se ne comprende facilmente l'ispirazione ai razionali moduli brunelleschiani della Sagrestia Vecchiadi San Lorenzo (p.98) e della Cappella Pazzi a Firenze (p.99). Qui si aggiungono nelle lunette affreschi con Storie di San Pietro Martire e della Vergine in cui Foppa dichiara di essersi convertito al nuovo linguaggio prospettico che doveva avere appreso a Padova, studiando le opere di Donatello. Lo si intende bene nella nella scena con il Miracolo di Narni, dove il domenicano si inginocchia a risanare il piede di un giovane che, pentito di aver colpito sua madre con un calcio, si era amputato l’arto. L’episodio è predisposto entro un ricorso spazio tridimensionale che pare tradurre le maestose architetture delle Storie di Sant'Antonio della predella dell’altare donatelliano di Padova (p.173) e adotta una proiezione prospettica in diagonale. L'effetto di profondità è suggerito attraverso la successione dei piani segnati dai due robusti archi a tutto sesto bicromia. In virtù di questo ciclo Foppa può essere considerato il primo grande interprete della pittura rinascimentale a Milano. 8) Zanetto Bugatto: il mistero di un lombardo a Bruxelles La corte sfornisca e il suo pittore di punta non seppero resistere al fascino dei dipinti dei maestri nordici. -> Vincenzo Foppa, MADONNA COL BAMBINO, 1465, tempera su tavola, Milano, Pinacoteca del Castello Sforzesco, p.203 Nella Pinacoteca del Castello Sforzesco si conserva una Madonna con Bambino di Foppa, che si rivela una chiara dipendenza dalla pittura fiamminga, non solo nella soffusa atmosfera domestica, ma anche nell’impostazione. Il motivo del davanzale, del cuscino su cui poggia il fanciullo, del tendaggio e della finestra sul fondo ricordano lo stile di Rogier van der Weyden. Ma nonostante Foppa guardava alla pittura nordica manteneva comunque una sua solidità strutturale delle figure, delle cose e dello spazio. -> Zanetto Bugatto?, MADONNA COL BAMBINO, 1470-75, tempera grassa su tavola, Gazzada (Varese), Villa Cagnola, p.203 Dipinto in cui l’adesione al linguaggio nordico è ancora più decisa rispetto a Foppa, come si intende dalla resa geometrizzante dei panneggi della veste di Maria, dalla scelta della luce e dei colori, e dalle fisionomie degli angioletti con le ali appuntite. 55 CAPITOLO 21 - NAPOLI CAPITALE ARAGONESE: DA COLANTONIO AD ANTONELLO 1) Alfonso d’Aragona, signore di Napoli -> CASTEL NUOVO (nella ristrutturazione aragonese progettata da Guillermo Sagrerà, 1448) Napoli, p.204 Lo scenario del golfo di Napoli è ancora oggi marchiato a fuoco da un segno dell’antica dominazione aragonese: il Castel Nuovo. Nel 1443 Alfonso d’Aragona aveva fatto un trionfale ingresso a Napoli: era il nuovo re e prendeva il posto di Renato d’Angiò. Da qualche secolo Napoli era stata al centro di un durissimo scontro tra due delle più eminenti famiglie regnanti d’Europa: gli Aragonesi e gli Angioini. Questi ultimi avevano saputo imporsi agli inizi del Trecento, e durante il lungo regno di Roberto d’Angiò Napoli aveva vissuto una stagione felicissima per le lettere e le arti. A cento anni Napoli trovava in Alfonso un nuovo signore appassionato delle arti e capace di rilanciare come capitale culturale, stabilendo la sua corte nel Castel Nuovo. Il castello che vediamo oggi è frutto di una completa ristrutturazione di una vecchia fortificazione angioina, voluta da Alfonso. La poderosa fortezza esprime al meglio il carattere poderoso del signore aragonese. Le possenti torri rotonde furono studiate dall’architetto Guillermo Sagrerà per aggiornare il vecchio castello angioino alle nuove esigenze di una guerra combattuta con le armi da fuoco, mentre l’elegante arco all'antica rivolto verso ile entro urbano fu eretto fin dal 1453 secondo un gusto albertiano, anche se, a guardare bene, c’è ancora qualcosa di gotico nella concezione di allungare il prospetto in verticale su più registri tramite la sovrapposizione di due archi. AI cantiere dell’arco aragonese vi parteciparono scultori di varia provenienza infatti è difficile capire chi ha scolpito cosa. Come per l’episodio principale, assegnato di norma a Pietro da Milano e Francesco Laurana, il Trionfo di Alfonso, re spagnolo, il quale cammina sul suo carro, preceduto dai suonatori di tromba e seguito da un fedele seguito. -> Donatello, TESTA DI CAVALLO, 1455, bronzo, Napoli, Museo Archeologico Nazionale, p. 205 E il colossale frammento del monumento equestre di Alfonso d’Aragona destinato all’arco di Castel Nuovo, ma mai terminato. Avendo avuto sotto di sé un arco l’effetto doveva essere simile a quello dell’arco ferrarese del cavallo, che è grosso modo coevo. 2) Colantonio: il maestro di Antonello Napoli era un grande centro internazionale, era giunto Pisanello che fu impegnato a realizzare medaglie per Alfonso. Il moderno linguaggio di tutti i vari artisti che passavano per Napoli non andava ancora di moda per la città del tempo, dove la corte impazziva piuttosto per la pittura fiamminga. Queste presenze fiamminghe a Napoli sono fondamentali per capire il linguaggio del pittore Colantonio, che fu protagonista della pittura napoletana intorno al 1450. -> Colantonio, SAN FRANCESCO CONSEGNA LA REGOLA, da San Lorenzo Maggiore, 1445-50, tempera grassa e oro su tavola, Napoli, Museo Nazionale di Capodimonte, p.206 Pala costituita da due tavole conservate nel Museo di Capodimonte, in basso era la scena di San Girolamo nello studio, e sopra l’episodio in cui San Francesco consegna la regola ai principali esponenti del suo ordine, diligentemente spartiti ai suoi piedi tra uomini e donne. Curioso è l'accostamento di Girolamo e San Francesco, perchè Girolamo era vissuto molti secoli prima di san Francesco, ma qui appare in vesti francescane quasi come un precursore dell’ordine. Nella pala il pittore effigia Girolamo come una sorta di padre putativo del francescanesimo. Non c’è nulla in Colantonio del linguaggio rinascimentale: la predilezione per l’oro resiste, e manca una seppur minima concezione tridimensionale dello spazio, tanto che le figure dei francescani della tavola superiore sembrano galleggiare sul pavimento esageratamente scosceso. | loro panneggi sono assolutamente nordici, mentre i volti hanno un’aria catalana: nel porto di Napoli mondi diversi si incontrano. 56 Nella scena in basso riconosciamo un san Girolamo effigiato col fedele leone in uno studio pieno di libri riprodotti con grande attenzione al dato reale. Dietro una simile immagine è facile riconoscere una buona familiarità con la pittura fiamminga, soprattutto per i libri sullo scaffale. 3) Verità fiamminga e spazialità italiana: Antonello da Messina -> Antonello da Messina, CROCIFISSIONE, 1460, olio su tavola, Sibiu (Romania), Museo Nazionale Brukenthal, p. 207 E un dipinto che nelle figure di Cristo, dei ladroni e dei dolenti afflitti sotto le croci, guarda ai modelli della pittura fiamminga, ma nello sfondo di paesaggio propone una veduta familiare al pittore, si tratta di un’immagine dello stretto di Messina con la falce del porto siciliano più vicina a noi, e in lontananza nel mare, le isole Eolie. Ai panorami di van Eyck pieni zeppi di minuziosi dettagli, Antonello preferisce una veduta distesa e dilatata della marina. Per questo pensiamo che Antonello dopo la formazione napoletana potrebbe aver fatto un viaggio in Provenza che forse terminò nel 1460. In quell’anno sappiamo che Antonello rientrò a Messina da una lontana trasferta e una simile esperienza spiegherebbe la sua conoscenza non solo della pittura fiamminga, ma anche di quella provenzale. -> Antonello da Messina, RITRATTO D’UOMO, 1460-70, olio su tavola, Cefalù, Museo Mandralisca, p.208 Antonello seppe rendere non solo la realtà di un paesaggio, ma anche quella di un volto: allo stesso modo dei pittori fiamminghi fu uno specialista del genere del ritratto. Antonello fu il primo italiano ad adottare nei suoi ritratti non solo la luce fiamminga e la tecnica ad olio ma anche la disposizione dei personaggi di tre quarti su fondo scuro, preferendola alla tradizionale immagine italiana di profilo. È la somiglianza, la capacità di Antonello di catturare la vita nel colore quel che continua a lasciarci esterrefatti. Quel sorriso enigmatico ha interrogato profondamente la cultura siciliana del Novecento. -> Francesco Laurana, ELEONORA D’ARAGONA, 1468-71, marmo, Palermo, Museo Regionale di Palazzo Abatellis, p.208 E utile accostare al ritratto sopra descritto uno assai diverso, per materiale e soggetto, ma sempre siciliano. Si tratta del busto di Elisabetta d’Aragona, scolpito nelmarmo da Francesco Laurana. In questo marmo egli dimostra di condividere la passione del messinese per il naturale, attraverso un senso dei volumi spietatamente italiano, capace di evocare il solido rigore geometrico di Piero della Francesca. -> Antonello da Messina, MADONNA COL BAMBINO. E | SANTI GREGORIO E BENEDETTO E (nelle cuspidi) L’ANNUNCIAZIONE (Polittico di san Gregorio), dalla chiesa di San Gregorio a Messina, 1478, tempera grassa e oro su tavola, Messina, Museo Regionale, p.209 La pittura di Piero dovette essere nota anche ad Antonello perché le opere del suo primo decennio di attività dichiarano una chiarissima consapevolezza spaziale e tridimensionale. Questo polittico è corredato nel piedistallo da un cartellino dipinto con fiamminga sapienza illusionistica per apporre la firma e attestare l’anno di esecuzione. Nella pala giunta fino a noi senza l'elemento centrale di coronamento e la ricca cornice gotica, Antonello si diverte a creare uno spazio unificato nonostante l’astratto oro del fondo. E uno spazio costruito attraverso il basamento del trono della Vergine col Figlio che si estende pure negli scomparti laterali e al centro del quale pende un verissimo rosario. Di fianco a Maria alludono alla profondità dello spazio pure le forme volumetriche dei santi Gregorio, a sinistra, e Benedetto, a destra, effigiati per rendere onore rispettivamente al titolare della chiesa e dell’ordine cui la stessa badessa apparteneva; i due santi pongono addirittura un piede in bilico sul gradino, a renderne la materiale consistenza verso lo spettatore. -> Antonello da Messina, ANNUCIAZIONE, dalla Chiesa dell’Annunciata a Palazzo Acreide, 1474. olio su tavola trasportata su tela, Siracusa, Galleria Regionale di Palazzo Bellomo, p.209 L’Annunciazione ripropone nella Vergine e nell’Angelo quasi gli stessi modelli delle cuspidi del polittico messinese che qui sono saldamente inseriti in un interno domestico. 57 La scena si compie al di là di una finestra illusionistica che ha le forme di un arco gotico catalano: stile che si era diffuso in tutte le terre dominate da Alfonso d'Aragona. Sono di gusto catalano ache le maioliche del pavimento che seguono un ordinatissima ordito spaziale. L’intera composizione è sorretta da una rigorosa prospettiva italiana ben evidente nella costruzione tridimensionale del pacchetto in cui siede la solida figura del santo e nella fuga prospettica della galleria in cui passeggia il leone. | passaggi al di là delle finestre sul fondo, l’architettura gotica della grande aula con i pilastri e la volta a crociera, il particolare uso della luce e la minuziosa cura per i dettagli parlano un linguaggio assolutamente nordico. -> Antonello da Messina, RITRATTO DI GIOVANE CON VESTE ROSSA, 1474, olio su tavola. Berlino, Gemaldegalerie, p.214 a sx -> Giovanni Bellini, RITRATTO DI GIOVANE CON VESTE ROSSA, 1480, olio su tavola, Berlino. Gemaldegalerie, p.214 a dx Il gioco dei paragoni tra Antonello e Bellini si può anche estendere alla categoria dei ritratti. Nel ritratto di Antonello vediamo un giovane di tre quarti su fondo scuro corredato in basso dal solito cartellino con la firma e la data. Qualche anno dopo Giovanni usa Los tesso schema adottando la posa di tre quarti e dimostrando di avere compreso appieno il valore delle novità antonelliane. -> Antonello da Messina, VERGINE ANNUNCIATA, 1475, olio su tavola, Palermo, Museo Regionale di Palazzo Abatellis, p.214 in basso Fa effetto di un ritratto che emerge dal fondo scuro di radice fiamminga con una concretezza tutta italiana. AI di sotto del suo solido velo ella guarda umilmente verso di noi a cercare l'Angelo che l’ha distolta dalla lettura, il libro è aperto sul leggio, posto di spigolo e accuratamente delineato dalla luce a dare il senso di uno spazio tridimensionale. -> Antonello da Messina, SAN SEBASTIANO, dalla chiesa di San Giuliano a Venezia, 1476, olio su tavola trasportata su tela, Dresda (Germania), Gemaldegalerie, p.215 Fu eseguito per Venezia dove si vuole che sia stato il laterale di un trittico nella chiesa di San Giuliano. Un dipinto in cui Antonello appare più italiano che mai, nei comignoli tipicamente veneziani degli edifici, nella perfetta scansione spaziale e nel plasticammo di un nudo che ricorda le figure di Piero della Francesca. La profondità del palcoscenico in cui Sebastiano subisce il martirio delle frecce è enfatizzata dalle linee prospettiche della pavimentazione, taglia arditi scorci del frammento di colonne in primo piano e dell’uomo sdraiato sulla sinistra. 3) Resistenze gotiche: Carlo Crivelli e alvise Vivarini Mentre Bellini dialogava con Antonello, a Venezia il gotico faticava a morire. Nel corso degli anni Settanta del Quattrocento e anche dopo alle tavole quadrate si preferirono spesso i polittici che rispondevano alle esigenze di committente meno aggiornate. Un dettaglio importante da ricordare per capire la dislocazione delle opere è che questi polittici venivano esportati nell'entroterra e in tutta l’area adriatica perché i dipinti viaggiavano sulle stesse rotte commerciali delle mercanzie. -> Carlo Crivelli, MADONNA COL BAMBINO E SANTI FRANCESCO, PIETRO, PAOLO E GIOVANNI BATTISTA, EMIDIO, PAOLO: (nel registro superiore) LA PIETÀ E | SANTI CATERINA D’ALESSANDRIA, GIROLAMO, GIORGIO E ORSOLA (Polittico di Sant'Emidio), 1473, tempera e oro su tavola, Ascoli Piceno, Cattedrale, p.216 in alto Carlo Crivelli, nato a Venezia e formatosi nella bottega di squarcino decise verso gli anni Settanta di trasferirsi nelle marche dove ebbe successo per la divulgazione di polittici di formato gotico. Uno di questi fu compito per la cattedrale di Ascoli Piceno. Si tratta di un complesso a 5 scomparti e due registri, sul fondo oro dei quali risaltano i caratteri tipici squarcioneschi, tanto nelle espressioni nervose dei panneggi metallici delle figure, tanto nel festone di frutta che corona il trono su cui siede la Vergine con Figlio, al centro. E questo il linguaggio attraente e colorato che Crivelli propone in molte sue opere. 60 -> Alvise Vivarini, MADONNA COL BAMBINO E | SANTI FRANCESCO, PIETRO, PAOLO E GIOVANNI BATTISTA, dal convento di Montefeltro, 1476, tempera e oro su tavola, Urbino, Galleria Nazionale delle Marche, p.216 in basso Alvisw dipinse un polittico per il convento francescano di Montefiorentino nel Montefeltro dimostrando di avere ben assimilato le novità padovane. Lo spazio infatti è unificato attraverso il pavimento sul quale si innalzano i protagonisti. La vergine al centro siede su un trono solido e molto semplice tenendo il bambù uno disteso sulle ginocchia. Sono immagini che assumono consistenza anche grazie alla nitidezza di una luce tersa. 4) Il gusto albertiano a Venezia: Giovanni Bellini, Mauro Codussi e Pietro Lombardo -> Giovanni Bellini, INCORONAZIONE DELLA VERGINE E | SANTI PAOLO, PIETRO, GIROLAMO E FRANCESCO, 1473-75, olio su tavola, Pesaro, Museo Civico, p.217 Verso il 1475 Giovanni Bellini dipinse una pala per la chiesa di San Francesco a Pesaro che ben testimonia la volontà dell'ambiente artistico veneziano di aprirsi anche alle suggestioni del linguaggio antiquario e prospettico divulgato da Leon Battista Alberti. Il dipinto illustra l'incoronazione della vergine con quattro santi, un soggetto che nella tradizione veneziana era associato a un polittico gotico e Giovanni interpreta invece in maniera nuova. Le figure dei santi che avrebbero dovuto trovare posto in scomparti laterali si raccolgono di fianco a Cristo e alla Vergine, nell’unica scena di una tavola quadrata delimitata da una preziosissima cornice intagliata in cui risaltano le storiette della predella e le piccole figure di santi nei pilastri laterali. Per Bellini i ricordi di Mantegna sono ormai relegati all'aspetto raggrumato di certi panneggi e la pittura a olio stempera ogni durezza, rendendo le carni dolci. Rigorosa razionalità prospettica del pavimento e del trono, decorato con motivi di gusto antiquario e che nella spalliera si apre inaspettatamente a mostrare un quadro nel quadro: un’inedita veduta di paese, sovrastata da un castello, dove Giovanni conferma la sua inclinazione a esplorare con il pennello il paesaggio naturale. -> SAN MICHELE IN ISOLA (su progetto di mauro Codussi), 1468, Venezia, p.218 in alto a sx Sul finire degli anni Sessanta, Mauro Condussi avviò il cantiere della chiesa di San Michele in Isola, dando una svolta all'architettura veneziana. L’edificio sorge nell’isola della laguna intitolata a San Michele e si distingue per la candida facciata, coronata ai lati da una coppia di volute e al centro un ampio timpano arcuato, una soluzione palesemente ispirata a quella che Leon Battista Alberti aveva progettato per il Tempio Malatestiano a Rimini, dove non sarebbe stata portata a compimento. San Michele in isola è il primo edificio rinascimentale della Laguna, e il motivo del timpano arcuato del prospetto sarebbe divenuto canonico delle chiese veneziane di fine ‘400. -> SANTA MARIA DEI MIRACOLI (su progetto di Pietro Lombardo), 1481-89, Venezia, p.218 in alto a dx Il motivo del timpano acquato si ritrova pure nella facciata della sontuosa chiesa di Santa maria dei Miracoli: uno scrigno di marmi policromi, costruito in una centralissima zona di Venezia, a partire dai primi anni 80 su progetto di Pietro Lombardo. L'edificio testimonia di diffondersi del gusto albertiano in Laguna, per tramite di un maestro che non era solo architetto, ma anche scultore. -> Pietro Lombardo, MONUMENTO SEPOLCRALE DI ANTONIO ROSELLI, 1467, marmo Padova, Basilica del Santo, p.218 in basso a dx Pietro si formò a Padova dove ultimò nel 1467 il monumento sepolcrale del giurista Antonio Roselli nella Basilica del Santo, un modello che deriva chiaramente dai modelli delle tombe Bruni e Marsuppino scolpite da Bernardo Rossellino e Desiderio da Settignano in Santa Croce a Firenze. Questa e altre opere proclamano che anche a Venezia e nell'entroterra il tempo delle cuspidi, delle arcate e dei pinnacoli gotici era finito. 61 5) Un alieno in Laguna: il Bartolomeo Colleoni del Verrocchio -> Andrea del Verrocchio, BARTOLOMEO COLLEONI, 1480-96, bronzo e pietra nel basamento Venezia, Campo (=piazza) Santi Giovanni e Paolo, p.219 in basso Il successo del nuovo linguaggio era inarrestabile e cambiava il volto della città: nella seconda metà degli anni Ottanta, accanto al prospetto gotico della chiesa domenicana dei santi Giovanni e Paolo, si cominciò a ristrutturare la Scuola Grande di San Marco, che avrebbe avuto una facciata progettata da Mauro Codussi. Nella piazza si voleva innalzare un monumento equestre che avrebbe superato di audacia il Gattamelata di Donatello. Per rendere onore al condottiero Bartolomeo Colleoni, nel 1480 la Repubblica Veneziana reclutò il fiorentino Andrea del Verrocchio che dovette realizzare prontamente un modello a grandezza naturale della scultura. Per vederne la versione finale in bronzo fu però necessario attendere diversi anni. Nel monumento equestre egli dimostra di saper andare oltre l'esempio del Gattamelata donatelliano in due modi: accentuando tanto la resa espressiva del volto del condottiero, quanto il dinamismo del destriero. Tutto ciò era prova di come a Firenze scomparsi i pionieri del primo Rinascimento fosse stata inaugurata una nuova stagione artistica, si andava esplorando nuove strade che avrebbero condotto alla maniera moderna. SEZIONE V VERSO IL NUOVO SECOLO: UMANESIMO E CULTURA ANTIQUARIA CAPITOLO 28 - L’ARTE A FIRENZE AL TEMPO DI LORENZO IL MAGNIFICO 1) Nuove generazioni: Pollaiolo e Verrocchio -> CAPPELLA DEI MAGI, 1459.60, Firenze, Palazzo Medici, p.228 Nel 1459 il palazzo che Cosimo de’ Medici aveva fatto progettare a Michelozzo nel centro di Firenze (p.1083) era praticamente concluso. Si stava ormai lavorando a decorare la cappella: un ambiente al tempo stesso intimo e fastoso, in cui i moduli dell’architettura brunelleschiana sono impreziositi da un soffitto a cassettoni e da un pavimento di marmi e porfidi che rispecchia i modi di Leon Battiusta Alberti. Le pareti accolgono un sontuoso ciclo di affreschi compiuto da Benozzo Gozzoli, il migliore allievo di Beato Angelico che intanto era morto a Roma nel 1455. -> Benozzo Gozzoli, VIAGGIO DEI MAGI, 1459-60, affresco, Firenze, Palazzo Medici, Cappella dei Magi, p.229 In virtù di una particolare devozione per i Magi, Cosimo volle che Benozzo affrescasse nella cappella uno sfarzoso Viaggio dei Magi, acceso d’oro, di colori e di preziosi lapislazzuli. In quel piccolo spazio Benozzo celebrava la gloria della famiglia, ritraendo Cosimo e i suoi parenti a fianco dei loro amici fiorentini e non solo. Nel giovane mago Gaspare, che cavalca un destriero bianco riccamente bardato, si è creduto potesse riconoscere il futuro Lorenzo Magnifico. Tra coloro che cavalcano dietro Gaspare si distingue per primo Pietro il Gottoso, che precede suo padre Cosimo, e poi un popoloso seguito in cui si è ritratto pure Benozzo. Il dipinto fa impressione perchè il suo autore sembra ignorare le novità del linguaggio rinascimentale che era caro ai Medici. La volumetria delle figure umane e dei cavalli, infatti non trova corrispondenza nel paesaggio, che appare fiabesco e tardogotico nelle rocce scheggiate, nell’altissimo fusto degli alberi. E nell’assenza di tridimensionalità della composizione. 62 È una serena immagine dell’Annunciazione in cui Gabriele si inginocchia nel prato fiorito portando il suo saluto alla Vergine che siede nella soglia della propria dimora. Allo stesso modo i molti pittori fa sedere Maria di fronte a un leggio, intenta alla lettura dell’antico testamento. Osservando la tavola si riconoscono i segni della lezione del Verrocchio nei panneggi delle vesti plasmati dalla luce, nell’eleganza dei volti e nelle fisionomie, nella composizione piramidale della figura di Maria e nel piede di un leggio che evoca un gusto archeologico, morbidezza delle capigliature e il dettaglio di un lontano paesaggio al di la del basso recinto in cui tra la nebbia si ergono rocciose montagne, un tema che sarebbe rimasto nel cuore del pittore per tutta a vita. -> Leonardo, ADORAZIONE DEI MAGI (commissionata per San Donato a Scopettò), 1481-82. tempera e olio su tavola, Firenze, Galleria degli Uffizi, p.235 Un opera incompiuta, che il pittore riuscì solo ad addobbare. La pala appare come una sorta di grande disegno, corredato di pochi colori ma vibrante di una nuova animazione rispetto all’Annunciazione di pochi anni prima. Di norma l’adorazione dei Magi veniva illustrata ordinando la capanna di lato in primo piano e l’arrivo del corteo dei Magi sul proscenio (come Gentile da Fabriano p.28). Leonardo, invece, dispone la Madonna col Bambino al centro, all’ombra di un albero, e fa ruotare intorno il folto gruppo dei sovrani orientali e del loro seguito. In secondo piano la mole delle scale e degli archi di un edificio in costruzione si altera con l’ormai collaudato paesaggio roccioso ravvivato dall’azione di uomini e cavalli in un incessante movimento e schizzate con rapidità. Un disegno preparatorio per ild dettaglio dell’architettura dimostra l'assoluta competenza prospettica di Leonardo, nell’utilizzo di una griglia tridimensionale focalizzata su un punto di fuga. -> Sandro Botticelli, ADORAZIONE DEI MAGI, sa Santa Maria Novella, 1475-76, tempera su tavola, Firenze, Galleria degli Uffizi, p.236 Oltre a Leonardo, Firenze poteva contare anche su altri pittori emergenti, primo fra tutti Sandro Botticelli che alla metà degli anni Settanta aveva dipinto un’Adorazione dei Magi mettendo il gruppo di Maria e di Cristo fanciullo entro un fabbricato in rovina ali entro del dipinto. Nell'opera vengono ritratti i Medici: nel amo anziano inginocchiato ai piedi di Cristo viene riconosciuto Cosimo il Vecchio, nei Magi chinati sotto sono riconosciuti i suoi figli Piero il Gottoso e Giovanni rispettivamente in veste rossa e bianca, mentre i nipoti Lorenzo e Giuliano si individuano nel giovane pensoso nel gruppo di dx e in quello in primo piano all’estremità sx. Il pittore si è ritratto all'opposto, nel giovane togato in giallo che ci guarda. Come Leonardo anche Botticelli si affida alla recitazione die uopi attori ma il risultato è diverso, l’effetto è meno concitato e le figure sono costruite attraverso netti contorni grazie alla formazione orafa che lui ebbe da giovane. Le più antiche opere di Botticelli databili alla seconda metà degli anni sessanta somigliano alle ultime di Filippo Lippi, si nota una somiglianza nelle figure da cui appare evidente la formazione di Botticelli con Lippi. 8) Lorenzo il Magnifico: collezionismo, umanesimo e cultura antiquaria Il Magnifico durante la sua vita aveva favorito un gruppo di letterati guidati da Marsilio Ficino e raccolti nella cosiddetta Accademia Napoleonica, ma anche un nucleo di giovani artisti che si formarono studiando la ricca collezione di sculture raccolta da Lorenzo in un giardino ubicato vicino alla chiesa di san Marco. Tra questi era il giovane Michelangelo. La vicenda del Giardino di san Marco è emblematica della passione per il collezionismo di Lorenzo, Capace di incrementare le raccolte di anticaglie, medaglie e oggetti preziosi ereditate dal nonno Cosimo e dal padre Piero. Il fenomeno del collezionismo nel corso del ‘400 di diffuse per tutte le corti italiane e la così detta raccolta laurenziana si distinse per il numero di eccezionalità dei pezzi. Inoltre, nella Firenze laurenziana c’era Pico della Mirandola che sosteneva che l’uomo poteva ascendere a qualcosa di divino e oltrepassare i confini di questo mondo attraverso la filosofia, la letteratura e le arti. Fu così che diede vita all'Accademia Neoplatonica, ovvero un cenacolo di intellettuali, fondata sul recupero del pensiero di Platone e sulla convinzione di una possibile armonizzazione del pensiero filosofico con la spiritualità e la fede cristiana. 65 4) Giuliano da Sangallo: una villa, una chiesa e un palazzo -> VILLA MEDICEA (su progetto di Giuliano da Sangallo) facciata, 1485-92, con interventi successivi Poggio a Caiano (Prato), p.239 La principale commissione architettonica di Lorenzo il Magnifico giunta fino a noi, impresa affidata negli anni ’80 del ‘400 a Giuliano da Sangallo, architetto e scultore. Poggio a Caiano rinuncia ad ogni allusione di carattere difensivo e l'architettura realizza un dialogo con il territorio circostante. Non ci sono più torri e merlature ma ha l’aspetto di un elegante palazzo con un solido porticato alla base. Alla dimora signorile si accede tramite una doppia rampa a tenaglia. E un pronao all’antica con colonne ioniche e timpano, da qui si entra in un luminoso interno dominato da un grande salone. Tra i temi utilizzati per le decorazioni si usa la filosofia neoplatonica ficiniana, annunciata nel fregio in terracotta invetriata che lo scultore Bertoldo da Giovanni ha messo in scena in una successione di rilievi di gusto antiquario (p.239). -> SANTA MARIA DELLE CARCERI (su progetto di Giuliano da Sangallo), 1485, Prato, p.240 Nella vicina Prato, Lorenzo il Magnifico decise di finanziare la costruzione della chiesa di santa Maria delle Carceri. L’edificio è stato impostato su di una pianta a croce greca con tutti i bracci di identica lunghezza. Uno dei primi esempi di chiesa a pianta centrale che avrebbe avuto successo nel corso dei decenni successivi. All’interno presenta un’austera scansione spaziale che rimanda a quanto Brunelleschi fece nella Sagrestia Vecchia di San Lorenzo (p.98) e nel Capitolo de’ Pazzi (p.99). Il paramento murario esterno non è mai stato ultimato ma si contraddistingue per le preziose partiture architettoniche rinascimentali bicorne, realizzate in marmo bianco di Carrara e verde di Prato nelle quali si riconosce un riferimento ai gusti neoclassici di Leon Battista Alberti. -> PALAZZO STROZZI (su progetto di Giuliano Sangallo o Benedetto da Maiano), 1489-1505. Firenze, p.241 Lorenzo il Magnifico non ebbe bisogno i fare costruire da Giuliano una dimora in città perchè ovviamente abitò la casa di famiglia che il nonno Cosimo aveva fatto fabbricare a Michelozzo (p.108). Ma quel moderno edificio rappresentò il modello per altri palazzi che sorsero nella Firenze di fine Quattrocento,m tra i quali spicca per grandiosità quello voluto nel 1489 da Filippo Strozzi, ricchissimo mercante e banchiere. Ultimato alla metà del primo decennio del Cinquecento, Palazzo Strozzi riprende le originarie forme cubiche di Palazzo Medici e analogamente si innalza su tre piani intorno a un cortile centrale guardando all’esterno con un prospetto sul quale si aprono finestre quadrate al piano terreno e bifore con arco a tutto sesto nei due piani superiori. 5) Le favole pagane di Sandro Botticelli In pittura il mito dell’Età laurenziana e della fortuna del Neoplatonismo è associato al nome di Sandro Botticelli con La Primavera e La Nascita di Venere probabilmente destinati a Palazzo Medici e la loro fama oggi universale è dovuta tanto alla scelta di un soggetto profano mitologico, quanto al linguaggio di gusto estetizzante che tende alla raffinatezza e alla bellezza. -> Sandro Botticelli, PRIMAVERA, 1478-82, tempera su tavola, Firenze, Galleria degli Uffizi, p.242 Al centro della scena la dea dell'amore Venere, che si erge vestita in mezzo a un bosco di aranci verdeggiante di infinite specie vegetali accompagnata in alto da Cupido bendato; a sx il vento di primavera Zefiro rapisce per amore la ninfa Clori. Unitasi al vento Clori rinasce nelle forme di Flora, personificazione della Primavera che veste un abito ricamato di piante e incede spargendo fiori. A dx di Venere danzano le tre Grazie, mentre Mercurio scaccia le nubi, in un'immagine gioiosa. 66 -> Sandro Botticelli, LA NASCITA DI VENERE, 1482-85, tempera su tela, Firenze, Galleria degli Uffizi, p.243 Rappresentata la nascita di Venere con la dea che al di sopra di una conchiglia approda sull’isola di Cipro, sospinta dal vento di Ponente (Zefiro abbracciato a una figura femminile che è la personificazione di un altro vento o di una ninfa) e viene accolta da una acenlla nelle vesti della Primavera che le porge un manto fiorito per coprirla. Sono opere della maturità di Botticelli che rinuncia alle predilezioni prospettiche della pittura fiorentina del Quattrocento e propone grandi scene in cui la resa spaziale viene di fatto elusa. Sandro si diletta a riprodurre dettagliatamente le specie botaniche del prato fiorito o a dipingere le onde del mare ripetendo un senso grafico di elegante senso decorativo. Attentamente disegnate nei contorni le figure appaiono bidimensionali e prive di vigore plastico: Botticelli rinuncia alla materialità proponendo la visione di un paradiso divino e ideale tanto distante dal lessico di Donatello, Brunelleschi e Masaccio. 6) Il compimento della Cappella Brancacci Quando Botticelli dipingeva le sue favole pagane, Masaccio non era stato dimenticato. La Cappella Brancacci (p.69) era la palestra per eccellenza per la formazione dei giovani pittori fiorentini e lo sarebbe rimasta fino alla metà del Cinquecento. Nella prima metà degli anni ’80 del Quattrocento le Storie di San Pietro che Masaccio e Masolino avevano lasciato incompiute (p.70-71) erano state finalmente ultimate da un altro pittore. Il prestigioso compito era stato affidato a Filippino Lippi, figlio di Filippo il più masaccesco die masacceschi. Filippino nacque da una relazione illecita che Filippo, frate carmelitano, aveva avuto con una suora di Prato, al tempo dell'impegno al ciclo della Cattedrale (p.236). Quando il padre mori filippino continuò il suo apprendistato con Botticelli. Quando poi si trovò a terminare il ciclo della Cappella Brancacci, Filippino adottò per le sue scene una composizione severa e semplificata priva di attenzione agli ornati come si vede dalla Crocifissione di San Pietro (p.224) in cui notiamo nei volti e nei panni una resa grafica tipica di Botticelli che aveva segnato la gioventù di Lippi. 7) Ghirlandaio e Filippino: le influenze della pittura fiamminga e l'antico -> CAPPELLA SASSETTI, con le storie di San Francesco e l’Adorazione dei pastori di Domenico Ghirlandaio, 1482-85, Firenze, Santa Trinita, p.245 a sx Nella Firenze del primo Quattrocento non mancano grandi cili ad affresco destinate a cappelle familiari in edifici pubblici. Questi pittori si trovano ad avere a che fare con spazi gotici costruiti molto tempo prima, contraddistinti da volte a crociera e pure da lunghi finestroni ad arco acuto. | nuovi affreschi tuttavia adottano un allestimento di gusto acquario tramite elementi architettonici dipinti in maniera illusionistica. Francesco Sassetti fu un uomo tanto fedele a Lorenzo il Magnifico da avere l’incarico di dirigere il banco mediceo, volle che la sua cappella nella chiesa dell’ordine benedettino di Santa Trinita fosse decorata con una serie di episodi della vita del suo santo onomastico, Francesco d’Assisi, e affidò il lavoro a Domenico Birgordi detto il Ghirlandaio, che lo realizzò tra il 1482 e il 1485. Domenico aveva ereditato il soprannome dal padre Tommaso. Dopo un apprendistato con Baldovinetti anche lui fu tra i maestri che si fecero le ossa accanto a Verrocchio intorno al 1470. A partire da questa esperienza elaborò un linguaggio affidabile, chiaro e sereno, che gli permise di riscuotere notevole successo. Nell’illustrare le storie francescane il Gjirlandaio scelse di ambientare alcuni episodi a Firenze. La scena della Conferma della regola appare quasi un pretesto per allestire sul fondo una veduta quasi da cartolina di Piazza della Signoria, in cui si riconoscono facilmente la Loggia della Signoria e la facciata di Palazzo Vecchio. Sul proscenio, ad assistere all’evento, sono ritratti una serie di personaggi del giro aurenziano. A dx in abito rosso è Francesco Sassetti affiancato al figlio e da Lorenzo de’ Medici; di fronte sono i figli maggiori del committente, mentre dalla scala centrale sta salendo Agnolo Poliziano, accompagnato dai rampolli di casa medici. 67 È una scena di corte, dal carattere celebrativo, ambientata sul proscenio di una luminosa navata coperta da un fastoso soffitto a cassettoni sostenuto da possenti pilastri squadrati e arcate a tutto sesto, un linguaggio architettonico rinascimentale. Il papa siede di profilo, a dx, ed è accompagnato da una serie di familiari. Il vero protagonista è il Platina inginocchiato al centro ad indicare con la mano dx l’iscrizione latina che esalta la biblioteca come la maggiore tra le imprese realizzate nel generale rinnovamento di Roma. L'affresco stava su una parete di fronte all'ingresso della biblioteca ed era ben visibile al pubblico dei lettori, che lo osservano dal basso cogliendone al meglio i caratteri prospettici studiati per una visione da sotto in su. Allo stesso modo di quanto avviene nella pittura di Piero della Francesca vi è un muto dialogo tra le figure monumentali dipinte con impressionante corrispondenza al vero. Papa Sisto IV aveva reso avellente come Roma stava cambiando sin dal primo momento del suo pontificato, trasferendo dal Laterano al Campidoglio quasi tutti i preziosi bronzi antichi e donandoli con gesto teatrale al popolo romano. Mentre l'affresco di Michelozzo era destinato ad essere visto solo dai colti frequentatori della biblioteca, nella Roma sistina si ristrutturavano edifici in forme nuove. Per volere di Sisto IV fu ristrutturata in forme aggiornate la Chiesa di Santa Maria del Popolo dove i romani veneravano un’antica immagine della Vergine dipinta, secondo la tradizione, da San Luca. Per custodire questo dipinto si andava realizzando una monumentale pala in forma di tempesto all’antica affidata ad Andrea Bregno. La nuova Santa Maria del Popolo si presentava con una facciata tripartita in travertino. 2) La Cappella Sistina un cantiere affollato -> CAPPELLA SISTINA, Roma, Città del Vaticano, p.257 A Sisto IV si deve pure l’idea di corredare il palazzo apostolico di una nuova cappella, che da lui prende il nome di Cappella Sistina. Uno spazio assai esteso destinato ancora oggi ad ospitare importanti celebrazioni liturgiche, oltre alle riunioni del conclave in cui i cardinali scelgono il nuovo papa. Un poderoso e austero involucro in mattoni, mosso da una merlatura, contiene una grande aula rettangolare coperta da una volta. Alla severità dell'esterno si contrappone il fasto di un interno pieno di colori dal pavimento in marmo fino alla volta. Nel 1481-82 la cappella venne affrescata secondo uno schema ben preciso suddiviso in vari registri: in basso uno zoccolo con finti arazzi quindi una serie di riquadri narrativi nel secondo registro e poi, in quello successivo, ai lati dei finestroni, alcune figure di papi disposti entro nicchie illusionistiche; la volta, infine, appariva come un cielo pieno di stelle secondo un gusto tipicamente medievale che torva un famoso precedente nella Cappella degli Scrovegni di Giotto. Oggi al posto di quel tappeto stellato dipinto da un pittore umbro chiamato Pier Matteo d’Amelia, ci sono Le storie della Genesi di Michelangelo, che nel corso del Cinquecento sconvolse il ciclo originario e con esso l’intera storia dell’arte rinnovando non solo la volta ama anche la parete terminale in cui dipinse un colossale Giudizio Universale (p.440). Così facendo Michelangelo cancellò alcuni affreschi fondamentali per comprendere il significato del ciclo sistino. -> Domenico Ghirlandaio, VOCAZIONE DI PIETRO E ANDREA, 1481-82, affresco, Roma, Città del Vaticano, Cappella Sistina, p.259 in alto Per dipingere il più rapidamente questa dotta esaltazione del potere della Chiesa, Sisto IV arruolò una folta equipe di pittori, giunti a Roma dalla Toscana e dall’Umbria, tra i quali: Domenico Ghirlandaio, Sandro Botticelli, Cosimo Rosselli.. e altri aiuti. Ghirlandaio insieme alla sua bottega nella cappella ebbe il compito di dipingere /a Vocazione di Pietro e Andrea. La scena si apre si apre su una serena veduta del lago di Tiberiade, dove si riconoscono sul fondo le barche dei pescatori che si faranno apostoli: da un lato Cristo chiama a sé Pietro e Andrea, dall’altro Giovanni e Giacomo. 70 Sul proscenio, in mezzo alla folla dove emerge la passione ghirlandesca per i ritratti, Pietro e Andrea si inginocchiano di fronte a Gesù in un’atmosfera di ordinata serenità, c he mette insieme il rigore di Masaccio e lo splendore della “pittura di luce”. -> Sandro Botticelli, PUNIZIONE DEI RIBELLI, 1481-82, affresco, Roma, Città del Vaticano Cappella Sistina, p.259 in basso A Sandro Botticelli furono affidate ben tre storie: le Prove di Mosè, le Prove di Cristo e la Punizione dei ribelli. Quest'ultima aveva grande significato perché voleva sottolineare quale fosse la pena riservata a chi non rispettava l’autorità ecclesiastica derivata da Dio, attraverso la raffigurazione di un episodio dell’Antico Testamento, ambientato curiosamente in un paesaggio lacustre dell’Italia centrale, dominato dalla mole di un arco di trionfo antico. Core, Datan e Abiram capeggiano la rivolta di 250 Israeliti contro la guida di Mosè, che riconosciamo a dx, con l’abito verde e la lunga barba grigia, mentre il giovane Giosuè lo difende dagli assalitori armati di sassi. AI centro, una volta che Dio gli ha mostrato benevolenza accogliendo il suo sacrificio, Mosè disperde i ribelli che, a sx, finiscono per essere cacciati agli inferi dallo stesso Mosè. È una storia concitata in cui le figure tendono ad essere più bidimensionali che volumetriche, e sono spesso lumeggiate d’oro, come accade anche in altri affreschi della cappella. Notevole è la differenza con la scena dipinta di fronte, che ancora una volta allude all’autorità della Chiesa e fu affrescata da Perugino, pittore umbro. 8) Perugino e il nuovo stile umbro -> Pietro Perugino, CONSEGNA DELLE CHIAVI, 1481-82, affresco, Roma, Città del Vaticano Cappella Sistina, p.260 San Pietro ebbe da cristo le chiavi del paradiso. Pietro fu il primo vescovo di Roma e papa. Una scena ben ordinata: in primo piano, al centro, il barbuto Pietro si inginocchia a ricevere due enormi chiavi dal giovane Gesù dai lunghi capelli, sotto lo sguardo degli altri apostoli contrassegnati dalle aureole e di altri personaggi in abiti quattrocenteschi; due di questi, sulla dx, recano in mano il compasso e la squadra e quindi si tende a identificarli in Baccio Pontelli e Giovanni de’Dolci, rispettivamente progettista e direttore del cantiere sistino. Il gruppo di attori è disposto sulla ribalta di un’ampia piazza, pavimentata con grandi lastre di candido marmo che individuano con chiarezza la fuga prospettica indirizzata sull’edificio a pianta centrale disposto sul fondo, che vuole alludere al tempio di Salomone. Lo affiancano due archi antichi che richiamano le forme di quello Costantiniano, e in lontananza è un quello paesaggio, dove alcune delle alture riflettono l’azzurro del cielo e si innalzano alberi dal fusto esilissimo. In secondo piano si muovono una moltitudine di eleganti figure, a narrare due ulteriori episodi evangelici: il tributo della moneta e la tentata lapidazione di Cristo. Anche questo quadro, dunque, contiene tre episodi, svolti però in maniera molto diversa da quelli allestiti da Botticelli. Qui risaltano l’ordine e la precisione di una composizione prospettica, scandita su piani diversi e illuminata da una luce nitida e chiarissima, che da risaltare le forme tridimensionali dei protagonisti e delle architetture, coerenti con i gusti del secondo Quattrocento. Perugino quando dipinse quest'opera era già un maestro affermato, tanto che Sisto IV gli affidò le pitture perdute della parete dell’altare e tre ulteriori storie della Cappella Sistina. In lui si può dunque riconoscere il vero regista del ciclo, anche perché in tutte le scene ricorre uno stesso tipo di paesaggio sereno e verdeggiante, punteggiato di alberi magrissimi, che ricorda quello della terra natia del pittore ( Città della Pieve vicino Perugia), fu il suo marchio di fabbrica. L'equilibrio prospettico e la nitidezza di quest'opera si spiegano con una formazione a Firenze dove guardò a Verrocchio tanto è vero che il nelle figure del Cristo e degli apostoli più giovani pare essersi ispirato alla grazia del gruppo verrocchiesco dell’/ncredulità di San Tommaso di Orsanmichele (p.232). Deriva da Verrocchio anche il modo di accartocciare i lunghi mantelli in ampie pieghe messe in evidenza dalla luce cristallina. Lo si vede nel Cristo ma anche nell’apostolo di spalle al limitare sinistro. Spettano alla mano di Luca Signorelli le teste di tre degli apostoli alle spalle di Cristo (il primo, il secondo e il quinto). 71 -> Pietro Perugino, SAN BERNARDINO RISANA UNA FANCULLA, dall’oratorio di San Bernardino a Perugia, 1473, tempera su tavola, Perugia, Galleria Nazionale dell'Umbria, p.261 in alto a sx Nella figura dell’apostolo di spalle al limitare sinistro di cui abbiamo appena parlato nell'opera precedente si riconosce una variante del personaggio dal bizzarro copricapo che occupa una posizione analoga in questa tavola della Galleria di Perugia, l’opera è parte di una serie di otto Storie di San Bernardino, dipinte per l’oratorio perugino del santo da Pietro e da altri maestri nel 1473, dunque a immediato ridosso del soggiorno fiorentino. Vi si riconosce infatti, per luce e prospettiva, un impianto verrocchiesco, che nonostante le ridotte dimensioni rappresenta un buon precedente per i caratteri della Consegna delle chiavi. Dietro la figura della giovane figlia di Giovanni Antonio Petrazio da Rieti, che Bernardino risana da un’ulcera, la scenografia rinascimentale si spalanca, con un minestrone, sulla campagna verde dell'Umbria. -> Pietro Perugino, MADONNA COL BAMBINO E | SANTI GIOVANNI BATTISTA E SEBASTIANO dalla chiesa di San Domenico a Fiesole, 1493, olio su tavola, Firenze, Galleria degli Uffizi, p.262 in alto Terminato l’impegno per la Cappella Sistina, Perugino proseguì la sua carriera lavorando tra Perugia, Roma e Firenze, dove stabilì la sua bottega e dove maturò un nuovo linguaggio, ben rappresentato in questa pala. Qui la serenità del paesaggio umbro si diffonde sull’intera composizione, davanti a un semplicissimo e severo loggiato, la Madonna col Bambino siede al centro, su un piedistallo appena ornato di un motivo antiquario. La affiancano un devoto San Giovanni Battista, che piega la testa e addita con la dx il fanciullo, e un giovane san Sebastiano, che pur colpito non esprime dolore. Le figure risultano al tempo stesso solenni, aggraziate, languide e sdolcinate. Utilizzando questa formula Perugino ottiene un successo eccezionale, che da Firenze dilagò per tutta Italia. 4) I muscoli di Luca Signorelli L’affollato cantiere della cappella Sistina fu frequentato anche da Luca Signorelli dove collaborò direttamente con Pietro Perugino dipingendo nella Consegna delle chiavi i dettagli di tre teste di apostoli alle spalle di Gesù. Il linguaggio di Signorelli è differente da quello di Perugino, preferendo all’equilibrio e alla serenità, la possanza e il movimento dei corpi. Luca in gioventù era stato amico di Piero della Francesca e nel corso degli anni ’50 era entrato in contatto con la bottega fiorentina del Verrocchio traendone moduli stilistici e competitivi di altra impronta. Osservando il modo di interpretare lo stesso soggetto, | Flagellazione di Cristo, si può capire quanto all’assoluta w grave saldezza di Piero (fig. a sx p.263), Signorelli preferisse ormai una composizione ormai più agguerrita, nel movimento e nelle torsioni dei corpi delle guardie di Gesù, nei quali la carne non aderisce a un volume puro ma si gonfia all'energia dei muscoli (fig. a dx p.269). E una variabile che fa tesoro nella lezione fiorentina del Pollaiolo e del Verrocchio ma non dimentica l'omaggio all’antichità, nella colonna centrale sormontata da una statua (come in Piero) e nella parete di fondo decorata da rilievi. -> Luca Signorelli, RESURREZIONE DELLA CARNE, 1499-1504, affresco, Orvieto (Terni), Duomo. Cappella di San Brizio, p.264 -> Luca Signorelli, INFERNO, 1499-1504, affresco, Orvieto (Terni), Duomo, Cappella di San Brizio p.265 in alto a sx -> Luca Signorelli, DANTE, 1499-1504, affresco, Orvieto (Terni), Duomo, Cappella di San Brizio, p. 265 in alto a dx Nel 1499 Luca Signorelli ottenne l’incarico di decorare la cappella di San Brizio, all’interno del Duomo Orvieto, cappella innalzata nei primi decenni del ‘400 a margine del Duomo orvietano, nelle forme di una grande aula gotica, la commissione prevedeva che Luca narrasse nelle pareti le storie della fine del mondo e del Giudizio finale. Tema che svolse in forme drammatiche, riempiendo le scene con nudi attentamente studiati nelle anatomie e negli scorci difficili. 72 7)I cicli di affreschi di Perugino e Pinturicchio -> COLLEGIO DEL CAMBIO, , interno della Sala delle udienze con gli affreschi di Perugino p.271in alto -> Pietro Perugino, PRUDENZA E GIUSTIZIA CON (partendo da sx) FABIO MASSIMO, SOCRATE. NUMA POMPILIO, FURIO CAMILLO, PITTACO E TRAIANO, 1496-1500, affresco, Perugia, Collegio del Cambio, p.271 in basso Tra il 1496 e il 1500 Perugino aveva affrescato a Perugia la sala delle udienze del Collegio del Cambio. La commissione, per una volta, non riguardava una cappella o una chiesa, ma la sede di una delle più eminenti corporazioni professionali perugine, quella dei banchieri; tanto illustre e influente che svolgeva funzione anche di tribunale per alcune cause civili e aveva sede al pian terreno del Palazzo dei Priori. La Sala delle udienze è un ambiente perfettamente conservato, con le pareti coperte in basso dagli scagni lignei intarsiati e in alto dalle pitture di Perugino. La volta è un tesoro di fantasie grottesche mentre le sottostanti lunette ospitano un ciclo affrescato. Il programma iconografico fu stilato da un letterato che conosceva bene il pittore e ne aveva enorme considerazione, egli suggerì i soggetti e le iscrizioni sulla base di quello che avevano scritto autori dell’antichità. Un ciclo che accosta a ognuna delle 4 virtù cardinali un terzetto di personaggi antichi, eletti a esempio di tale virtù. In questo lunetta vediamo in alto la Prudenza e la Giustizia; alla prima corrispondono in basso Fabio Massimo, Socrate e Numa Pompilio, mentre alla seconda Furio Camillo, Pittaco e Traiano. Tutte le figure sono state affrescate da Perugino con il suo sdolcinato stile maturo, innanzi a un consueto paesaggio utilizzando un linguaggio facile e attraente per rendere una serie di colti soggetti eruditi, designati a modelli del vivere civile e dell'esercizio del bene pubblico, in un luogo in cui si amministrava la giustizia. -> Pinturicchio, ANNUNCIAZIONE, 1500-1501, affresco, Spello (Perugia), Santa Maria Maggiore. Cappella Baglioni, p.272 in alto Di lì a poco, tra il 1500 e il 1501, Pinturicchio affrescava un ciclo di Storie della Vergine nella Cappella Baglioni della chiesa di Santa Maria Maggiore a Spello, una cittadina poco lontano da Perugia. nell’Annunciazione ci si possono riconoscere tutte le caratteristiche proprie del linguaggio del pittore, che sulla parete a destra, accanto alla parasta con le grottesche, ha apposto un proprio autoritratto, come se fosse un quadretto attaccato al muro. -> LIBRERIA PICCOLOMINI , con gli affreschi di Pinturicchio, 1502-08, Siena, Duomo, p.273 Conclusa questa impresa del 1502, il pittore stipulò un contratto con il cardinale Francesco Tedeschini Piccolomini per trasferirsi a Siena e decorare la Libreria Piccolomini: un vasto spazio che si apre come una cappella laterale nel Duomo e avrebbe dovuto custodire i libri appartenuti al defunto zio del committente, il papa Pio Il. Si trattava di un incarico impegnativo che il Pinturicchio avrebbe ultimato nel 1508. Il soffitto è riservato alle vivacissime grottesche che si estendono sulle sottostanti paraste, dipinte a suddividere le pareti in 10 finestroni entro i quali sono narrate le vicende di Enea Silvio Piccolomini, dalla giovinezza agli anni che lo videro Papa Pio II. Per la prima volta al posto di Cristo, dei santi o degli eroi antichi troviamo un personaggio che era vissuto fino a qualche decennio prima. Pinturicchio mette in scena una vera e propria biografia dipinta utilizzando uno stile affabile e pieno di dettagli. Nella decorazione della Libreria per necessità e consuetudine, Pinturicchio si avvalse di numerosi aiuti e per la composizione di una scena adoperò un progetto di un giovane di talento: Raffaello. 75 8) Gli inizi umbri di Raffaello -> Raffaello, CROCIFISSIONE, da san Domenico a città di Castello, 1502-03, olio su tavola Londra, National Gallery, p.274 a sx -> Perugino, CROCIFISSIONE, 1506, olio su tavola, Siena, Sant'Agostino, p.274 a dx Raffaello nacque a Urbino nel 14883, suo padre Giovanni Santi, era un pittore attivo alla corte die duchi di Montefeltro. La precoce d’esposizione della pittura di Raffaello fu presto compresa dal Perugino, che lo accolse nella sua bottega e gli permise di ottenere fin dai primi anni del ‘500 una serie di rilevanti commissioni in Umbria. In queste opere il giovane pittore appare come un vero alter ego del maestro, dimostrando di avere appreso tutte le caratteristiche della sua pittura e di saperle ripetere alla lettera. Lo dimostra molto bene una pala con la Crocifissione dipinta tra il 1502-03 per la Cappella Gavari nella chiesa di San Domenico a Città di Castello, in quel dipinto finito alla National Galleru di Londra, il Cristo crocifisso è accompagnato non solo da una coppia di angeli e dalla Vergine, san Giovanni e Maria Maddalena dolenti ma anche da San Girolamo che si inginocchia in primo piano a sx, nel luogo d’onore: tale presenza inaspettata è giustificata dal fatto che la cappella era intitolata a questo santo. Il dipinto corrisponde alla perfezione alla pittura di Perugino nella composizione ordinata, negli equilibrati accordi cromatici, nella tenerezza delle figure e nel quieto paesaggio sullo sfondo. Molto simile alla composizione di Perugino che di li a poco dipinse per l’altare di Siena -> Raffaello, SPOSALIZIO DELLA VERGINE, da San Francesco a Città di Castello, olio su tavola Milano, Pinacoteca di Brera, p.275 a sx -> Perugino, SPOSALIZIO DELLA VERGINE, dal Duomo di Perugia, 1501-1504, olio su tavola Cean (Francia), Musée des Beaux-Arts, p.275 a dx Tra le varie opere che in quegli anni il giovane Raffaello dipingeva guardando a Perugino si può ricordare lo Sposalizio della Vergine. Anche questa pala di dimensioni piuttosto ridotte, stava in origine a Città di Castello, in una cappella dedicata a San Giuseppe che la famiglia Albizzini possedeva nella chiesa di San Francesco. Da ciò deriva la scelta di un soggetto in cui il titolare è protagonista ed è raffigurato nel momento in cui prende il sposa Maria. Raffaello si muove ancora sulle orme del maestro. A guardare il gruppo di attori sul proscenio e il pavimento prospettico che conduce al tempio a pianta centrale in lontananza torna in mente la peruginesca Consegna delle chiavi della cappella Sistina. Nello stesso anno pure Perugino completava una pala con lo Sposalizio della Vergine. Questa tavola stava in origine nel Duomo di Perugia, nella cappella dove era serbata una curiosa reliquia: l'anello che si sarebbero scambiati Giuseppe e Maria. Le forme di quell’edificio spiccano infatti con maggiore evidenza, poiché Raffaello, rispetto al dipinto del maestro, ha alzato il punto di vista e atteggiato i personaggi i personaggi in primo piano con maggiore libertà, laddove quelli perugineschi, pur in un dipinto che per il resto appare di simile impianto, paiono disporsi rigidamente l’una accanto all’altro, come a costruire una barriera. Raffaello stava crescendo e aveva bisogno di nuovi stimoli che trovò poi a Firenze incontrando Michelangelo e soprattutto Leonardo. CAPITOLO 25 - LA MILANO MODERNA DI LUDOVICO IL MORO E ALTRE ESPERIENZE LOMBARDE 1) Leonardo a Milano Nel 1488 Leonardo da Vinci è a Milano e ci rimane fino al 1499. Nella capitale lombarda egli fu al servizio di Ludovico il Moro, signore appassionato non solo alle armi ma anche alle lettere e alle arti. Al signore milanese Leonardo si propose come un artista a tutto tondo. 76 -> Leonardo, STUDIO PER IL MONUMENTO EQUESTRE DI FRANCESCO SFORZA, 1489-90. carta azzurra e inchiostro bruno, Londra, The Royal Collection, p.277 a sx Fin dalla lettera di presentazione Leonardo prometteva di innalzare a Milano un monumento equestre in Francesco Sforza, monumento a cui a Milano si pensava già da tempo. L'impresa fu finanziata da Ludovico il Moro ma non fu mai portata a compimento. Come abbiamo visto nell’Adorazione dei Magi agli Uffizi i cavalli erano uno dei soggetti che Leonardo preferiva per lo studio della natura e del movimento. Per il monumento Sforza elaborò una soluzione inedita, immaginando il duca Francesco in groppa a un destriero impennato su due zampe al di sopra della figura distesa e sconfitta di un nemico, lo attesta un disegno realizzato dall’artista. Il gruppo scultoreo avrebbe dovuto essere colossale, superando i sette metri di altezza, un’invenzione che si scontrava con seri problemi di statica tanto che Leonardo dovette alla fine preferire la soluzione di un più statico cavallo al passo. Leonardo si occupò di importanti progetti per Milano dal momento che nella lettera di presentazione Leonardo aveva dichiarato di essere capace di condurre acqua da un luogo all’altro. Ludovico il Moro gli chiese di occuparsi del sistema dei Navigli, i canali navigabili che mettevano in comunicazione il Ticino e l’Adda. -> Leonardo, MADONNA COL BAMBINO, UN ANGELO, E SAN GIOVANNI detta VERGINE DELLE ROCCE, 1483-85, olio su tavola trasportato su tela, Parigi, Musée du Louvre, p.278 a sx -> Leonardo, MADONNA COL BAMBINO, UN ANGELI E SAN GIOVANNINO detta VERGINE DELLE ROCCE, 1494-1508, olio su tavola, Londra, National Gallery, p.278 a dx Fin dal 1483 Leonardo ebbe la sua prima importante commissione pittorica milanese. Doveva dipingere una pala per la cappella della confraternita dell’Immacolata Concezione nella chiesa di San Francesco Grande. L’edificio è andato distrutto ma a noi sono arrivate due versioni dello stesso dipinto probabilmente a causa di una lite tra l'artista e la confraternita. La Vergine siede a terra, su un paesaggio roccioso, dove crescono le più differenti piante, indagate con un’attenzione da naturalista. Ella allarga la destra, a proteggere, sotto il mantello, il piccolo san Giovannino, inginocchiato a mani giunte e rivolto verso il Cristo fanciullo. Nudo in primo piano con le gambe incrociate, e accompagnato da un tenero angelo adolescente, questi benedice il compagno di giochi, mentre la mano sx di Maria si apre su di lui. La composizione si regge, dunque, non solo sulla disposizione piramidale dei personaggi, di ricordo verroccheisco, ma anche sulla calcolata rispondenza dei loro gesti. Le figure appaiono palpitanti di vita, grazie allo “sfumato”, una tenia che ne attenua i contorni tendendo a fonderle, attraverso il colore, con l’aria umida e brumosa che si dipana sulla scena. Ne risulta un’immagine intima e incantata, anche per la scelta di disporre gli attori al di sotto di un tetto di rocce e sulla ribalta di un fondale. Dove si intravede uno specchio d’acqua, circondato da quelle montagne rocciose e nebbiose, che Leonardo aveva sperimentato fin dalle prime opere fiorentine. Facile, quindi, capire la ragione del titolo di un dipinto che a Milano dovette fare enorme impressione perché nessuno prima di allora aveva visto niente di simile. Non è chiaro quale sia stato il destino della prima versione ma certo è che nella cappella della confraternita dell’Immacolata finì la variante che si conserva alla National Gallery di Londra. Qui l'atmosfera è più limpida anche grazie agli intensi toni azzurri del manto della vergine e delle lontane montagne. Tutto è più definito, l'angelo evita di indicare e le aureole sono sospese sulle teste di Maria, di Cristo e di Giovanni, che pure ha la croce. -> Leonardo, RITRATTO DI CECILIA GALLERANI detta DAMA CON L’ERMELLINO, 1489-90, olio su tavola, Cracovia, Museo Nazionale, Collezione Czartoryski, p.279 La fama di leonardo fu dovuta anche alla notevole abilità di ritrattista. Dal fondo scuro merge una giovane ben vestita, con il perfetto ovale del volto ben sottolineato dai capelli lisci, raccolti da un velo e uniti sulla nuca di una lunga treccia, secondo la moda lombarda dell’epoca; tra le mani tiene il candido animale: elemento di natura eletto a simbolo di purezza e possibile richiamo, al tempo stesso, all'ordine cavalleresco dell’Ermellino, rilanciato in quegli anni dal signore di Napoli. TT busti clipeati (cioè collocati entro un tondo, qui con il fondo a forma di valva di conchiglia) di Giulio Cesare e dell’imperatore Traiano -> Giovanni Antonio Amedeo, MONUMENTO SEPOLCRALE DI BARTOLOMEO COLLEONI 1472-76, marmo e legno dorato per la statua equestre dovuta a Sisto Frey, 1499-1500. Bergamo Cappella Colleoni, p.287 Entrando all’intento del mausoleo impostato su di una pianta quadrata ci troviamo di fronte il monumento sepolcrale di Bartolomeo Colleoni, unico elemento superbite dell’allestimento Quattrocentesco della cappella che a destra si apre nel vano dell’altare, ristrutturato tra Seicento e Settecento. L’arca si eleva su alti pilastri ed è costituita dal sovrapporsi si due sarcofagi che illustrano sul drone le storie della passione e le storie della natività di Cristo. In alto si erge la statua equestre di Bartolomeo, richiamare i monumenti trecenteschi. Purtroppo l’originale gruppo scultoreo fu rimosso perché troppo pesante. -> Giovanni Antonio Amedeo, MONUMENTO SEPOLCRALE DI MEDEA COLLEONI, 1475, marmo. Bergamo, Cappella solleoni, p.287 Nella parte sx della cappella si innalza il monumento sepolcrale che Bartolomeo dece scolpire ad Amedeo per la figlia Medea, che morì nel 1470. Il monumento è oggi vicino a quello del padre. Amedeo adotta una cornice antiquaria e un vivace fondo bicromo, mitigando le consuete asprezze del suo linguaggio nelle tenere figure femminili: la Madonna col Bambino affiancata dalle state Caterina d’Alessandria e da Siena e la bellissima giovinetta, distesa serenamente nel letto di morte. 5) I pittori Iombardi, Mantegna e lo studio di Isabella d’Este Le esperienze di Leonardo e di Bramante furono decisive per indicare nuove strade ai pittori lombardi. Il Bergamasco Bramantino in virtù di una speciale dipendenza dall’artista di origine urbinate, che lo educò ai valori della prospettiva e al gusto per le forme grandiose e monumentali. Bramantino tuttavia mosse da quella lezione per interpretarla in senso fortemente personale, sapendo guardare anche al più aspro retaggio della cultura artistica lombarda. Lo si vede bene nel Cristo risorto (p.288) in cui la particolarissima luce fredda e l’accurato studio delle anatomie sonno vita a una glaciale visione che nella metallica articolazione delle pieghe del sudario richiama alla mente il panneggiare che tanto piaceva a Mantegna e agli scultori lombardi. -> Andrea Mantegna, MADONNA COL BAMBINO, FRANCESCO GONZAGA E I SANTI GIOVANNINO, MICHELE ARCANGELO, ANDREA, LONGINO, GIORGIO ED ELISABETTA, detta MADONNA DELLA VITTORIA, da Santa Maria della Vittoria a Mantova, 1496, tempera su tela. Parigi, Musée du Louvre, p.289 Queste novità non fecero effetto su Mantegna che a Mantova continuava ad essere il pittore di Gonzaga. In questa pala vediamo come entro un pergolato abbondante di frutti e animali, che evoca la formazione padovana con Squarcione, Mantegna ha inscenato una sacra conversazione, con le sue tipiche figure solenni ed eroiche. Al centro, su di un piedistallo decorato all'antica con Storie della Genesi, si staglia la Vergine col Figlio. Oltre al piccolo san Giovannino, la accompagnano due santi mantovani e due santi guerrieri. A sx Francesco Gonzaga, in armi, si inginocchia a ricevere la benedizione di Maria, mentre all’apostolo è genuflessa santa Elisabetta, patrona ed eponima della moglie del committente: Isabella d’Este. Isabella d’Este, sposa di Francesco Gonzaga. Lei, a Mantova, seppe mettere in piedi una corte colta, lei era appassionata di lettere, musica, moda, scacchi e altro. Grande collezionista di arte antica e moderna ed ebbe al suo servizio uno scultore esperto di antiquaria come Giancristoforo Romano e Baldassarre Castiglione. Accolse anche Leonardo per un breve periodo e fu in quegli anni che il pittore la ritrasse (vedi disegno p.290). 80 -> Andrea Mantegna, PARNASO, dallo studiolo di Isabella d’Este a Mantova, 1497, tempera su tela, Parigi, Musée du Louvre, p.291 in alto -> Perugino, LOTTA TRA AMORE E CASTITÀ, 1505, dallo studiolo di Isabella d'Este a Mantova, tempera su tela, Parigi, Musée du Louvre, p.291 in basso Isabella progettò di allestire nel Castello di San Giorgio due ambienti emblematici del suo impegno intellettuale: uno studiolo e una grotta. Se la seconda era destinata a conservare un’eccezionale raccolta di antichità, lo studiolo accolse una serie di dipinti che lei commissionò ai principali pittori deltempo. Il ciclo all’interno di questa stanza oggi si trova al Louvre. Il primo dipinto a essere realizzato fu nel 1497 il cosiddetto Parnaso di Andrea Mantegna, in cui il pittore di corte con spirito antiquario non effigiò soltanto le Muse in atto di danzare al suono della cetra di Apollo ma anche altre divinità come Mercurio insieme con il cavallo alato Pegaso, a destra, Vulcano in lontananza nella sua grotta, e Venere e Marte uniti sulla sommità della rupe, con ai piedi la piccola figura dell'amore celeste. Costoro dovevano alludere a Francesco Gonzaga e Isabella d’Este sotto il governo dei quali fioriscono le arti, simboleggiate dalle muse. La marchesa chiese una tela anche a Pietro Perugino che raffigurò la Lotta tra amore e castità corredata da una numerosa serie di figure mitologiche. Perugino consegnò il dipinto nel 1505. Gruppo di figure in primo piano con alle spalle uno dei tipici paesaggi umbri. CAPITOLO 26 - VENEZIA ALLA FINE DEL SECOLO 1) Colore e natura: Giovanni Bellini Mentre Venezia costruiva il suo vasto impero mediterraneo, Giovanni Bellini aveva da poco completato due grandi dipinti che attestano il suo ruolo dominante in quell’ambiente. Uno voluto dalla famiglia Pesaro per la chiesa francescana dei Frari, l’altro dal doge in carica, Agostino Barbarigo. -> Giovanni Bellini, MADONNA COL BAMBINO E | SANTI NICCOLò, PIETRO, MARCO E BENEDETTO (Trittico Pesaro), 1488-89, olio su tavola, Venezia, Santa Maria Gloriosa dei Frari, p.292 Nella Pala dei Frari Giovanni Bellini seppe trovare un’eccellente equazione per soddisfare una committenza desiderosa di un trittico con un’opera che tuttavia non guardasse al passato. Pensò dunque a una carpenteria tripartita, preferendo al formato gotico un assetto e una decorazione di gusto antiquario. Con in mente la Pala di san Zeno di Mantegna (p.177), Giovanni seppe unificare lo spazio tra gli scomparti, attraverso una costruzione prospettica degli elementi architettonici. L’utilizzo della pittura ad olio offre un morbido e naturalistico tono ai santi Niccolò, Pietro, Marco e Benedetto che si affacciano dai pannelli laterali, così come alla Madonna col Bambino e ai teneri angioletti musicanti ai piedi del podio centrale. Il basamento di questo riecheggia i valori prospettici e Albertini del trono della pala pesarese di Bellini (p.217), ma in questo caso la Vergine cam peggia su di un abside rasserenata da una luce diffusa e calda, impreziosita da un drappo rosso e culminante in un barcone e una calotta decorati a mosaico. E un motivo caro alla pittura veneziana del tardo Quattrocento. Al misticismo di un simile interno, Bellini contrappone, alle estremità del quadripartito occupato dai santi, alcuni brani di paesaggio rischiarati dal cielo. Il trittico reca sulla base la data 1488, ma a Venezia era in uso un calendario che faceva iniziare l’anno non il 1° Gennaio ma il 1° Marzo, come si faceva nell’antica Roma. -> Giovanni Bellini, MADONNA COL BAMBINO, IL DOGE AGOSTINO BARBARIGO E I SANTI MARCO E AGOSTINO, da Santa Maria degli Angeli, 1488, olio su tela, Murano, San Pietro Martire, p.293 L data 1488 si legge anche alla base del trono dalla pala dipinta da Bellini per il doge Agostino Barbarigo: un “telero” ovvero una tela di formato rettangolare, che il committente avrebbe lasciato alla morte alla chiesa di Santa Maria degli Angeli a Murano. 81 Il dipinto aveva lo scopo di celebrare la famiglia Barbarigo: il doge è ritratto e inginocchiato, mentre alle sue spalle un san Marco lo presenta alla Vergine col Figlio, alla presenza di sant'Agostino. Sono figure che hanno un preciso significato: se Agostino è il santo eponimo del doge, Marco non è solo il patrono della Serenissima, ma anche eponimo, a sua volta, del fratello del committente, che subito prima di lui era stato doge. La scena è ambientata in un balcone che si affaccia su una veduta dell’entroterra veneto, corredata dall’immancabile castello e coronata dalla lontana cornice dell’arco alpino. Solo un raffinato tendaggio difende il gruppo sacro dell’incombere della natura, attraverso un gruppetto di uccelli sembra voler partecipare al sacro evento. Sono tutti spunti che esploderanno poi nella pittura di Giorgione e nel prossimo secolo anche perché Giovanni Bellini sperimenta due dei cardini della pittura veneziana del Cinquecento: la tecnica dell’olio su tela e il così detto “tonalismo”, ovvero una pittura che non è definita precisamente dal disegno e dalla prospettiva ma è concepita attraverso uno studiato accostamento dei toni del colore usato per dare forma alle figure e rendere intensamente gli effetti atmosferici dell’aria che le circonda e del cielo che le illumina. 2) Colore e natura: Cima da Conegliano -> Cima da Conegliano, MADONNA COL BAMBINO E SANTI GIOVANNI BATTISTA, NICOLA, CATERINA D’ALESSANDRIA, APOLLONIA, FRANCESCO E PIETRO, 1492-93, olio su tavola trasportato su tela, Conegliano Cattedrale, P.294 a sx Alle novità di Giovanni Bellini seppe guardare con intelligenza un pittore che proprio in questi anni si era trasferito a Venezia dall’entroterra: Giovanni Battista Cima da Conegliano. Per la chiesa di Santa Maria dei Battuti della città natale Cima aveva dipinto tra il 1492 e il 1493 una pala dove la conoscenza di Bellini era chiarissima: una tipica sacra conversazione con la Madonna e il Bambino al centro, su un trono sopraelevato, la coppia di angioletti musicanti subito sotto la serie di santi ai lati. Il gruppo divino è protetto da un alto quadripartito che altra gli elementi architettonici di gusto antiquario con le superfici decorate a mosaico dei pennacchi e della cupola soprastante. Manca tuttavia l’abside, perché sul fondo del suo composito baldacchino Cima dipinge un cielo azzurro naturale, illuminato dalla stessa luce cristallina che modella le figure un primo piano. -> Cima da Conegliano, MADONNA COL BAMBINO E | SANTI GIROLAMO E LUDOVICO DI TOLOSA (detta MADONNA DELL’ARANCIO), da Santa Chiara a Murano, 1496-98, olio su tavola, Venezia, Galleria dell’Accademia, p.294 a dx Come Bellini anche Cima dedicò molto tempo alla raffigurazione del paesaggio veneto. Nella Galleria dell’Accademia di Venezia si conserva una pala d’altare dove il soggetto sacro sembra ambientato nella campagna di Conegliano. Un san Girolamo mezzo nudo, con in mano un sasso con il quale ha appena finito di percuotersi per fare penitenza, e una an Ludovico di Tolosa, con l’umile veste francescana coperta da un piviale degno di un alto prelato veneziano, omaggiano la Madonna col Bambino. La Vergine questa volta non siede su un trono, ma su uno sperone di roccia, dietro di lei si innalza un albero di arancio: ecco perché questa immagine è nota come Madonna dell’Arancio. Ma oltre a quell’albero ce ne sono tanti altri, nsieme con arbusti, piante e prati verdi. Il paesaggio è molto diverso da da quello che vediamo oggi nell’entroterra veneto: mancano i brutti capannoni industriali che deturpano la pianura, così com le distese delle vigne sulle colline ormai dedite a produrre grandi quantità di prosecco assai apprezzato nel mercato. Gli animali vivono indisturbati. C'è anche un asino con il suo padrone, san Giuseppe, e alle loro spalle si inerpica un sentiero che conduce a un borgo murato su di un’altura. 82 ->Tullio Lombardo, MONUMENTO SEPOLCRALE DEL DOGE ANDREA VEDRAMIN, dalla chiesa dei Severi a Venezia, 1490-95, marmo, policromato, Venezia, Santi Giovanni e Paolo, p.301 a sx La tomba fu scolpita per la chiesa dei Servi. Nei primi decennio dell'ottocento demolita la chiesa dei Servi il monumento fu traslato nel presbiterio della chiesa dei Santi Giovanni e Paolo, dove ha mantenuto la forma architettonica originale e appare una variante veneziana dell’Arco di Costantino a Roma: è infatti tripartita, con le nicchie laterali più piccole e sormontate da due tondi figurati con gli episodi mitologici del ratto di Deianira, e Perseo che sconfigge Medusa. Si è proposto di spiegare questo affondo antiquario, rispetto al monumento Mocenigo, con un soggiorno romano di Tullio. E anche il ricco corredo scultoreo parla latino: dalle Virtù disposte sul sostegno del sarcofago con il gisat del doge, ai tre angeli dalle folte chiome che lo vegliano, dai vari elementi decorativi, fino alle scene sacre del coronamento, dove si affacciano ai lati l’Arcangelo Gabriele e la Vergine annunciata, mentre nella lunetta centrale il doge è presentato alla vergine e al Figlio del santo onomastico, Andrea. CAPITOLO 27 - DALLA FIRENZE DI SAVONAROLA Al PRIMI SUCCESSI ROMANI DI MICHELANGELO 1) Il misticismo di Botticelli e il gusto dei “piagnoni” Morto nel 1492 Lorenzo il Magnifico, la lunga stagione della Firenze medicea si concluse nel novembre del 1494, quando suo figlio Piero fu cacciato dalla città. La Repubblica di Firenze rischiò così di essere sottoposta a una teocrazia, cioè a un governo che aspirava a seguire la volontà divina ed era aspirato dall’ardente predicatore Girolamo Savonarola. Un tale cambiamento di rotta ebbe enormi conseguenze nell’ambito delle arti figurative, poiché Savonarola destrava le sculture antiche, in quanto pagane, e raccomandava immagini devote molto diverse da quelle dell’Età laurenziana. Tutti gli oggetti d’arte che non rispondevano a un’esigenza di culto erano peccaminosi e meritavano di finire sul rogo. | seguaci di Savonarola vennero appellati “piagnoni”, tra cui anche Sandro Botticelli che passò così dal Neoplatonismo al Misticismo. -> Sandro Botticelli, COMPIANTO SUL CRISTO MORTO, CONTI SANTI GIROLAMO, PAOLO E PIETRO, da San Paolino a Firenze, 1495, tempera su tavola, Monaco di Baviera (Germania), Alte Pinakothek, p.303 Questa svolta decisiva di Botticelli si coglie molto bene in questo dipinto, una pala d'altare di un rigore assoluto. Abbandonati i temi profani e lo spirito neoplatonico dei bei tempi laurenziani, la pittura di Botticelli mantiene il suo carattere bidimensionale: sulla macchia scura dell’antro roccioso che ospita il sepolcro di Cristo si dispongono le figure di dolenti, avvilite nel pianto sul corpo senza vita di Gesù. Tra costoro ci sono i santi Girolamo, Paolo e Pietro facilmente riconoscibili dagli attributi. -> Perugino, CROCIFISSIONE CON | SANTI BERNARDO DA CHIARAVALLE E BENEDETTO 1494-96, affresco, Firenze, antico convento di Santa Maria Maddalena, poi di Santa Maria Maddalena de’ Pazzi. Oggi Liceo Michelangiolo, p.304 in alto Per corrispondere alle esigenze della spiritualità di Savonarola e dei “piagnoni”, la pittura fiorentina seppe intraprendere anche una strada alternativa. L’umbro Perugino in quegli anni si era trasferito in città e il suo linguaggio maturo trovava largo apprezzamento tra i “piagnoni”. In quest’opera troviamo l'essenziale, senza orpelli decorativi, la scena narra con chiarezza il tragico evento. In uno spazio rigoroso, scandito da una severa cornice architettonica. Figure solenni ma allo stesso tempo languide e sconsolate si stagliano in un paesaggio sereno. Niente di più adatto alla spiritualità di Savonarola. 85 -> Fra Bartolomeo, ANNUNCIAZIONE, 1497, tempera e olio su tavola, Volterra, Cattedrale, p.304 in basso L'angelo e la Vergine si distinguono per i gesti morigerati e il pavimento disegna un reticolo prospettico precisissimo, indirizzando il nostro occhio verso il portale, aperto su uno sfondo di paese alla fiamminga. È una scena domestica e non c’è ostentazione di ricchezza, e la luce cristallina si adombra in un’atmosfera di quieta devozione, levigando le tenere fisionomie dei volti. 2) Michelangelo a Bologna e a Roma -> ARCA DI SAN DOMENICO, Bologna, San Domenico, p.305 in alto -> Michelangelo, ANGELO CEROFORO, particolare dell’Arca di san Domenico, 1494-95, marmo. Bologna, San Domenico, p.305 in basso Pur mostrando interesse per le prediche di Savonarola, il giovane Michelangelo evitò di restare intrappolato nella rete della Firenze “piagnona”. Tra il 1494-95 si trasferì a Bologna dove fu coinvolto nel prestigioso cantiere dell’Arca di San Domenico. Grandioso monumento sepolcrale del fondatore dell'ordine domenicano realizzato intorno al 1265-67 da Nicola Pisano e dalla sua bottega. A partire dal 1469 il monumento fu ampliato con un fastoso coronamento da uno scultore chiamato Niccolò dell’Arca, ma morì senza finire il lavoro e a Michelangelo toccò il compito di scolpire in marmo le immagini del patrono di Bologna, san Petronio, del martire san Procolo e di un angelo ceroforo posto in basso a dx per illuminare il monumento. Nelle forme gonfie e tornite. Michelangelo sosteneva che la scultura dovesse avere per protagonisti figure dalle masse potenti e volumetriche, animate da energiche posture. Michelangelo andò a Roma con la fama di artefice capace di imitare perfettamente l’antico. -> Michelangelo, BACCO, 1496-97, marmo, Firenze, Museo Nazionale del Bargello, p.306 Appare come una statua di assoluto studio archeologico. Scolpito in tutto tondo e quanto mai studiato nell’anatomia e finito con tanta accuratezza. Faccia lieta, occhi persi per l’amore nei confronti del vino. Ha nella mano dx una tazza che ha all’intento il liquore e che ammira con sguardo fisso ciò che da lui stato creato. -> Michelangelo, MADONNA COL BAMBINO, SAN GIOVANNINO E QUATTRO ANGELI (detta Madonna di Manchester), dalla Collezione Borghese a Roma, 1497, tempera su tavola, Londra. national Gallery, p.307 Al centro siede la Madonna, a seno scoperto, accompagnata dal Figlio che ha come compagno di giochi san Giovannino. Ai lati due coppie di angeli, ma una di queste è solo abbozzata, dal momento che il dipinto non è mai stato finito. Il modo in cui le pieghe dei panni si gonfiano sulle ginocchia della Vergine, il suo volto carnoso incorniciato dalla riccia capigliatura, riecheggia nelle figure dipinte. Michelangelo si astiene da qualsiasi ornato e sfondo architettonico, le figure si ergono solide su di una superficie neutra, come fossero sculture e il pittore è attento a studiarne le forme volumetriche, dando non troppa importanza al colore, tanto da tendere quasi al monocromo. -> Michelangelo, PIETàò, 1498-99, marmo, Roma, Città del Vaticano, Basilica di San Pietro, p.308 11 27 agosto 1498 il cardinale Jean Bilhéres de Lagraulas, ambasciatore francese a Roma, stipulò il contratto con il quale l’artista si impegnava a realizzare una Pietà di marmo, cioè una Vergine Maria vestita, con Cristo morto in braccio a grandezza naturale, da collocare nella Cappella di Santa petroniana in San Pietro. Il soggetto non era troppo diffuso nella scultura italiana. La pietà voleva apparire scolpita in un solo salto ma poi veni fuori che quella scultura venne realizzata in più parti. Inoltre è l’unica opera firmata dal Buonarroti sulla fusciacca che cala sul petto della Venere perchè i pellegrini tendevano a scambiare l’autore per un altro. AI culto della bellezza ideale del Neoclassicismo Laurenziano sembrano richiamarsi anche i volti avvenenti del Cristo e della Vergine, che Michelangelo raffigurò giovanissima, attirandosi qualche critica. Quest'opera chiudeva un secolo e ne annunciava un’altro, annunciava la stagione della Maniera moderna che si sarebbe presto aperta a Firenze, con il ritorno Michelangelo in patria. 86 CAPITOLO 28 - FIRENZE ALL’INIZIO DEL CINQUECENTO: LEONARDO, MICHELANGELO, RAFFAELLO 1) Il David di Michelangelo: un simbolo della Repubblica Vasari chiama “maniera moderna” la fase più matura del Rinascimento, distinguendo i suoi campioni in Leonardo, Raffaello e Michelangelo. Rappresenta il momento culminante, quello in cui i maestri riescono a superare gli antichi e la natura stessa. Questo periodo staglia il suo instancabile motore nella Roma di Giulio Il e di Leone X. La miccia era stata innescata a Firenze, dove agli inizi del secolo, a pochi anni dalla morte di Savonarola la città si ergeva a capitale di uno Stato repubblicano orgoglioso della propria libertà. -> Michelangelo, DAVID, da piazza della Signoria a Firenze, 1501-1504, marmo, Firenze, Galleria dell'accademia, p.317 Nel 1501 gli operai della Cattedrale di Firenze commissionarono a Michelangelo, ormai rientrato in patria da Roma, una statua dell’eroe biblico, David, da collocare a notevole altezza su uno dei contrafforti del Duomo. Per questa ragione gli affidarono un enorme blocco di marmo. Una volta terminata ci si pose il problema di dove collocarla, perché un’opera del genere su uno dei contrafforti del Duomo sarebbe stata sprecata. Alla fine si stabilì di collocarlo davanti a Palazzo Vecchio, questa scelta era giustificata dal significato politico della statua eletta a simbolo della Repubblica. Il giovinetto David, prima di diventare re degli Israeliti, aveva ucciso il gigante Golia, capo dei Filistei, con un preciso colpo di fionda, salvando così il suo popolo. Per questa ragione David era una figura cara ai fiorentini, simbolo di libertà dello stato, tanto che già nel ‘400 Donatello e Verrocchio lo avevano effigiato in statue di bronzo a tutto tondo, ma la differenza tra queste due opere e quella i Michelangelo è abissale e non solo per le dimensioni, che ora diventano colossali. Nei bronzi ‘400eschi David appare come un adolescente dalle forme effimere, trionfante sulla testa mozzata a terra del nemico sconfitto. Michelangelo invece raffigura un giovane atleta completamente nudo, dal fisico perfetto, reso attraverso uno studio anatomico. David non ha ancora vinto ma è pronto all’azione, è come se squadrasse Golia con sguardo minaccioso e la fionda poggiata sulla spalla, prima di lanciare contro di lui il corpo mortale. La posa dunque appare carica di energia: il peso del corpo è posato tutto sulla gamba dx, sopra si distende il braccio dx, mentre quello sx sale e scarta a impugnare l'arma. Il capo è girato e la gamba sinistra si flette, in una alternanza tra le parti in tensione e rilassate, che si richiama al contrapposto della scultura antica. Non c’era eroe migliore per ergersi a difensore della Repubblica di Firenze e non c’era statua più riuscita fin dai tempi degli antichi. 2) La Battaglia di Anghiari e la Battaglia di Cascina: Leonardo e Michelangelo Pier Soderini sentiva l'esigenza di far decorare la Sala del Consiglio Grande in Palazzo Vecchio. Uno spazio assai vasto, che Savonarola aveva fatto costruire per accogliere le riunioni del consiglio popolare. L’idea era di dipingere le pareti con scene di battaglia, passate affermazioni militari della Repubblica. Si pensò a due enormi affreschi: il primo fu richiesto a Leonardo e il secondo a Michelangelo, ma nessuno dei due è giunto fino a noi e il Salone dei Cinquecento appare oggi nelle forme che avrebbero avuto più di cinquant'anni dopo grazie a Vasari. -> COPIA DELLA BATTAGLIA DI ANGHIARI DI LEONARDO, p.319 Chiusa la lunga parentesi milanese e finito un breve soggiorno a Venezia, Leonardo era rientrato in patria nel 1503 era tornato a Firenze e sul finire dell’anno ricevette la commissione di dipingere nel Salone di Palazzo Vecchio l’episodio della Battaglia di Anghiari: lo scontro del 1440 in cui i fiorentini avevano sconfitto l’esercito del signore di Milano Filippo Maria Visconti. La passione di Leonardo per i cavalli e i moti dell'animo fece sì che la storia della battaglia si focalizzasse sulla scena in cui un gruppo di cavalieri si azzuffava per la conquista dello stendardo nemico. 87 che Raffaello ancora si richiama, come indica il confronto con il ritratto di Francesco delle Opere, dipinto da Perugino nel 1494. In Raffaello vi è una concretezza assai maggiore del corpo e degli eleganti indumenti che lo ricoprono, ben evidenziata dalle ampie maniche rosse della veste di Doni. Un carattere che risalta pure nella moglie Maddalena Strozzi, ritratta con un’ampia scollatura ingioiellata da un prezioso pendente. Nella sua impostazione, con la mano destra poggiata su quella sinistra, non è difficile riconoscere un omaggio al più celebre dei ritratti di Leonardo: la Gioconda. -> Leonardo, RITRATTO DI LISA GHERARDINI (detto LA GIOCONDA), 1503, olio su tavola, Parigi. Musée du Louvre, p.327 . La Gioconda è uno dei dipinti più famosi di tutti i tempi. È il ritratto di Lisa Gherardini, moglie del fiorentino Francesco del Giocondo, e da ciò derivano gli appellativi di “Gioconda” e “Monna Lisa”. Vasari dice che Leonardo penò per quattro anni di fronte a quel ritratto e poi lo lasciò imperfetto. La tavola non fu consegnata al committente e il maestro la portò con sé per il resto della vita: essendo egli in Francia quando è morto è questo il motivo per cui la Gioconda si torva al Louvre. Anche in questo dipinto è facile ritrovare gli elementi della pittura di Leonardo: lo sfondo di paesaggio montuoso e nebuloso, solcato da corsi d’acqua, l’attenzione a ogni dettaglio naturale, l’uso accuratissimo dello sfumato e l'atmosfera che ne consegue, l’espressività intesa a rendere i moti dell’animo, con quel sorriso che ancora oggi attira davanti a lei masse di turisti. -> Raffaello, TRASPORTO DI CRISTO AL SEPOLCRO (detto DEPOSIZIONE BAGLIONI), da san Francesco al Prato a Perugia, 1507, olio su tavola, Roma, Galleria Borghese, p.328 Una tavola in cui esprime la devozione attraverso una composizione bilanciata e un gusto per il colore denso e ricercato, con un’affermazione di matrice leonardesca e squarci di sereni paesaggi. Fu commissionata da Atalanta Baglioni in memoria del figlio Grifonetto, ucciso nel 1500 a Perugia. Grifonetto aveva assassinato nel sonno tutti i parenti maschi, ad eccezione di Giam paolo Baglioni, che si vendicò, facendo uccidere Grifonetto sulla principale strada perugina, sotto gli occhi della madre. Il dipinto vuole alludere a questa tragica vicenda, e più che una deposizione pare un trasporto del Cristo al sepolcro. Ambientato in un paesaggio verdeggiante, dove si riconosce in lontananza il Golgota con le croci. Sotto, una luttuosa Vergine sviene tra le braccia delle pie donne, una di queste inginocchiata a terra si volta a sorreggerla (posizione che ricorda nuovamente il Tondo Doni). È un’azione drammatica, dove un ruolo da protagonista è svolto dal giovane atletico e di spalle con i muscoli tesi a sorreggere Cristo. CAPITOLO 29 - LA NATURA DI VENEZIA: GIORGIONE E LA GIOVENTÙ DI TIZIANO E LORENZO LOTTO 1) Venezia agli inizi del secolo: Durer e Giovanni Bellini -> Vittore Carpaccio, LEONE DI SAN MARCO, dal Magistrato dei camerlenghi a Rialto, 1516. tempera su tela, Venezia, Palazzo Ducale, p.330 Nel palazzo ducale di Venezia si conserva una tela in cui Carpaccio ha raffigurato il leone di San Marco, simbolo dell’evangelista e al tempo stesso dell’antica repubblica. Il leone alato è la forma sotto la quale un angelo sarebbe apparso a san Marco, naufrago nelle lagune. Il leone si staglia per metà sulla terra e per metà sull’acqua, a sottolineare il potere della Serenissima nell’entroterra veneto e nell’Adriatico; sul fondo è una veduta di Venezia e della Laguna, solcata da velieri. Il dipinto proclama l’orgoglio di una repubblica che aveva saputo resistere alla minaccia della Lega di Cambai ed era sopravvissuta alla dura sconfitta nella battaglia di Agnadello. 90 -> Albercht Durer, FESTA DEL ROSARIO, da San Bartolomeo in Rialto a Venezia, 1506, olio su tavola, Praga, Narodnì Galerie, p.332 Venezia era da sempre una città cosmopolita e multiculturale, ponte fra Oriente e Occidente. La tavola fu commissionata dal potente mercante e banchiere tedesco Jacob Fugger, per l’altare della chiesa officiato dalla comunità nordica, che si riuniva in una confraternita dedicata al Rosario. Sullo sfondo di un paesaggio alpino Durer ha allestito una scena colorata e fastosa, dove la madonna e il Bambino incoronano il papa imperatore, supreme autorità terrene, mentre San Domenico , promotore del culto del Rosario, e alcuni angeli incoronano il largo seguito di personaggi, tra i quali è pure pittore ritrattosi in alto a dx con la lunga capigliatura rossa e un foglio che reca la data di esecuzione. In basso al centro nell’angioletto che sta suonando dure ha voluto rendere omaggio a un motivo caro a Giovanni Bellini, maestro per il quale aveva grande considerazione. -> Giovanni Bellini, RITRATTO DEL DOGE LEONARDO LOREDAN, 1501-02, olio su tavola. Londra, national Gallery, p.333 in alto Bellini continua ad essere un assoluto protagonista della pittura veneziana. Verso il 1501 aveva ritratto il doge Leonardo Loredan in una tavola oggi nella National Gallery di Londra. Eletto nel 1501, Loredan sarebbe stato a capo della Repubblica fino al 1521, vivendo il difficile periodo della guerra con la Lega di Cambrai. Bellini lo ritrae ancora nella maniera di Antonello da Messina, affacciato da un davanzale dove è fermato il cartiglio con la firma del pittore. Il doge è di tre quarti, il volto, la veste damasca e il copricapo dogale sono ritratti con una quasi geometrica precisione e la sua figura risalta su un inedito e luminosissimo fondo azzurro lapislazzuli, tanto elegante quanto prezioso. -> Giovanni Bellini, MADONNA COL BAMBINO E | SANTI PIETRO, CATERINA D’ALESSANDRIA, LUCIA E GIROLAMO, 1505, olio su tavola, Venezia, San Zaccaria, p.333 in basso Ricorre un modello di sacra conversazione cui Giovanni ci ha abituati da sempre. La Madonna e il Bambino stanno su un trono sopraelevato rispetto ai santi che li accompagnano, di fronte a un’abside all’antica, decorata da un mosaico nella calotta. In basso, al centro, suona il solito angelo. Ridettò alla consuetudine, il vecchio Bellini, aggiunge qualche novità, a partire dal pavimento prospettico a scacchi bianchi e rossi. L'abside non appartiene più a un edificio sacro, ma a un loggiato, aperto lateralmente sul paesaggio. Le figure infine non appaiono più spavalde e smaltate come il doge Loreda. | santi alle estremità, Pietro e Girolamo, hanno un carattere assorto e ombroso, reso con un denso sfumato. Si dispongono sul proscenio come altrettante apparizioni ma non comunicano tra loro. Bellini stava ancora una vota mutando e questa volta aveva fatto tesoro del paesaggio del paesaggio a Venezia di Leonardo nel 1500 e delle novità della pittura di Giorgione, tutta giocata su una vivace naturalità, dove uomini e cose si vestono di una luce sfumata. -> Giovanni Bellini, MADONNA C OL BAMBINO, 1510, olio su tavola, Milano, Pinacoteca di Brera. p.834 in alto Questa nuova man era belliniana si riflette in una serie di tavola per la devozione privata, dove la vergine col Figlio si mette in posa sul sapiente fondale di una campagna veneta d’entroterra popolata di rade presenze umane, e la composizione è tutta costruita tramite accorti accostamenti di colore secondo il principio del così detto tonalismo. Punteggiato di dettagli: borghi, capanne, cavalieri, pastori e soprattutto l’ara antica, sulla quale si appoggia un felino e che sul fronte reca in maiuscola epigrafica la scritta “Giovanni Bellini, 1510”. Il pittore era grande di età ma la sua pittura non invecchiava. 2) La nuova pittura di Giorgione Pittore che diede una svolta decisiva alla pittura veneziana. A Venezia nel 1507 ebbe la commissione di un telerò telerò per la Sala dell’Udienza in Palazzo Ducale, e nel 1508 quella di affrescare la facciata del nuovo Fondaco dei Tedeschi. 91 -> Giorgione, ADORAZIONE DEI PASTORI, 1500-05, olio su tavola, Washington, National Gallery, p.334 Ambienta la storia della nascita di Gesù nella campagna dell’entroterra veneto alle pendici delle alpi. Il minuscolo Gesù è disteso a tetra, è venuto alla luce in una grotta naturale che occupa circa la metà del dipinto, offrendosi come riparo ai genitori, al bue e all’asinello, mentre due umili pastori omaggiano il Bambino. L’altra metà del dipinto è riservata al paesaggio, dove tra cespugli e alberi verdeggianti ci si può sforzare a riconoscere una coppia di pastori con il gregge, un rivolo d’acqua e una dimora contadina, lontano sulla riva diun ampio specchio d’acqua si erge un borgo murato all'ingresso del quale si distingue il minuscolo bagliore di una torcia. La luce, quasi notterà, si specchia sulle pareti di alcuni edifici e proviene da sinistra, da un remoto orizzonte, parato dal muro delle montagne. Tutto dunque è giocato sulla luce e sul colore. Si osservi come l’incresparsi del manto arancione di san Giuseppe non sia reso attraverso il disegno ma per mezzo di un sapientissimo cangiare della cromia. Il volto dello stesso Giuseppe o quelli dei pastori sono sfumati con delicatezza. Probabilmente l’artista è mosso dalla pittura belliniana ma poi va oltre, superandola. -> Giorgione, MADONNA COL BAMBINO E | SANTI NICASIO E FRANCESCO, 1505, olio su tavola, Castelfranco Veneto (Treviso), Cattedrale, p.335 E un dipinto che muove dalla tradizione belliniana per rompere definitivamente con il passato. La scacchiera prospettica in basso, i colori ricercatissimi e la Madonna col Bambino sopraelevata su di un podio rispetto ai santi laterali li avevamo già visti, mentre è inedita la soluzione di rinunciare all’abside tanto cara alle pale veneziane dai tempi di Antonello e del giovane Bellini. Al suo posto un parapetto divide la zona dalle figure in primo piano da un retrostante paesaggio. Giorgione, inoltre, mette il gruppo di Maria e Gesù assai più in alto di qualsiasi altra pala e fissa su di loro l’orizzonte: in questo modo l’occhio del pittore scavalca il parapetto e ci permette di vedere un ampio brano di natura che sarebbe stato molto più nascosto, se l'orizzonte fosse stato, per esempio, all'altezza della pedana. Si tratta evidentemente di una scelta consapevole, indirizzata alla volontà di offrire alla veduta di paese un ruolo di assoluto rilievo. La pala fu destinata alla cappella che il condottiero Tuzio Costanzo aveva fondato a seguito della morte del figlio. Lo stemma di famiglia risalta al centro del sarcofago sottostante al podio mariano che allude non solo alla scomparsa di Matteo ma anche alla nobiltà di Costanzo. Il sarcofago è infatti in porfido, come quelli degli antichi imperatori romani. La famiglia era originaria della Sicilia e a memoria di ciò Tuzio richiese che insieme con san Francesco nella pala fosse raffigurato anche il raro santo guerriero siciliano Nicasio. Giorgione l’ha raffigurato cin una lucente armatura e l’alto vessillo dell'ordine militare, la croce bianca in campo rosso. Anche l’immagine di Nicasio era uno strumento per celebrare la gloria familiare. -> Giorgione, LA TEMPESTA, 1506-08, olio su tela, Venezia, Gallerie del’Accademia, p.336 Ignorava il soggetto e pensava a una sorta di scena di genere antecedente di un secolo a quelle che andranno di moda bel Seicento: un paesaggio illuminato da bagliore del fulmine di una tempesta, con una zingara e un sodato. In effetti si tratta di una descrizione quanto mai realistica in un temporale che abbatte su un borgo veneto, mentre nella vicina campagna una donna siede ad allattare il bambino, sotto gli occhi i un giovane. Si discusse molto sul tema del quadro che può essere forse identificato nell’episodio della condanna dei progenitori dopo il peccato originale. Il fulmine in lontananza allude all’ira dell'eterno e alla spada fiammeggiante dell’angelo che allontana Adamo ed Eva dall’Eden; i due si ritrovano così, un po’ spaesati, in primo piano: Eva nutre Caino, mentre Adamo reca l'asta di uno strumento di lavoro con il quale dovrà procurarsi da vivere. E una metafora della condizione umana. Giorgione dipinse spesso opere di questo tipo dai contenuti nascosti. -> Giorgione, DOPPIO RITRATTO, 1502-1505, olio su tela, Roma, Museo Nazionale di Palazzo Venezia, p.337 Si richiesero nuove tipologie di ritratti e Giorgione seppe essere un campione a riguardo. Per smarcarsi nettamente dalla tradizione antonelliana di Castelfranco guardò ancora una volta alla realtà e ai sentimenti, esprimendo in maniera originale i moti dell'animo, con la sua pittura fatta di luce e colore. Lo vediamo in quest'opera dove un giovane elegante si affaccia da una finestra in atteggiamento pensieroso, con la testa inclinata a poggiare sul braccio dx, mentre l’altra mano 92 antiquario, memore delle esperienze nella Roma di bramante e Raffaello. Lotto è un regista estroso, che lascia piena libertà all’indisciplinato atteggiarsi e all’esasperata gestualità degli attori, in una recita in cui non c’è distinzione tra protagonisti e comparse. Gli angioletti, che nella tradizione belliniana stavano ben composti a suonare ai piedi del trono mariano, si contorcono a stendere un telo , e i loro compagni più adulti, nella parte alta, giocano con gli elementi di un fastoso apparato effimero. 5) Sebastiano del Piombo prima di Roma Nella Venezia del primo Cinquecento si formò anche un pittore che avrebbe fatto fortuna nella Roma dei papi, tanto da ricevere nel 1531 l’ambita carica di piombatore delle bolle pontificie, per questo Sebastiano Luciani è noto come Sebastiano del Piombo. -> Sebastiano del Piombo. SAN GIOVANNI CRISOSTOMO E | SANTI CATERINA D’ALESSANDRIA, MADDALENA, LUCIA, NICOLA, SEBASTIANO E LIBERALE, 1510-11, olio su tela, Venezia, San Giovanni Crisostomo, p.343 Le opere di Sebastiano mostrano uno spiccato debito verso la pittura giorgionesca, come si vede in questa pala. Le fisionomie degli uomini e delle donne, la materia sfumata e la composizione marcata da grandi campire cromatiche ben accostate riecheggiano fedelmente il linguaggio giorgionesco. | personaggi appaiono grandiosi, segno di un’attenzione particolare di Sebastiano alla solennità e all’equilibrio competitivo, evidente anche nell’assoluta precisione della fuga prospettica del pavimento. L'aspetto più innovativo è tuttavia nell’allestimento della scenografia, che lascia poco spazio a un distante paesaggio e vince è dominata dalle robuste colonne di una possente architettura rinascimentale, all'ombra della quale siede Giovanni Crisostomo. Il patriarca orientale è effigiato di taglio, intento alla scrittura; lo affiancano sei santi, rinunciando a disturbare il suo lavoro. È una nuova modalità di interpretare la pala d’altare e la sacra conversazione, che adotta comunque un registro alto, tanto diverso dalle inquiete bizzarrie di Lotto. CAPITOLO 30 - UNA NUOVA ATENE: LA ROMA DI GIULIO Il E LEONE X 1) Giulio II, Bramante e il progetto del nuovo San Pietro Quando Michelangelo, nel 1501, tornò a Firenze per dare avvio all'impresa del David, Roma aveva già accolto l’urbinate Donato Bramante: un artista che sarebbe rimasto nell’Urbe fino alla morte, giocando un ruolo decisivo per i destini della Maniera moderna. -> TEMPIETTO DI SAN PIETRO IN MONTORIO (su disegno di Bramante), 1500-06, Roma, p.345 Il tempietto pur non avendo dimensioni eccessive si distingue per una misura monumentale e per l’aspetto sobrio e sfrontatamente classico. Bramante, infatti, adotta l'ordine dorico tanto nei capitelli delle colonne quanto nella rigorosa successione di metope e triglifi dell’architettura, a rievocare un antico mausoleo, costituito da una galleria anulare esterna a da un vano centrale sormontato da una cupola che richiama quella del Pantheon. Era da oltre mezzo secolo che a Roma girava l’idea di abbattere l'antica basilica costantiniana di San Pietro e sostituirla con una grandiosa architettura moderna, simbolo di una nuova Urbe. Ai tempi di Niccolò V, Bernardo Rossellino aveva avviato la demolizione di una parte del vecchio edificio e la costruzione di un nuovo coro, che avrebbe dovuto chiudere una vasta basilica pensata, allo stesso modo di quella costantiniana, per svilupparsi su cinque navate, ma dotata di una cupola, secondo un’idea di Leon Battista Alberti. A rilanciare e avviare definitivamente il cantiere du la mania di grandezza del nipote di Sisto IV: Giuliano della Riovere. Nel 1503 egli fu eletto papa e scelse di chiamarsi Giulio Il. Giulio Il si accorse subito delle capacità di Bramante, facendolo suo architetto di fiducia e vero e proprio regista del principali progetti. Nel 1506 Giulio Il fondò la nuova Basilica di San Pietro e 95 fece fondere a medaglia in memoria dell’evento, eseguita d autografo lombardo, Caradosso (p.346). Bramante aveva in mente una chiesa a pianta centrale a croce greca (cioè con quattro bracci della medesima lunghezza), sormontata da una grande cupola rotonda centrale ispirata a quella del Pantheon, e da quattro cupole più piccole, destinate a coprire le cappelle disposte tra i bracci della croce. Il magnifico edificio avrebbe avuto una facciata all’antica simile a un pronao classico, e dotata di una cupoletta. Una torre avrebbe dovuto innalzarsi a ognuno dei quattro angoli dell’ampio quadrato i cui era inscritta la croce greca e dal quale sporgevano solo le absidi, come si vede nella ricostruzione del progetto in pianta. Ogni elemento architettonico avrebbe parlato in latino antico e l'interno sarebbe stato dominato dal perpendicolare intersecarsi di due grandi navate coperte da un’ampia volta decorata decorata a lacunari. Per portare a compimento quel cantiere ci sarebbe voluto più di un secolo e quando Bramante morì erano stati innalzati appena i 4 piloni su cui, molto tempo dopo, sarebbe stata impostata una cupola assai diversa, disegnata da Michelangelo. Molti architetti dopo Bramante si sarebbero succeduti alla direzione della fabbrica. Nulla ritroviamo dell’immagine della medaglia, non ci sono le torri angolari, la cupola svetta in verticale, la pianta è a croce latina e si sviluppa su tre navate. -> SANTA MARIA DEL POPOLO (coro commissionato da Giulioll e progettato da Bramante). 1505-10, Roma, p.347 Per immaginare come sarebbe stato l’interno della basilica di san Pietro di Bramante si deve andare nella chiesa di Santa Maria del Popolo. Qui Giulio Il volle che, al di là, dell’altare maggiore, Bramante costruisse un nuovo coro, culminante in una solenne abside all’antica, preceduta da una volta con enormi lacunari. La campata precedente il coro vero e proprio reca nella volta una serie di affreschi, compiuti nel 1510 dal Pinturicchio, ancora secondo il gusto delle grottesche del tempo di Alessandro VI. Il netto contrasto con il vasto spazio progettato da Bramante ci fa capire quanto Roma stesse cambiando. Proprio sotto gli affreschi del Pinturicchio si innalzano nelle pareti uno di fronte all’altro, due monumenti sepolcrali, che Giulio Il commissionò per ricordare la memoria di due cardinali. -> Andrea Sansovino, MONUMENTO SEPOLCRALE DEL CARDINALE ASCANIO MARIA SFORZA, 1505-09, marmo, Roma, Santa Maria del popolo, p. 348 Le due tombe di Santa Maria del Popolo furono scolpite da Andrea Sansoverino. Quando Giulio Il lo chiamò a Roma nel 1505 per affidargli i sepolcri Andrea era uno scultore di successo. Realizzò quindi due tombe gemelle contraddistinte dal medesimo assetto competitivo. La prima ad essere stata scolpita fu quella di Ascanio Maria Sforza: nell'aspetto tripartito richiama palesemente la forma di un arco trionfale romano, ornato un po’ ovunque da motivi antiquari. Nel fornice centrale si erge il catafalco con il cardinale defunto, che non è disteso sul letto di morte, come si era usato fare fino allora, ma appare reclinato sul fianco con la testa poggiata su un braccio, come se stesse dormendo. È un modo per fare sì che lo spettatore possa vedere meglio il defunto e per offrire una visione più serena della morte rispetto al passato, tanto che questa soluzione troverà immediata fortuna, diffondendosi rapidamente nella scultura funeraria italiana ed europea. Nelle nicchie laterali il cardinale è accompagnato da due statue raffiguranti le virtù della Giustizia e della Prudenza, che somigliano a due divinità pagane. Ancora più pagane appaiono le due virtù soprastanti, sedute ai lati del coronamento pur essendo la fede e la Speranza si mostrano con la parte superiore del corpo scoperto, evocando la predilezione per il nudo degli scultori greci e romani. Andrea asseconda in tutto e per tutto la frenesia per la scultura antica che percorreva la Roma di primo Cinquecento. -> Agesandro, Polidoro e Atenodoro, LAOCOONTE, 40-20 a.C., marmo, Roma, Città del Vaticano Musei Vaticani, p.349 Nel 1506 fu fatta una scoperta archeologica che suscitò enorme clamore. Il gruppo raffigurava, con un notevole vigore espressivo, il sacerdote troiano Laocoonte che stando a quanto aveva raccontato Virgilio nell’Eneide, fu strangolato insieme con i figli da due 96 serpenti marini inviati da Atena, perché aveva cercato di convincere il suo popolo a rifiutare lasciato dai Greci. L’opera finì nelle mani del papa che incaricò Bramante di allestire un cortile delle statue nel giardino del Belvedere, facente parte del complesso Vaticano. Quella del papa era una collezione curiale, visibile solo all’interno dei rituali della corte pontificia. Quel cortile fu presto visitato da artisti, intendenti d’arte e viaggiatori, m curiosi di studiare da vicino quelle che vennero da subito considerate come le più importanti statue dell’antichità. Le forme e le espressioni di quei marmi iniziarono ben presto ad essere modelli per pittori e scultori. 2) Raffaello e la stanza della Segnatura È nel clima di questa Roma, impregnata di cultura antiquaria che Raffaello, dopo l’esperienza fiorentina, sarebbe matura ulteriormente, con inaspettata rapidità. Nel 1507 Giulio Il decide di abbandonare gli appartamenti al primo piano del Palazzo Vaticano, allestiti e abitati dal predecessore Alessandro VI, di cui aveva pessimo ricordo e del quale non voleva vedere tutti i giorni la faccia, dipinta dal Pinturicchio (p.268). Scelse cos’ di stabilirsi al secondo piano, in una serie di ambienti che fece ristrutturare da Bramante e che nel corso del 1508 iniziarono ad essere decorati da un’affollata équipe di maestri, che comprendeva pittori della generazione umbra come Perugino e Signorelli, il senese Baldassarre Peruzzi, i lombardi Giovanni Antonio Bazzi detto il Sodoma, Bramantino e Cesare Sesto. Il loro impegno, tuttavia, fu di breve durata: negli ultimi mesi dell’anno, infatti, Raffaello giunse a roma e probabilmente grazie al conterraneo Bramante, fu coinvolto nell'impresa. In meno di un anno il giovane pittore dimostrò il suo valore, facendo licenziare gli altri maestri e conquistandosi l’intera commissione che prevedeva di dovere affrescare le quattro sale oggi note come le “Stanze Vaticane” o “di Raffaello”. -> Raffaello, STANZA DELLA SEGNATURA, 1508-11, Roma, Città del Vaticano, Palazzi Vaticani p.350 La prima sala ad essere affrescata fu la Stanza della Segnatura, così chiamata perché, a partire dal 1540, avrebbe ospitato il supremo tribunale ecclesiastico detto “della Segnatura apostolica”. In origine lo spazio era invece destinato a ospitare la biblioteca personale e lo studio di Giulio Il. Per questa ragione, le immagini alludono alle discipline che si studiavano nelle università fin dal Medioevo e ai principali contenuti dei libri che dovevano essere conservati in appositi scaffali. -> Giovanni Antonio Bazzi detto il Sodoma e Raffaello, VOLTA CON ALLEGORIE DELLA TEOLOGIA, GIUSTIZIA, FILOSOFIA E POESIA, 1508-09, affresco, Roma, Città del Vaticano. Palazzi vaticani, Stanza della Segnatura, p.351 Secondo consuetudine, Raffaello avviò il suo lavoro dall’alto, dipingendo innanzitutto la volta, che era stata iniziata dal così detto Sodoma, un pittore che si era formato nella Milano di Leonardo e Bramante. A lui e a Bramante si deve la scelta di un assetto all’antica della volta che presenta forme monumentali nell’alternanza tra l’ottagono centrale e i tondi, i rettangoli e gli altri elementi che gli orbitato intorno. L’ottagono con lo stemma del papa e gli spiritelli che si affacciano in scorcio dall’azzurro del cielo, è di mano del Sodoma, e comporta un omaggio all’oculo della Camera degli Sposi di Mantegna (p.184). Raffaello volle mantenere questo dettaglio, dipingendo poi il resto della volta, dove spiccano nei tondi 4 figure allegoriche: la Teologia, la Giustizia, la Filosofia, la Poesia. AI di sotto di ognuna di esse, nelle pareti, Raffaello ha illustrato il medesimo tema attraverso una scena, secondo un programma dettato certamente da un colto letterato, e centrato su di un amalgama tra Cristianesimo e mondo classico. -> Raffaello, DISPUTA DEL SACRAMENTO, 1509, affresco, Roma, Città del Vaticano, Palazzi Vaticani, Stanza della Segnatura, p.352 Nella lunetta sottostante la figura della Teologia Raffaello dipinse la Disputa del Sacramento, o meglio ancora il trionfo dell'Eucarestia e della Chiesa. 97
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