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Riassunto 'Saul' Vittorio Alfieri, a cura di Laura Peja, Schemi e mappe concettuali di Drammaturgia

Philosophy and Religion in LiteratureAlfieri and his worksBiblical StudiesTragedy and Drama

Riassunto completo del manuale 'Saul' Vittorio Alfieri, a cura di Laura Peja, indicato nella bibliografia del corso di drammaturgia.

Tipologia: Schemi e mappe concettuali

2020/2021

In vendita dal 25/07/2022

matildeselva
matildeselva 🇮🇹

4.7

(21)

30 documenti

Anteprima parziale del testo

Scarica Riassunto 'Saul' Vittorio Alfieri, a cura di Laura Peja e più Schemi e mappe concettuali in PDF di Drammaturgia solo su Docsity! VITTORIO ALFIERI - SAUL Un poeta politico Il Saul, sola tragedia di argomento biblico nel corpus di Alfieri, costituisce per molti aspetti un unicum e la critica da sempre l’ha riconosciuto come opera di Alfieri più matura e riuscita. A lungo è stata preminente la lettura del Saul in chiave titanica “come dramma psicologico- morale di accesa coloritura romantica” questa interpretazione non deve indurre a trascurare la sua dimensione eminentemente politica che è il fulcro dell’opera. Alfieri infatti ha rivestito tanta importanza non solo in quanto padre della tragedia italiana, colui che si pone come conclusione circa l’incapacità degli italiani nel genere tragico e la necessità di fondere in Italia una tragedia svincolata da quella francese e che è riuscito a ritrovare un senso e una sostanza drammatica nei miti greci. Il suo impulso ha alimentato molto pensiero ed azione che hanno fatto la storia del nostro Paese. Va subito sottolineato che non esiste una reale contrapposizione tra dimensione poetica e politica in Alfieri, poesia e poetica germinano dallo stesso nucleo. La canonicità di Alfieri ha ragioni tecnico- poetiche e drammaturgiche che sono state ormai finemente indagate, ma non meno incisiva è la lettura politica che delle tragedie hanno fatto il Risorgimento e le sue scene teatrali. Non sarà nemmeno necessario ricordare le rilevanza di un tema come quello della libertà, che ritorna in tutte le carte costituzionali e fonda la “Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo” per cogliere la centralità dei temi alfieriani in un canone europeo. All’interno di una linea poetico- politica che ci pare coerentemente per segnare tutta l’opera di Alfieri, la tragedia del Saul mostra però tutta la sua singolarità anche per la complessità del personaggio eponimo: Saul è costruito con finezza di elaborazione psicologica in una incessante successione di contrasti e chiaroscuri e costituisce un altissimo esempio di personaggio in perenne contraddizione con gli altri e sé stesso, ondeggiante tra stati d’animo, dilaniato da sentimenti tanto profondi quanti contrastanti, che ne fanno al contempo re e un tiranno, un padre e un oppressore. Il conflitto tra tiranno ed eroe è moltiplicato: è lo scontro tra l’eroe David e il tiranno Saul, ma anche quello tra Saul e Dio, in cui la parte del tiranno toccherebbe a quest’ultimo, ed è anche il conflitto tra Saul- eroe e Saul- tiranno che avviene all’interno del personaggio stesso. L’approccio teatrologico degli ultimi decenni ha aggiunto l’attenzione per gli aspetti performativi che stanno al centro di una scrittura pensata proprio per la scena, come testimoniano gli scritti teorici di Alfieri e le sperimentazioni che egli stesso compì sulla scena come attore e capocomico. Non si dimentichi che persino il dare alle stampe le proprie opere viene subordinato alla verifica della loro efficacia in scena. Del resto già Ezio Raimondi aveva chiarito come Alfieri sia “uomo di teatro dalla testa ai piedi” e qui si intende soprattutto soffermarsi sulla contestualizzazione storica di una tragedia in profonda relazione con temi centrali nel dibattito e nella cultura coevi, espressione coerente della poetica di un autore la cui canonicità abbiamo già riconosciuto risiedere nell’impulso politico non meno che in quello artistico. Ancora una volta emerge la vocazione del teatro a farsi strumento di indagine e intervento sull’individuo e la società, laboratorio di idee e di cultura, in presa diretta con le questioni centrali che agitano ogni epoca. Centrale è il rapporto anche con il testo biblico assolutamente determinante, da cogliere nella pregnanza e nella relazione che testimonia tra Alfieri e la cultura del suo tempo. È in particolare la Torino ebraista quella in cui Alfieri respirò una temperie di studi biblici in cui “ardentissima” era la discussione “se il regime ebraico non fosse stato nulla più che un governo dispotico e tirannico, simile ad altri reggimenti orientali”. I dibattiti biblici sono il sintonico contesto in cui si sviluppa la riflessione alfieriana sulla tirannide e sulle degenerazioni del potere assoluto nelle diverse epoche storiche. Dunque Alfieri è certamente a conoscenza delle questioni di maggior interesse per gli ebraisti subalpini di fine secolo e dei dibattiti sulla poesia biblica che si intrecciano con quelli sulla tragedia e sul rapporto tra il teatro degli antichi e il sacro, tema che aveva acceso una vivace controversia in seno a quell’Accademia etrusca di Cortona. È personalmente anche un conoscitore almeno discreto della Bibbia che è il testo più presente nella biblioteca che Alfieri ricostruì sulle sponde dell’Arno dopo il 1792. Alfieri lesse con molta attenzione il racconto biblico e non avrebbe dedicato all’amico, Tommaso Valperga di Caluso, un’opera che non avesse trattato con il dovuto rispetto il testo biblico. La vicinanza all’ambiente culturale del Caluso induce il poeta ad approfondire il suo interesse per la Bibbia e ad affrontarla, spinto da domande ed urgenze culturali precise, che lo portano al di là della fedeltà assoluta a un dettato narrativo tra l’altro comunque troppo ampio per poter essere tutto ricompreso in un unico testo che mantenesse le caratteristiche di concentrazione ed unicità d’azione che Alfieri aveva deciso per le sue tragedie. Pagina di 1 18 Lo sguardo di Alfieri sul testo biblico ne coglie l’aspetto fondamentale di racconto delle origini della regalità e si concentra sulla questione dell’inevitabile degenerazione in tirannide della monarchia assoluta e sul rapporto tra sacerdote- profeta e re, tra potere religioso e politico che sta in effetti al cuore dei libri di Samuele, fonte principale della tragedia. In essi si raccontano gli eventi del periodo che vede emergere in Israele il profetismo e l’istituzione della regalità, introducendo una grande novità rispetto alla teo-politica dell’antico Egitto e degli altri regni mediorientali nei quali la divinità stessa si identificava con il potere. La sovranità e il sacro per la prima volta si separano. Alfieri non si addentrò mai a studiare con giuridica sottigliezza il problema delle forme di governo e tuttavia scrisse i due trattati citati, “Il panegirico di Plinio a Traiano”, “Il misogallo”, il dialogo “La virtù sconosciuta”, satire, commedie e alcune rime e lettere nonché tragedie per muovere guerra ai tiranni. La scelta che Alfieri fa del genere tragico è dovuta all’intenzione di rivelare a realtà del potere tirannico, in tutta la sua vergogna ed orrore, mettendola sotto gli occhi di tutti. Anche il Saul, apice di poesia va ricondotto in questa linea che marca l’intero percorso dell’Alfieri, costituendone un’occasione di approfondimento. Un eroe perplesso È nota la predilezione per Saul da parte del suo autore, infatti in questa tragedia l’autore ha sviluppato o spinta assai più oltre che nelle altre sue, quella perplessità del cuore umano, così magica per l’effetto. Questa perplessità è uno dei maggior segreti per generare commozione o sospensione in teatro. Colpisce la distanza che Alfieri sembra porre tra sé e il suo personaggio, che sarebbero così diversi in ordine alla perplessità del suo cuore, soprattutto perché sappiamo che altrove egli usa spesso espressioni identificative tra sé e Saul, applicando a se stesso ad esempio “il bramo in pace far guerra, in guerra pace” di Saul. Anche l’immagine della quercia non può non richiamare la celebre metafora della quercia di Saul. Si arriva nella “Vita” a creare una vera e propria sovrapposizione tra Saul morto da re e sé stesso, da re anch’egli “morto” alle rappresentazioni, sancendo quella che Guglielminetti ha chiamato “manifesta immedesimazione del creatore con la creatura”, il più vicino anche alla sua natura complessa e irrequieta, tormentata da ira e malinconia, oscillante fra impeti e sdegni eroici. Anche l’esistenza di ben due copie del Saul di mano del segretario Gaetano Polidori, unico caso in tutto il corpus, può essere un altro indizio della sua speciale attenzione e predilezione che Alfieri ebbe per il suo Saul. Forse i meccanismi di rimozione o negazione dell’Alfieri non ancora quarantenne saranno poi superati anche grazie al lavoro in scena nei panni di Saul, intrapreso nel 1793 e 1795, rendendo Alfieri consapevole della propria perplessità e addirittura in grado, all’altezza della Vita, di giocare sull’identificazione tra sé e il suo personaggio. Non è ormai improbabile che le dinamiche oggi note che rendono la scena un’esperienza forte di autocoscienza, abbiano potuto agire in qualche modo anche sull’Alfieri impegnato nell’interpretazione del suo personaggio. La specifica attenzione di Alfieri per il momento per formativo è già stata portata all’attenzione negli studi, mostrando l’incidenza del momento della messinscena sulla scrittura alfieriana. Vale la pena di sottolineare ancora l’apporto di conoscenza ed autocoscienza che l’esperienza performativa sembra aver avuto sull’autore stesso. “Alfieri” è associato strettamente alla performatività, sia nella citazione del “Parere”, sia nella “Risposta al Calzabigi”, là dove argomenta in difesa del “Polinice” sostenendo l’importanza di non togliere “perplessità, grandissima molla del cuore umano”. È molto interessante rintracciare il termine perplessità nella storia della filosofia e del pensiero che da Agostino arriva fino ad Alfieri, senza dimenticare il rilievo scritturale e teologico di questo concetto: essa infatti disegna in prima istanza una antinomia tra leggi e quindi, tutti quei casi in cui due principi antagonisti e inconciliabili si oppongono, preludendo al moderno concetto di caso di coscienza e al problema del “conflict of loyalties”, problema vicino ai temi del Saul in cui si fronteggiano sacerdoti e re, emblemi delle due leggi fondamentali al cui rispetto il cristiano si sente tenuto: quella di Dio e quella del principe. Se come scrive Agostino, le due città sono “perplexae” mischiate, non è possibile distinguere il bene dal male prima del Giudizio ultimo e la posizione scettica che considera impossibile giudicare affidandosi alla coscienza data la sua individualità, è portata all’estremo da Montaigne, autore tra i più amati da Alfieri. Alfieri legge molto anche Petrarca, di cui è famoso il “miro modo perplexus sum” del Secretum, in cui il poeta presenta la moderna insopprimibilità del contrasto tra ragione e passione, l’inconciliabilità del dissidio interiore che fa di lui campione anche nella scrittura delle coppe oppositive (come in Alfieri pace e guerra). La perplessità come condizione radicale dell’uomo è dunque idea familiare e cara ad Alfieri che non a caso la lega strettamente al teatro: con la sua costitutiva dialogicità, il teatro è infatti il luogo privilegiato del Pagina di 2 18 “Si tratta di una tragedia che egli vuole di cinque atti pieni, per quanto il soggetto dà del solo soggetto; dialogizzata dai soli personaggi attori, e non consultori o spettatori; la tragedia di un solo filo ordita; rapida per quanto si può servendo alle passioni, che tutte più o meno vogliono pur dilungarsi; semplice per quanto uso d’arte li comporti”. Una tragedia dunque sostanzialmente in linea con l’obbedienza alle regole pseudoaristoteliche, che in lui non è ossequio esteriore ma profonda sintonia: la sua tragedia non può che essere un’unica azione, tendenzialmente concentrata in stretti limiti temporali e sostanziale unità di luogo. Del resto, l’insofferenza illuministica per le tre unità, dichiarata da “De la Motte”, era già stata rintuzzata da Voltaire e poi da Lessing che nel 1768 aveva chiuso la sua “Hamburgische Dramaturgie” con una professione di fede aristotelica. Anche se l’ossessione illuministica del decoro e delle regole veniva superata intorno agli anni ’70 e col principio della varietà enunciato, in Italia, da Beccaria, Verri, in Alfieri il linguaggio delle passioni, che pure è il codice egemone, resta dentro un quadro debitore del razionalismo settecentesco di cui la sua poetica non abbandona motivi fondamentali come il culto della forma, l’attenzione al particolare, la salda fede nei classici, la pratica dell’imitazione. L’azione è dunque mirabilmente concentrata, al massimo grado nel Saul, dove la tragedia è raccolta, anzi sprofondata dentro il protagonista e gli antagonisti sembrano esistere solo perché egli chiarisca sé a se stesso, ma in generale tutte le tragedie. In esse i personaggi non sono molti e sono sempre tutti coinvolti nell’azione, rifiutati anche i personaggi secondari che sono sempre rappresentati da attori assai più mediocri che i primi. Non servono più nemmeno i messaggeri se le morti, rapide, avvengono in scena. L’azione procede in maniera serrata ed il protagonista, che nel Saul come spesso nelle tragedie di Alfieri non entra fisicamente in scena prima del secondo atto, è la presenza dominante fin dalla prima battuta, la lunga presentazione dell’antagonista David, pronto a morire per mano dei nemici o dello stesso re. Nel caso del Saul l’argomento non è di ispirazione greca o romana né preso dalla storia, ma si tratta di un personaggio biblico e il problema fondamentale posto dalle tragedie di argomento religioso, dal Cinquecento in poi era stato quello di una forma teatrale che si trova a dover conciliare contenuti segnati dall’ideologia provvidenzialista della Bibbia con la “concezione aristotelica di una tragicità fonata sull’intervento di una forza trascendente oscura, negativa, che schiaccia l’innocenza”. È difficile trovare nei personaggi biblici le caratteristiche indicate da Aristotele di personaggio intermedio che non si distingue per virtù o giustizia e che va in rovina per uno sbaglio non derivato da malvagità, Alfieri ribalta i canoni aristotelici e presenta un protagonista tutto positivo, una colpa che si trasforma in sacrificio cosciente e accettato e un dolore del lutto che diventa “gaudio del trionfo”. Non stupisce che Alfieri sceglie proprio quello che Frye ha definito “l’unico grande eroe tragico della Bibbia”, Saul, nella cui storia si insinua il sospetto che entro la natura divina si annidi un che di malvagio, un sospetto indispensabile in ogni grande tragedia. Da quel momento Saul è un uomo condannato, colpito da ricorrenti crisi di malinconia e impegnato in tentativi di liberarsi dalla minaccia di Davide. Se teorie recenti suggeriscono che il Saul biblico possa essere quale è in ragione di un’influenza della forma della tragedia greca classica sulle fasi di elaborazione finale del racconto biblico quale ci è giunto, è certo che il Saul alfieriano è quello che è in ragione del lavoro del suo autore sula forma della tragedia (dalle origini in poi ). Tragedie sul personaggio di Saul in età moderna ne erano state scritte già nel ‘500 e ‘600 francese: il primo a vedere Saul come eroe tragico era stato “Jean de la Taille”, “Claude Billard” che aveva proposto un Saul ribelle contro Dio, piuttosto celebre era stato poi il Saul di Pierre Du Ryer, sul cui modello Augustin Nadal scrisse un Saul nel 1705, tradotto in italiano dal senese Corsetti, il quale aveva tradotto dall’inglese anche un’ode di John Brown “The cure of Saul”. Tra le altre opere europee ricordiamo anche i testi in lingua inglese di Roger Boyle e di Aaron Hill, diversi erano stati anche gli oratori dedicati al personaggio nel corso del ‘700, tra cui il Saul musicato da Handel nel 1738 ed eseguito a Londra l’anno successivo, in cui risalto viene dato al’obnubilamento della mente del re accecato dalla gelosia ed odio. Anche Francesco Ringhieri, monaco olivetano forse non ignoto ad Alfieri pubblicò un Saul a Padova nel 1761e due anni dopo usciva il Saul di Voltaire, messo all’indice nel 1765, ma circolato clandestinamente, testo che Alfieri non può certo aver ignorato. È già stata messa in luce la complessità del rapporto di Alfieri con quello che era stato ovviamente uno dei più importanti modelli della sua formazione intellettuale, Voltaire, che passa dall’imitazione giovanile a una autentica aggressione nelle Satire della maturità, passando attraverso una fase aperta di emulazione evidente. Pagina di 5 18 Interessante notare che la manifestazione più sintomatica del passaggio delle posizioni di illuminismo voltairiano della giovinezza a quelle della maturità, violentemente antivoltairiane, è costituto proprio dalla profonda evoluzione dell’atteggiamento alfieriano nei confronti della religione. È inevitabile che il rapporto tra il Saul di Alfieri e quello di Voltaire non potesse che essere di opposizione, a partire dalla scelta di genere e di stile: Voltaire nel Saul decide di non rispettare le tre unità e scrive una tragicommedia con qualche tono da farsa. Il carattere di attacco satirico è molto preponderante rispetto alla qualità artistica del lavoro in cui si trova ripercorsa la vicenda di Davide con accenti grotteschi, personaggi ridotti a caricature, scene stravolte dall’avido David, circondato dalle scenate di gelosia delle moglie e dalla sete di potere di tutti gli altri. Anche gli episodi della vita di Saul presi in considerazione da Voltaire sono tutti quelli che Alfieri sceglie di tralasciare, concentrandosi sopratutto su eventi non presentati nel lavoro del filosofo francese. Durante il soggiorno romano Alfieri viene naturalmente in contatto con l’ambiente dell’Arcadia e alcuni letterati che avevano portato una riflessione sul tragico volta a superare il modello francese per recuperare quello greco. La loro mediazione crea un raccordo tra i testi alfieriani e non tanto dei modelli testuali specifici, quanto il sistema tragico della classicità. Anche l’incontro con l’ellenista francese Francois Jean- Gabriel La Porte du Theil avvenuto a Roma tra i 1776 e il 1786 confermerebbe la tensione di Alfieri verso un classicismo che trattiene e media una forza dirompente che è piuttosto una corda tesa, una sfida e rappresenta uno dei tanti modi con i quali la cultura tardo- settecentesca rielabora la cultura degli antichi, alla ricerca di un linguaggio che dia voce a una sensibilità inquieta, appropriandosi con forza a miti e immagini del passato per raccontare il presente senza alcun momento consolatorio. Attingere alle fonti della classicità, confrontarsi continuamente non solo con la lingua dei classici italiani, ma anche con il sistema tragico tradizionale per creare una sintesi originale. È certo che la drammaturgia antica (Sofocle ed Euripide) e il confronto con quel sistema sono fondamentali per Alfieri. Oltre agli antichi, Voltaire e anche Shakespeare termini di confronto molto importanti per il Saul di Alfieri, sono Corneille, Crébillon e le opere della classicità francese tratte dal testo biblico, in particolare l’Esther e l’Athalie di Racine. Anche un testo come il Davide di Apostolo Zeno non poteva non essere un riferimento per chi volesse proporsi sulla ribalta tragica italiana con un’opera del personaggio di Saul. E pure una sintetica carrellata sui modelli e fonti del Saul non può dimenticare l’influenza esercitata da testi fondamentali sotto il profilo espressivo, di cui si riscontrano sintagmi ed echi nel dettato tragico, come le “Poesie di Ossian “ dello scozzese Macpherson, esempio massimo di quel recupero del primitivo in cui si inseriva anche il rinnovato interesse per la poesia biblica e i poemi omerici. Non manca l’influenza dei grandissimi: Dante, Petrarca, Ariosto, Tasso. La creazione del personaggio tra idealizzazione e condanna Come noto, Alfieri si dedica alla lettura sistematica della Sacra Scrittura a partire dal 1799, ma all’altezza del 1782 si è già compiuto l’importante incontro con alcuni libri del grande codice, cui Alfieri si rivolge sotto l’influsso dei nutriti studi biblici del ‘700 Piemontese e preceduto da molti esempi nel teatro. Alfieri aveva a disposizione la Vulgata latina e la traduzione italiana di Giovanni Diodati, che egli stesso esplicitamente cita nella Vita quando racconta dei suoi studi biblici più sistematici e tardi, quando la lettura avverrà dal testo greco e si confronterà non solo con il Diodati e il testo latino ma con una traduzione interlineare fedelissima latina del testo ebraico. Sappiamo però che una coppia del Diodati era in suo possesso fin dalla fine degli anni ’70. Fin dal marzo 1782 si era dato alla lettura della Bibbia, non però regolatamente con ordine, si infiammava del molto poetico che si può trarre da codesta lettura, ideò e distese poi verseggiò anche il Saul. I libri in cui è narrata la vicenda di Saul sono quelli che la Bibbia dei Settanta chiamava Primo e secondo libro dei Regni e la Vulgata latina Primo e secondo libro dei Re, mentre la moderna Bibbia di Gerusalemme li chiamava Primo e Secondo libro di Samuele. Sicuramente nella vicenda di Saul, Alfieri trovava una grande quantità di elementi di straordinaria qualità teatrale: duelli e battaglie, famiglie e tribù sterminate, intrighi a corte, segreti e menzogne, accuse, un re pazzo, vari tipi di amore (di un adulto per un adolescente, di due uomini eccetera), mantelli strappati, un lancio di frecce, una spada arma di suicidio. Diversi di questi elementi saranno però tralasciati: Alfieri non è Shakespeare e, soprattutto, la sua tragedia vuole concentrarsi su alcuni aspetti senza disperdersi. Anche la scena dell’evocazione del fantasma, che in primo momento era prevista viene poi abbandonata. La critica ha sottolineato l’aderenza di Alfieri al gusto illuminista e Alfieri dice che nelle sue tragedie non si introducono né ombre visibili e parlanti, né lampi, né tuoni. E così nel Saul l’ombra di Samuele diviene una proiezione, un fantasma della mente. Pagina di 6 18 D’altro canto un meraviglioso troppo shakespeariano e suggestivo sarebbe fuorviante, si tratterebbe di una scelta coerente con l’ipotesi che sostiene in questo saggio che tra le cose cui tiene maggiormente Alfieri nel Saul ci sia la costruzione coerente, pur se di personaggio contrastato, della figura di Saul in rapporto al potere con le sue inevitabili degenerazioni in tirannide e nel conflitto tra potere politico e potere religioso. Nel racconto biblico dell’instaurazione della monarchia Alfieri sembra trovare conferma alla sua condanna del potere assoluto, il popolo chiede un re e nonostante i tentativi di dissuaderlo, insiste nella sua richiesta in quanto vuole essere come le altri nazioni che hanno un re. Samuele annuncia gli aspetti negativi che deriveranno per il popolo dall’introduzione di un re, che nei fatti sarà un tiranno. Nel condannare la monarchia assoluta, Alfieri trova dunque avallo nel racconto biblico della sua istituzione, d’altra parte egli non esaspera i tratti da tiranno di Saul, creando così un personaggio che, da una parte, diventa mediano e dall’altra costituisce un valido bilanciamento di quel potere sacerdotale che viene messo sotto accusa. È ben vero che nella tragedia molte accuse ai sacerdoti sono messe in bocca ad un personaggio antipatico come Abner, di cui gli eroi positivi diffidano e che appare di per sé sospetto, quello che egli dice nel secondo atto a Saul, però, è quanto, quasi alla lettera, viene narrato nella fonte biblica. Vediamo le accuse di Abner che sembrano date dal fatto che Davide è obbediente a Samuele innegabilmente ligio alle questioni religiose. Sul fatto che sia necessario che Saul cada prima che David possa innalzarsi, si tratta di una cosa ovvia, se con innalzarsi si intende diventare re. Certo, Abner potrebbe non indugiare su questi aspetti e potrebbe usare un’espressione passiva o impersonale, senz’altro la sua è una strategia retorica precisa, è un sobillatore, non un calunniatore. David stesso loda molto il piano di battaglia che ha pensato Abner e infatti non lo modifica e ragiona sul fatto che quello che manca ad Abner è solo il cuore dei soldati, che invece David ha. In effetti la disfatta sarà siglata dalla decisione di Saul di rimandare la battaglia per fare il contrario di quel poco solo che ad Abner aveva suggerito David e cioè di combattere verso il calar del sole. Al colmo del furore contro Achimelec, Saul comanda ad Abner di uccidere il sacerdote. Certo il re è pazzo (e rinviare la battaglia gli è fatale perché nella notte i Filistei attaccano) ma così gli è anche concesso dire cose che forse altrimenti sarebbe stato difficile scrivere in una tragedia (specie se con l’intenzione di dedicarla al Papa). (Su questa questione della prima idea di Alfieri di dedicare la tragedia al papa si veda quanto egli stesso scrisse nella Vita dove racconta dell’udienza di papa Pio VI al quale dona la prima stampa delle tragedie e poi, rispondendo alle lodi del pontefice che gli chiede se ne abbia composte altre: “gli risposti che molte altre eran fatte, e tra queste un Saul, il quale aveva un soggetto sacro intitolato a sua santità, se non lo sdegnava”. E il papa si scusò dicendo che non poteva accettare la dedica di cose teatrali). Alfieri si propone sempre più chiaramente di evitare che Abner risulti una figura nettamente negativa, e lo crea di proposito abbastanza ambiguo da lasciare il dubbio sulle teorie che sostiene. Nel passaggio dalla stesura alla versificazione della tragedia, in primo luogo elimina o attribuisce ad altri personaggi le accuse volte ad Abner che nella stesura provenivano da David. Elimina ad esempio il passaggio con riferimento alla grave accusa di voler spingere Saul alla rovina, Gionata si limita a condannarlo come perfido, falso e fondamentalmente invidioso di chi abbia più virtù di lui. La stesura definitiva elimina dunque le allusioni alla gelosia di Abner e il breve monologo di David non fa alcun commento negativo sul consigliere del re, cui anche la mancanza del cuore dei soldati non è imputata a colpa: “Davide ce l’ha, perché a lui li concede Iddio”. Sono modifiche e tagli significativi funzionali a nobilitare David ed inoltre, Alfieri tiene a non squalificare il personaggio di Abner. L’attenzione che Alfieri riserva a quest’ultimo personaggio è confermata dal fatto che nella messinscena del 1793 in casa dell’autore, la parte di Abner viene affidata all’amico e attore dilettante ed inoltre nel “Parere”, esprime un laconico giudizio riguardo questo personaggio, affermando che non gli pare vile. Lo scontro tra potere politico e potere religioso Se Abner non è in realtà così negativo come spesso è stato sostenuto è perché il rapporto tra potere politico e potere religioso non può essere ridotto ad argomento della menzogna un vile: è una questione evidentemente centrale per Alfieri e delicata e dunque necessariamente da trattare con qualche accortezza, palleggiandola ad esempio tra un personaggio minore e facilmente liquidabile come negativo e il protagonista, che però da evidenti segni di pazzia. In III, 4 Saul rientrato in sé stesso, di nuovo si infuria perché David che già gli è intollerabile per il suo parlare come un sacerdote, si mostra cingendo la spada che non avrebbe più dovuto usare e invece il sacerdote Achimelech gli ha dato. Accanto al più intimo scontro tra Saul e Dio e al dissidio interiore che di tante sfumature si tinge, elementi tutti che non si può negare facciano parte di quel “tutto assolutamente” che lo stesso Alfieri riconosceva esserci in Saul, c’è nel testo alfieriano anche lo scontro tra potere politico e potere religioso. Pagina di 7 18 Quando infatti fa digiuno per sé e per tutto il popolo non fa, come del resto rivela anche il figlio Gionata, una cosa saggia come capo militare: affama, indebolendolo, il proprio esercito. Di più, dato che Gionata non sapendo inizialmente del voto è proprio colui che lo trasgredisce, Saul ne decreta la morte. Ma Gionata è il campione che è stato essenziale per la vittoria, e se già il fatto che Gionata sia il campione in battaglia, più del padre, non dà un’immagine troppo positiva di Saul, ancora peggio Saul esce da questa situazione perché il popolo si oppone alla uccisione del campione. Dunque, Saul ha fatto un giuramento che non era il caso di fare, si è mostrato condottiero poco avveduto e alla fine si ritrova a dover non rispettare il proprio giuramento ed obbedire a lui, che è il re, a quanto deciso dal popolo. La morte di Saul è poi legata alla sconfitta in battaglia e nel testo biblico si parla delle sue insegue portate come trofeo ad adornare i templi nemici. Davide morirà di vecchiaia e vincerà tutte le guerre, mostrandosi un abile guerriero sin dai tempi del duello con Golia. Saul è intrappolato in caratteristiche che lo rendono assimilabile ai Giudici, in parte a Davide, ma i tempi ormai sono maturi per la monarchia. Alfieri però non esagera nel sottolineare le colpe di Saul e lo idealizza rispetto al testo biblico, tralascia tutta la parte relativa al voto di digiuno, alla condanna del figlio, alla prevalenza della volontà del popolo sulla sua. Del difficile rapporto Saul- Gionata evita anche un’altra contraddizione presente nel personaggio biblico e cioè che, subito dopo essersi arrabbiato con Gionata perché non tutela il proprio futuro da re (aspetto che Alfieri recupera), nella Bibbia Saul scaglia una freccia contro Gionata, mostrando dunque un attaccamento relativo al suo erede. Lascia cadere la visita del re ad una negromante e l’evocazione del fantasma di Samuele, evitando così di mostrare un re che contro le leggi divine e le sue stesse emanate in precedenza si serve della negromanzia e anche di sottolineare la necessità che continuerebbe a sentire Saul di farsi guidare da Samuele. Ridimensiona la vicenda persecutoria di Davide, se non altro portandola tutta allo scoperto ed evitando di mostrare un re spergiuro che cerca di uccidere chi ha giurato non toccherà. Tutte queste operazioni di “idealizzazione” di Saul servono ad Alfieri per poter meglio far risaltare il contrasto con i sacerdoti. Si tratta anche di aggiustamenti e operazioni funzionali a un miglior disegno del teorema che l’Autore vuole sostenere per cui la degenerazione in tirannide è tipica di ogni potere assoluto, anche di quello che potrebbe sembrare un buon potere. In questo senso, mostrare un re valoroso e capace che non può sottrarsi al destino fatale di diventare tiranno è molto più potente che mostrare la degenerazione in tiranno di un re che già si è mostrato di incerto valore e anche onore, trovandosi più volte a mancare alla sua stessa parola. È lo stesso procedimento retorico che si trova nella “Vita” là dove parlando del re del Piemonte, ne tesse le lodi, proprio per sottolineare che anche di un re esemplare bisogna tremare. E si tratta anche di quanto già chiaramente sostenuto dall’autore nel “Della tirannide”, là dove il discorso si apre sulla definizione “Cosa sia il tiranno” e vi si legge che l’Autore si fosse trovato poi, dovendo definire il principe in un altro suo “libercolo” a “rubare” a se stesso la sua definizione di tiranno. Iniziare l’opera affermando che nonostante la diversità del nome, c’è una sostanziale identità tra il principe e il tiranno è un messaggio molto preciso e molto deciso. La forza e la paradossalità del discorso è esplicitamente insistita: più volte Alfieri sottolinea che uno dei mali peggiori della tirannide sarebbe proprio il suo non essere abbastanza efferata e quindi essere considerata tollerabile dalla opinione comune. Anche nel Panegirico di Taiano la tesi è chiara, ovvero che la grandezza di Traino poteva essere solo con la possibilità di restituire a Roma e al suo senato la possibilità di decidere per il futuro, ogni altra scelta avrebbe fatto prevalere la schiavitù. Su questa sua linea di Alfieri, bisognerebbe anche presumere che David poi dovrà degenerare in tiranno e Alfieri trova un appiglio nella Bibbia anche per questo. Davide poi si pentirà e verrà perdonato da Dio, ma ad un certo punto, preso da passione per Bersabea, ne manda il marito Uria a morte certa in battaglia ed è proprio dall’unione di David con Bersabea che nascerà il successore al trono, Salomone. La stirpe regale è segnata dal peccato/tirannide già nel suo concepimento, la vicenda di David e Bersabea è celere e Alfieri può contare sulla notorietà di questo episodio, nonostante un abbaglio di ciò si possa intravedere nella tragedia. È stato imputato di aver troppo idealizzato Davide, là dove nel dialogo d’addio con Micol emerge una forse eccessiva insistenza di Davide sulle ragioni di opportunità per lui che Micol non lo rallenti accompagnandolo nella fuga. Alfieri dipinge anche un innamorato e passionale David, nonostante ne riveli l’intenzione di sbarazzarsi di una moglie che sarebbe di impaccio per la fuga. Sicuramente scrive per il teatro e si vuol garantire anche una cena di sicuro effetto per un pubblico che ai duetti amoroso era avvezzo, ma non è da escludere una volontà allusiva. In ogni caso ciò che Alfieri coglie è la contraddittorietà instia nel potere e la perplessità della condizione umana. Pagina di 10 18 Anche la dimensione di figura di passaggio che Saul ha nella Bibbia ad Alfieri non sfugge, egli preserva il valore del re in ragione del maggior contrasto con i sacerdoti, se nella Bibbia l’età di Saul non risulta un elemento di rilievo, da subito in Alfieri emerge il rimpianto per i tempi passati e viene subito introdotto il tema della vecchiaia, ampio e suggestivo, in questo caso anche necessario all’Alfieri per la costruzione della sua mirabile architettura, indissolubilmente intrecciata, di introspezione, pensiero politico e sapienza drammaturgica. Un testo per la scena e un padre vittorioso Il dramma di Saul si apre e si chiude con un soliloquio: I, 1 è affidata a David, V, a Saul. David sul far del giorno, si augura la morte per mano dei nemici anche se sa di doverla piuttosto temere da parte dello sconoscente Saul. Saul, sul finire della notte successiva, si trafigge con la sua stessa spada e all’Empia Filiste si consegna ma “almen da re qui morto” dopo aver affidato l’unica figlia superstite Abner. L’impianto della tragedia rispetta le unità pseudoaritoteliche di tempo e di luogo, oltre che di azione. La scena è il capo degli Israeliti come apprendiamo dalle prime parole di David oltre che dalla didascalia e l’azione si consumerà nell’arco di 24h: è l’alba quando David arriverà al campo e prima dell’alba successiva gli israeliti saranno attaccati e sconfitti. Le scene si susseguono in continuità perfetta, con spesso almeno uno dei personaggi che resta in scena, senza interruzioni dell’azione: il dramma è assoluto e si sviluppa attraverso una successione di presenti senza un io epico che ponga delle ellissi temporali. Anche tra un atto e l’altro, Alfieri sembra tenere a sottolineare che qui non trascorre del tempo, se non minimale, fuori scena. Così Saul, entrando in scena nel II atto, esclama “Bell’alba è questa” confermando la continuità temporale con l’albeggiare del I atto. Nel III atto il sole starà ancora ascendendo e si sarà appena concluso quel convito cui si invitava in conclusione del II atto. Certo la percezione del tempo che prevale è quella del tempo interiore dei protagonisti: di Saul ma anche ad esempio di Micol che entra in scena lamentando che la notte non sia ancora finita. Anche per quanto riguarda il paesaggio quello dominante sembra essere quello dell’anima, tempo e luogo sono assimilabili a quelli di un sogno. C’è molta scenografia verbale nel Saul, nelle battute dei personaggi viene descritta la scena ma qui è la sapienza di Alfieri, la descrizione è sempre anche un modo di esprimere l’interiorità del personaggio. Anche molti gesti e delle micro azioni che compiono i personaggi sono indicate dalle didascalie implicite contenute nelle battute, esplicitamente viene indicato dove si svolge la scena, in apertura di tragedia e poi nell’ultimo verso una nota rimanda alla didascalia con l’indicazione dell’ultima azione di Saul. La massiccia presenza di deittici, conferma della referenzialità scenica della scrittura alfieriana, non va mai priva di connotazioni significative: si veda l’insistito contrapporsi di io/tu nel dialogo tra Saul e Gionata, là dove il figlio, prode in battaglia, prende le distanze dal padre sterminatore di sacerdoti e il padre si arrocca in una orgogliosa solitudine. Si noti come il gioco delle opposizioni è rimarcato dai chiasmi e dal ritmo che enjambement, ripetizioni e pause producono, ben percepibili sopratutto all’ascolto, secondo quell’idea tante volte sottolineata dall’Alfieri che le sue opere possano essere trovate più chiare, ed energiche, alla recita che non alla lettura. Notevole è l’insistenza sull’io di Micol, reduplicato anche in “mio” quando sottolinea di essere lei a volere in sposo David. I contrasti sono spesso resi anche attraverso brachilogie, battute brevi. Si è visto lo scambio tra Gionata e Saul, si veda quando David entra in scena nel secondo atto, a sorpresa. Entrando in battuta, l’eroe interrompe con un “la innocenza tranne”. Anche se l’azione si concentra sulle ultime 24 ore della vita di Saul, Alfieri nn rinuncia a citare molti avvenienti precedenti, indispensabili per la comprensione della vicenda e personaggi. La sua maestria sta nel rendere queste informazioni funzionali allo sviluppo dell’azione, la rievocazione dell’episodio in cui David ha avuto la possibilità di uccidere Saul trovato solo in una grotta, viene utilizzata in II,3, là dove David esibisce un lembo del manto regale strappato in quell’occasione al re come inconfutabile prova della propria lealtà e innocenza, in un crescendo di dimostrazioni avviatosi con il presentarsi senza armi e dichiarandosi pronto a morire se il re così vuole. Da lì a pochissimo, però, abbiamo di nuovo un passaggio, a ritroso, e Saul torna re e avverso a David, quando essendo stato riaccolto al campo, David si presenta vestito da guerriero e il re riconosce nella spada che porta al fianco un’arma che era stata consacrata a Dio. È la spada ce David ha vinto a Golia, la rievocazione di un fatto fondamentale come la sconfitta del gigantesco guerriero filisteo costituisce parte integrante del motivo del nuovo mutamento di Saul e si noti l’abilità drammaturgica di Alfieri: l’attenzione è portata sul brando di David dal fatto che David sembra parlare più come sacerdote che come guerriero e Saul lo schernisce: avvicinati che veda se sei Davide o Samuele. Pagina di 11 18 La qualità teatrale della scrittura di Alfieri appare anche nel visualizzare oggetti di scena della vicenda, come un lembo di mantello, una spada. Alfieri non dimentica che la scena è materialità, un’altra spada sarà necessaria al compimento della vicenda nell’uccisione di sé che chiude il V atto. Ma la materialità, sulla scena, tende comunque a farsi segno. Tanto più facilmente il brando potrà diventare anche un simbolo, il termine brando del resto torna 33 volte nel Saul. Una parola chiave e con un corrispettivo oggettivo così teatrale che non poteva diventare uno tra i principali strumenti nelle mani degli attori per la costruzione della propria interpretazione di Saul. Nel III atto, la rabbia provocata dalla visione della spada data a David dal sacerdote achimelec viene blandita dal canto dello stesso David, altro tratto essenziale è l’inserimento tra gli endecasillabi sciolti della tragedia di strofe polimerie piene di echi biblici. David trasportato dall’entusiasmo del canto di guerra, non si trattiene dall’introdurre nel canto se stesso e porsi, al pari di Saul, torna la spada e il due: due eroi in campo in competizione. Di nuovo, geniale Alfieri che utilizza lo stesso elemento, concreto, del canto, e somma i riferimenti nonché le possibili allusioni. Possibile che Davis non pensi che se canterà le proprie imprese accanto a quelle di Saul, ne risveglierà l’invidia? Se leggiamo nell’ottica del desiderio mimetico la vicenda di Saul, David e Micol acquistano nuova luce alcuni aspetti dell’opera trascurati dalla critica che mal si giustificano nelle altre chiavi di lettura, pur tutte pertinenti data la molteplicità resa possibile dal linguaggio della scena. Perché l’ultima azione che Saul compie prima di morire è quella di affidare la figlia ad Abner che la salvi? Si noti che Abner si rivela personaggio positivo. Il suicido di un re ormai prossimo a cadere nelle mani dei nemici è comune a molte epoche e culture: non dovrebbe dunque essere particolarmente significativo e del resto nella Bibbia la morte di Saul non è ammantata di grandezza. Si tratta di uno dei pochissimi casi di suicidio della Bibbia e nel duplice racconto che se ne fa, si mette in luce la sconfitta, il volgersi contro di lui di una spada che dovrebbe invece essere rivolta verso il nemico, la decapitazione e lo sfregio della testa ed insegne portate ad adornare i templi dei nemici. La magnanimità del Saul di Alfieri si rivela più che altro nel volto che egli riesce a mostrare nel momento del suicidio. Abner e Micol esortano il re a fuggire, a mettersi in salvo, ma Saul sceglie di morire, salvare la figlia e lasciarla al genero, David, insieme al regno. Il triangolo si scioglie (Saul- David- Micol) e l’ordine è ricomposto. Oltre alla generica invidia per la giovinezza, prodezza e destino da re di David c’è infatti in Saul l’amore per David, che lui stesso trasmette alla figlia Micol e da cui deriva una doppia gelosia: per Micol e per David. David e Micol, rispetto a Saul, sono entrambi contemporaneamente oggetti di desiderio (contesi) e rivali (cui contendere l’oggetto del desiderio). E lo schema viene addirittura duplicato nella relazione tra Saul, David e Gionata. Se già il testo biblico presenta il rapporto tra David e Gionata come rapporto d’amore con accenti erotici un po’ sorprendenti, Alfieri certo non si tira indietro. Si imita il desiderio di chi si prende a modello. Anche Micol ha voluto in sposo David per il gradimento che ha visto nascere nel padre, il quale, nella Bibbia aveva pensato di darlo ad un’altra figlia inizialmente. Non casualmente il primo atto di persecuzione che Saul compie nei confronti di David è proprio nella richiesta come dote di spostare la figlia, di cento teste di Filistei. Non un caso nemmeno che siano parole rivolte a Gionata e che poi l’atto si concluda con il rifiuto di entrambi i figli, che cercano di difendere David e perciò sono traditori. Non c’è bisogno di congiure immaginate nel delirio: basta che i figli mostrino la loro maggiore o minore difficoltà di scegliere da che parte stare, permaneano oggetti di desiderio contesi e allo stesso tempo rivali. Ma nel V atto, come detto, per ben due volte il vecchio re insiste a privilegiare Micol-moglie di David sulla Micol- figlia. La seconda volta, riconoscendo che per la figlia sia preferibile essere del rivale (david), il padre esplicita anche il maggior prestigio del genero, un’ammissione non da poco per Saul e in questo momento Alfieri gli fa guadagnare senz’altro umanità. Saul compie un sacrificio che è prima di tutto rinnegamento di sé per amore di altri, e il sacrificio, chiarisce la grandezza da apoteosi della morte di Saul. La figura del protagonista si illumina rapidamente di una luce sempre già grande, a questo punto diventa evidente anche come i vari piani del dramma convergano: uccidendosi Saul compie anche un sacrificio politico, uccide il tiranno. La logica della tirannide è quella della lotta fratricida, della violenza e del sangue, come insegna proprio l’Alfieri sia nel trattato ad essa dedicato che nelle eloquenti battute di Saul a Gionata. Se il tiranno si sacrifica non è pi un tiranno, nel suicidio si saldano i valori e volti del padre e re buono. Il volto buono del re si può manifestare solo nella negazione della regalità. Pagina di 12 18 dell’interpretazione scenica del verso alfieriano” sull’intero territorio nazionale per tutti i primi decenni dell’Ottocento e attori e critici continuarono anche successive a ritenerlo una figura di riferimento. Le sue memorie del resto si dividono in due parti la cui cesura coincide proprio con la sua affermazione nel “Saul” di Alfieri. L’attore toscano racconta di aver recitato “Saul” per la sua beneficiata a Firenze nella stagione del Carnevale 1794 e dà maggior rilievo alla sua conquista informando di una precedente rappresentazione fiorentina del Saul ad opera di un capocomico lombardo come Pietro Ferrari. Il suo spettacolo invece ottenne un successo straordinario: 16 repliche consecutive e l’approvazione dell’autore, presente la V serata e il celebre racconto della chiusa del V atto alla presenza di Alfieri, con l’attore che sviene e si ferisce è narrato nelle “Memorie” e poi ripreso alla fine dell’800 dal critico teatrale de “La Nazione” di Firenze, Jarro, in un libro dedicato a Morrocchesi e alla sua celebre interpretazioni del re biblico. Tra finzione e realtà, tra spettacolo e vita, quasi un momento di “saldatura” tra vicenda del personaggio e biografia artistica dell’interprete, anche questo aneddoto evidenzia la dimensione fortemente autobiografica dell’interpretazione alfieriana del “più celebre Saul vivente l’autore” che da questo punto di vista “fu più alfieriano di Alfieri”. Le tragedie sono infatti da lui ridotte a vere e proprie monografie del suo talento. D’altra parte, le tragedie dell’Astigiano divennero terreno di cimento recitativo anche per un motivo paradossale: ovverosia la loro difficoltosa gestualità, a partire dai versi, si trasforma in esigenza di formazione e di esercizio per gli attori alle prese con il tragico, come è confermato da quella generazione alfieriana che si ricollega proprio all’esperienza dell’autore in qualità di attore e regista di sé stesso. Prima delle scene risorgimentali, Alfieri è fatto oggetto di grande attenzione da parte delle scene repubblicane tra 1796 e il 1799 che ne fanno “simbolo del periodo e in particolare del teatro patriottico”. Ovviamente Saul non figura tra i testi maggiormente messi in scena in questo periodo, nel quale spopolano invece le Virginie e i Bruti, ben più adatti a celebrare le virtù democratiche. Saul sarà invece più gradito dalle tragedie di ambientazione romana durante il Regno di Italia dell’età napoleonica, pur se con una certa diffidenza nei confronti di un autore- vessillo delle scene repubblicane. Un rapporto del 27 agosto 1810 della commissione incaricata di esaminare il repertorio della Compagnia vicereale lamenta l’assenza tragedie che non siano quelle del pur “grande Alfieri”, non casualmente forse Giovanni Carmignani, che era pur stato il primo David accanto al grande tragico, guadagna un premio di eloquenza dell’Accademia napoleonica di Lucca nel 1806 scrivendo una dissertazione sulle tragedie alfieriane per la quale egli viene rimproverato, di essersi disteso nell’indicare i difetti di Alfieri e limitato nell’accennarne i pregi. Il bando chiedeva di esaminare “lo stile, lo spirito e le novità” e a fine degli anni ’40 ipotizzava forse non senza qualche ragione che a renderlo severo ed esigente dovette contribuire la simpatia che aveva per Metastasio, esagerata per un opportunismo punto lodevole. Non si può negare che le pagine del Carmignani abbiano una certa densità e siano perlopiù scritte con acuta intelligenza e sensibilità, ma è anche certo che nelle corti non poteva non esserci almeno un po’ di diffidenza per quello che era stato un simbolo della rivoluzione e continuava ad alimentare il sogno risorgimentale. Un “repubblicano fino al delirio”, come il generale Guglielmo Pepe, che sapeva a memoria molte delle tragedie di Alfieri e le recitava con grande entusiasmo. L’Ottocento dei grandi attori Il peso politico di Alfieri è al centro anche della sua fortuna del pieno Ottocento. Una fortuna che è scenica ma anche critica, seppure di una critica che talvolta non ha tanto valore “nella storia della critica ma piuttosto in quella della fortuna dell’Alfieri” perché si tratta di celebrazioni che: “Esaltano l’uomo, i suoi sentimenti, gli ideali. È al contenuto morale, politico, nazionale che si volge l’attenzione”. Molti dei patrioti e scrittori nel corso del Risorgimento , da Mazzini a Cattaneo, da Giobetti a Tommaso, vengono a comporre quella figura di “padre della patria” che sulle scene sarà consacrato Gustavo Modena. Ma si osservi anche un artista come Tommaso Salvini, il cui coté attorico è senza dubbio più significativo di quello politico, pur non assente in un discorso tenuto in occasione del centenario della morte di Alfieri, si esprimeva rivendicando l’importanza dell’interpretazione attorica, più che altro in relazione alla “esaltazione di un Alfieri precursore dell’unità d’Italia”. Molto nota invece la vocazione eminentemente politica del teatro di Gustavo Modena “attore patriota” che partecipò attivamente a molti passaggi cruciali della vicenda risorgimentale: dai tumulti del 1820, duranti i quali venne ferito gravemente a un braccio, alla costituzione della “Giovine Italia” e al rapporto stretto con Mazzini, fino alla condanna e all’esilio. Pagina di 15 18 “Per Modena il teatro trova la propria ragione d’essere nel valore educativo di cui può farsi portatore, ma non si riferisce ad un concerto edificante o didascalico di una educazione. Pensa piuttosto al teatro come a una scuola per il popolo e che possa favorire la crescita critica dello spettatore”. Il padre di Gustavo Modena fu interprete dell’Alfieri e per questo motivo Gustavo si avvicinò presto a questo autore nei confronti del quale ebbe un “rapporto di attrazione e distacco”, in cui comunque l’astigiano rappresenta per Modena “una specie di antagonistico ma fascinoso doppio”. Egli resta sostanzialmente interessato al messaggio politico e al tessuto sentimentale dei personaggi, per cui quando affronta il personaggio, del re biblico, ne fa una “vittima del sistema di potere feudale, della regalità”, ma le testimonianze della sua interpretazione del Saul restituiscono anche la forza e verità umana. L’esordio del giovane Gustavo lo vide interpretare in primis i panni di David e poi passare ad impersonare quella del Saul. Modena era un riformatore del teatro: andava verso una propria autonomia e conferì nuova dignità alla recitazione: “come espressione in sé come linguaggio di creazione, come evocazione di una realtà ideale”. La sfasatura che Modena poneva fra recitazione e testo drammatico, gusto corrente, abitudini del pubblico, consentiva all’artista di affermare i principi del futuro, di delineare l’uomo nuovo. Quelli di Modena per Saul furono veri e propri adattamenti: la verità storica del personaggio così come la sua creazione consapevole da parte dell’attore, erano per lui fondamentali. Testimonianze e recensioni consentono di ricostruire almeno in parte i gesti e intonazioni dell’interpretazione di Modena, restituendoci l’idea di un “equilibrio instabile”, tragicomico. Probabilmente doveva cominciare a mescolare le tinte del tragico e del comico alla fine del II secolo, ma poi è sopratutto nel IV atto che “Modena lasciava per lungo tratto dietro a sé tutti gli altri, mostrandosi differentissimo da tutti gli altri”. L’allievo Bonazzi racconta che, quando era già vecchio e malato, Modena distribuiva le parti che erano state sue tra gli allievi: tranne quelle di Saul e di Luigi XI. Eppure Tommaso Salvini, dapprima accanto al maestro nella parte di David, arriverà verso il 1860 ad essere valutato un Saul migliore, anche se solo nel V atto, dallo stesso Modena. Un recensore della performance di Saul sembra confermare l’eccezionalità della “scena finale in cui la passione si esala e fuorvia dall’umano stadio fino a toccar il delirio”, “per forza di sentimento e colore drammatico nulla lasciò a desiderare”. A differenza di Modena, che interpretava Saul con moderna umanità, attraverso un impasto di tragico e comico, Salvini rendeva la “perplessità” del personaggio alfieriano “attraverso variazioni che non intaccano la sostanza sublime della patriarcale figura, la fondamentale nobiltà del personaggio”. In questa linea sta anche la scelta dei due interpreti di insistere su oggetti diversi nel finale, il brando per il Modena guerriero e la corona invece di Salvini, un’insegna che, tolta in una parentesi di follia, può essere rimessa sul capo dal sovrano, senza che la regalità venga intaccata”. Il Saul di Salvini è il Re. Dall’interpretazione di Salvini ci è giunta una eccezionale documentazione: una breve registrazione su disco della sua voce nel Saul. Per l’etichetta discografica, Salvini incise tre dischi. Concepito da Alfieri in opposizione agli attori professionisti del suo tempo, il suo teatro diventa banco di prova degli artisti del secolo successivo che fanno delle loro interpretazioni alfieriane il “simbolo della loro dignità professionale”. Il modello drammaturgia di Alfieri è congeniale alle esigenze interpretative dell’attore ottocentesco”, grazie alla centralità di un solo personaggio, in cui si possono al meglio esprimere non solo il talento e le doti artistiche degli interpreti, ma anche le abitudini di gestione del teatro del Grande Attore. Una presenza/ assenza del ‘900 Alla non molto estesa fortuna scenica del Saul nel ‘900 hanno dedicato diverse pagine di analisi Anna Barsotti e Mariagabriella Cambiaghi. La Barsotti ricostruisce le linee interpretative di Ermete Zacconi, Gualtiero Tumiati, Memo Benassi, Guido Salvini, Salvo Randone e individua una linea tragicomica- grottesca che va da Modena attraverso Benassi fino a Randone, di cui, attraverso le testimonianze e l’edizione televisiva del suo spettacolo, analizza continuità e distacchi, mettendo in evidenza le specificità della “maschera tragicamente clownesca” di Benassi, l’introversione randoniana che si appunta sulla schizofrenia interna del personaggio abbandonando qualunque alone gigantesco e regale. Da quest’ultima edizione di successo degli anni ’80 deriva anche una delle rarissime messe in scena recenti del capolavoro alfieriano: nel 2015 viene riportato sulle scene da parte dell’attore e regista Stefano Sabelli, con un cast di giovani in uno spettacolo che, dopo il debutto in Molise, è presentato anche a Roma, Napoli, Lecce e Asti. Aveva immaginato di riaprire il restaurato teatro di Asti proprio con il Saul di Vittorio Gassman, che secondo la testimonianza di Guido Davico Bonino, è il solo che abbia tentato di insegnare in una scuola per attori qualcosa che potrebbe definirsi “recitazione alfieriana”. Conosceva Alfieri alla perfezione. Pagina di 16 18 Un Saul ad Asti è stato messo in scena nel 2004, per Asti- Teatro 26, con la regia di Lamberto Puggelli e la struttura scenica di Eugenio Guglielminetti, scenografo di tanti spettacoli alfieriani fin dagli anni ’50, quando aveva cominciato ad affrontare insieme a Franco Enriquez e Gianfranco De Bosio i grandi drammi alfieriani. AstiTeatro 26 bandì anche un interessante concorso intitolato “Idee per Alfieri” rivolto agli artisti under35 che proponessero un progetto originale di spettacolo dal vivo. Al di là dell’importanza della tradizione attorica di Saul, quello che nel ‘900 non perde la sua rilevanza è il portato politico dell’Alfieri e della sua opera tragica in generale. Chiara dimostrazione è la censura di epoca fascista, Silvio D’Amico racconta di aver visto sul tavolo del Direttore Generale del Teatro l’istanza con cui l’attore aveva chiesto il permesso di rappresentare il Saul di Alfieri, e in calce la risposta di Mussolini, con un bel “no” in matita rossa. Oltre all’ “ebraismo” dell’opera e la ragione politica, ci sono molte altre ragioni per cui l’opera di Alfieri era poco gradita a un regime che d’altra parte non poteva fare i conti con un tal “padre della patria”, di cui quindi esaltò la dimensione di “araldo del nazionalismo”, inserendolo nelle fila dei grandi italiani che sarebbero stati precursori del fascismo: da Dante a Machiavelli, Foscolo, Mazzini, Garibaldi e Carducci. Così l’istituzione dei Carri di Tespi fu inaugurata con l’Oreste, debuttato sulla terrazza del Pincio a Roma nel 1929. Cian e il suo allievo Calcaterra leggevano Alfieri tutto in chiave prerisorgimentale e nazionalistica, accentuando l’interesse per testi come il “Misogallo” e tralasciando i trattati libertari. Sono i trattati il nutrimento principale di una schiera di studiosi di Alfieri, come Pietro Gobetti che si laureò con una tesi chiamata: “Filosofia politica di Vittorio Alfieri”, ed è un saggio appassionato in cui l’autore apprezza l’affermazione da parte di Alfieri della superiorità del fare sul dire, agire sullo scrivere e condivide il cèoncetto del letterato come propagandista di libertà. Sicuramente contribuì al mito e vitalità del pensiero di Alfieri. Umberto Calosso contestò l’interpretazione liberale di Alfieri data dal sodale Gobetti, e ne sostenne l’anarchia, andando contro gli studiosi dell’Alfieri politico e la presunta contraddizione tra periodo giovanile e maturità del poeta cui erano giunti, sostenendo che la concezione politica alfieriana non è repubblicana ma libertaria. “Per questo suo carattere libertario, infinito, la concezione alfieriana fu un punto di partenza per le idee più disparate, il Risorgimento intero italiano si richiamò a lui”. Debenedetti, poi, come noto, scrisse gran parte della “Vocazione di Vittorio Alfieri” tra ottobre 1943 e il maggio dell’anno successivo nella casa di Cortona dove si era rifiutato durante l’occupazione tedesca di Roma. Anche la scena guarda a Alfieri in chiave di reazione post- fascista e abbiamo una ripresa della fortuna delle rappresentazioni alfieriane nel dopoguerra, propiziata certo anche dal ricorrere del bicentenario della nascita del poeta nel 1949, anno nel quale si registrano spettacoli di registi importanti come Orazio Costa (Oreste, Mirra) , Luchino Visconti (Oreste). Gli anni ’50 sono anni di ricostruzione e entusiasmi politici e teatrali e sono anni del teatro di regia. Anche ad Alfieri si rivolgono uomini che credono nella necessità di un teatro che, giovandosi di un assoluto rigore stilistico, assolva il suo compito morale e sociale: giovani convinti che la disposizione a educare con l’arte sia sinonimo di antifascismo e che nutrono la massima fiducia proprio nell’impulso degli intellettuali per l’unificazione e progresso della nazione. Le messinscena del teatro di regia aprono una nuova fase della fortuna scenica alfieriana per la presenza di un apparato scenografico e costumisti appositamente studiato per l’occasione e marcatamente originale. Non tanto al Saul si guarda ora, gli sporadici seppure interessanti ritorni alla drammaturgia alfieriana sono soprattutto rivolti all’Oreste e al Filippo, entrambi messi in scena nel 1987/88 da Giovanni Testori. Oreste amato da Gassman, Orazio Costa, Enrico Maria Salerno e molti altri. Ci sono poi diversi “Agamennone” e “Antigone” allestita nel 1953 - 1949 fino ad arrivare alla “Mirra” di Luca Ronconi. La fortuna di Alfieri all’estero Alfieri fu una presenza nota alla cultura europea del suo tempo e dei primi decenni dell’800, fu apprezzato da Byron e in gioventù da Stendhal. Schiller lo considerava un inventore di buoni soggetti, uno scrittore dal quale si potevano prendere validi spunti. Anche il grande Goethe lo ammira, nel Regno Unito già nel 1799 usciva una memoria il cui autore, formulava un giudizio positivo su Alfieri indagatore della psiche e drammaturgo dei moti delle passioni; alcuni dei maggiori poeti romantici inglesi ebbero interesse per Alfieri: Coleridge, Shelley, Browning. Si è già menzionato Byron, che la sua amica insinuava avesse preso a modello proprio Alfieri per lo stile antishakesperiano ma anche per la vita ribelle. In un’epoca in cui la lingua e la cultura italiane avevano ancora una notevole diffusione si può dire che la ricezione della sua opera fuori d’Italia fu “sufficientemente estesa”. In Germania il nome di Alfieri in quanto scrittore di teatro ha una prima menzione pubblica già nel 1782, all’uscita del primo tomo dell’edizione Pagina di 17 18
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