Docsity
Docsity

Prepara i tuoi esami
Prepara i tuoi esami

Studia grazie alle numerose risorse presenti su Docsity


Ottieni i punti per scaricare
Ottieni i punti per scaricare

Guadagna punti aiutando altri studenti oppure acquistali con un piano Premium


Guide e consigli
Guide e consigli

Riassunto "Sciami/Ricerche" 2019, Appunti di Storia Dell'arte

Riassunto completo e dettagliato dell'estratto di «Sciami. Ricerche», Webzine semestrale di Teatro, Video e Suono, diretta da V. Valentini, n. 10/2019, in programma per l'esame con Prof.ssa Silvia Grandi (Università Alma Mater Studiorum di Bologna).

Tipologia: Appunti

2020/2021

In vendita dal 19/02/2021

liviafi15
liviafi15 🇮🇹

4.4

(113)

33 documenti

1 / 43

Toggle sidebar

Spesso scaricati insieme


Documenti correlati


Anteprima parziale del testo

Scarica Riassunto "Sciami/Ricerche" 2019 e più Appunti in PDF di Storia Dell'arte solo su Docsity! SCIAMI 10/2019 Webzine semestrale di Teatro, Video Suono, Diretto da Valentina Valentini Editoriale (Cosetta Saba, Lisa Parolo) Questo numero di Sciami/Ricerche è dedicato alla videoarte italiana e include contributi di studiosi impegnati in ricerche gravitanti attorno al progetto VARIA (Video Arte in Italia). L’intento è di dare una ricostruzione del continuum di trasformazioni in cui consiste la “videoarte” attraverso lo studio delle tecnologie, delle culture visive, dei contesti produttivi, dei quadri teorici, delle esposizioni, dei festival e della ricezione sia critica sia spettatoriale. Infatti, la ritrovata accessibilità delle opere (ora migrate in digitale) e la ricognizione degli archivi sta redendo possibile un’indagine della fase “prevideo”, sull’emergere della pratica in ambito artistico nel corso degli anni ’70. Allo stato della ricerca emerge un’implicazione reciproca tra “performatività” e “dispositivo video”, esperito nella modalità del circuito chiuso attraverso la quale si attesta in Italia, tra il 1969/70 e il 1971, la prima sperimentazione del videotape in ambito artistico. Tutto questo avviene in relazione ai progetti espositivi, ai discorsi curatoriali e ha impatto trasformativo sul formato delle mostre. Dopo le prime manifestazioni del video in diversi ambiti artistici nel corso degli anni ’70, alcuni galleristi (come Fabio Sargentini della Galleria L’Attico, Gaspero del Corso della Galleria L’Obelisco e Paolo Cardazzo della Galleria Cavallino) e alcuni direttori di centri di produzione (Luciano Giaccari per Studio 970/2 a Varese, Maria Gloria Bicocchi per art/tapes/22 a Firenze, Lola Bonora per Centro Video Arte a Ferrara) mettono a disposizione degli artisti diverse piattaforme tecnologiche rendendo così possibili sperimentazioni. Nascono così le prime opere in video. Vi è chi sceglie l’immagine pre-registrata e trasmessa in monocanale, broadcast o a circuito chiuso, chi ne intende l’apporto in termini documentari, chi ne affronta uno studio analitico prendendo in considerazione tutto il dispositivo (telecamera, videoregistrazione, monitor) e chi ne propone l’uso in diretta, in funzione di gioco. Cruciali per l’innovazione furono gli anni ’80, che evidenziano come le forme artistiche di utilizzo del video si producano finalmente in una dimensione transmediale. Dalle ricerche emerge un mélange di forme, modi e linguaggi, riferibili ad ambiti diversi della produzione artistica, dell’industria culturale e della comunicazione televisiva di massa. Tali forme sono state qui indagate secondo tre piani interpretativi: l’ibridazione, il corporeo e la medialità. Durante gli anni ’80, la video scultura e la video installazione si attestano nelle pratiche degli artisti. Si fanno strettissime le relazioni di interscambio e le interferenze tra video e teatro, video e televisione (videoclip e spot pubblicitari), video e cinema, video e design, video e computer art, mettendo dunque in crisi il contesto di presentazione di ciò che si pensa essere arte. L’indagine, sugli anni ’90, con ampie estensioni nei 2000, si colloca all’intersezione di due prospettive storico-critiche: la prima è tracciata intorno al video militante, la seconda è orientata a rilevare, da un punto di vista intermediale, l’impatto e gli effetti del digitale su quanto accaduto in Italia intorno al video. Nel primo caso si indagano le relazioni tra la diffusione e l’uso di tecnologie low cost e i discorsi e le pratiche “militanti” con l’intento di mettere a fuoco il rapporto di continuità/discontinuità con le radici storiche della video arte e con la fase prevideo. Il secondo caso, con l’intento di indagare i primi decenni del digitale, mette in evidenza come la riflessione sul video in Italia, non riconducibile solamente alle esposizioni, si estenda a rassegne, festival, spazi off. Gli anni 2000 sono stati osservati, oltre la già complessa dimensione digitale, tramite le pratiche artistiche e videoartistiche connesse all’intelligenza artificiale. In ultimo si affronta il tema dello stato giuridico-legale dei video d’artista che non sono esplicitamente elencati tra le opere tutelate dalla legge sul diritto d’autore. Saba: Cominciamento della video arte in Italia (1968-71) Di Cosetta Saba ABSTRACT: In Italia la progressiva accessibilità digitale dei film in formato ridotto, dei videotape d’artista e dei materiali cartacei (note di lavoro, schemi progettuali, epistolari ecc.), nonché lo studio degli archivi, rendono oggi possibile ricostruire l’emergere, tra gli anni ‘60 e i primissimi ‘70, della pratica artistica del video analogico e, al contempo, evidenziano come questa da un lato interessi i contesti del Cinema d’artista e del Cinema indipendente e, dall’altro, si estenda agli ambiti dell’Arte povera, della Conceptual art e della Pop art. L’obiettivo è una prima messa a fuoco dell’emergere della “video arte” in Italia a partire dalla fase “prevideo”. Le tracce documentali rivelano un nesso tra “performatività” e “videotape”. Questo è il fil rouge che percorre il periodo. Già attiva in certo cinema d’artista, la dimensione performativa si intensifica e potenzia attraverso il dispositivo video secondo la modalità del circuito chiuso, attraverso la quale si attesta in Italia, tra il 1969/1970 e il 1971, la prima sperimentazione del videotape in ambito artistico. Si tratta di ricerche che mettono in discussione, trasformandole, le idee stesse di opera e di esposizione. Nel clima del ’68, le trasformazioni delle pratiche dell’arte (concettuali, pop, poveriste, cinetiche e programmate, performative) impattano il dispositivo della mostra, i luoghi dedicati alle esposizioni e le gallerie che divengono uno spazio aperto alla progettualità degli artisti. Il carattere “concettuale” delle loro azioni performative e del “tempo reale” in cui queste accadono, si mostrano e svaniscono; la loro documentazione (fotografica, cinematografica e videografica), dunque, prende a essere una dimensione espansiva dell’atto artistico piuttosto che una dimensione suppletiva. Su questa base si tenterà un primo riesame critico di come, con metodi e strumenti differenti operino tanto Luciano Giaccari (con lo Studio 970/2) quanto Gerry Schum (VideoGalleria). Si tratta, in particolare, di mettere in luce come il lavoro e la presenza di quest’ultimo in Italia risultino interconnessi ai cominciamenti delle pratiche video in ambito artistico. Infine si evidenzierà come, durante quel periodo, a partire da esperienze performative registrate su supporti cinematografici in formato ridotto (8mm, 16mm, Super 8) e su un piano che ha implicato una forte progettualità curatoriale, si sia attivata una particolare attenzione verso il videotape. Significativamente, quegli stessi progetti curatoriali prevedevano che le tecnologie allora all’avanguardia potessero venire variamente messe a disposizione degli artisti. Verranno presi in esame, in quanto eventi generativi della video arte italiana: la 3a Biennale internazionale della giovane pittura. Gennaio 70: comportamenti, progetti, mediazioni (curata da Renato Barilli, Maurizio Calvesi, Tommaso Trini, Andrea Emiliani che si tenne presso il Museo Civico di Bologna nel 1970); la 35a Esposizione Biennale Internazionale d’Arte del 1970 (diretta da Mario Penelope); Eurodomus 3/Il Telemuseo (curato da Tommaso Trini a Milano nel 1970); Improvvisazioni su Videonastro VPL 6 IC, videoregistratore LDL 1000, telecamera mini-compact (coordinate da Francesco Carlo Crispolti nell’ambito del centro produzione di videotape della galleria Obelisco di Roma nel 1971); Circuito -----> Chiuso – Aperto (rassegna che si è tenuta ad Acireale nel 1971 curata di Francesco Carlo Crispolti e coordinata da Italo Mussa); Schifanoia-tv: “mezzo” aperto/opera chiusa (realizzata a Ferrara nel 1972 dal Gruppo OB di Milano). Ricerche In Italia, l’uso del video in ambito artistico si dispiegherà pienamente solo negli anni ’70, ma le sue origini si rintracciano nel decennio precedente nel cinema d’artista a carattere performativo e nel più vasto contesto del cinema indipendente italiano. In Italia, in ambito artistico l’interesse sembra concentrarsi sull’azione performativa e pare polarizzarsi sulla decostruzione della pratica artistica in sé. Il mezzo cinematografico viene implicato quale strumento espansivo dei linguaggi e delle culture visuali esprimendo l’oltre della pittura, ovvero la performance, i gesti, le azioni; si dispiega nel tempo e si estende nello spazio, implicando la presenza spettatoriale in modalità live (anche se non sempre), modificando dunque i protocolli e i Come ha sottolineato Gerry Schum, nel contesto di Gennaio 70, il dispositivo televisivo viene direttamente implicato nel processo delle azioni degli artisti senza la mediazione del film. Gli artisti invitati a prendere parte all’esposizione avevano la facoltà di scegliere se presentare opere materiali o concettuali da costruire in situ e/o di utilizzare il mezzo videografico. Il progetto prevedeva la messa a disposizione di apparati tecnologici Phillips per la generazione e registrazione delle loro azioni performative. Il progetto, sul piano del video-recording ha coinvolto artisti quali Giovanni Anselmo, Gilberto Zorio, Pierpaolo Calzolari, Mario e Marisa Merz, Giuseppe Penone, Alighiero Boetti, Michelangelo Pistoletto, Jannis Kounellis, Claudio Cintoli, Luciano Fabro, Gino De Dominicis, ciascuno dei quali si è impegnato a svolgere un’azione perfomativa, in diversi spazi e in un lasso temporale che va dalla fine di dicembre del 1969 alle prime settimane di gennaio 1970. Gerry Schum stesso rilevava come, in quel contesto espositivo, i video fossero direttamente ricavati dal lavoro degli artisti, alcuni dei quali verranno da lui coinvolti qualche mese più tardi nel progetto filmico Identifications. Detto altrimenti, Schum riteneva che la mediazione filmica e/o video non implicasse il lavoro dell’operatore-regista perché derivata direttamente dalle azioni degli artisti. A detta degli stessi curatori, nel complesso, Gennaio 70 sembra mancare il proprio obiettivo, vale a dire la sperimentazione del video nel campo delle arti visive, a causa sia di limiti tecnici sia della non competenza degli artisti nell’uso. Da qui discende la difficoltà di montare su nastro magnetico open reel le azioni performative. La trasmissione delle opere in videotape sembra essere stata ripartita in due programmi della durata complessiva di 120 minuti, diffusi nello spazio espositivo secondo una temporalità ad anello, o almeno così si desume dal catalogo. Il catalogo tuttavia non dà notizia della composizione dei programmi, che viene, invece, riferita in Marcatré (nn.3/4/5), in appendice al contributo di Barilli intitolato Video- recording a Bologna, dove vengono riportati l’ordine di successione, la sequenza cronologica di trasmissione dei videotape così come è stata probabilmente indicizzata ripartita in due nastri, con la descrizione dell’azione performativa registrata. La documentazione fotografica dell’esposizione, tuttavia, testimonia la presenza di tre postazioni: su tre basamenti sono stati posti altrettanti monitor (definiti “apparecchi TV a circuito chiuso”), dedicati alla riproduzione delle “registrazioni video”. Dei videotape in programma non si ha più traccia fisica. Delle azioni performative che vi si svolgevano non rimane che una descrizione reperibile nei resoconti critici della stampa di allora e soprattutto negli interventi di Renato Barilli, Achille Bonito Oliva, Maurizio Calvesi e Tommaso Trini, dai quali prende avvio una prima riflessione sull’ontologia del video-recording in relazione alla pratica performativa. Le argomentazioni di Barilli sono volte a evidenziare i tratti del video-recording in rapporto all’azione performativa che, per il critico, è durata pura e non ammette tagli né mutamenti di angolazione. Così, dunque, veniva tematizzata l’inessenzialità del montaggio, che ovviamente dipendeva anche dai limiti funzionali delle tecnologie dell’epoca. Nell’argomentazione di Barilli veniva ribadita l’idea della negazione dell’intento estetico (impersonalità, neutralità) di chi effettua la ripresa video (ossia l’idea dell’azzeramento della regia). Anche Maurizio Calvesi affermava che la funzione del video, che esclude il montaggio, è soprattutto quella di documentare il nuovo mezzo espressivo dell’artista che è l’azione, senza trasformarla in un’opera di regia. Emerge dunque l’idea che la registrazione sia un fatto automatico, impersonale e tale da escludere il montaggio. Va da sé che in questo modo di pensare era sottesa l’intenzione di differenziare in modo netto la pratica videografica da quella cinematografica. Il circuito chiuso utilizzato in chiave espositiva rende possibile la “mostra per televisione” dalle declinazioni differenti: si tratta di un nuovo paradigma esperenziale sia per gli artisti che per il pubblico specialistico e non. Per coinvolgere il pubblico non specialistico dell’arte, Trini nel maggio 1970 ha portato nel contesto di Eurodomus3 a Milano, il Telemuseo: un’esperienza artistica televisiva definita “spettacolo mostra”, allestita sotto una cupola pressostatica in teli PVC bianca di fuori e nera dentro. Dunque un ambiente immersivo lungo il perimetro del quale era posta una serie di televisori Philips Italia e un grande schermo per la videoproiezione che veicolavano tre diversi programmi: sul primo, mandato in onda su 10 televisori, vi erano i brani di artisti quali Cintoli, Marisa Merz e Zorio, tratti dalle bobine video-recording della Biennale di Bologna. Sul secondo, mandato in onda su altri 10 televisori, le sei azioni artistiche appositamente realizzate da Michelangelo Pistoletto (Circuito Chiuso), Vincenzo Agnetti e Gianni Colombo (Vocabulazione e bieloquenza NEG) e altri. Inoltre, in merito al terzo programma, la sera dell’inaugurazione, al pubblico è stata fatta fare esperienza del circuito chiuso: prima è stato mandato in onda il programma degli artisti e poi Trini coadiuvato da Fabio Mauri ha tentato di raccogliere le impressioni del pubblico, il tutto registrato con due telecamere e trasmesso simultaneamente su schermo. Mauri ha voluto fare dei test comportamentali facendo zoomate o primi piani sulle persone. Si è dunque potuto assistere a una gamma di reazioni diverse. Il pubblico rappresentava spettacolo nello spettacolo. Alle azioni degli artisti si è aggiunta la partecipazione del pubblico che per 10 giorni è stata veicolata con lo stesso mezzo ad altro pubblico. Similarmente, nel contesto della 35 Biennale d’Arte, nell’ambito della sezione intitolata Proposte per una esposizione sperimentale, era stato allestito, in chiave ludica, un impianto TV multicanale a circuito chiuso, dedicato alle sperimentazioni del dispositivo televisivo da parte del pubblico. Nel novembre 1970, a Roma, nel contesto dell’esposizione Vitalità del negativo nell’arte italiana 1960-70 (a cura di Achille Bonito Oliva) vennero installate sulla facciata di Palazzo delle Esposizioni due file di monitor che mostravano ai passanti di via Nazionale quello che accadeva all’interno. Così, il circuito chiuso esplicitava da un lato il processo comunicativo della diretta televisiva e dall’altro quello della videosorveglianza. Nel 1971 a Roma prende a operare la VideObelisco Art Video Recording la cui attività Gaspero Del Corso e Irene Brin intendono distinguere da quella precedentemente svolta sin dal 1946 dalla galleria dell’Obelisco. Nell’introduzione a VideObelisco Art Video Recording Libro n.1 Francesco Carlo Crispolti ha esposto i tratti distintivi del VTR in quella fase tecnologica: il videotape è inteso come memoria, presa diretta, provocazione e dissenso, happening e gesto, casualità e spontaneità. In quelle che venivano definite videoserate anche alla VideObelisco la sperimentazione del VTR avveniva senza montaggio e si procedeva con la modalità di ripresa multicanale in diretta includendo l’uso della registrazione e del circuito chiuso: tre canali (i collegamenti) trasmettevano in diretta, da diverse angolazioni, quanto avveniva dentro e fuori la galleria; un canale ripeteva quanto era appena accaduto, due riproducevano i lavori pre-registrati; più tardi, uno dei canali ritrasmetteva il tutto. La firma rituale dei visitatori non veniva apposta sul solito guest book ma con una torcia elettrica direttamente sul video, sfruttando la persistenza della fonte luminosa sul vidicon della telecamera. Dal 7 al 16 aprile 1972, nel contesto operativo del Centro di Attività Visive-Palazzo de Diamanti a Ferrara, che precede l’avvio del Centro Video Arte, si tiene la “manifestazione” Schifanoia-tv: “Mezzo” aperto/opera chiusa realizzata dal Gruppo OB di Milano. È qui posta a tema la questione della ripresa/trasmissione; vengono indagati cioè i tempi della captazione dell’evento e, insieme, quelli della sua restituzione. Del mezzo video si esplora, inoltre, la capacità di presa sul reale e di manipolazione. Questi aspetti vengono analizzati da Gruppo OB in una modalità chiamata “diretta-happening” che si snoda in quattro programmi, il cui oggetto è il sistema comunicativo mediale specifico del dispositivo “video” in un contesto museale peculiare quale Palazzo Schifanoia: viene dunque investigata, attraverso il circuito chiuso, la funzione del mezzo in situ e ci si interroga sulla dimensione percettiva e sulle sue implicazioni culturali o sulla capacità critica messa in atto dal pubblico nel processo di fruizione. VT, TV In Italia, a questa altezza cronologica, la riflessione teorica non si concentra sulla “specificità” del nuovo mezzo, ma si sofferma sulle metodologie e gli stili. La riflessione sull’ontologia del video si farà largo a cavallo tra anni ’70 e ’80 in relazione al processo di innovazione tecnologica e di diffusione del mezzo. Ciò che la critica rimarcherà a posteriori è che l’interesse degli artisti italiani per l’uso del video, se comparato a quello degli artisti nordamericani, si profila come episodico. Secondo Fagone per esempio gli artisti non sembrano cogliere fino in fondo la logica del funzionamento del dispositivo. Da qui discende l’importanza dei centri di produzione/distribuzione. Rispetto a questi ultimi, tuttavia, in termini di riflessione critico- teorica, il video si attesta sintomaticamente come pittura, realizzata con altri mezzi, come uno strumento senza un linguaggio proprio, ma anche in direzione contraria, come mezzo espressivo dalle qualità estetiche e dalle potenzialità linguistiche inedite. Nell’arco temporale che va dagli anni ’60 ai primi ’70 il cinema e il video entrano in intersezione con la performance. L’uso del video si attiva in ambito artistico in relazione alle azioni performative restituendo videoopere o videoperformance o videodocumentazioni. A queste date, l’uso del video non diviene tuttavia mezzo espressivo, linguaggio, estetica, cultura visiva connotante una pratica artistica. Quel che si vuole dunque rilevare è il nesso operativo tra video e performatività che sembra interessare le riflessioni e le argomentazioni di critici, curatori e artisti accomunate dalla negazione del montaggio. L’uso espressivo del mezzo tecnico è tendenzialmente ridotto al grado zero, ossia alla presa diretta e alla registrazione impersonale e neutra delle azioni. È qui importante il punto di vista di Schum soprattutto perché interagisce con il contesto artistico italiano. Grazie al contatto con Barilli, Schum è invitato nel 1972 alla 36 Biennale, dove cura, nel padiglione centrale, ai giardini, la sezione Video-Nastri nella quale, insieme a Eurasienstab di Joseph Beuys, ripresenta Land Art e Identifications. In tale contesto, egli ha reso possibile agli artisti l’utilizzo del suo laboratorio mobile. Nel complesso, il progetto di “mostra televisiva” di Schum mirava a mettere in discussione in modo radicale il sistema istituzionale dell’arte che si articolava in museo, galleria, atelier. Vi è tuttavia sia una spinta a confrontarsi/scontrarsi con le istituzioni che gestiscono e controllano la comunicazione televisiva di massa e che motiva il programma di “mostra televisiva”, sia, contemporaneamente, una controspinta che definisce lo spazio operativo della “videogalleria” come luogo in cui esporre i videotape e attraverso cui gestire la vendita dei “video-oggetti” ancorché mediante un processo di democratizzazione economica tanto dei mezzi di produzione quanto dei prodotti. Da tale prospettiva, i video-oggetti sono oggetti artistici multipli che recuperano non tanto un’aurea quanto una consistenza materiale e una referenza al diritto d’autore. Il videotape è dunque investito sia da un processo di dematerializzazione sia di rimaterializzazione. Modi, usi Schum evidenzia come la serie di Azioni Land Art di Richard Long, Walter de Maria, Dennis Oppenheim, Robert Smithson, anche se specificatamente concepite per una trasmissione televisiva, registrate su pellicola 16mm e poi riversate in video, nondimeno presentino una riduzione al minimo del linguaggio e della forma filmica. Il film (o il video) è pensato da Schum come un mezzo tra gli altri mezzi possibili per la realizzazione concettuale delle azioni. L’argomento dell’autorialità è fortemente implicato nella definizione dei modi d’uso immediato (diretto) o mediato del video che Luciano Giaccari elabora (nel 1972/73) risetto al tipo di rapporto che si configura tra l’artista e il mezzo. Su questa base, Giaccari procede alla classificazione dei metodi d’impiego del video in arte. La Classificazione ripartisce in due insiemi le modalità d’uso: il primo insieme concerne le situazioni in cui si dà il “rapporto diretto artista-mezzo televisivo” e “Film-esperienza”, “film-performance” Gli anni ’60 si caratterizzano per un terreno di sperimentazione interdisciplinare che trova espressione negli Intermedia, diffusi negli USA, con gli esperimenti di George Maciunas e Stan VanDerBeek, e presenti anche in Europa. In Italia li ritroviamo non tanto come “estensione” del codice cinematografico, ma come scambi effettivi fra le arti, nelle pratiche di musicisti coinvolti in sperimentazioni elettroacustiche, di artisti visivi che sperimentavano film, video, fotografia, teatro e televisione, scrittori d’avanguardia coinvolti in poesia visiva. Queste interferenze hanno trasformato la tradizione del cinema, della musica, delle arti visive e del teatro. In Italia, va inserita in questo contesto la sperimentazione di Umberto Bignardi della metà degli anni ’60: con Rotor-vision (1966-67), concepito insieme al film Motion vision, uno dei primi esempi di expanded cinema; o con l’Implicor (1969-70) la grande installazione di schermi-specchi realizzata in collaborazione con l’Olivetti. Prismobile e Fantavisore, creati nel 1965, sono definiti da Bignardi “Media trovati modificati”. Prismobile, esposta a Roma alla Galleria l’Attico nel 1966, utilizza il sistema a “strisce mutevoli” della pubblicità (strisce di plastica traslucida con illuminazione interna al neon). Fantavisore propone sovrapposizioni di immagini riflesse e catturate dal contesto reale (un parallelepipedo dotato di luci interne era la sorgente luminosa che rendeva visibili, per rifrazione, immagini colorate riprodotte su una lastra di cristallo, alla quale era sovrapposta una seconda superficie riflettente). Queste macchine liberavano le immagini dalle cornici (sia quelle del quadro che dello schermo cinematografico), spostando la percezione dello spettatore dalla dominanza dell’occhio fino a percepire con gli altri sensi. La sperimentazione di quegli anni implicava una invasione di spazi diversi da quelli consueti. Il Piper di Torino, una discoteca, per esempio, accoglie sia Carlo Quartucci (regista teatrale) che Michelangelo Pistoletto e l’illuminazione stroboscopica dalle discoteche passa nei teatri. In questo contesto culturale si colloca Film Ambiente di Marinella Pirelli (1968-69), che si compone di una struttura spaziale modulare, sulla quale l’artista proietta il film Nuovo Paradiso che aveva realizzato riprendendo un gruppo di sculture di Gino Marotta. L’ambiente che il visitatore può attraversare è dinamico, composto da un flusso luminoso di immagini in movimento che vengono proiettate nello spazio. Attraverso il sistema di cellule fotosensibili progettato da Livio Castiglioni, le immagini generate sugli schermi sono direttamente registrate e tradotte in suono, a creare una corrispondenza immediata tra scala cromatica visiva e scala sonora. In questa “mise en abyme”, come sottolinea Andrea Lissoni nel catalogo, Marinella Pirelli sembra non solo reinventare lo statuto del film in arte, ma dimostra la piena coscienza dell’espansione dello spazio dell’opera oltre il quadro e il oltre il fotogramma. La questione cruciale di Film Ambiente, infatti, non è tanto il pubblico, ma che tutte le componenti disposte nello spazio hanno una precisa funzione: lo abitano e lo performano. L’opera non è nella stanza, è la stanza. In questo senso l’opera di Pirelli risuona dell’influenza dell’environment di Lucio Fontana, dialoga con Umberto Bignardi, in parte con il Gruppo Zero e con le esperienze a venire di stage sets, così come nei primi anni ’70 le definivano Dan Graham e Joan Jonas. In realtà Marinella Pirelli giunge all’installazione, un termine non ancora in uso all’epoca in autonomia ed è per questo una figura affascinante che rappresenta una transizione della definizione di environment, così come inteso da Fontana, verso l’installazione. Smaterializzazione dell’oggetto artistico: video e performance Lo spazio diventa un campo energetico, in cui tutti gli elementi, compreso lo spettatore, interagiscono. Dalla fine degli anni ’60, a livello anche internazionale, il processo di smaterializzazione dell’opera d’arte si accampa sia attraverso l’installazione che la performance, anch’essa come la videoarte, all’incrocio di pratiche artistiche diverse, musica, danza, poesia, arte visiva e video. Performance Art significa dare corpo a una idea, privilegiare il fare; superare il piano della rappresentazione per investire la propria vita; contrastare il sistema dell’arte e dell’opera-merce; sfuggire alle convenzioni del luogo e del tempo della fruizione. La performance è arte vita, non ammetteva repliche, né separava l’artista dall’opera, favorendo una relazione diretta con lo spettatore. Presenza, discontinuità e frammentazione. Quello che interessa qui è capire come si è sviluppata la pratica installativa legata al dispositivo elettronico in relazione con la performance art, dal momento che l’azione dell’artista nello spazio e il video recording si integrano, a partire dal pioneristico progetto di Luciano Giaccari Televisione come memoria, 24 Ore No Stop Theatre (1968). A questa data il video funziona in vari modi: come circuito chiuso con cui l’artista interagiva dal vivo in uno spazio-tempo reale, in presenza di spettatori; come dispositivo costruttivo nelle videoperformance, realizzate dagli artisti in rapporto diretto con telecamera e monitor, in assenza di spettatori e ancora come memoria dell’evento. Nei primi anni ’70, è diffusa l’idea del video come medium trasparente che lascia passare l’azione dell’artista (trasparenza = assenza di montaggio). In questo senso prevaleva la dimensione processuale che ben si coniugava con la dimensione non replicabile della performance art, rispetto a quella documentativa e di memoria: “il video non viene usato per documentare, ma diventa parte di una complessa interazione con il pubblico come succederà più tardi con le installazioni vere e proprie.” (Francesca Gallo) È anche vero che la presenza di monitor continua a creare singolari environment, che per molti versi possono essere considerati degli antesignani delle videoinstallazioni. In una cronologia ancora da ricostruire di quelle esperienze delle installazioni video, potremmo citare Opprimente (1968) di Franco Angeli, presentata nell’ambito de Il Teatro delle mostre alla Galleria La Tartaruga. Il soffitto della stanza è abbassato con uno strato di polistirolo espanso; da un angolo spunta una macchina da presa continuamente in funzione; sotto il polistirolo sono situati microfoni continuamente in ascolto; tutto serve a registrare il disagio e l’assuefazione del pubblico al nuovo spazio economico. Si mette dunque l’accento sul dato costrittivo per lo spettatore dello spazio realizzato da Angeli, un’operazione che fa pensare alle prescrizioni imperative che Bruce Nauman infliggeva agli spettatori. Le immagini impresse sulla pellicola durante la giornata insieme ai suoni captati dai microfoni dell’ambiente, sono confluiti in un film omonimo in cui Angeli rielabora, montando altre immagini e altri suoni in sovraimpressione, quanto aveva ripreso in occasione dell’installazione, creando una relazione fra dentro e fuori (l’environment claustrofobico e la città). Come nel caso di Film Ambiente di Marinella Pirelli, le distinzioni tra documento e opera non sono pertinenti. L’ambiente disturbante per lo spettatore produce, come un laboratorio, un materiale che l’artista rielabora in un’altra opera autonoma. Questa ricognizione sulla storia e la pre-storia delle installazioni video in Italia ci ha portato a verificare la dimensione intermediale della pratica videografica, sia perché convive e coesiste nei primi anni ’70 con altri media (diapositive, suono, azioni, live, environment, video, performance, cinema, fotografia) sia perché la sua pre-storia la ricostruiamo attraverso gli intermedia e i mixed media anni ’60, nelle loro diverse declinazioni. Questa fase di “vitali sconfinamenti”, di osmosi fra le arti e i linguaggi, si prolunga fino ai primi anni ’80, tant’è che la riscontriamo nella mostra Camere Incantate (Milano 1980) curata da Vittorio Fagone, dove notiamo la presenza di formati che saranno chiamati videosculture e videoinstallazioni, a indicare una raggiunta unità costruttiva. Questa mostra è stata la prima in Italia a indagare i rapporti (in campo internazionale) fra arte, fotografia, video e cinema negli anni ’70, in direzione di una espansione dell’immagine oltre la funzione documentaria e in relazione con il suono. E da questa bisogna ripartire con la nostra perlustrazione. Parolo: Video arte in Italia anni Settanta. Produzioni, esposizioni, teorie Di Lisa Parolo ABSTRACT Il saggio affronta la storia della video arte in Italia negli anni Settanta approfondendo i contesti di produzione ed esposizione delle opere prodotte attraverso le attività dei centri di produzione privati e pubblici (Videobelisco A.V.R., art/tapes/22, Centro Video Arte, Studio 970/2, galleria del Cavallino), di fondamentale importanza per consentire agli artisti la sperimentazione con il nuovo dispositivo di registrazione. Sono inoltre quest’ultimi a prendersi carico in molti casi della distribuzione delle opere in contesti espositivi e rassegne in Italia e all’estero e a contribuire, insieme ad alcuni critici d’arte, alle prime teorizzazioni sull’uso del nuovo dispositivo in ambito artistico. Saranno analizzate in conclusione alcune delle cause della fine di queste esperienze nel passaggio dagli anni Settanta agli Ottanta, quando cambieranno i sistemi di produzione, così come i contesti espositivi, per lo più festival dedicati. Cercare di riassumere i primi dieci anni della video arte rende evidente che non esiste un unico modo di intendere il ruolo del video in ambito artistico, soprattutto per ciò che concerne i ‘70, il decennio in cui prima crolla ogni ‘specifico’ come conseguenza del processo avviato negli anni ‘60 e, poi, si assiste ad una fase di ritorno all’ordine, non solo dal punto di vista artistico. Prima l’arte diventa una situazione, un concetto, un processo, un lavoro che non ha confini disciplinari e mediali; poi, dalla seconda metà degli anni ‘70, si assiste al processo inverso e al progressivo ritorno all’oggetto artistico. È in questo contesto che si inserisce l’uso del dispositivo videografico. A seconda degli artisti, dei contesti e dei centri di produzione, così come a seconda della tecnologia impiegata, il dispositivo acquisisce funzioni diverse. Viene adottato per realizzare opere o per documentarle anche in relazione ad altri mezzi (fotografia, cinema, pittura, scultura musica) e ad altri linguaggi, performativi, concettuali, poveri, ponendosi come lo strumento forse più elastico e più in linea con le esigenze di appropriazione della realtà sentite in quegli anni. Avere a che fare con il video e l’arte negli anni ‘70 implica dunque trattare due concetti in sperimentazione che non hanno in quel momento confini, disciplinari o tecnici. Parolo analizzerà alcuni momenti salienti della diffusione del video, guardando in particolare ai primi usi e ai relativi tentativi di legittimazione da parte di critici e direttori dei centri di produzione. Quest’ultimi svolgono un ruolo importantissimo perché è grazie a loro che gli artisti possono avvicinarsi al dispositivo iniziando a sperimentarne le potenzialità. È inoltre grazie ai direttori di questi centri e alla loro collaborazione che è possibile l’organizzazione di eventi. Video, arte e informazione Sin dalle prime manifestazioni come Gennaio ’70, il Telemuseo (Eurodomus, Milano) e la 35° Biennale di Venezia, si assiste a diverse modalità d’intendere il ruolo del video nell’arte. Vi è chi sceglie l’immagine pre- registrata e trasmessa in mono-canale, broadcast o a circuito chiuso; chi ne intende l’apporto in termini documentari; chi ne affronta uno studio analitico prendendo in considerazione tutto il dispositivo (telecamera– videoregistratore – monitor); chi ne adopera più parti in situazioni performative o installative; e chi infine ne propone l’uso in diretta, in una funzione di relax e gioco. La stessa modalità si ripete nei primi usi del dispositivo fatti da parte degli artisti e dei direttori delle gallerie d’arte. Tra queste L’Obelisco a Roma decide sin dal 1971 di dare vita al centro di produzione Videobelisco A.V.R., fondato da Cesare Bellici – direttore – e Francesco Carlo Crispolti – tecnico – come estensione delle attività della galleria di Gaspero del Corso e Irene Brin. Il centro si pone subito l’intento di mettere il nuovo mezzo a disposizione degli artisti e, più in generale, del pubblico invitato a partecipare alla sperimentazione. Ne è un esempio la realizzazione del Videobook n. 13 che presenta non solo le prime produzioni della galleria quale Vobulazione e bieloquenza NEG (1970) di Giorgio Colombo e Vincenzo Agnetti in distribuzione presso L’Obelisco ma realizzata in occasione di Telemuseo (Eurodomus 3) a cura di Tommaso Trini. Francesco Carlo Crispolti sottolinea l’uso del nuovo mezzo e dice che la maggior parte degli artisti ignora, critica e considera la televisione come mezzo di informazione con poche e monotone alternative. Il che può essere vero per i canali ufficiali, ma non per la videoregistrazione e la tv a circuito chiuso. “Videoregistrazione, dunque, come decisivo per la video arte in Italia, vengono organizzate molte mostre, ma molte di «queste mostre – scrive Restany, mostrano una grande confusione e annoiano lo spettatore medio. Lui le definisce più che “video- mostre”, “video-mostri”, confusi e feticistici. Dalla seconda metà degli anni ‘70 l’arte va progressivamente ‘istituzionalizzandosi’, rientrando all’interno dei confini ‘disciplinari’ in forme meno concettuali. Questo tuttavia non ferma la produzione concettuale di molti artisti: in Italia è ancora forte a metà degli anni ‘70 l’impegno politico nell’arte e la convinzione secondo la quale il cambiamento della società poteva avvenire solo attraverso un cambiamento nel linguaggio e nella comunicazione. A complicare ulteriormente la situazione è un fatto tecnico, ovvero il passaggio dalla bobina aperta alla cassetta (U-Matic, Sony o VCR, Philips). Se negli Stati Uniti e in molta parte dell’Europa questo avviene sin dalla prima metà degli anni ‘70, in Italia il processo è più lento e prenderà piede solo dopo la metà degli anni ‘70. Questo limita la possibile diffusione delle opere e delle documentazioni attraverso i canali collezionistico ed espositivo, dall’Italia per l’estero e dall’estero per l’Italia. I centri sono quindi spinti a dotarsi progressivamente di videoregistratori a cassetta che tuttavia, nella maggior parte dei casi, non sono portatili. Le modalità di produzione ‘povere’ e concettuali, basate soprattutto su immediatezza, trasparenza e istantaneità, vengono quindi messe in discussione dalle nuove e più tecnicamente complesse possibilità estetiche e tecniche. Cambiano le modalità produttive, iniziano a diffondersi strumenti a costi più accessibili che consentono un montaggio ‘più facile’ delle sequenze, così come l’inserimento di titoli, di sottotitoli e la possibilità di disporre di doppio canale audio. Con l’U-Matic arriva infine il colore anche se, per un certo periodo, la registrazione continua a farsi in open-reel e quindi in bianco e nero – più diffuso a livello nazionale e più portatile – mentre la cassetta diventa il formato della distribuzione e dei master, ovvero del girato montato e pronto per essere copiato e ‘distribuito’, soprattutto in ambito internazionale. Un esempio delle due diverse posizioni, nazionale e internazionale, che si presentano in questa fase di transizione è evidente durante la Biennale di Venezia del 1976. Qui, infatti, nella sezione internazionale dedicata al video durante l’evento Attualità internazionali ’72-’76 a cura di Olle Granath, Bicocchi dà le direttive per l’allestimento portando l’attenzione a che la struttura dei programmi video fosse rigorosa e cronologica e includesse lavori datati lo stesso anno da artisti di nazionalità diverse. Nella stessa Biennale il Padiglione Italiano ospita invece video molto diversi, prevalentemente documentazioni di azioni di artisti nello spazio urbano o di attività socialmente impegnate. Si assiste quindi a due usi diversi del dispositivo videografico in due sezioni della mostra che rendono conto il primo, del contesto internazionale e, il secondo, di quello italiano. Nel primo si parla di arte e molto meno di politica; nel secondo si parla di politica e molto meno di arte. Ripensare al video e all’arte. Verso gli anni ‘80 Sul finire del decennio le posizioni nei confronti del dispositivo videografico possono essere rappresentate dal convegno che si tiene nel settembre 1978 a Milano dal titolo Le arti visive e il ruolo della televisione. Ai tre giorni partecipano infatti una lunga lista di ‘addetti ai lavori’ dell’ambito (video) artistico e televisivo. Il dibattito è acceso e mostra ancora una volta l’eterogeneità delle posizioni. Fagone nel suo intervento denuncia l’assenza d’interesse da parte della RAI per la produzione di programmi televisivi sull’arte dopo il 1930. Dorfles, invece, distingue tra una «TV come trasmettitrice di notizie, di informazioni, indagatrice di aspetti della società e del costume, e anche tramite di opere visive già esistenti (pittura scultura, architettura, danza, teatro)»; e una «TV considerata come vero e proprio mezzo espressivo autonomo e a sé stante». Secondo Dorfles la video arte, dunque è quella pensata, ideata, realizzata esclusivamente facendo uso degli elementi tecnico-linguistici che il dispositivo videografico mette a disposizione. Vi è quindi la progressiva convinzione secondo cui il dispositivo poteva essere considerato artistico solo nel momento in cui si adoperavano le sue specificità tecnico-linguistiche. Il che significa sfruttare, nel video monocanale, la durata breve, i primi e mezzi piani, l’assenza di una narrazione classica come quella cinematografica in funzione di piccole pillole concettuali, in colore e in bianco e nero. Significa inoltre usare tutto il dispositivo di ripresa e registrazione senza nasconderlo ma, anzi, mettendolo in mostra durante le azioni performative o in una dimensione installativa. Il 1980 è l’anno canone del ritorno alla pittura inaugurato da Bonito Oliva durante la 39° Biennale di Venezia. È infatti il critico a riassumere il decennio nell’introduzione al catalogo della mostra, a partire dalla nuova attitudine dell’arte di «associare materiali più disparati, secondo l’esigenza di appropriarsi del reale, colto nei suoi aspetti energetici e mitici»; fino alla fine del decennio dei ‘70, quando «è subentrata una pittura che ritrova il suo valore all’interno dei propri procedimenti». Negli anni ‘80, Bonito Oliva e Barilli, quando parlano dei Nuovi-nuovi, sostengono che l’arte torna alla pittura. E mentre il dispositivo videografico sembra progressivamente uscire dai contesti ufficiali si moltiplicano invece festival e rassegne dedicati grazie ai quali questa forma d’espressione andrà consolidandosi e diffondendosi ulteriormente. Spampinato: Ibridazione, corpi e media. Pratiche artistiche del video in Italia negli anni ‘80 Di Francesco Spampinato Se la genesi dell’arte video come espressione artistica si estende dagli anni ‘60 ai ‘90 circa (dopo diventa obsoleto parlare di uso specifico del video, vista la sua integrazione con altri media), l’apice della sua storia è collocabile negli anni ‘80. In questo periodo si delinea un universo mediale sempre più diversificato e interattivo, caratterizzato dalla diffusione, di fianco alla televisione, di nuovi dispositivi tecnologici per l’audiovisione come videocamere, videogiochi, videoregistratori, videocitofoni, sistemi di videosorveglianza e personal computer. Apparecchiature sempre più economiche ed elementari consentono una democratizzazione delle forme di produzione ed elaborazione delle immagini, favorendo la trasformazione dei telespettatori in prosumer, un ibrido tra “produttore” e “consumatore” che troverà con Internet la sua piena realizzazione. Il saggio propone una panoramica sulle forme artistiche di utilizzo del video in Italia negli anni ‘80, articolandone la trattazione attorno a tre linee interpretative, connesse alle idee di: ibridazione, corpo e media. Verrà presa in considerazione la scena italiana, analizzando video sculture e installazioni, e dedicando un’attenzione particolare allo sviluppo di pratiche interdisciplinari: videoteatro; le relazioni tra video e design; la videografica e i videoclip in ambito televisivo; e la “personal” computer art. Nell’ultima parte verrà delineato il network che ha reso possibile la produzione e circolazione di video in Italia in quegli anni (associazioni, distributori, spazi espositivi, festival, mostre, rassegne e convegni), per chiudere con alcune riflessioni sul cambiamento, nel tempo, dei criteri di classificazione adottati da storici e teorici. Peculiare dell’arte video italiana degli anni ‘80 è la sua natura ibrida, ovvero la combinazione di forme, modi e linguaggi spostandosi con disinvoltura dall’ambito dell’arte contemporanea a quelli di teatro, televisione, musica, design e comunicazione visiva. A fare da trait d’union è l’utilizzo delle tecnologie audiovisive – il video e il personal computer – a cui l’artista si avvicina con l’ingenuità del prosumer. Negli stessi anni, l’approccio sperimentale contraddistingue anche produzioni commerciali nell’ambito della televisione, del cinema e della pubblicità. Ne emergono prodotti mediali ibridi che transitano tra emisferi diversi (e.g. la galleria d’arte, il club, il teatro, la televisione), mettendo in crisi la logica secondo la quale l’arte è tale in funzione del contesto in cui è presentata e del suo riconoscimento da parte del “mondo dell’arte”. L’arte video prodotta negli anni ‘80 a livello internazionale fornisce una componente visiva al pensiero di filosofi come Jean-François Lyotard, Jean Baudrillard, Fredric Jameson, Umberto Eco, allineati nel riconoscere l’avvento di una nuova epoca, definita “postmoderna”. Il pensiero postmodernista suggerisce che la storia e la conoscenza sono costruzioni fittizie sviluppate da politici, industriali e lobbies a capo degli stati-nazione occidentali, come mezzo per controllare i propri cittadini e i paesi sottosviluppati. In questo scenario, i media sono visti come uno strumento persuasivo utilizzato per produrre consenso politico, indurre il consumismo e rafforzare lo status quo. Parte delle teorie di Baudrillard, per esempio, poggiano sulla convinzione che le strutture dominanti della società hanno impiegato i mass media, in particolar modo la televisione, per rimpiazzare la realtà con una sua versione simulata che definisce “iperrealtà”. Nel saggio The Ecstasy of Communication del 1983, Baudrillard sostiene che quello che vediamo sullo schermo non è più un riflesso della realtà, ma «la superficie liscia e operativa della comunicazione». Una trasposizione visiva delle idee di Baudrillard la si ritrova nel film They Live (Essi vivono, 1988) di John Carpenter, che racconta di una società in cui la classe dirigente è costituita da alieni dalle sembianze umane. Grazie a speciali occhiali è possibile riconoscere la loro vera identità e cogliere i messaggi subliminali che questi diffondono attraverso i media, come “CONSUME” e “OBEY”. La distopia postmodernista e la scena video internazionale Fondamentale il concetto di “Neo-Televisione” elaborato da Umberto Eco nel 1983, in contrapposizione a quello di “Paleo-Televisione”. Eco sostiene che la Neo-Televisione ha “perso trasparenza”, nel senso che non mostra più la realtà ma ne crea una nuova, sintetica e autoreferenziale. Questo si evince, per esempio, dal fatto che nella Neo-Televisione presentatori, cronisti e attori guardano quasi esclusivamente in camera, come a rivolgersi direttamente al telespettatore, illudendolo di essere il protagonista. Tratto tipico della Neo-TV è anche il mettere in mostra l’apparato di costruzione della realtà fittizia, attraverso telefonate in diretta o mostrando elementi del set. Caratteristici della Neo-TV sono il telecomando e il televideo: il primo permette al telespettatore di creare un flusso personalizzato tra i canali, mentre il secondo prefigura un nuovo tipo di accesso personalizzabile alle informazioni. Insieme a telecomando e televideo, compaiono le console di videogame e il videoregistratore, che producono una nuova idea di tempo modificabile, grazie alle possibilità di ripetizione continua e alle basilari forme di editing che offrono. A questo proposito, Fredric Jameson in Postmodernism and Consumer Society (1983) sostiene che i media contribuiscono alla nostra perdita del senso della storia, rimpiazzata da un presente continuo, uno stato che produce un effetto simile alla “schizofrenia”. Jameson introduce anche il concetto di pastiche, una tecnica di appropriazione di stili, non a fine satirico, per spiegare il quale chiama in causa la produzione di figure diverse quali Andy Warhol, John Cage, Talking Heads, Jean-Luc Godard e George Lucas. Molti video monocanale di artisti si presentano in questi anni come pastiche di filmati originali e found footage, come i clip da documentario sugli animali che usa Bill Viola in I Do Not Know What It Is I Am Like (1986). In altri casi l’artista compare in video a commentare direttamente le immagini. In Shut the Fuck Up (1985), per esempio, i membri del collettivo General Idea introducono con tono inquisitorio vari stereotipi mediatici sulla figura dell’artista. Pipilotti Rist, invece, in I’m Not a Girl Who Misses Much, (1986), non usa direttamente filmati televisivi ma vi si riferisce. Appare in topless davanti alla telecamera, cantando un noto brano dei Beatles e gesticolando forsennatamente: una video performance di taglio femminista che attraverso sgranature, accelerazioni e decelerazioni demistifica gli stereotipi mediatici della donna. Negli stessi anni alcuni artisti più tardi associati alla cosiddetta Abject Art, come Mike Kelley e Paul McCarthy, elaborano un’estetica amatoriale, da video casalingo, per documentare perturbanti messe in scena di psicodrammi domestici e stili di vita borderline. attori. Il video è spesso utilizzato anche sulla scena, attraverso monitor che trasmettono immagini pre- registrate e sistemi a circuito chiuso, ma anche come mezzo di documentazione dell’evento o la sua trasformazione in ibrido oggetto mediale esperibile in televisione, festival o tramite VHS. In linea con le performance di Laurie Anderson, l’incontro del teatro con il video in Italia porta a una serie di opere d’arte totale tipiche dell’epoca postmoderna, in cui la narrazione viene rimpiazzata da un pastiche di gesti e situazioni. L’esempio più rappresentativo di questa schizofrenia postmoderna è Crollo Nervoso (1980) di Magazzini Criminali, articolato in quattro scene rispettivamente ambientate a Mogadiscio nel 1985, Los Angeles nel 1988, Saigon nel 1969 e una zona non precisata dell’Africa nel 2001. Attraverso un sistema di veneziane disegnato da Alessandro Mendini e vari monitor sulla scena, la distopia fantascientifica dello spettacolo si regge sul disorientante confronto tra interno ed esterno così come tra spazio scenico e virtuale. Nel 1982 il gruppo realizza un video di 60 minuti di Crollo Nervoso che mescola: la documentazione dello spettacolo, scene girate in esterni e in studio, e clip dello storico allunaggio dell’Apollo 11 e del film 2001 Odissea nello spazio (1968) di Kubrick, che sono tra le immagini trasmesse dai monitor in scena. Altro video tratto da uno spettacolo teatrale è quello di Tango Glaciale (1983) di Falso Movimento, realizzato grazie a Rai 3 un anno dopo la sua messa in scena. Mediante l’uso del chromakey, il regista Mario Martone posiziona i personaggi su sfondi iperreali e ipersaturi, solo vagamente reminiscenti dei chiaroscurali ambienti della performance originale. Le punte più avanzate del “videoteatro” italiano, però, sono gli spettacoli in cui l’intero spazio scenico sembra trasformarsi in schermo come l’Eneide (1983) di Krypton, rilettura in chiave postpunk del poema epico, in cui al testo è sostituita la colonna sonora di un gruppo emergente, i Litfiba. Le vicende si svolgono in spazi mentali mappati da raggi laser, delimitati da colonne al neon realizzate da Pirri. Una perturbante riflessione sulla discordanza tra realtà fisica e mediata è offerta in La camera astratta (1987) di Studio Azzurro e Giorgio Barberio Corsetti. Lo spettacolo è costruito attorno a una serie di monitor su cui appaiono, come imprigionati, corpi frammentati, che contrastano con quelli dei performer. Come nota Valentini: “Corpo e immagine erano interscambiabili, così come dentro e fuori perdevano la distinzione e le demarcazioni di un limite precisamente segnato. Il dispositivo elettronico condivideva con il medium teatro lo specifico evenemenziale che si riconosceva come il tratto proprio dei media digitali”. Il nuovo ambiente mediale domestico Anche figure associate al mondo del design mostrano interesse per il video. Evoluzione di quell’ibrido movimento noto come Architettura (e/o Design) Radicale – che ha avuto in Italia uno dei suoi epicentri grazie a gruppi come Archizoom e Superstudio. Il design italiano degli anni ‘80 fornisce una rappresentazione visiva di concetti-chiave del pensiero postmodernista quali l’iperrealtà di Baudrillard e il pastiche di Jameson. Ne deriva una serie di oggetti all’insegna di quello che Mendini chiama «elogio del banale» che decostruiscono i parametri del gusto e la presunta funzionalità del design. Esemplari sono gli arredi in edizione limitata prodotti dai collettivi/brand Studio Alchimia, guidato da Mendini e Alessandro Guerriero, e Memphis, guidato da Sottsass. Sotto la loro egida prendono vita eclettici complementi d’arredo che sacrificano la funzionalità in nome di un pastiche di natura grafica. Sia Studio Alchimia che Memphis si presentano come officine creative che mettono in relazione rappresentanti di ambiti diversi: architetti, artisti, illustratori, fashion designer, musicisti, coreografi e così anche videomaker. Le prime produzioni di Studio Azzurro sono commissioni che riceve da Memphis. Oltre alle documentazioni fotografiche degli oggetti realizzati dal gruppo riunito attorno a Sottsass, lo studio realizza anche una loro presentazione al pubblico. Si tratta di uno showroom illuminato con spot a raso terra, in cui vasi, lampade e altri oggetti da tavolo vengono esposti di fronte a 11 monitor che trasmettono immagini degli stessi. Presentato come il loro primo “videoambiente”, Luci di inganni (1982) offre al visitatore, grazie all’illuminazione teatrale e ai monitor, un’ingannevole percezione della realtà circostante. Alla base della progettazione, del resto, vi è la consapevolezza della crescente presenza dei media nello spazio domestico. Negli stessi anni diversi designer illustrano le proprie idee attraverso simili installazioni, in cui i monitor diventano presenza costante. Esempio indicativo è La casa telematica (1982) di Ugo La Pietra, realizzata presso la Fiera di Milano, che ricostruisce un’abitazione i cui ambienti sono caratterizzati dall’alienante presenza di monitor sintonizzati su notiziari, televideo e, nel caso di una toelette, collegati a un sistema a circuito chiuso. Punto nevralgico della casa è un letto matrimoniale a metà, realizzato in collaborazione con Studio Azzurro, ai cui piedi ognuno dei due coniugi può fruire di un proprio televisore. Simile atmosfera si respira in Oltre il letto: i luoghi e le macchine del sonno (1986), una camera da letto ipertecnologica realizzata da Sottsass in occasione della mostra Il progetto domestico. La casa dell’uomo. Archetipi e prototipi, alla Triennale di Milano, ispirata dalla stanza di un amico a New York, che Sottsass descrive come «piena di tutti i possibili gadget della cosiddetta civiltà elettronica […] la casa del futuro». Indipendente da qualsiasi gruppo, la produzione di Denis Santachiara offre un’affascinante riflessione riguardo all’ingresso dei media nell’ambiente domestico, non guardandoli con sospetto però, ma come stimolatori di una dimensione subconscia, di memoria surrealista. La casa onirica (1984), installazione presso la Triennale di Milano e il Gran Palais di Parigi, presenta una serie di oggetti futuristici tra cui una coperta luminosa, una panca musicale e “un televisore che invece di notizie emette flussi di immagini trattate al computer come decoro ambientale”. Simili speculazioni si ritrovano anche in Neomerce (1985), mostra curata da Santachiara alla Triennale e al Centre Pompidou di Parigi: esempi di un «design dell’invenzione e dell’estasi artificiale», tra cui risaltano un “criogametoforo” ad azoto liquido di Luigi Serafini e un abito da cerimonia a cristalli liquidi di Cinzia Ruggeri. Per entrambi i progetti Santachiara realizza dei video, che giocano sul contrasto tra il tono da documentario scientifico e la disfunzionalità degli oggetti presentati. Rappresentativa della cultura visiva postmoderna italiana è la produzione video del gruppo Metamorphosi fondato da Marco Poma nel 1983, che nella maggior parte dei casi è il risultato di commissioni e collaborazioni con figure del design milanese quali Mendini, Studio Alchimia, Occhiomagico, Ruggeri e Anna Gili, o vicine ad esso come Maurizio Marsico e Antonio Sixty. Si tratta della documentazione di performance come quella dell’abito sonoro di Gili in Nulla (1984), o surreali pantomime all’interno di ambienti domestici arredati da Alchimia e postprodotte sfruttando l’illusorietà del chromakey. Un esempio è il videoclip per il brano “Aristocratica” (1984) dei Matia Bazar, in cui i corpi nudi di due amanti, coreografati da Sixty, diventano schermi che trasmettono elementi dell’ambiente circostante. Emblematico della ricerca di Metamoprhosi è Aggiornato definitivo con le ultime variazioni (1985), di un’ora, incentrato sulle azioni meccaniche di alcuni personaggi all’interno di un ambiente-schermo composto da dimensioni parallele. Arte e televisione: “poetronica”, videografica e videoclip Negli anni ‘80 l’abbattimento dei confini disciplinari va di pari passo con la trasformazione dell’idea secondo la quale un’opera d’arte è tale solo se riconosciuta da quello che Arthur Danto ha definito “mondo dell’arte”, un network che comprende artisti, storici dell’arte, curatori, critici e giornalisti, e se è presentata all’interno di contesti espositivi riconosciuti. Dalle avanguardie storiche in poi inizia una lenta fuoriuscita dell’arte in luoghi destinati all’intrattenimento o alla vita quotidiana, dai teatri di cabaret alle pagine di libri alla sfera pubblica, dove non albergava il pensiero critico. Frustrato dalle logiche del sistema dell’arte, l’artista postmoderno collabora con riviste, produce dischi, lancia brand, realizza performance in club e collabora con le industrie della pubblicità, della moda, del cinema e così anche della televisione. Un dialogo tra arte e televisione è avviato da Gianni Toti, ex-giornalista de l’Unità che negli anni ‘80, ormai sessantenne, inventa un ibrido sottogenere di arte video che chiama “poetronica”. Toti realizza i propri video presso il Centro Ricerche della Rai di Torino e altri simili laboratori in Francia. Ispirato dalle avanguardie storiche (e.g. i film di Dziga Vertov e le declamazioni futuriste di Marinetti), Toti recita le sue poesie, accompagnato da sonorità elettroniche, creando un pastiche di found footage e animazioni. I suoi video, purtroppo, come altri programmi Rai d’artista (e.g. Lucio Fontana e Eugenio Carmi), non sono mai andati in onda. Le rare volte che la Rai si è dimostrata interessata agli artisti, è stato all’interno di contenitori destinati a un pubblico generico come nei casi della partecipazione del 1959 di John Cage a Lascia o raddoppia? di Mike Bongiorno o la performance Il televisore che piange (1972) di Fabio Mauri per Happening, trasmissione che introduceva, con tono didattico, i linguaggi delle neo-avanguardie al pubblico televisivo. Nello scenario della Neo-Televisione, si aprono nuove opportunità per gli artisti, come dimostrano le sperimentazioni videografiche di Mario Sasso. Nelle sue animazioni in computer grafica 3D, di cui è emblematica la sigla del Tg2 del 1984, Sasso sintetizza attraverso l’uso di telecamere Rostrum e varie tecniche di postproduzione, le sue ricerche pittoriche sull’interazione tra forma e colore, con riferimenti a Surrealismo, Concretismo, Situazionismo e Psichedelia. L’attività di Mario Convertino è più difficile da collocare perché egli è un art director che realizza progetti di grafica e videografica, di branding e comunicazione visiva. A Convertino si deve la videografica di Mister Fantasy (1981-84), pioneristico programma di Rai 1 interamente dedicato ai videoclip (tra cui 80 video prodotti in casa), un genere tipico della Neo-Televisione ed emblematico della cultura visuale citazionista e postprodotta dell’epoca postmoderna. Lo spettatore è immerso in una sorta di “iperspazio” e iperrealtà che non ha referenti nel mondo reale. Non a caso, molti videoclip degli anni ‘80 sviluppano una dimensione metalinguistica, usando i media per parlare di media dall’interno. Alcuni videoclip targati Mister Fantasy sviluppano la stessa logica, come la trilogia del 1982 per “Miami”, “Water” e “Samora Club” del duo postpunk Krisma, opera di un team composto da Convertino, i registi Piccio Raffanini e Sergio Attardo, e il fotografo Edo Bertoglio. I video giocano sul contrasto tra la bellezza iperreale di paradisiache spiagge tropicali e della cantante Christina Moser, e la minaccia incombente di un’ipertecnologica Guerra Fredda, personificata nella figura minacciosa di Maurizio Arcieri. Altra opera d’arte totale – come lo scrittore Pier Vittorio Tondelli definisce il videoclip– è “Il video sono io” (1983) dei Matia Bazar, diretto da Raffanini, che sintetizza per i giovani telespettatori gli esiti più avanguardistici dell’arte video. Animati da scariche elettriche, i membri del gruppo si muovono in un ambiente metafisico di Alchimia, dove totem di monitor trasmettono il corpo, frammentato ma consapevole del proprio fascino persuasivo, della cantante Antonella Ruggiero, memori delle perturbanti installazioni di Studio Azzurro. La cultura postpunk italiana è piena di sperimentazioni video. Nella scena bolognese della Italian Records si muove il collettivo Grabinsky (Emanuele Angiuli, Renato De Maria e Walter Mameli), che realizza avanguardistici videoclip come quelli di “Telepornovisione” dei Gaznevada (1980) e “Hello, I Love You” (1981) degli Stupid Set in cui i musicisti hanno televisori al posto della testa. Per gli Stupid Set, Grabinsky realizza anche Tape Show (1980), scenografia di 20 monitor che trasmettono found footage di serie TV come Hulk e Colombo. Come quelli di Carlo Isola, Toni Verità, Metamorphosi e Giovanotti Mondani Meccanici, tutti ascrivibili al postpunk, i video di Grabinsky circolano più presso festival o in contesti artistici che in televisione. I pochi videoclip italiani di quegli anni, trasmessi principalmente da Video Music, seguono le logiche narrative e i modelli stereotipati dell’intrattenimento di massa, anche quando siano focalizzato però sul decennio precedente. Le prime concrete riflessioni sul decennio in corso compaiono più tardi. Ne Il ciclo del postmoderno. La ricerca artistica negli anni ‘80 (Feltrinelli, 1987) Barilli esamina le diverse sfaccettature dell’arte dell’epoca, dalla pittura alla computer art. Valentini si conferma, invece, la teorica di riferimento per il “videoteatro” con i due volumi di Teatro in immagine (Bulzoni, 1987) e con La camera astratta (Ubulibri, 1988) dedicato all’opera collaborativa di Studio Azzurro e Giorgio Barberio Corsetti. Anche le raccolte di saggi hanno un’importanza notevole, perché restituiscono al lettore il fermento tipico di una situazione di work in progress, e includono interpretazioni critiche, prove di contestualizzazione storica e speculazioni sul futuro. Ancor più preziosi, però, vista la bassa circolazione e la loro difficile reperibilità oggi, sono i cataloghi dei festival come quelli dell’Arte Elettronica di Camerino (Fagone), di Ondavideo (Lischi) e di Taormina Arte (Valentini), nonché le numerose pubblicazioni a cura di Bonora per i festival U-Tape e Videoset e diverse mostre presso il Centro Video arte di Ferrara o in altri spazi in Italia e all’estero. Quanto alle riviste, oltre a quelle di arte contemporanea come Flash Art, articoli sull’arte video italiana compaiono su periodici di natura trasversale o che si occupano di moda, design e fumetti, tra cui Frigidaire. Inoltre, in funzione della diffusione sul mercato di tecnologia a basso costo, nel 1981 nascono le riviste Video e Video Magazine che pubblicano istruzioni per l’uso dei nuovi dispositivi, report da fiere e festival, e articoli di approfondimento sull’utilizzo del video in ambito cinematografico, mediatico e, nel caso di Video Magazine, anche artistico. In un recente studio, Diego Cavallotti ha analizzato i contenuti di queste riviste, presentandoli come emblematici per comprendere l’affermazione in Italia della figura del prosumer (che lui chiama user) e di quella che definisce una vera e propria “cultura video”. I primi tentativi di storicizzare l’arte video italiana risalgono agli anni Duemila. Autori come Alessandro Amaducci, Bruno Di Marino e Angela Madesani, però, sembrano licenziare il decennio ‘80 come quello meno interessante. Figure come Sandra Lischi e Valentini Valentini, invece, non hanno mai smesso di fornire contributi e stimoli sull’importanza e varietà del video in epoca postmoderna, formando o influenzando nuove generazioni di studiosi. Risulta evidente però un problema di classificazione perché la loro spinta verso l’ibridazione e l’utilizzo spesso ambiguo dei media rende impossibile interpretare queste pratiche secondo i criteri di una singola disciplina. Più che nuovi metodi, bisogna quindi adottare un nuovo sguardo che ci permetta di inquadrare la sperimentazione video all’interno di una più vasta cultura visuale. Da questa prospettiva emerge come la produzione video non sia semplicemente una manifestazione ma la spina dorsale dell’epoca postmoderna, caratterizzata dal predominio dell’immagine, dall’ubiquità dei media e dalla nascita del prosumer. D’Amico: L’anima militante del video nell’epoca digitale Di Flavia Dalila D’Amico ABSTRACT Nell’ambito del convegno L’Esperienza dell’arte. Il sentire contemporaneo tra immagine, suono, informazione, trasmissione a cura di Lucilla Meloni, Stefano Perna, Marina Vergiani e ospitato dal PAN di Napoli dal 17 al 19 Dicembre 2009, l’artista Paolo Rosa esordisce: «Quando si parla di video, spesso non si fa riferimento all’altra radice profonda, quella che ha rifiutato l’esperienza di immersione dentro il sistema dell’arte. Un mondo legato all’esperienza dell’attivismo politico, il quale spesso viene tranciato e oscurato». Il saggio si propone di esplorare quest’altra “radice del video” nelle sue manifestazioni più recenti, in un periodo a cavallo tra gli anni ‘90 e 2000, anni contraddistinti dalla diffusione delle tecnologie digitali e Internet. L’obiettivo è quello di fare chiarezza sullo stesso significato del termine “militante”, quindi di delineare i tratti e i confini entro cui tali pratiche prendono oggi forma e i territori teorico-operativi, (riviste specializzate, forum, convegni, BBS, mailinglist, siti) in cui vengono discusse ed elaborate tattiche discorsive di produzione militante. Il saggio esplora la produzione video nelle sue manifestazioni militanti, in un periodo a cavallo tra gli anni ‘90 e 2000, contraddistinti dalla diffusione delle tecnologie digitali e Internet. L’analisi si interroga circa il rapporto di continuità/discontinuità delle pratiche video attuali con le radici storiche (le esperienze degli anni ‘60 e ‘70). Le prime sperimentazioni video si fanno strada in un contesto di generale revisione dell’ordine costituito, un periodo di mobilitazioni in ambito sociale, culturale e artistico contro un sistema capitalista. Allora per gli artisti sabotare il linguaggio, le istituzioni e il funzionamento dei luoghi di produzione e trasmissione del sapere, significava rifiutare i modelli di legittimazione del sistema capitalista. Negli anni ‘70 prolifera l’attività di collettivi statunitensi come Raindance Corporation, Videofreex, Ant Farm, Commediation, Global Village, TVTV, o per citare alcune esperienze italiane, il Collettivo Cinema Militante di Torino, Videobase e Alberto Grifi, i quali iniziano a utilizzare il videotape come strumento di lotta e di contro-informazione. Molti studi che ricostruiscono il fenomeno della produzione militante ne segnano la nascita successivamente all’immissione nel mercato del Portapak CV2400 ad opera della Sony nel 1964 che introduce la possibilità di riprodurre immediatamente il girato e di bypassare i tempi di sviluppo, montaggio e stampa della pellicola. Tuttavia, se è vero che negli anni ‘70 le innovazioni tecnologiche facilitino la possibilità di filmare a basso costo, consentendo agli artisti di dare voce ai senza voce, è altrettanto vero che già agli inizi degli anni ‘60 le pratiche e le riflessioni attorno a un Cinema Militante fossero già abbastanza corpose. Come scrive Enrico Menduni infatti: «il video, da questo punto di vista, si configura come la prosecuzione del cinema politico con altri e più facili mezzi». Con questo non si vuole dire che il passaggio dalla cinepresa alla telecamera sia stato indolore e senza ricadute sul piano del linguaggio. Ma che, come sottolinea lo studioso Raymond Williams, pratiche e strumenti tecnici si modificano a vicenda, i mezzi espressivi stabiliscono solo i limiti al cui interno le pratiche mediali e culturali si sviluppano, non le cause. Stando a questa posizione, che l’autore sintetizza nella nozione di “Soft Determination”, la comparsa della tecnologia elettronica prima e di quella digitale dopo, stabilisce i limiti entro cui istanze socioculturali già presenti trovano sbocco e applicazione. Un altro nodo da sciogliere riguarda inoltre la nozione di “militanza”. Consultando gli studi e i documenti in merito, dagli anni ‘60 a oggi, si nota una varietà di termini utilizzati per descrivere tale fenomeno. L’accento è posto ora sulla possibilità offerta alla gente comune di prendere voce, ora sulla ripresa diretta delle lotte militanti, ora sulla capacità di sabotare i linguaggi degli strumenti di riproduzione del reale, ora sul rifiuto di aderire ai circuiti e alle logiche delle istituzioni ufficiali di trasmissione del sapere. L’accezione di “militanza” muta sulla base della lente teorica adottata. Alla dispersione terminologica, si potrebbero oggi aggiungere i termini di Digital Guerrilla Television, video-attivismo, hacktivism, artivismo, media-activism, tactical media. La questione si complica maggiormente per le produzioni più recenti, che a differenza di quelle degli anni ‘60 e ‘70, abbondantemente storicizzate, trovano ancora poco spazio in ricognizioni storico-critiche. Solo Limoni: il G8 di Genova per Giacomo Verde SOLO LIMONI, (2001) di Giacomo Verde, uno tra gli artisti nel panorama italiano, che sin dagli inizi degli anni ‘80 sperimenta l’utilizzo di diverse tecnologie povere considerate, non solo come strumenti espressivi, ma soprattutto come luoghi di negoziazione tra le rappresentazioni sociali e il loro controllo da parte dei poteri politico-economici. L’artista sonda le possibilità di questi mezzi, dichiarandone sempre i processi e rilasciando materiali e istruzioni d’uso ai fruitori, al fine di avvicinare il più possibile le persone alla tecnologia in modo da orientarla, anziché farsene orientare. Gran parte dei lavori di Giacomo Verde, sono infatti rilasciati in licenza Creative Commons per consentire a chiunque il riutilizzo, a patto che non sia a fini di lucro. SOLO LIMONI è una documentazione video-poetica che racconta alcuni dei tragici momenti vissuti durante le giornate di contestazione al G8 di Genova del 2001. I limoni infatti servono ai manifestanti per calmare l’effetto dei lacrimogeni: Vedere oltre l’appannaggio e il fumo raccontato dai vari TG è l’obbiettivo di questa documentazione. La video-testimonianza, suddivisa in 13 episodi è frutto della selezione di riprese di Giacomo Verde e altri videomaker. Un lavoro collettivo, quindi, teso a superare la privatizzazione dell’immaginario imposta dagli standard del mezzo televisivo. La selezione delle immagini segue il criterio di evitare i momenti più “spettacolarizzanti” per offrire un controcampo alle inquadrature già viste con dettagli prossimi, ma non al centro “degli eventi” drammatici. Documentazione visiva e poesia si legano poi alla ricercata colonna sonora di Mauro Lupone che intervalla improvvisi silenzi a sonorità stridenti. Giacomo Verde ha donato SOLO LIMONI alla piattaforma Indymedia, attestandone così la natura indipendente sia per la modalità di produzione che per quella di distribuzione. Genova rappresenta un punto di svolta importante per la produzione militante più recente, non solo italiana. Matteo Pasquinelli, nel suo manuale Media Activism inquadra la nascita del “media attivismo”, inteso come movimento organizzato e sottostante a precise regole nel 1999 quando a Seattle si svolge l’incontro della World Trade Organization (l’Organizzazione del commercio mondiale) e per la prima volta, un movimento globale autorganizzato attraverso la rete, assume visibilit internazionale. à̀ internazionale. Chiaramente questa partecipazione globale non arriva improvvisamente. Sin dalla fine degli anni ‘80, parallelamente allo sviluppo delle reti telematiche, diversi attivisti intuiscono il potenziale delle BBS, (Bulletin Boards System), piattaforme di condivisione via modem divise per aree tematiche. Con la diffusione di Internet le BBS vengono trasformate in mailing list internazionali, alcune delle quali dedicate alla riflessione critica sull’arte, i media e l’attivismo. Tra queste “Net_Institute”, fra i cui fondatori vi sono Franco Berardi “Bifo” e Matteo Pasquinelli, che nasce nel febbraio 2000 e a cui si deve la fondazione di Indymedia Italia. Certamente importante l’azione di “Nettime”, sia per il ruolo svolto nella nascita di quella che poi è stata definita net.art, sia perché dà origine a un network di progetti, pubblicazioni e siti internet che favoriscono la circolazione della “net culture” anche al di fuori della rete. In questa direzione in Italia un ruolo centrale è stato ricoperto dai Centri Sociali, che si sono costituiti come centri nevralgici per la diffusione di conoscenze relative all’uso critico di strumenti tecnologici e informatici mediante l’istituzione di numerosi Hacklab. In seguito alle contestazioni di Seattle 1999, la società civile sembra un poco risvegliarsi e nascono i social forum, delle assemblee composite che vorrebbero costituire un’alternativa dal basso ai processi di globalizzazione del grande capitale. A Genova, nella notte tra il 21 e il 22 luglio 2001, le forze dell’ordine fanno un blitz violento al Media Center (dove si trovano anche l’Indymedia Center e la sede dell’assistenza legale) e alla scuola Pertini-Diaz, dove riposano un centinaio di manifestanti. L’attacco violento ai luoghi di produzione dell’informazione assume a livello internazionale un valore simbolico: un attacco alla libertà di espressione che va combattuto. Da quel momento in poi infatti la gestione dell’informazione indipendente sarà un punto cruciale nell’agenda dei movimenti attivisti. Tornando a SOLO LIMONI (2001), bisogna aggiungere un ultimo tassello: l’allora Presidente del Consiglio era Silvio Berlusconi, una figura che incarna il binomio potere-controllo dei mezzi di comunicazione. L’operazione di Giacomo Verde quindi risulta dissidente tanto verso un immaginario prodotto dalla Televisione, quanto verso i suoi apparati di produzione (per l’utilizzo di tecnologie povere e il ritmo disteso) distribuzione (la video-documentazione è visibile e scaricabile gratuitamente online) e giurisdizione. Sul sito dell’artista si legge: «Il video è libero da copyright per qualsiasi uso NON commerciale di associazioni No- riguarda l’analisi della storia come luogo di interrogazione e critica attraverso un profondo lavoro di rielaborazione found-footage, a cui corrisponde anche una militanza politica degli artisti, più o meno esplicita, riscontrabile nei contenuti espressi; la seconda è quella che propone il remix e il mash-up delle apparizioni televisive dei politici come forma di satira. Questa nuova forma di “opposizione” audiovisiva si allontana dalla militanza della “telecamera in strada” per lavorare in post-produzione sulla realtà già mediatizzata. Tra queste esperienze cita il collettivo catanese Canecapovolto, nato nel 1992 con il proposito di sviluppare un’indagine sulle possibilità espressive dei mezzi che ci circondano: dal film in Super 8, al video, dalle fotocopiatrici ai collage su carta. Alla base della sperimentazione vi è l’idea di “sabotare” l’immaginario mediatico, attuando strategie di spiazzamento. Una produzione singolare del collettivo è Abbiamo un problema (2012), che indaga sulla percezione che l’attuale società ha dell’omosessualità. Il video accosta materiale d’archivio a interviste su strada, nell’intento di evitare l’attestazione di una singola tesi, ma al contrario far emergere la pluralità di visioni e pregiudizi legati alla tematica. Ciò che fa di quest’opera “militante” non sono “i contenuti espressi”, o la tecnica utilizzata (la riappropriazione, found-footage, mash up, remix) come sostiene la Marcheschi, ma il fatto che questo video sia stato prodotto da una piccola “casa editrice indipendente di impegno civile”, Navarra Editore, e sia stato distribuito in circoli, associazioni, centri sociali con l’obiettivo di alzare il livello di discussione sulla tematica dell’omosessualità. Il video, inoltre, non è soggetto a copyright, è visionabile su vimeo e replicabile senza consenso degli autori in qualsiasi circostanza lo si ritenga utile. Un’altra lente teorica che ci viene in soccorso è stata elaborata dal collettivo olandese Tactical Media Crew ed è quella dei “media tattici”. Nel testo redatto da David Garcia e Geert Lovink, l’ABC dei Media Tattici, in occasione del Festival da loro curato The Next Five Minutes, (un’esperienza che durò dal 1993 al 2003) si legge: Media tattici sono quello che succede quando i media a basso costo e “fai da te” resi possibili dalla rivoluzione che c’è stata nell’elettronica di consumo e da estese forme di distribuzione (dall’accesso pubblico al cavo all’Internet), vengono sfruttati da gruppi e individui che si sentono danneggiati o esclusi dalla cultura dominante. I media tattici non solo riportano gli eventi, ma non sono mai imparziali, ed è questa più di ogni altra cosa che li separa dai media ufficiali/tradizionali. Per David Garcia e Geert Lovink, ciò che dunque contraddistingue una produzione militante è l’utilizzo dei media in maniera tattica e la loro dichiarata rinuncia al racconto oggettivo dei fatti. Anche Faenza nell’ultimo capitolo del suo manuale riflette sulla necessità di un circuito indipendente dal monopolio del sistema di informazione ufficiale, proponendo, memore delle esperienze statunitensi e canadesi, la televisione via cavo. Mentre negli Stati Uniti, ma anche in alcuni paesi europei iniziano a proliferare community television alternative, in Italia tutto ciò resterà un’utopia. Per la realizzazione della prima tv di strada bisognerà aspettare il 2002 con la nascita di Orfeo tv a Bologna. Orfeo Tv si inserisce in un progetto più ampio ospitato dal sito Telestreet, un network delle Tv di strada. La filosofia di queste esperienze è “La tv è di chi la fa’’, muovendosi in una strettoia tra la legalità e l’illegalità. Da una parte afferma uno dei diritti fondamentali della Costituzione italiana, il diritto inalienabile della libertà di espressione sancito dall’articolo 21. Dall’altra però entra in conflitto con la Legge Mammì del 1990 che stabilisce un numero limitato di frequenze nel territorio italiano, previa concessione governativa. Si trattava di sfruttare i “buchi” di natura tecnica e legislativa negli apparati di controllo del potere mediatico e televisivo. Il buco tecnico consisteva nel fatto che la modalità di copertura del territorio da parte del segnale radio delle emittenti televisive tradizionali, dà origine a dei coni d’ombra nelle quali il segnale radio su una data frequenza non giunge: per tale motivo, quella data frequenza risulta “libera” in quella zona, anche se sul piano formale posseduta da un gestore televisivo tradizionale che ne ha pagato uso e concessione allo Stato sul piano legislativo. Muovendosi in un territorio illegale, ma di fatto costituzionale il movimento affermava il diritto inalienabile alla libertà di espressione. Anche Matteo Pasquinelli sostiene che come McLuhan insegnava dagli anni ’50, il media attivismo più importante sta a livello del medium e non del contenuto. Non si tratta solo di produrre contenuti alternativi, ma di penetrare tra le maglie del sistema e sovvertirne le regole. Per questo, l’accento sui canali di diffusione alternativi è in questa sede ritenuto un tratto cruciale se non il vero distinguo che ci permette di operare una cernita tra le opere su argomenti politici e le opere militanti. Dato che gran parte della produzione militante aderisce a una filosofia No copyright, un punto centrale nell’agenda delle varie comunità media-attiviste è quello della tutela dei materiali rispetto all’appropriazione indebita da parte di canali televisivi a fini commerciali. A differenza delle produzioni più creative come quelle di Giacomo Verde o Candida TV, che sono preventivamente fuori dagli standard televisivi, per cui invendibili, per quelle produzioni più documentarie il problema diventa cruciale. Su questo argomento, riflettono molti testi redatti ad opera di attivisti. Il già citato “Media Activism” ad esempio contiene un “Vademecum legale per media attivisti” a cura dell’avvocato Federico Micali. Una delle tattiche osservate per enfatizzare la natura indipendente di questi materiali nel Mare Magnum di Internet è quella di vincolarli alle licenze Creative Commons, che ne consentono il riutilizzo da parte degli utenti, ma al contempo ne vincolano gli usi a fini non commerciali. Conclusioni (?) Il terreno è complesso e le proposte sin dagli anni ‘60 sono variegate e numerose, per cui l’adesione a principi militanti, andrebbe verificata di volta in volta mediante l’analisi della singolarità di ciascuna produzione e in dialogo con gli artisti che la realizzano. Un altro aspetto che andrebbe approfondito sono le differenze apportate dai passaggi tecnologici cinema- videotape-digitale. La capacità data dalla tecnologia elettronica di registrare più a lungo rispetto alla pellicola, ad esempio, si è tradotta nella possibilità da parte degli artisti di stare più a lungo accanto alle classi in lotta. D’altro canto, la possibilità di registrare contemporaneamente suono e immagine, da una parte smussa il carattere “paternalistico” di certi film militanti caratterizzati dalla presenza di una voce off che spiega l’ideologia piuttosto che mostrarla, dall’altra appiattisce la sperimentazione. Il digitale a sua volta esalta la componente creativa consentendo più facilmente rispetto a tecnologie precedenti di mixare materiali diversi. Tuttavia, il ruolo della creatività nell’utilizzo dei media acquista spazio già sul finire degli anni ‘70, da una parte al fine di proporre nuovi immaginari, dall’altra per denunciare l’imprescindibile presenza di un occhio parziale in qualsiasi “racconto” sulla realtà, anche quello apparentemente più neutrale. Certamente però le tecnologie digitali sfidano nuovi limiti imposti dai media stessi. La natura potenzialmente replicabile all’infinito dei dati digitali si traduce ad esempio in una riflessione sulla “paternità” delle immagini, sulla loro ontologia, sull’appropriazione indebita da parte dei canali ufficiali di informazione. Problematiche che si riversano sia nelle modalità espressive adottate dagli artisti che nella scelta del dominio giuridico e dei canali di distribuzione delle loro produzioni. La scelta di soluzioni stilistiche che segnano la natura marcatamente rielaborata dell’immagine (sgranatura, bassa definizione, effetti coloristici, rallenty, ripetizioni, velocizzazioni, reverse) si rivela infatti sia come una tattica di distanziamento ideologico dal mercato delle immagini televisive che come tutela rispetto all’appropriazione da parte delle emittenti televisive ufficiali. Si assiste inoltre a una proliferazione dei dispositivi e delle modalità di proiezione. Singolare ad esempio è il progetto Free Video Cell di Giacomo Verde che indaga sulle possibilità espressive di ripresa, portabilità e mobilità proprie del cellulare, al fine di superare i format mediante i quali cinema e televisione ci abituano a “inquadrare” il mondo. L’artista inoltre rilascia gratuitamente sul suo sito una serie di materiali e tutorial da poter riutilizzare in modo da “liberare” il telefonino dai discorsi sull’isolamento e l’immobilità cui spesso è relegato. Se inoltre, come scrive Matteo Pasquinelli «il media attivismo più importante sta a livello del medium e non del contenuto», Internet acquista un ruolo cruciale. Le pratiche militanti in rete, infatti, hanno cercato di rovesciare creativamente le problematiche insite nel funzionamento e nella gestione di Internet relative al controllo, la privacy, e il legame con i mercati finanziari. È il caso di Heath Bunting che riflette sul link inteso come maschera di mercificazione dello spazio in Rete. Il link è per natura una superficie a due facce: l’una immediatamente visibile e l’altra rintracciabile dal codice sorgente della pagina. La relazione tra queste due facce è del tutto arbitraria e viene stabilita dall’autore della pagina che registra, dunque paga, un dominio. Con il progetto Own, Be Owned, Remain Invisible (Possiedi, vieni posseduto, rimani invisibile) Bunting compone delle poesie rendendo cliccabile ogni parte del testo. La demistificazione del link avviene così su due piani, su quello del significato delle parole e sulla dimostrazione pratica che le medesime parole, apparentemente di uso comune, siano ormai registrate come dominio commerciale. Altri riflettono sui processi soggiacenti alla manipolazione del flusso informativo e al controllo di dati. È così che uno spyware, software che raccoglie i dati dell’utente a fini commerciali, viene trasformato dal duo italiano Art is Open Source, Salvatore Iaconesi e Oriana Persico, in ‘Angel_F’, un’intelligenza artificiale generativa le cui sembianze e il cui linguaggio crescono tramite la raccolta dati degli utenti che accedono al sito che lo ospit7. Nella stessa direzione va letta la loro piattaforma “La Cura”. Il progetto prende vita nel 2012 quando all’artista viene diagnosticato un cancro al cervello e decide di “craccare” la cartella clinica rilasciata dai medici in formato DICOM leggibile ai soli specialisti. Trasformando il documento in semplici .jpeg e .HTML, rende accessibile nella piattaforma dati riservati a una ristretta comunità scientifica. Artisti, designer, ricercatori, tecnologi, medici e pazienti iniziano a inviare i propri contributi, dando vita ad una performance globale. Il progetto così diviene rielaborazione del significato della parola “cura”, che Iaconesi vede come incontro collettivo. Molte delle pratiche su questo versante sono accomunate dall’adesione all’etica hacker che promuove libertà, condivisione e pari accessibilità di informazione, insieme all’impegno di diffondere i saperi relativi agli strumenti tecnologici. Per tentare di cartografare il carattere disobbediente di queste esperienze Tommaso Tozzi e Arturo Di Corinto parlano di hacktivism, che deriva dall’unione delle parole hacking e activism. Ed è in questo territorio, più che in quello videografico, che forse attualmente risiede l’eredità più dirompente della produzione militante degli anni ‘60 e ‘70. In un contesto, infatti, in cui Internet diviene non solo un gigante contenitore di tutti i media di comunicazione di massa, ma soprattutto un apparato di controllo e mercificazione di informazione, dati personali e desideri, demistificarne i meccanismi significa mettere in discussione tutte le premesse su cui si basa l’attuale società, non solo il ruolo giocato dall’immaginario prodotto dalla sfera audiovisuale. Adami: Video in Italia: una storia senza margini. Per una ricognizione storica, critica, espositiva dopo l’avvento del digitale Di Milo Adami ABSTRACT Una ricognizione storico-critica (parziale ma significativa), da un punto di vista prettamente intermediale, su quanto accaduto in Italia intorno al video dopo l’avvento del digitale, è il passaggio che qui si vuole tentare per abbozzare una mappa di concetti, artisti, testi, utile ad interpretare le recenti evoluzioni artistiche, critiche ed espositive del lessico e dell’immaginario videografico. La riflessione in Italia sul video è sempre stata frammentaria, non sistemica, non circoscrivibile alle sole esposizioni, occorre quindi estenderla a festival, rassegne, spazi off, testi critici significativi. “sinmediale” enfatizzi l’unione dei media suggerendo il passaggio dall’interazione a un’effettiva integrazione, «ricollegandosi all’esperienza sinestetica (esperienza percettiva plurisensioriale) e all’utopia della sintesi delle arti, immaginata dagli artisti e resa oggi potenzialmente concreta dallo sviluppo tecnologico del digitale». Secondo Pierre Lévy, «la messa in relazione di molteplici media si compie tecnicamente nella convergenza in un unico standard, quello digitale», è quel che definisce «unimedia», ultimo stadio di un’attitudine extramediale intuita fin dagli anni ‘60. In questo senso l’esperienza di Studio Azzurro ci appare meno isolata se posta in relazione con storie contigue come quelle raccolte dall’esperienza del Link Project di Bologna. Il Link (attivo in Via Fioravanti a Bologna dal 1994 al 2004) è stato un centro di produzione e uno spazio di diffusione di varie culture: dall’editoria indipendente, al teatro di ricerca, la musica rock ed elettronica, la performance la video performance e il video monocanale. Si configura da subito come uno spazio unico nel suo genere, somiglia a un Factory. Qui i linguaggi non stanno in scomparti separati ma convivono dove lavora l’immagine, ovvero lì dove giacciono latenti le possibilità del video. In un paese come l’Italia, dove di video arte si parla molto, ma molto poco si è potuto vedere: mal digerita dalle gallerie d’arte e dai musei, ignorata dai cinema (anche d’essai), raramente presente nelle aule universitarie, tanto meno circuitata nelle televisioni, la video-arte non ha trovato alla fine luogo alcuno. Ed il LINK, che appunto non è museo né galleria, non un cinema né una facoltà universitaria, né tanto meno, per ora, è in grado di gestire una emittente televisiva, è forse il luogo giusto dove “vedere” video arte? Come sintetizzato da Simonetta Cargioli nel suo saggio in Le arti multimediali digitali, dal titolo Oltre lo schermo: evoluzioni delle videoinstallazioni, le videoinstallazioni e i videoambienti interattivi, in quanto forme mobili, aperte a un coinvolgimento sensoriale dello spettatore, rispondono a una “drammaturgia multimediale” – come la chiama Andrea Balzola – che nelle forme multiple della “galassia digitale” trovano la massima corrispondenza. È l’anima interattiva e installativa del video quella che sembra essersi più sviluppata e parcellizzata all’interno del flusso delle Live Media Arts, accolta, riconosciuta e valorizzata in forme che vanno del videomapping a videoambienti interattivi, multiproiezioni, live Vj, ma al contempo, come osserva Amaducci (nel suo volume Videoarte. Storie, autori, linguaggi), fatalmente distaccandosi dall’ambito artistico contemporaneo: «Questi due settori, invece di alimentarsi a vicenda si stanno divaricando sempre di più», di fatto sciogliendo quel legame che l’esperienza di Studio Azzurro aveva tentato di tenere unito. Verifica di una simile tendenza si ritrova in più recenti pratiche di studi di comunicazione multidisciplinari come il Dotdotdot di Milano, componendosi di architetti, designer, filosofi e programmatori. I Dotdotdot realizzano spazi interattivi per mostre, fiere, aziende, con lo scopo di arricchire l’esperienza interattiva e tecnologica dello spettatore. Altri casi sono quelli della Fuse Factory a Modena che riunisce artisti, designers, architetti, ricercatori su progetti multidisciplinari per creare «nuovi linguaggi e nuove forme di espressione in grado di dar vita a progetti innovativi nel campo dell’arte, dell’architettura, del design e della comunicazione basata su nuovi media». Infine significativa è l’esperienza di Karmachina, uno studio fondato da Vinicio Bordin, Paolo Ranieri e Rino Stefano Tagliaferro che si occupa di progettare e realizzare ambienti sensibili come videomapping per concerti di musica live, concerti multimediali (Caravaggianti, 2018), allestimenti interattivi (come quello realizzato nel 2018 per il M9 museo multimediale del ‘900) e video più sperimentali di animazione. Forse è proprio nella crisi dell’unicità dell’opera, accentuata dalla riproduzione digitale, che va ricercata la progressiva perdita di specificità del gesto artistico in sé; qui dove arte e tecnologia sembrano fondersi, l’artisticità scaturisce dall’insieme delle operazioni e dai linguaggi che si decide di attivare e manipolare, l’artisticità è un modus operandi, un’attitudine, un “modo altro” di guardare alle immagini in movimento. Tendenze espositive in Italia Due realtà che si sono distinte per il lavoro di conservazione, promozione, formazione e diffusione delle opere video italiane e internazionali sono lo spazio Careof e Visualcontainer entrambi con base a Milano. Careof è un’organizzazione no-profit che nasce nel 1987 a Cusano Milanino per volontà degli artisti Mario Gorni e Zafferina Castolid, lo scopo è archiviare e conservare le opere che altri artisti inviavano con la speranza di essere promossi e conosciuti. Da allora a oggi l’archivio conta 8.000 opere video, è diventato una realtà pubblica affermata e riconosciuta a livello internazionale (il Comune di Milano gli ha concesso nel 2008 uno spazio all’interno della Fabbrica del Vapore). Careof organizza mostre, workshop, residenze per artista (FDV Residency Program), collabora con università, accademie, istituzioni pubbliche e private, privilegiando le collaborazioni con giovani professionisti del settore della produzione artistica contemporanea e culturale, favorisce infine la produzione di nuove opere video, ad esempio curando il Talent Video Awards, che individua e premia i migliori video prodotti da artisti emergenti nell’ambito delle Accademie di Belle Arti e delle Scuole di Cinema. Altra realtà è Visualcontainer. In continuità con la storia dei centri di produzione, archiviazione e distribuzione dell’arte video, Visualcontainer viene fondato nel 2008 da Alessandra Arnò come una piattaforma di distribuzione italiana di video arte, in un momento storico in cui gli artisti non avevano ancora a disposizione strumenti di autopromozione (come Facebook e Vimeo). Una volta consolidato un proprio archivio di opere e artisti, i promotori di Visualcontainer avviano un lavoro di comunicazione e diffusione per rendere noto il loro repertorio, tant’è che i maggiori festival internazionali di video arte iniziano a riconoscerlo come un partner di qualità, affidandogli la curatela di sezioni. Prendono forma due nuovi progetti, uno è uno spazio espositivo a Milano DotBox che ha lo scopo di organizzare piccole mostre e rassegne sul video, l’altro è Visualcontainer TV, la prima Webtv dedicata interamente all’arte video, una pagina web dove va in onda in diretta una selezione di video che proviene ogni mese da un diverso festival internazionale di video arte. Visualcontainer diventa così non solo il luogo dove scoprire produzioni video che giungono da paesi anche lontani dalla cultura occidentale, ma è anche un modo per mettere in collegamento tra loro festival, curatori e artisti. Adami passa ora ad analizzare le mostre che, tra gli anni ‘90 e il nuovo millennio, in Italia hanno tentato di mettere in forma le tendenze video, tenendo conto delle coeve riflessioni critiche. Si noteranno due chiavi di lettura: una via più storica, lineare, che cerca di legittimare il video ricostruendone la storia, in particolare in Italia; l’altra che tratta il video organizzando la sua produzione per motivi, forme di scrittura, temi ricorrenti. La Biennale di Venezia del 1993 dal titolo Punti Cardinali dell’arte, curata da Achille Bonito Oliva sembra paradigmatica di questa doppia impostazione storico-critica. La mostra propone una “struttura a mosaico”, frammentaria, al fine di pensare l’arte secondo «un ordine di coesistenze, non secondo un ordine di successioni». Dall’altra parte, la via storica più lineare, secondo quanto ricostruisce Lisa Parolo, risponde alla necessità di avviare «un’indagine che renda conto di cosa, in tempi e luoghi diversi e senza la necessità di trovare delle connessioni vincolate con il passato s’intende con arte». A riprova di come entrambi gli approcci (quello iconologico/tematico e quello storico) si possano integrare e contaminare, la Biennale ospita nella sezione Transiti una sezione intitolata Museo Elettronico curata da Luciano Giaccari, una retrospettiva dei video della sua videoteca, appositamente pensata per la Biennale con lo scopo di colmare dei vuoti storici e rinforzare la consapevolezza nel presente. Adami dà maggiore spazio alle vie interpretative che più problematizzano la storia del video in funzione di una lettura orientata alle sue mutazioni multiple e ricadute nel presente. Che un’impostazione storicistica tradizionale applicata al video rischiasse di smarrirsi tra le forme extramediali appare chiaro in una mostra che Silvia Bordini cura per Palazzo dei Diamanti di Ferrara nel 2001 dal titolo L’arte elettronica. Metamorfosi e metafore. Secondo la curatrice, seppur mostrando «un’intrinseca flessibilità» le opere video conservano «una specificità del senso simbolico e dell’immaginario evocato», tanto da richiedere per l’arte elettronica un’attenzione e una sensibilità particolari immettendo lo spettatore all’interno. Come scrive la curatrice Maria Rosa Sossai nel suo libro Artevideo. Storie e culture del video d’artista in Italia (2002): Il video, in virtù delle sue qualità, è diventato il luogo di congiunzione di diverse aree creative – cinema, teatro, musica, pubblicità, nuovi media. Gli artisti che scelgono il video non lo fanno più in via esclusiva, ma lo integrano all’interno di altre pratiche che spaziano dalla fotografia, all’installazione, alla performance. Lo spazio della negoziazione e dell’interazione, intrinseco alla natura del video, con il digitale interagisce, o reagisce, con immagini e immaginari che sempre più assumono la forma di flusso. L’immagine digitale appartiene per natura a uno spazio e a un tempo virtualmente ricomposto. Sono riflessioni che s’inquadrano a partire dagli anni 2000 in un contesto più ampio di studi intermediali. Gli studi intermediali spostano l’attenzione verso i rapporti di circolazione tra i media, ovvero, come scrive Silvestra Mariniello nel primo numero di «Intermédialités», «alle condizioni (tecnologiche, storiche, culturali, sociali) che rendono possibile l’insieme delle configurazioni che i media producono nell’attraversarsi». La ricerca intermediale ha per oggetto: «la storia dei media; l’effetto dei media sul pensiero del tempo e, infine, il ruolo dell’arte nella costruzione delle relazioni tra media, conoscenza e comunità». «un campo di studi transdisciplinare» che verrà sistematizzato e storicamente fondato in Italia dal rilevante studio di Andrea Pinotti e Antonio Somaini Cultura Visuale. Immagini, sguardi, media dispositivi (2016). Grazie all’intermedialità e l’interazione tra codici espressivi diversi, scriveva nel 2003 Andrea Balzola, si accede a una «dimensione diversa di ciascun linguaggio (o codice) che vi partecipa, è una pluralità sinestetica che trasforma il gene(re) artistico in un’identità ibrida e mutante. Il motore di questa trasformazione è l’innovazione digitale», così da suggerire per Balzola un recupero per associazione di tutte quelle teorie sinestetiche che dal tardo romanticismo, alle avanguardie e le neo-avanguardie degli anni ‘60 e ‘70, erano più volte fiorite nelle pratiche artistiche. Una simile attitudine intermediale tuttavia in Italia fatica a emergere. L’intermedialità non nasconde difficoltà, fino a dove infatti possono spingersi le relazioni, sovrapposizioni, mutazioni? È la domanda che forse più di altre mette in questione l’identità del video, smarrito nella non più chiara demarcazione tra arte e comunicazione. Al contempo è proprio lì dove dovremmo ricominciare a cercarlo. Invideo, tenta di offrire risposte (o proposte) a simili quesiti da quando nel 2002 organizza la sua selezione non più per monografie ma per temi e concetti. “Mutazioni” è il primo, al quale fanno eco edizioni come “A rovescio” (2005), dedicata al “Cinema altro” e al video che giocano con le figure del tempo reversibile, e “Distanze variabili”, dedicata all’esplorazione del punto di vista, privato e pubblico, sul mondo. A questa linea Invideo alterna anche focus su festival e centri di produzione, nonché richiami alla storia del video in Italia. Invideo progressivamente cerca il video al di fuori di sé stesso, nel cinema, nelle forme e nei formati del web, nei video di animazione, nelle video performance musicali, nei videogame artistici, nella video danza, espandono le connessioni e contaminazioni intermediali di quella che il filosofo Régis Debray aveva definito una “Videosfera”. In un simile melieu mediathique (o sistema mediale), il video, sostiene Paolo Granata nel 2009 nel saggio Videomorfosi. è diventato un meta-medium, «un arcipelago di forme espressive». Se il video è assimilabile a un arcipelago di contaminazioni, tuttavia, in un’accezione così espansa, è come se smarrisse il senso, la funzione. Se ogni qualvolta si tenta una strada lineare, le opere video la confutano, tanto vale cambiare il punto di vista o i criteri di associazione e analizzare, opera per opera, le singole caratteristiche e convergenze, tracciando di volta in volta genealogie. un taglio più filmico, documentaristico, molto vicino all’antropologia visiva contesti arcaici e remoti (Archipelago, documentario del 2017) o luoghi singolari (i lavoratori di un porto in The Netherlands, 2018, video installazione a due canali per il padiglione olandese della Biennale di architettura). In tutti questi casi video e documentario s’incontrano. L’assenza di una narrazione didascalica fuori campo, l’utilizzo di inquadrature solitamente considerate errori, l’uso limitato della musica, la complessa e sofisticata articolazione sonora, i paesaggi e gli oggetti inquadrati come stati d’animo identitari sono alcune delle tracce che, secondo Piero Degiovanni risultano dalla convergenza degli artisti video nei territori del documentario (riferendosi ad artisti come Alberta Pellacani, il duo Gianni Sirch-Ferruccio Gioia). Una simile tendenza trova ancora riscontro nei documentari d’osservazione di Massimo D’Anolfi e Martina Parenti ( Il Castello 2010; Materia Oscura 2013; Spira Mirabilis 2016), nella filmografia di Michelangelo Frammartino (Il Dono 2003, Le quattro volte, 2010) o ancora nei video dell’artista milanese a Yuri Ancarani. Nel suo video forse più noto del 2010 Il capo (2010) Ancarani si sofferma sui dettagli di un linguaggio fatto di precisissimi segni con il quale il capocava di Carrara guida le ruspe del cantiere per distaccare senza danneggiarli i blocchi di marmo dalla montagna. Non ci sono dialoghi o interviste, ma una riproduzione sonora di altissima fedeltà ed estremamente immersiva, incisa dal montatore del suono Mirco Mencacci (collaboratore del collettivo Zimmerfrei) con un sistema da lui ideato per una captazione del suono a 360 gradi (spherical sound). È nel trattamento sonoro che queste opere mantengono con le figure di scrittura e i motivi del videografico le parentele più strette, ed è qui, verso un’analisi delle partiture drammaturgiche sonore, che potranno essere indirizzati maggiormente gli studi futuri. Come affrontato da Marco Bertozzi in una sua recente monografia (Documentario come arte. Riuso, performance, autobiografia nell’esperienza del cinema documentario, 2018), tali sperimentazioni, più o meno radicali, sono prove di una convergenza del cinema documentario verso una contaminazione sempre più stretta con le forme e i regimi estetico narrativi delle arti visive (e gli artisti e autori italiani sono in questo tra i maggiori protagonisti internazionali), affrancando di fatto il documentario in sé dal genere didattico e divulgativo al quale culturalmente in Italia era da sempre stato associato. Nelle opere di questi artisti la ricerca non si esaurisce mai in un solo tema. La macchina da presa si muove secondo una regia, l’immagine è curata, pulita e raffinata. L’arrivo dell’alta risoluzione, porta con sé l’attrazione verso l’immagine nitida e disincarnata, a volte sconfinando nel fascino di toccare con mano la macchina del cinema. Si affermano artisti che si muovono su questo crinale, nascono generi come i “gallery film”, prodotti e distribuiti tra festival, gallerie e musei. Il cercare il video al di fuori di se stesso porta molta critica ad analizzare questi sconfinamenti cinematografici, tuttavia quel che in definitiva chiude questo excursus è la proposta di uno scarto. Chi si muove oggi sul crinale della narrazione in video non vuole definizioni. Se la tecnologia ci aiuta a trapassare da un medium all’altro, procedendo per convergenze e rimediazioni, perché quindi limitarsi alle definizioni (Cinema? Non cinema? Video? Non Video?). Se il cinema oggi si è “smaterializzato”, «svuotato della propria carne e animato da altri organi, sottili» – come scrive l’artista Cosimo Terlizzi, nell’introduzione all’edizione dell’Asolo Art Film Festival che dirige nel 2018 – non restano che le immagini in movimento «Resta l’immagine tempo». Provare, sperimentare linguaggi, recuperare tecniche, scovare macchine e formati di ripresa desueti, ibridare cinema e video, video e documentario, animazione, disegno e fotografia quando serve, questo è il campo di forze gravitazionali in cui muoversi in futuro, analizzando, senza pregiudizio, opera per opera, caso per caso. Spostando la nostra attenzione dalla storia del video – intesa come inizio, sviluppo e fine – allo sviluppo e al mutamento dei suoi “motivi” e delle sue “figure di scrittura”, il video ci apparirà, al di là del proprio supporto d’appartenenza, come un “groviglio” di azioni e reazioni che continuano ad influenzare e deterritorializzare tutti i campi dell’arte. Una storia o una storiografia delle forme simboliche del video, preso in un più ampio campo d’indagine e di confronto con le immagini in movimento tutte, è una prossima ricerca a venire. Catricalà: Oltre il video, verso il video. Arte e intelligenza artificiale ABSTRACT Il saggio indaga le pratiche artistiche legate agli ultimi sviluppi nell’intelligenza artificiale. Da un lato, vuole mostrare come il ruolo degli artisti nei processi di sviluppo tecnologico non sia, né secondario, né marginale, ma che invece sia un motore per l’innovazione tecnologica. Dall’altro, l’idea dell’intelligenza artificiale è collegata a quelle pratiche che, piuttosto che sollevare acriticamente questi temi, cercano di investigare i significati, le nuove relazioni e le riflessioni aperte dall’avvento di queste aree. Dopo una introduzione, il concetto di video arte sarà visto dal punto di vista dell’ultimo sviluppo dell’IA in modo da mostrare la natura polimorfa di tale concetto. L’analisi della pratica artistica sarà sviluppata non solo dal punto di vista della tecnica e dei linguaggi, ma anche dal punto di vista di una nuova tendenza, la quale, usando le tecnologie dell’IA, sta conducendo a una nuova visione ecologica: verso una visione postantropocentrica dell’essere umano. L’obiettivo del saggio è porre le basi per un’analisi delle pratiche artistiche e videoartistiche legate agli ultimi sviluppi dell’intelligenza artificiale. Se il video è ancora il medium principale con il quale gli artisti operano in ambito cinematografico e artistico, è anche vero che l’immagine si dota sempre più di meccanismi tecnologici complessi. Questo porta a una ridefinizione del concetto stesso di “video arte”. Arte e innovazione In AI Aesthetics, Lev Manovich pone delle questioni importanti intorno all’utilizzo artistico dell’intelligenza artificiale e alla sua cultura estetica. Le basi sono comuni ad altri studi: l’intelligenza artificiale è oggi pervasiva in ogni nostra azione cambiando anche regimi estetici e sociali. Per Manovich l’intelligenza artificiale non è più uno strumento al servizio di qualcuno, ma una nuova forma di estetica. Non è nuova l’idea che una nuova tecnologia cambi completamente il nostro ambiente, i nostri costumi e le nostre abitudini. Molti studi, tuttavia, continuano ad avere un approccio deterministico a favore di una visione lineare dello sviluppo dei media. Dare per scontato un avvento incessante dei media, in quanto essi “accadono”, mantenendo un ruolo passivo rischia di non inquadrare il fenomeno nella sua interezza. Potrebbe, invece, essere d’aiuto interpretare il ruolo dell’artista non come utilizzatore passivo di media già immessi sul mercato, ma come motore del processo tecnologico. Molte teorie di marketing ed economiche hanno messo in discussione l’impostazione deterministica. Per questo è importante guardare alle pratiche artistiche che si confrontano con le tecnologie, perché esse ci portano non solo dentro al mondo dell’arte contemporanea, ma possono essere una risorsa per approfondire nuove modalità di concepire il ruolo della tecnologia e dei media. Il determinismo è quella concezione filosofica secondo la quale ogni fenomeno o evento del presente è necessariamente determinato da un fenomeno o evento del passato. Tuttavia, i processi di sviluppo tecnologico non sono assolutamente lineari ma rispondono a delle logiche economiche, sociali, politiche e filosofiche complesse. Il lavoro degli artisti è la dimostrazione di questa complessità evolutiva. Gli artisti portano all’ennesima potenza la non linearità dello sviluppo, dando risalto a una nuova idea di innovazione tecnologica. Per questo il rapporto degli artisti con la tecnologia è utile non solo per la storia dell’arte ma anche per lo studio dei media e della società più in generale. L’artista e l’intelligenza (artificiale) Nell’ultimo decennio, il terreno dei “media art” è cambiato sostanzialmente, afferma Simon Penny, un cambiamento che l’autore rintraccia nel nuovo rapporto tra arte e sviluppo tecnologico. Il problema degli anni ’90 era che la tecnologia che gli artisti volevano utilizzare era manchevole o non abbastanza efficiente. Dunque, il ruolo degli artisti era spesso quello di immaginare e sviluppare le tecnologie loro stessi. Per quanto oneroso, questo ruolo permetteva loro di sincronizzare gli obiettivi estetici con la forma tecnologica. In seguito a una “historical transition”, però, il ruolo degli artisti non è più di immaginare nuove possibili tecnologie, ma decodificare le funzionalità dei media già esistenti. Se il ruolo dell’artista è visto fino a qualche anno fa come attivo inventore e ideatore di tecnologie ancora non in mercato, oggi egli torna a essere un passivo utilizzatore. Al tempo stesso, gli artisti consolidano sempre più il loro rapporto con le aziende del settore tecnologico, entrando finalmente dentro centri di ricerca, dipartimenti scientifici e aziende riacquistando un nuovo ruolo attivo all’interno della produzione tecnologica a cui apportano un valore etico fondamentale. Questo è evidente soprattutto in ambiti che prevedono un’alta conoscenza scientifica e ingegneristica: come la robotica e l’intelligenza artificiale che stanno impattando e modificando ambiti in apparenza consolidati. Prendiamo come esempio la video arte, una delle prime forme del binomio “arte e tecnologia”. Essa è nata negli anni ‘60, quando le tecnologie video erano fra le più sviluppate. Tecnologie, cioè, che permettevano un maggiore controllo dell’immagine, una maggiore varietà espressiva, un minore costo, e un rapporto immagine ripresa/immagine modificata inedito per i tempi. La nascita di un fenomeno artistico viene unito, già nella sua base terminologica, con una tecnologia industrialmente determinata. Ma come ogni termine legato a un medium (“video” e “arte”) bisogna capire se con gli sviluppi tecnologici i termini nominano ancora, «Il dramma – afferma Umberto Eco – è che l’uomo parla sempre in generale mentre le cose sono singolari»: dramma dell’impossibilità di ogni definizione. Ci si potrebbe chiedere, dunque, se, alla luce degli sviluppi tecnologici e artistici, sia possibile parlare oggi di video arte come se ne parlava negli anni ‘60 o ‘70; ha senso oggi delimitare il campo dell’arte in relazione con la tecnologia al solo ambito del video? O forse è meglio utilizzare termini ombrello come audiovisivo. O forse si potrebbe dire come Tom Gunning, a proposito della rivoluzione digitale in fotografia, «cambierà come le fotografie saranno fatte, chi le farà e come saranno usate: ma resteranno pur sempre fotografie». Oggi, temi complessi come la superintelligence, e la “vita artificiale” ci portano oltre la mera questione tecnologica, oltre anche quella terminologica, spingendoci verso tematiche di carattere filosofico come il tentativo di rileggere lo stesso concetto di “essere umano”. Si percepisce una forte ansia per il futuro determinata soprattutto dall’avvento dell’intelligenza artificiale e dalle interpretazioni “futurologhe” che questa definizione si porta dietro. Che le macchine ci battono a scacchi o nella risoluzione di problemi logici e matematici, è ormai acquisito, ma la tecnologia è molto meno capace a risolvere questioni non logiche, che presentano sfumature. Forse, proprio l’IA ci darà una nuova definizione di intelligenza umana, più legata a valori non logici. Negli ultimi anni, gli artisti hanno dato una nuova interpretazione a queste tematiche utilizzando tecnologie e linguaggi, ridefinendo settori artistici e coniando nuovi concetti. Questi artisti rappresentano una nuova ondata utile allo studio dell’arte e dei media. Più che al tecnologico, l’arte ci fa guardare al nuovo rapporto che l’uomo sta instaurando con questo, e alla nuova relazione che egli inaugura con l’ambiente circostante. Oltre il video, verso il video. Esempi di artisti L’artista ha creato delle piccole intelligence artificiali composte di oggetti di vita quotidiana (vasi, piante, scatole di cartone usate, etc.) che si muovono all’interno dello spazio espositivo. Gli oggetti hanno tutti sentimenti diversi (rabbia, amore, paura, ecc.) che li rendono non tanto degli “esseri” logicamente intelligenti, ma sentimentalmente intelligenti. Un esempio è Sebastiano di Piccolo, una scultura rappresentata da un uomo piegato in camice bianco sulla cui schiena dei piccoli bracci robotici disegnano. L’uomo accoglie i robot permettendo a essi, come a dei bimbi, di giocare sulla sua schiena, disegnare forme artificiali gestite da algoritmi. La tecnologia è il motore per la creazione di una nuova modalità poetica: come possibilità immaginifica di
Docsity logo


Copyright © 2024 Ladybird Srl - Via Leonardo da Vinci 16, 10126, Torino, Italy - VAT 10816460017 - All rights reserved