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Riassunto SCRITTI TEATRALI- Bertold Brecht, Sintesi del corso di Storia del Teatro e dello Spettacolo

Riassunto dettagliato di SCRITTI TEATRALI di Bertold Brecht

Tipologia: Sintesi del corso

2015/2016

In vendita dal 18/03/2016

fla.castelli1
fla.castelli1 🇮🇹

4.3

(19)

11 documenti

Anteprima parziale del testo

Scarica Riassunto SCRITTI TEATRALI- Bertold Brecht e più Sintesi del corso in PDF di Storia del Teatro e dello Spettacolo solo su Docsity! SCRITTI TEATRALI- BERTOLD BRECHT E’ possibile esprimere il mondo di oggi per mezzo del teatro? Ho appreso con interesse che Friedrich Durrenmatt, in un dibattito sul teatro ha posto questa questione. A mio avviso è una questione pertinente. E’ passato il tempo in cui l’espressione del mondo mediante il teatro doveva essere semplicemente un fatto sperimentale. Per diventare da esperimento esperienza, essa deve aderire a ciò che esprime. Fu appunto questa consapevolezza a spingere alcuni di noi, autori drammatici e maestri di recitazione, a tentare nuovi mezzi artistici. Io stesso mi trovo in un grande teatro con numerosi collaboratori esperti e attrezzato con tutti i ritrovati tecnici necessari; eppure non posso affermare che le concezioni drammatiche che io chiamo non-aristoteliche e la recitazione epica con tali concezioni connessa, rappresentino la soluzione. Una cosa però è ormai chiara: il mondo d’oggi può essere descritto agli uomini d’oggi solo a patto che lo si descriva come un mondo che può essere cambiato. Gli uomini d’oggi si interessano delle situazioni e degli avvenimenti di fronte ai quali possano agire in qualche modo. In un’epoca nella quale la scienza è in grado di trasformare la natura al punto che il mondo appare già quasi abitabile, non è più ammissibile che si continui a descrivere all’uomo il suo simile come vittima di un ambiente sconosciuto quanto immutabile. Non vi stupirete all’udirmi affermare che il problema se sia possibile una descrizione del mondo, è un problema di ordine sociale. Da molti anni sostengo questa tesi, e oggi vivo in uno stato ove è in atto uno sforzo immane verso la trasformazione della società. E sul punto che il mondo odierno abbia bisogno di essere cambiato, credo che sarete d’accordo con me. Il mondo di oggi può essere espresso anche per mezzo del teatro, purché sia visto come un mondo trasformabile. PARTE PRIMA La dialettica nel teatro IL TEATRO MODERNO E’ TEATRO EPICO Note all’opera Ascesa e rovina della città di Mahagonny OPERA - MA NOVITA’! Da un po’ di tempo si tenta di rinnovare l’opera. Senza alterare il suo carattere culinario, si vuole attualizzarla nel contenuto e tecnicizzarla quanto alla forma. Siccome l’opera è cara al suo pubblico proprio per ciò che ha di arretrato, bisognerebbe poter contare sull’afflusso di un nuovo pubblico con nuovi appetiti, ed effettivamente ci si conta: si tende a democratizzare, ma una discussione di principio sull’opera non viene richiesta. I grandi apparati come l’opera, il teatro, la stampa fanno passare le loro opinioni, per così dire, in incognito. Mentre già da lungo tempo questi apparati si servono del lavoro prestato da lavoratori intellettuali che ancora partecipano al guadagno soltanto al fine di alimentare i loro modi di organizzazione del pubblico, e con ciò valutano questo lavoro a modo loro e l’orientano nel loro senso. I lavori intellettuali stessi continuano a credere che l’attività di codeste imprese consista soltanto nell’utilizzare il loro lavoro intellettuale, e venga perciò a costituire un fattore secondario che non influenza il loro lavoro, ma, al contrario, gli procura influenza. Dunque illudendosi di possedere un apparato che in realtà li possiede, essi difendono un apparato che non controllano più, che non è più un mezzo che serve i produttori intellettuali, ma è diventato un mezzo che si rivolge contro di essi, contro la loro produzione. Essi sono ridotti allo stato di fornitori, valutati in base alla scala di smerciabilità. Da qui l’uso invalso di esaminare ogni opera d’arte sotto l’aspetto della sua convenienza all’apparato, e di non preoccuparsi se l’apparato sia, o no, conveniente all’opera d’arte. Ma questo apparato è determinato dalla società esistente e assimila solo ciò che gli permette di sussistere in questa società. Così, nel migliore dei casi, l’apparato lascerà passare una novità che porti al rinnovamento, ma non mai al cambiamento della società esistente, buona o cattiva che sia la forma di questa società. I più evoluti non pensano nemmeno a cambiare l’apparato, perché sono convinti di avere a disposizione un apparato che serve ciò che essi liberamente inventano, un apparato che si trasforma da sé con ogni loro nuovo pensiero. Il fatto è che la loro invenzione non è libera: l’apparato adempie alla propria funzione con o senza di loro, ha semplicemente bisogno di una certa quantità di materiale. Si potrebbe pensare che il mettere in luce questo stato di cose equivalga a condannarlo, ma il fatto stesso di limitare la libera invenzione del singolo individuo sarebbe invece un progresso. Sempre in maggior misura l’individuo viene immesso nei grandi avvenimenti che cambiano il mondo. Egli non può più semplicemente “esprimersi”, ma viene sollecitato e abilitato alla soluzione di problemi generali. Il male è che oggi gli apparati non sono ancora quelli della comunità, che i mezzi di produzione non appartengono ai produttori e che di conseguenza il lavoro assume carattere di merce e quindi obbedisce alle stesse leggi delle merci. L’arte è merce- non si può produrre senza i mezzi di produzione (gli apparati). Un’opera non la si può fare che per l’opera. Anche se si volesse provocare una discussione di principio sull’opera stessa, sarebbe necessario fare un’opera. OPERA… L’opera attualmente in auge è l’opera culinaria. Essa costituì un mezzo di godimento molto prima di essere una merce. Affronta ogni oggetto con intenzione di godimento, prova e appresta “emozioni”. Perché Mahagonny è un’opera? Il suo atteggiamento fondamentale è quello dell’opera, cioè culinaria. Affronta il suo oggetto con intenzione di godimento. E’ emozionante. E’ un divertimento. Tiene conto di ciò che l’opera, come genere artistico, ha di assurdo. Ciò che l’opera ha di assurdo consiste nel fatto che essa si serve di elementi razionali, che tende verso una rappresentazione plastica e realistica, ma nello stesso tempo tutto ciò viene annullato dalla musica (es. un uomo che sta per morire si mette a cantare). Quanto più la musica rende la realtà imprecisa, irreale, tanto più l’insieme riesce denso di godimento: l’intensità del godimento dipende direttamente dal grado d’irrealtà. Detto che Mahagonny è un’opera, un tale concetto la definisce per tutto il resto. Vale a dire, aspetti assurdi, irreali, non seri, dovrebbero, se situati al posto giusto, risolversi e insieme assurgere a un significato superiore. Le assurdità che qui appaiono, sono semplicemente conformi al luogo in cui appaiono. Un atteggiamento simile è, per definizione, quello del godimento. Quanto al contenuto di quest’opera: il suo contenuto è di godimento. Divertimento, dunque, non solo come forma, ma anche come oggetto. Lo svago dovrebbe almeno essere oggetto di ricerca, se si ritiene che la ricerca deve essere oggetto di svago. Qui esso si presenta nel suo attuale aspetto storico: come merce. Non negheremo che per ora questo contenuto debba agire come provocazione. Quando per esempio nel quadro XIII di Mahagonny il ghiottone mangia fino a crepare, egli fa questo perché vive in un mondo dove regna la fame. Il suo godimento è provocante a motivo del contenuto di cui è pregno. Ma nella provocazione vediamo ristabilita la realtà. Può darsi che Mahagonny non sia appetitosa: comunque, essa è culinaria da un capo all’altro. Mahagonny non è nient’altro che un’opera. …MA NOVITA’! L’opera doveva essere portata al livello tecnico del teatro moderno. Il teatro moderno è il teatro epico. Forma drammatica del teatro Forma epica del teatro -attiva -narrativa -involge lo spettatore in un’azione scenica -fa dello spettatore un osservatore -ne esaurisce l’attività -ne stimola l’attività -gli consente dei sentimenti -lo costringe a decisioni delle emozioni a una visione generale nuova opera. Oggi ci si può già chiedere se l’opera non si trovi ormai in condizioni tali che ogni ulteriore novità porti non più al rinnovamento di questo genere, ma addirittura alla sua distruzione. Nell’opera di Mahagonny sono di tal genere quelle novità che consentono al teatro di proporre descrizioni di costume nonché quelle per mezzo delle quali lo spettatore assume una posizione morale. L’opera di Mahagonny comporta già una funzione di modificazione della società, appunto perché mette in questione il culinarismo, perché attacca la società che ha bisogno di simili opere. PER LE NOVITA’- CONTRO IL RINNOVAMENTO! L’opera di Mahagonny fu scritta due anni or sono, nel 1928-29. Nei lavori seguenti ci dedicammo a tentativi intesi ad accentuare sempre più il carattere d’insegnamento a spese di quello culinario. A sviluppare cioè dal mezzo di godimento un oggetto di istruzione e a trasformare certe istituzioni di luoghi di divertimento in organi di pubblicazione. LETTERIZZAZIONE DEL TEATRO Note all’Opera da tre soldi LA LETTURA DEI DRAMMI Non c’è ragione di modificare per L’Opera da tre soldi, l’epigrafe scritta da John Gay per la sua Beggar’s Opera: “Nos haec novimus esse nihil”. Circa la sua edizione per la stampa: essa in sostanza non è altro che la copia per il suggeritore di un’opera esclusivamente consegnata al teatro, e si rivolge piuttosto al tecnico che allo spettatore. Al quale proposito si può osservare come una quanto più larga possibile trasformazione degli spettatori e dei lettori in tecnici sia un obiettivo da perseguirsi attivamente e sia già anche stata avviata. L’Opera da tre soldi mette in questione le concezioni borghesi non solo come contenuto, ma anche il modo nel quale le rappresenta. E’ una specie di referendum su quello che lo spettatore desidera che il teatro gli mostri della vita. Ma poiché egli vede contemporaneamente anche alcune cose che non desidera vedere, poiché cioè vede i suoi desideri non solo realizzati ma anche criticati, egli è in grado di assegnare una nuova funzione al teatro. Poiché però il teatro stesso oppone resistenza a un mutamento delle sue funzioni, è bene che lo spettatore possa leggere quei drammi che non perseguono soltanto lo scopo di essere rappresentati in teatro, ma anche quello di trasformare il teatro. Oggi c’è un’assoluta preminenza del teatro sulla letteratura drammatica. Questa preminenza dell’apparato teatrale è la preminenza dei mezzi di produzione. A un suo rinnovamento per altri scopi, l’apparato teatrale si oppone trasformando immediatamente il dramma con il quale si incontra, così che questo non costituisca più in alcun modo un corpo estraneo rispetto ad esso, salvo nei punti in cui si annulla da sé. TITOLI E CARTELLI I cartelli sui quali vengono proiettati i titoli delle scene sono un primitivo avvio alla “letterarizzazione del teatro”. Letterarizzare significa sostituire al “figurato” il “formulato”: essa dà al teatro la possibilità di stabilire una connessione con altri istituti dediti all’attività spirituale; ma rimane un fatto unilaterale finché anche il pubblico non partecipi ad essa e riesca a penetrare “al di sopra” della vicenda. L’uso dei titoli può essere criticato dalla drammatica tradizionale col sostenere che lo scrittore teatrale deve concentrare nell’azione tutto quello che ha da dire, e che la poesia ha da esprimere tutto da se stessa. Ma questa tendenza a subordinare tutto a un’idea, la mania di costringere lo spettatore a una dinamica a senso obbligato deve essere respinta dal punto di vista della nuova drammatica. Si deve esercitare lo spettatore a una visione complessa. Inoltre i cartelli esigono e rendono possibile un nuovo stile da parte dell’attore. Questo stile è lo stile epico. Una volta letti i titoli proiettati sui cartelli, lo spettatore assume l’atteggiamento dell’osservatore che fuma. Con tale atteggiamento egli ottiene senz’altro un’esecuzione migliore e più elevata: voler “ammaliare” un uomo che fuma, è impresa disperata. Ben presto si otterrebbe un teatro pieno di tecnici e gli attori non potrebbero più osare di proporre a un simile pubblico quei miserabili quattro soldi di mimica che oggi rafforzano in poche prove tirate via senza il minimo criterio. Purtroppo però c’è da temere che titoli e permesso di fumare non bastino del tutto a portare il pubblico ad un più fecondo commercio con il teatro. DEL CANTARE LE CANZONI L’attore quando canta, compie un mutamento di funzioni. I tre piani- discorso corrente, discorso elevato e canto- devono sempre essere distinti uno dall’altro. In nessun caso il canto deve soccorrere quando la piena del sentimento faccia mancare le parole. L’attore non deve soltanto cantare, deve mostrare uno che canta. Non deve sforzarsi troppo di dar risalto al contenuto sentimentale della canzone, ma indica gesti che sono gli usi e costumi del corpo. A questo intento, nello studio delle canzoni, egli si varrà preferibilmente non delle parole del testo, bensì di locuzioni profane di uso comune che esprimano suppergiù lo stesso, ma nell’impertinente linguaggio quotidiano. Per quanto riguarda la melodia, egli non la seguirà ciecamente: esiste un modo di “parlare contro la musica”, che può ottenere grandi effetti. Se poi sfocia nella melodia, allora deve essere un avvenimento: per accentuarlo, l’attore potrà palesare chiaramente il godimento che la melodia gli procura. E’ bene per l’attore che durante la sua esibizione i componenti l’orchestra siano visibili, è bene pure che gli sia permesso di compiere visibilmente dei preparativi. Soprattutto nelle canzoni importa che “chi indica sia indicato”. PERCHE’ MACHEATH VIENE ARRESTATO DUE VOLTE E NON UNA SOLA? Se considerata dall’angolo visuale della scuola pseudo-classica tedesca, la prima scena del carcere è un inutile allungamento; secondo noi è invece un esempio di forma epica primitiva. Essa è un allungamento se seguendo il concetto drammatico puramente dinamico che assegna la preminenza all’idea, si fa desiderare allo spettatore una meta sempre più precisa per rendere possibile un’intensa partecipazione sentimentale dello spettatore. La drammatica epica, d’impostazione materialistica, scarsamente interessata agli investimenti spirituali dello spettatore, non conosce alcuna meta, ma solamente un fine, non solo in linea retta ma compiendo curve e perfino salti. La drammatica dinamica, d’indirizzo idealistico, che maneggia l’individuo, all’inizio del suo cammino fu più radicale, in tutti i punti decisivi, di quanto lo è duecent’anni più tardi nella scuola pseudoclassica tedesca, che ha scambiato la dinamica della rappresentazione con la dinamica del fatto da rappresentare e ne ha classificato l’individuo: la dinamica della rappresentazione da allora si è trasformata in un’empirica di effetti accumulati e sapientemente ordinati, e l’individuo, concepito in pieno disfacimento, viene costruito sempre dall’interno, ma ormai soltanto “a caratteri”. Ma quella grande drammatica era meno radicale nello scarto della materia. Nelle sue costruzioni essa non tralasciava le deviazioni dell’individuo dal suo corso rettilineo, traenti origine dalla vita, ma bensì si serviva di queste deviazioni come di una forza motrice della dinamica. Tutto il peso di quella drammatica proviene dal riunire contraddizioni. Né l’aspirazione ad un facile schema ideale determina alcun preordinamento della materia. Lì dentro vive qualcosa del materialismo baconiano: l’individuo stesso è di carne e di ossa e fa resistenza allo schema. Ma dappertutto ove sia il materialismo, sorgono forme epiche di arte drammatica, e segnatamente e con maggior frequenza nel genere comico, sempre improntato in senso più materialistico, più “terra terra”. Oggi che l’esistenza umana deve essere concepita come “l’insieme di tutti i rapporti sociali”, la forma epica è la sola a poter esprimere quei processi che servono all’arte drammatica come sostanza di una vasta visione del mondo. La nuova forma drammatica deve proporsi come metodo di accogliere entro di sé il “saggio”. Essa deve poter utilizzare ogni nesso in ogni direzione. PERCHE’ IL MESSO REALE DEVE ESSERE A CAVALLO? L’Opera da tre soldi dà un quadro della società borghese. Questa società borghese ha prodotto, per conto suo, un ordine borghese del mondo, ossia una ben precisa Weltanschauung, dalla quale non può in alcun modo prescindere. L’apparizione del messo reale a cavallo, là dove la borghesia vede ritratto il suo proprio mondo, è assolutamente indispensabile. Gli esperti di teatro sono pregati di riflettere perché nulla sia più sciocco del sopprimere il cavallo del messaggero, come hanno fatto quasi tutti i registi di avanguardia dell’opera dell’ Opera da tre soldi. Senza l’apparizione di un messaggero in un modo o nell’altro a cavallo, la letteratura borghese scadrebbe a mere esposizioni di situazioni di fatto. Il messaggero a cavallo garantisce un godimento realmente senza macchia anche in situazioni che non si reggono in piedi, ed è perciò conditio sine qua non per una letteratura che ha per conditio sine qua non il non lasciar traccia di sé. EFFICACIA MEDIATA DEL TEATRO EPICO Note a La Madre Il dramma La Madre è scritto nello stile dei drammi didattici, ma esige degli attori; esso appartiene alla drammatica antimetafisica, materialistica, non-aristotelica. Questa drammatica non fa, contrariamente all’aristotelica, un uso inconsiderato dell’immedesimazione dello spettatore, e di fronte a certi effetti psichici, si pone in modo essenzialmente diverso. Così come non si propone di abbandonare il suo eroe al mondo come a un destino inevitabile, del pari non è suo intento abbandonare lo spettatore alla suggestione di emozioni teatrali. Applicandosi ad insegnare allo spettatore un certo comportamento pratico che ha per mira di cambiare il mondo, essa deve fargli assumere già nel teatro, un atteggiamento fondamentalmente diverso da quello che gli è abituale. Rappresentazione a Berlino nel 1932 e a New York nel 1935. EFFICACIA MEDIATA DELLA SCENOGRAFIA EPICA Nella prima rappresentazione della Madre la scena (di Caspar Neher) non doveva produrre l’illusione di un luogo reale: la scena stessa prendeva posizione rispetto a ciò che accadeva; essa citava, raccontava, preparava, rammentava. Nelle poche indicazioni che dava di mobili, porte, ecc., si limitava ad indicare oggetti che avevano una parte nell’azione. A Berlino furono possibili rapidi cambiamenti di scena grazie ad un sistema fisso di tubi di ferro alti poco più di un uomo, montati verticalmente nel pavimento della scena a distanze disuguali, ai quali si potevano agganciare altri tubi orizzontali, mobili, allungabili a piacimento e muniti di schermi di tela. Frammezzo, sospese in cornici, stavano delle porte di legno montate su cardini. La scenografia di New York (di Max Gorelik) era simile a questa, ma più stabile. Su un grande schermo nello sfondo si proiettavano testi e immagini documentarie che restavano visibili per tutta la scena, di modo che questo schermo aveva anche il carattere di una quinta. La scena dunque non si limitava a mostrare per accenni degli spazi reali, ma coi testi e le immagini documentarie mostrava anche il grande movimento di idee in cui gli avvenimenti si svolgevano. Le proiezioni non sono affatto un espediente meccanico nel senso di un completamento; per lo spettatore non hanno valore accessorio ma di paragone: escludono un’immedesimazione totale da parte sua, interrompono una sua partecipazione meccanica. Grazie ad esse l’efficacia diventa mediata. E con ciò esse costituiscono una parte organica dell’opera d’arte. L’INTERPRETAZIONE EPICA Il teatro epico raggruppa le persone sulla scena nel modo più atto a rendere chiaramente visibile il senso degli avvenimenti. Rinuncia ai raggruppamenti casuali, colti sul vivo: la scena non rispecchia il disordine naturale delle cose. Aspirando al contrario del disordine naturale si ha di mira l’ordine naturale. I criteri della sistemazione sono di natura storico-sociale. L’angolo visuale della regia, non viene sufficientemente caratterizzato, ma reso più facilmente comprensibile se si dice che è quello di chi descrive usi e costumi, quello dello storico. La scena II della Madre, per esempio, contiene i seguenti avvenimenti esteriori che la regia deve tenere distinti gli uni dagli altri: La messinscena del dramma La Madre da parte della Theatre Union costituisce un tentativo di presentare agli operai di New York un’opera drammatica di tipo ancora sconosciuto. Questo tipo di opera drammatica non-aristotelica, che si serve dei principi interpretativi di un teatro di nuovo genere, il genere epico, utilizza da una parte la tecnica del teatro borghese all’apice del suo sviluppo, dall’altro quella di piccole compagnie drammatiche proletarie che in Germania, dopo la rivoluzione, avevano elaborato per i loro scopi proletari uno stile singolare e nuovo, sconosciuto non solo agli spettatori, ma anche agli attori, ai registi e ai drammaturghi. Improvvisamente si esigono ora dalla regia nozioni di ordine politico e capacità di ordine artistico che per l’allestimento di opere del tipo comune non sono necessarie. Se c’è un teatro capace di precedere il suo pubblico anziché corrergli dietro, questo è il teatro proletario. Ma precedere il suo pubblico non significa escluderlo dal partecipare alla produzione teatrale. In ben più larga misura di quanto non avvenga, i nostri teatri dovrebbero organizzare, per le parti culturalmente e politicamente più progredite del loro pubblico, la possibilità di controllare la produzione scenica. In occasione della messinscena della Madre, tutta una serie di problemi avrebbero potuto essere risolti organizzando- ciò che non sarebbe stato difficile- la collaborazione di operai. Degli operai politicamente preparati non sarebbero per esempio mai stati d’accordo quando la direzione giudicò di vitale importanza per il pubblico che la rappresentazione non durasse più di due ore e di conseguenza pretese, nel terzo atto, l’eliminazione della grande scena di propaganda contro la guerra. In questo modo la rivoluzione del 1917 segue immediatamente la scena dove si mostra che nel 1914 il proletariato, nella sua grande maggioranza, respingeva le parole d’ordine dei bolscevichi. Bisogna pur mostrare che per realizzare simili rivolgimenti è necessario il lavoro rivoluzionario e bisogna mostrare come questo lavoro deve essere condotto. Argomentando in questo modo avrebbero anche salvato la costruzione estetica del terzo atto, che fu rovinata dalla disgraziata abolizione della scena principale. Inoltre in una drammatica del tipo della Madre, le arti sorelle (musica e architettura scenica), devono e possono creare molto più liberamente di quanto non sia loro possibile in una drammatica di altro tipo. Ci meravigliammo assai che l’eccellente scenografo avesse così scarse possibilità di realizzare le proprie intenzioni: egli non venne consultato né per la distribuzione, né per la disposizione degli attori e non poté dire nulla in merito ai costumi. All’ultimo momento si “russificarono” i costumi, operazione molto dubbia dal punto di vista politico, poiché produceva un effetto vignettistico e conferiva al lavoro degli operai rivoluzionari un esotico calore locale, tutto ciò senza chiedere il suo parere. Persino per l’illuminazione si fece a meno di lui. Il suo progetto lasciava visibile l’apparato di illuminazione e quello dell’orchestra. Ma siccome i pianoforti durante le parti musicali non erano illuminati, ne risultava soltanto l’impressione che per gli strumenti non si fosse potuto trovare un posto migliore. Su di una scena che batteva in breccia le illusioni si ricorse per l’illuminazione ai trucchi della scena illusionistica: così si ottennero gli effetti atmosferici di un’illuminazione da sera ottobrina fra le schiette pareti e gli apparati che tendevano a produrre un effetto del tutto diverso. Allo stesso modo fu trattato Eisler con la sua musica. Poiché la regia giudicò che la formazione dei gruppi e i gesti dei cantanti non fossero di competenza del musicista, certi brani musicali persero tutto il loro effetto, perché ne risultò un significato politico sbagliato. Il coro Il partito è in pericolo pregiudicò tutta la rappresentazione. Invece di collocare il cantante o i cantanti accanto all’apparato musicale o dietro la scena, la regia li fece entrare nella stanza in cui giaceva la madre malata, dove a gran gesti la esortarono a venire in aiuto del partito. L’accorrere di ogni singolo al suo partito nell’ora del pericolo fu così ridotto a un atto di brutalità; l’appello del partito che fa alzare anche i moribondi, si esprimeva in questo cacciar giù dal letto una donna vecchia e malata. Il teatro proletario deve imparare a consentire pieno e libero sviluppo alle diverse arti di cui si serve. Per poter mostrare il comportamento dei personaggi del dramma in modo chiaro, così che lo spettatore possa pienamente afferrare il significato politico di tale comportamento, sono necessarie alcune semplificazioni. La recitazione e il gesto devono venir scelti con molta cura ed essere improntati a grandezza. Poiché l’attenzione dello spettatore viene diretta unicamente sul comportamento dei personaggi, ogni singolo gesto dell’attore deve essere tipico e significativo. Il punto di vista che orienta le direttive della regia deve essere soprattutto storico. La piccola scena, per esempio, dove Vlassova riceve la sua prima lezione di economia, non è soltanto un avvenimento nella sua propria vita, è un evento storico: sotto la terribile pressione della miseria, gli oppressi si mettono a pensare e scoprono le cause della loro miseria. Certe frasi dei personaggi si possono afferrare nella loro piena portata solo quando si sappia come queste persone parleranno più tardi. E’ dunque necessario che agli avvenimenti e alle frasi sia dato un rilievo capace di imprimerli nella memoria. Se sapremo migliorare l’organizzazione della produzione artistica, se ci riuscirà di preservare l’idea che ci facciamo del teatro, se saremo capaci di rendere duttile la nostra tecnica, se saremo capaci di imparare, avremo la possibilità di edificare una vera arte proletaria. LETTERA ALLA THEATRE UNION, TEATRO OPERAIO DI NEW YORK, IN MERITO AL DRAMMA “LA MADRE” 1 Quando scrissi il dramma La Madre servendomi del libro del compagno Gor’kij e di molti racconti di compagni proletari sulla loro lotta giornaliera, lo scrissi in una lingua parca posando nettamente le parole e scegliendo con cura ogni gesto del mio personaggio, come si suole raccontare le parole e le gesta dei grandi. Ritenni mio compito parlare di una grande figura storica: lo sconosciuto pioniere del genere umano. Perché lo si emuli. 2 Vedete dunque la madre proletaria seguire la lunga strada tortuosa della sua classe, vedete che da prima le manca il soldino sulla paga del figlio. Perciò viene in conflitto con lui e teme di perderlo. Poi a malincuore lo aiuta nella sua lotta per il soldino continuamente temendo ora di perderlo nella lotta. Allora impara a leggere. Lascia la sua capanna, si cura anche di altri costretti a vivere come il figlio. La capanna che prima era piccola per due diventa luogo di riunioni, ospita i figli di molte altre madri. Ma il figlio lei lo vede di rado, la lotta glielo porta via. Il dialogo tra il figlio e la madre è diventato il richiamo durante la battaglia. Ma poi il figlio cade. Ella si trova ormai nella ressa più intensa dell’interminabile immensa lotta delle classi. Insegna a quei tanti che sono suoi figli e sue figlie il linguaggio della lotta contro la guerra e lo sfruttamento. 3 E così rappresentammo il dramma come chi narra di tempi famosi e nella luce dei riflettori non fu meno splendido dei drammi regali che si rappresentavano in epoche passate. Davanti alla tela pulita gli attori recitavano, coi semplici gesti caratteristici delle loro scene, le frasi dette con precisione, le parole autentiche. L’effetto di ogni frase era atteso e scoperto. Con pochi accenni si indicarono le scene dell’azione. Alcune tavole e sedie- il più indispensabile era già sufficiente. Ma le fotografie dei grandi avversari erano proiettate sui cartelli dello sfondo. E le massime dei classici del socialismo dipinte su tele o proiettate sui cartelli, circondavano gli attori coscienziosi. Essi recitavano con naturalezza. Si eliminarono invece le cose non significanti. Gli intermezzi musicali furono presentati con grazia. Molte risa si sentivano nella sala. L’inesauribile buon umore della furba Vlassova, nato dalla forza fiduciosa della sua giovane classe, provocava un riso contento sui banchi dei lavoratori. 4 Compagni, vi vedo: leggendo il piccolo dramma siete imbarazzati. La lingua parca vi sembra povera. Come in questa narrazione la gente, voi dite, non parla. Ho letto la vostra versione. La grande scena dell’azione riempite di suppellettili. La valorosa diventa spavalda, ciò che era storico si fa giornaliero. Non ammirata, commiserata volete la madre che perde il figlio. La morte del figlio da furbi, l’avete messa alla fine. Solo così, voi pensate, lo spettatore resterà interessato finché cala il sipario. Come l’uomo d’affari investe in un’impresa, voi credete che lo spettatore investa sentimento nell’eroe: alla fine lo vuol di ritorno e anche raddoppiato. Ma gli spettatori proletari della prima rappresentazione non rimpiansero il figlio alla fine. Il loro interesse durò. E anche allora alcuni ci domandarono: ma vi capirà l’operaio? Saprà partecipare in spirito all’estranea rivolta, all’ascesa degli altri, a tutta l’illusione che per due ore lo eccita per non lasciarlo che più esausto, pieno di vaghi ricordi e di più vaghe speranze? Offrendo sapere ed esperienze avrete veramente una platea di uomini di stato? Compagni, la forma del nuovo teatro è nuova. Ma perché temere ciò che è nuovo e difficile da farsi? Per colui che viene sfruttato e sempre ingannato anche la vita è un continuo esperimento. Perché dovrebbe temere il nuovo invece del vecchio? Ma anche se il vostro spettatore, l’operaio, esitasse, non stategli alle spalle; precedetelo. EFFICACIA “IMMEDIATA” E CONCILIANTE. Pretendendo dall’opera d’arte un’efficacia immediata, l’estetica corrente le chiede anche di conciliare tutte le differenze, sociali ed altre, esistenti fra gli individui. La drammatica aristotelica riesce a produrre cotesto effetto, anche là dove proprio le differenze di classe formano il contenuto dei drammi, e persino là dove nell’opera si prenda posizione per l’una o per l’altra classe. Ad ogni modo, si forma nella sala, per la durata del godimento artistico, un’unità collettiva. La produzione di questa unità collettiva non interessa la drammatica non- aristotelica del tipo della Madre: essa divide il suo pubblico. TEATRO DI DIVERTIMENTO O TEATRO DI INSEGNAMENTO? Quando, alcuni anni fa, si parlava di teatro moderno, i teatri che si nominavano erano quelli di Mosca, New York e Berlino. I teatri russi, americani e tedeschi si differenziavano nettamente tra loro, ma avevano in comune un carattere: quello di essere moderni, ossia di applicare innovazioni tecniche e artistiche. Presentavano delle affinità nel campo stilistico, e questo proprio perché la tecnica è internazionale e perché si trattava sempre di grandi e progredite città in grandi paesi industriali. In tempi più recenti, l’ultima fase del teatro berlinese parve tuttavia svolgere una funzione di guida su tutti gli altri paesi dell’antico capitalismo: in esso, ciò che è comune al teatro moderno riuscì per un certo tempo ad esprimersi nella maniera più forte e momentaneamente più matura. Quest’ultima fase corrispose al cosiddetto teatro epico. Tutto quello che prese i nomi di dramma contemporaneo, stile scenico di Piscator, o dramma didattico, appartiene al teatro epico. IL TEATRO EPICO Il termine “teatro epico” apparve a molti contraddittorio in se stesso, in quanto, secondo Aristotele, la forma epica e la forma drammatica di esporre una vicenda venivano considerate come qualche cosa di assolutamente diverso. La differenza tra le due forme, tuttavia, non veniva assolutamente ravvisata nel solo fatto che l’una fosse rappresentata da esseri viventi, mentre l’altra si valeva del libro: opere epiche come i poemi omerici, o quelli dei cantori medioevali, erano contemporaneamente anche rappresentazioni teatrali, e drammi come il Faust di Goethe o il Manfredi di Byron, avevano esplicato la loro massima efficacia come libri. La differenza tra la forma drammatica e la forma epica veniva già ravvisata da Aristotele nella diversità delle tecniche costruttive, le cui leggi erano trattate da due diverse branche dell’estetica. Le due tecniche dipendevano dal modo in cui le opere venivano presentate al pubblico, queste mediante la scena, quelle mediante il libro; ma a prescindere da ciò, era ben possibili che le une contenessero elementi dell’altra e viceversa. Il romanzo borghese del secolo passato sviluppa non poca materia “drammatica”, se si intende con questo la forte complementarietà delle singole parti. Un certo tono appassionato nell’esposizione, un forte rilievo dato al reciproco cozzare delle forze in gioco, erano i segni distintivi di questa “drammaticità”. Un narratore come Doblin caratterizzò perfettamente la situazione, quando disse che l’epica, al contrario della drammatica, poteva essere tagliata con le forbici in tanti pezzi, ciascuno dei quali conservava tutta la sua vitalità. Attraverso mere conquiste tecniche la scena era stata posta in grado di immettere elementi narrativi nelle rappresentazioni drammatiche. La possibilità delle proiezioni, di una maggiore trasformabilità della scena grazie a procedimenti meccanici, il cinema, vennero ad integrare l’attrezzamento scenico precisamente al momento in cui non era più tanto semplice rappresentare i principali eventi umani mediante una personificazione delle loro forze motrici o col porre i personaggi sotto l’influsso di invisibili forze metafisiche. Per la comprensione di quegli avvenimenti era diventato necessario dare un grande, significativo rilievo al mondo, all’ambiente nel quale vivevano gli uomini. Questo mondo era senza dubbio già apparso nel teatro precedente, ma non come elemento a sé stante, bensì soltanto nella tentativo di giungere a un grande teatro moderno, e deve vincere tutte le enormi difficoltà che si oppongono a qualsiasi energia vitale, così nel campo della politica come in quelli della filosofia, della scienza e dell’arte. EFFETTI DI STRANIAMENTO NELL’ARTE SCENICA CINESE L’effetto di straniamento venne recentemente applicato in Germania, nel corso di tentativi volti a realizzare un teatro epico, per una drammatica basata su canoni non aristotelici, cioè non sull’immedesimazione. Si tendeva a far recitare gli attori in maniera da rendere impossibile allo spettatore di immedesimarsi sentimentalmente con i personaggi del dramma. L’accettazione o il rifiuto di ciò che questi facevano o dicevano, doveva avvenire nella sfera cosciente dello spettatore, e non , come era avvenuto finora, nel suo inconscio. Lo sforzo di creare un distacco tra il pubblico e gli avvenimenti rappresentati, si può già riscontrare, a uno stadio primitivo, nelle recite teatrali e pittoriche delle vecchie fiere popolari. Il modo di parlare dei clown da circo e il modo di dipingere usato nei baracconi da fiera esercitano un’azione di straniamento. Per esempio la tecnica pittorica usata nella riproduzione del quadro Fuga di Carlo il Temerario dopo la battaglia di Morat, esposta in tante fiere popolari tedesche, è certo artisticamente inadeguata, ma raggiunge quell’effetto di straniamento che l’originale non raggiunge. Il generale fuggente, il suo cavallo, il seguito, il paesaggio sono stati dipinti consapevolmente in modo da dare l’impressione di un avvenimento straordinario, di una catastrofe imponente. Anche l’antica arte scenica cinese conosce l’effetto di straniamento e lo utilizza in maniera raffinatissima. E’ noto che il teatro cinese fa uso di una grande quantità di simboli. Ad esempio, la condizione di povertà viene espressa col cucire sulle vesti di seta pezze irregolari di vari colori, ma sempre di seta, che figurano rattoppi. I caratteri sono contraddistinti da determinate maschere, ossia semplicemente con mezzi pittorici. Certi gesti eseguiti da entrambe le mani significano il violento spalancarsi di una porta ecc. La scena rimane invariata, ma durante la recita vi vengono portati mobili. Tutto ciò è noto da tempo e di difficile applicazione tra noi. L’effetto di straniamento sulla scena cinese viene raggiunto nel seguente modo. In primo luogo, l’attore cinese non recita come se esistesse una quarta parete, oltre alle tre che lo circondano. Egli anzi sottolinea la sua consapevolezza di essere visto, e con ciò elimina una delle illusioni tipiche della scena europea. Il pubblico non può più illudersi di assistere da spettatore invisibile ad una vicenda che stia realmente accadendo. Un’altra regola è questa: l’artista si guarda. Per esempio mentre rappresenta una nuvola, il suo inatteso apparire all’orizzonte, l’attore si rivolge ogni tanto agli spettatori, come per dire: “non è così?” Ma guarda anche le sue gambe e le sue braccia, le avvicina a sé, le esamina, talvolta perfino le elogia. Così facendo, l’artista separa la mimica (rappresentazione dell’osservazione) dalla “gestica” (rappresentazione della nuvola); ma tale separazione non va a detrimento di quest’ultima. L’attore ha fatto uso del suo viso come di un foglio vuoto nel quale si sia potuto inscrivere il gesto del corpo. L’attore si sforza di riuscire “strano” e perfino “sorprendente” allo spettatore; e raggiunge tale scopo considerando da “estraneo” se stesso e la sua esibizione. Grazie a quest’arte, le cose della vita quotidiana si elevano al di sopra del piano dell’ovvietà. Una giovinetta, la figlia del pescatore, viene mostrata nell’atto di spingere una barca con i remi: in piedi, con un piccolo remo che le arriva appena alle ginocchia, manovra una barca che non c’è. Ma questa navigazione apparirà come un avvenimento storico, un viaggio insolito e da tutti conosciuto. E’ il comportamento dell’artista a suscitare tale sentimento nell’animo dello spettatore, è esso a rendere famoso quel viaggio. Il “contemplare se stesso” dell’attore, questo artificiale ed artistico atto di auto-straniamento, preclude allo spettatore l’immedesimazione totale, e crea una smisurata distanza rispetto agli avvenimenti. L’immedesimazione tuttavia avviene sotto altra forma: ossia lo spettatore s’immedesima nell’attore in quanto essere che osserva. All’attore occidentale, può darsi che la tecnica del teatro cinese appaia sovente fredda. Eppure, essa è lungi dal rinunciare alla rappresentazione dei sentimenti. L’artista rappresenta vicende di carattere altamente passionale, ma non assume mai toni accesi. Ira e malumore sono certamente due cose diverse, come lo sono odio e antipatia, amore e simpatia; ma i moti del sentimenti che differenziano quegli stati d’animo sono manifestati con parsimonia. Il raffreddamento è prodotto dalla distanza che l’attore, così facendo, interpone tra se stesso e il personaggio rappresentato. L’attore occidentale fa di tutto per avvicinare quanto più possibile il suo spettatore alle vicende da rappresentare e al suo personaggio da rappresentare. A questo fine lo induce ad immedesimarsi in lui, e dedica tutte le sue energie a trasformarsi con la massima approssimazione in un’altra personalità, quella della parte che gli viene affidata. Quando però tale completa trasformazione sia riuscita e ha dato fondo alla sua arte, l’attore non ha bisogno di maggior arte di quanta ne occorra nella vita al personaggio rappresentato. Quest’azione di totale metamorfosi è d’altronde assai faticosa. Stanislavskij enumera tutta una serie di artifici per mezzo dei quali ad ogni nuova recita, può essere ricostruito di sana pianta quello che egli chiama creative mood. Generalmente però all’autore non riesce a lungo di trasfondersi veramente nell’altro: presto si stanca, con conseguente indebolimento dell’effetto sul pubblico. E’ un atto oscuro che si svolge nel subcosciente, e il subcosciente è troppo gracile per essere disciplinato. L’artista cinese non conosce simili difficoltà. Un minimo di illusione gli è sufficiente. E’ molto importante per l’attore occidentale che tutto rimanga misterioso: altrimenti, perderebbe valore. Il confronto con l’arte teatrale cinese ci dimostra quanto di stregonesco, di falsamente religioso appesantisca ancora la nostra arte. Per l’artista, il resuscitare ogni sera in se stesso determinate emozioni o stati d’animo, costituisce uno sforzo grave, massacrante, mentre ben più semplice è l’esecuzione dei segni esteriori che sogliono accompagnare ed annunciare tali emozioni. L’ effetto di straniamento funziona non già sotto forma di assenza di emozioni, bensì sotto forma di emozioni che non hanno bisogno di farsi credere quelle del personaggio rappresentato. Se contemporaneamente l’artista da mostra di un carattere calmo, il terrore da cui egli sarà colto a questo punto ( per una data notizia, o talaltra scoperta) farà scattare l’effetto di straniamento. Una recitazione del genere è più valida e, a parer nostro, più degna di essere pensante, esige una notevole dose di esperienza umana e un’acuta intuizione di ciò che è socialmente importante. Beninteso anche qui ha luogo un processo creativo, di natura però più elevata, perché si innalza alla sfera della consapevolezza. L’effetto di straniamento non si basa affatto su una recitazione artificiosa, ma al contrario la messa in moto dell’effetto di straniamento dipende proprio dalla fluidità e dalla naturalezza del gioco scenico; solo che l’attore nel controllarne la veridicità non si riferisce esclusivamente alla sua “sensibilità naturale”: ad ogni momento egli può essere corretto mediante un raffronto con la verità e perciò dall’esterno, ad opera di altri. Egli recita come se quasi dopo ogni sua battuta il pubblico potesse giudicarlo, come se quasi ogni suo gesto dovesse sottostare all’approvazione del pubblico. L’artista cinese non si trova in stato di trance. Ad ogni momento può essere interrotto, ma non per questo perderà il filo. Un’esponente importante del teatro cinese è Mei Lan-fang. Bisogna andar cauti nell’affermare che l’effetto di straniamento del teatro cinese sia un ritrovato tecnico trasferibile, considerarlo cioè come un concetto artistico separabile da quell’arte scenica. Il teatro cinese ci appare di carattere estremamente prezioso: la sua rappresentazione delle passioni umane è schematica, la sua concezione della società è rigida e falsa, e nulla di quella grande arte sembrerebbe a prima vista utilizzabile per un teatro realistico e rivoluzionario; al contrario, i motivi e gli scopi dell’effetto di straniamento hanno per noi un che di straniero ed equivoco. L’artista cinese attinge il suo effetto di straniamento dalla testimonianza che rende alla magia. La domanda “come si fa” è ancora avvolta nel mistero, la scienza è ancora una scienza di trucchi, custodita nelle mani di poche persone che la conservano gelosamente e dai suoi segreti traggono vantaggio. Da parte sua il ricercatore, nel suo sforzo di rendere comprensibile e controllabile il fenomeno naturale, si comporterò come chi prova stupore, in altre parole farà uso dell’effetto di straniamento. C’è chi protesta che l’atteggiamento di chi cerca di comprendere si convenga allo scienziato, ma non all’artista. Perché l’arte non dovrebbe contribuire con i suoi mezzi alla grande impresa di rendere l’uomo padrone della vita? In realtà solo coloro possono studiare con vantaggio un espediente tecnico come l’effetto di straniamento nel teatro cinese, che di tale espediente si servono per fini sociali ben determinati. Nelle esperienze del nuovo teatro tedesco la tecnica dello straniamento è stata sviluppata in modo affatto indipendente, senza che l’arte scenica asiatica vi abbia fatto finora sentire alcun influsso. L’effetto di straniamento veniva provocato, nel teatro epico tedesco, non solo per mezzo degli attori, ma anche della musica e della scenografia, avendo principalmente di mira la storicizzazione dei fatti da rappresentare. Il teatro borghese tende ad enucleare dalla propria materia il suo contenuto extratemporale. La rappresentazione dell’uomo si limita a ciò che nell’uomo è eterno. Nello svolgimento della trama vengono create certe situazioni “di portata generale”, tali cioè che attraverso di esse si esprima l’essenza dell’umanità, dell’uomo di tutti i tempi e di ogni razza. Una simile concezione può ammettere l’esistenza di una storia; ma è una concezione antistorica. L’ambiente risulta così irrilevante, è una grandezza variabile e un’entità assolutamente estranea all’uomo, contrapposto all’eterno immutabile, alla grandezza fissa. La concezione dell’uomo come un dato variabile dell’ambiente, ossia la riduzione dell’ambiente a un sistema di relazioni fra gli uomini, sorge da un nuovo indirizzo di pensiero: il pensiero storico. Ben altrimenti vanno le cose se il teatro si pone sul piano “storico”. La sua attenzione si concentra subito sugli aspetti peculiari, specifici, bisognosi di approfondimento, di un caso in apparenza tanto banale. Ad esempio nella Tragedia americana di Piscator , una ragazza lascia la sua famiglia per prendere un impiego in una grande città. Per il teatro borghese un caso come questo non significa granché. Se gli attori vogliono rappresentare la vicenda come qualcosa di storico, di unico, se attraverso di essa vogliono illustrare un costume capace di gettar luce su tutta la compagine sociale di un’epoca ben determinata, devono porsi diversi interrogativi (es. “la famiglia permette a un proprio membro di abbandonare l’ovile per guadagnarsi da vivere d’ora in poi indipendentemente?” “Ma sarà poi in grado di farlo?”). Ma come deve essere rappresentata codesta vicenda , perché ne sia messo in evidenza il carattere storico? A tanto si può giungere solo mediante l’applicazione dell’effetto di straniamento. L’attrice non può ridurre la battuta a un mero caso personale: deve consegnarla alla critica, deve consentire la comprensione dei suoi motivi e la protesta contro di essa. Tale effetto si ottiene solo dopo lungo studio. Nel teatro yiddish di New York, un teatro molto all’avanguardia, vidi una commedia si S. Ornitz in cui si trattava della carriera percorsa da un giovane dell’Eastside fino a diventare un grande avvocato corrotto. Conteneva scene come questa: il giovane avvocato, seduto sulla strada davanti a casa sua, dispensa pareri legali a buon mercato. Una giovane donna viene a fargli le sue rimostranze: un incidente di traffico le ha leso una gamba, ma poiché l’avvocato ha trascurato la causa, la sua richiesta di indennizzo non è ancora stata presentata. E la donna, indicando la gamba, grida disperata : “Tanto, guarirà!” La scena era di straordinaria potenza, ma, non usando il teatro l’effetto di straniamento, andava perduta la sua efficacia dimostrativa della crudeltà di un’epoca sanguinaria. In mancanza dell’effetto di straniamento, l’attrice può solo tentare di non essere costretta ad una totale identificazione con il personaggio scenico. Tutto ciò che si svolge tra gli uomini deve essere preso in esame: tutto deve essere considerato dal punto di vista sociale. Un teatro nuovo, per la sua azione di critica alla società, per il suo messaggio storico in merito ai rivolgimenti avvenuti, dovrà, tra gli altri effetti, necessariamente valersi dell’effetto di straniamento. LA SCENA DI STRADA Modello-base per una scena di teatro epico Nel primo quindicennio dopo la guerra mondiale alcuni teatri tedeschi sperimentarono un tipo di recitazione relativamente nuova che, per il suo carattere nettamente di “rapporto”, di descrizione, e perché si serviva di cori e proiezioni esplicative, si chiamò epica. Usando una tecnica piuttosto complessa, l’attore si distanziava dal personaggio raffigurato e presentava le situazioni drammatiche in una prospettiva tale che lo spettatore veniva necessariamente portato a considerarle in modo critico. I partigiani di questo teatro epico sostenevano che la comprensione dei nuovi temi, i processi estremamente complicati delle lotte di classe nella loro fase più crudele e più acuta, sarebbe stata così, notevolmente facilitata, grazie alla possibilità di rappresentare la concatenazione causale dei processi sociali. Ma per la critica estetica questi esperimenti sollevarono tutta una serie di considerevoli difficoltà. E’ relativamente semplice costruire un modello-base per il teatro epico. Per esperimenti pratici io solevo scegliere come esempio di teatro epico elementare una scena che può accadere ad un qualsiasi angolo di strada: il testimonio oculare di un incidente stradale mostra a un assembramento di gente come è capitata la disgrazia. In questo modo gli astanti si possono formare un’opinione sull’incidente. Questo esempio di teatro epico di tipo primitivo appare facilmente comprensibile. Sappiamo invece per esperienza che, non appena si chieda all’ascoltatore o al lettore di misurare in tutta la sua portata l’ipotesi che una simile “rappresentazione” all’angolo davvero fondamentali? Basta una breve analisi per mostrare che non lo sono. Prendiamo la vicenda. Il nostro incidente stradale non era cosa inventata. Ma nemmeno il teatro corrente tratta esclusivamente cose inventate: si pensi al dramma storico. Però si può rappresentare anche una vicenda che si svolge all’angolo della strada: il dimostratore può inventare un fatto e farne la dimostrazione. Prendiamo il testo studiato. Può darsi che il nostro dimostratore della strada debba comparire in tribunale come testimonio e debba perciò imparare a memoria e studiare le parole esatte, che può avere annotate, delle persone di cui fa la dimostrazione. Anch’egli in questo caso presenta un testo studiato. Prendiamo la recitazione studiata fra più persone. Una simile rappresentazione combinata non si effettua sempre con scopi esclusivamente artistici; si pensi alla procedura francese che obbliga i protagonisti di un caso criminale a ripetere davanti alla polizia certe situazioni determinanti. Prendiamo la maschera. Sempre si potrà procedere a piccole trasformazioni dell’aspetto per una dimostrazione non a scopo artistico. Anche la truccatura non serve solo per scopi teatrali. I baffi dell’autista nella scena di strada possono avere una certa importanza. Possono aver influenzato la testimonianza della sua presunta compagna. Questo, il nostro relatore, lo può rappresentare facendo sì che l’autista si stia lisciando dei baffi immaginari quando sollecita la sua compagna a testimoniare. A questo modo il dimostratore può togliere alla testimonianza della ragazza parecchio del suo valore. Tuttavia, il passaggio all’uso di una vera barba nella scena teatrale presenta ancora alcune difficoltà che valgono pure per il travestimento. In una dimostrazione a parecchi relatori possiamo invece giungere al travestimento, poiché permette di distinguere le diverse persone mostrate. Qui pure le possibilità del travestimento sono limitate. Non si deve provocare l’illusione che i relatori siano veramente le persone rappresentate. Possiamo inoltre fissare un modello-base che in questo punto può sostituire il nostro: le dimostrazioni effettuate per la strada dai venditori ambulanti. Per vendere le loro cravatte essi rappresentano sia l’uomo mal messo, sia quello vestito con eleganza; con alcuni accessori e poche manipolazioni recitano delle piccole scene allusive, imponendosi, in fondo, la stessa limitazione che la scena dell’incidente impone al nostro dimostratore. Tra i venditori ambulanti si riscontra anche l’uso del verso nella medesima funzione indicata dal nostro modello-base. Essi utilizzano ritmi fissi irregolari, sia che si tratti della vendita di giornali come di bretelle. Da queste considerazioni si deduce che il nostro modello-base ci permette di raggiungere il nostro scopo. Non c’è differenza fondamentale tra il teatro epico naturale e il teatro epico artistico. Il nostro teatro all’angolo della strada è primitivo; i motivi, lo scopo e i mezzi della rappresentazione sono “banali”. Ma indiscutibilmente è un processo perfettamente ragionato, la cui funzione sociale è chiara e determina tutti i suoi elementi. Il fine della rappresentazione è di facilitare il giudizio sul suo caso specifico. A questo fine corrispondono i mezzi della rappresentazione. Il teatro epico è teatro altamente artistico, i suoi soggetti sono complicati, le sue finalità sociali sono vaste. Fissando a suo modello-base la scena di strada, gli assegniamo una chiara funzione sociale e determiniamo dei criteri che permettono di giudicare se i suoi procedimenti abbiamo o no un senso. Il modello base ha un’importanza pratica. Esso permette ai direttori delle prove e agli attori che realizzano una rappresentazione in cui spesso si presentano difficili problemi parziali, problemi artistici, problemi sociali, di controllare se la funzione sociale dell’apparato è ancora chiara e intatta. NUOVA TECNICA DELL’ARTE DRAMMATICA Lo scopo dell’ “effetto di straniamento”, nuova tecnica drammatica che venne usata in alcuni teatri per “straniare” lo spettatore rispetto ai fatti rappresentati, era di far assumere allo spettatore un atteggiamento di indagine e di critica nei confronti della vicenda esposta. I mezzi impiegati erano di ordine artistico. Condizione essenziale perché si possa usare l’effetto di straniamento allo scopo indicato è che la scena e la sala siano ripulite da ogni aura “magica” e che non sorgano “campi ipnotici”. Abbiamo perciò sempre rinunciato al tentativo di creare sulla scena l’atmosfera di un dato ambiente, come pure al tentativo di ricorrere ad effetti speciali mediante un ritmo prestabilito della dizione. Non ci si sforzava di far cadere il pubblico in trance, di dargli l’illusione che stesse assistendo ad un fatto naturale, spontaneo, non preparato. Condizione per dar luogo all’effetto di straniamento è invece che l’attore corredi ciò che deve mostrare con un esplicito gesto dimostrativo. La finzione della quarta parete, che dovrebbe separare palcoscenico e pubblico, a giustificare che la vicenda scenica si svolga nella realtà, senza la presenza di spettatori, viene perciò naturalmente a cadere; e di massima gli attori possono, in queste condizioni, rivolgersi al pubblico. Normalmente il contatto tra il pubblico e la scena avviene per mezzo dell’immedesimazione. La tecnica che dà luogo all’effetto di straniamento è chiaramente diametralmente opposta. Tuttavia, nell’adempiere il suo compito di riprodurre determinati personaggi e di mostrarne il comportamento, non è necessario che egli rinunci totalmente all’ausilio dell’immedesimazione. Tale dimostrazione del comportamento di terze persone avviene giornalmente in innumerevoli circostanze, senza la minima intenzione, da parte di codesti imitatori occasionali, di provocare nei loro spettatori un’illusione di verità. Ma contrariamente a ciò che avviene nel modo tradizionale di recitazione l’attore se ne varrà solo in uno stadio preliminare, a un momento dato dell’elaborazione della parte durante le prove. L’attore deve leggere la sua parte nell’atteggiamento di chi prova stupore, di chi contraddice. Non solo il verificarsi degli avvenimenti, oggetto della sua lettura, ma anche il contegno del personaggio affidatogli, oggetto del suo studio, devono essere da lui posti sulla bilancia, penetrati nei loro aspetti peculiari; egli non deve prendere nessuno di questi aspetti come un dato acquisito, come “qualcosa che non poteva andare altrimenti”, che “ci si doveva aspettare dato il carattere del personaggio”. Prima ancora di mandare a memoria la parte, egli deve mandare a memoria ciò che ha provocato la sua meraviglia e a cui ha avuto motivo di contraddire: poiché questi momenti devono costituire dei punti fermi nella sua interpretazione. Quando poi sarà sulla scena reciterà in modo da dare la più chiara evidenza all’alternativa, da far sì che la sua prestazione lasci intravedere anche le altre possibilità, mentre quella che ha luogo sulla scena è una sola delle varianti possibili. Tutto ciò che egli non fa, dovrà essere racchiuso e contenuto in ciò che fa. In tal modo ogni battuta, ogni gesto corrisponde ad una decisione, il personaggio resta sotto controllo e viene messo a confronto. Rinunciato che abbia alla totale metamorfosi, l’attore recita il suo testo non come colui che improvvisa, ma come chi fa una citazione. In questa citazione egli deve rendere tutti i toni complementari, tutta la concreta plasticità umana dell’enunciato; del pari, il gesto che egli assume, pur dovendo figurare una semplice copia, deve possedere la piena corposità di un gesto umano. Per realizzare, in una recitazione con immedesimazione non completa, lo straniamento degli enunciati e delle vicende del personaggio da rappresentare, possono servire tre accorgimenti: 1. la trasposizione alla terza persona; 2. la trasposizione al tempo passato; 3. il pronunciare ad alta voce didascalie e commenti. L’uso della terza persona e del tempo passato consente all’attore il giusto atteggiamento del “tenersi a distanza”. Egli inoltre inventa didascalie e frasi di commento adatte al suo testo e le pronuncia nel corso delle prove. Il pronunciare le didascalie in terza persona fa sì che due diverse intonazioni vengano a cozzare l’una con l’altra, con conseguente straniamento della seconda, cioè del testo propriamente detto. Inoltre viene straniata la recitazione stessa, in quanto avviene dopo essere già stata caratterizzata ed annunciata a parole. L’uso del tempo passato, infine, pone il dicitore in un punto di visione retrospettivo rispetto alla battuta: in tal modo questa viene ulteriormente straniata, senza però che il dicitore si ponga in una prospettiva irreale: egli infatti, contrariamente allo spettatore, ha già letto l’intera opera ed è quindi meglio in grado di giudicare, di quanto non sia quest’ultimo, meno informato e, perciò, più colto di sorpresa di fronte alla battuta. Attraverso questo procedimento molteplice il testo viene straniato nel corso delle prove, e tale rimane generalmente anche nell’esecuzione. Per la dizione in senso stretto, emerge dal diretto contatto con il pubblico la necessità o l’opportunità di variazioni, secondo il maggiore o minor significato che si intende imprimere nelle battute. Allorché poi l’attore si rivolge al pubblico, questo rivolgersi deve essere totale, con esclusione di ogni “discorso a parte” e della vecchia tecnica teatrale del monologo. Per raggiungere in pieno l’effetto di straniamento nelle opere in poesia, l’attore farà bene, durante le prove, a rendere il contenuto dei versi in prosa corrente, compiendo, se del caso, anche i gesti prescritti per i versi. Una bella e ardita architettura delle forme linguistiche ottiene l’effetto di straniare il testo. Tutto ciò che attiene al sentimento deve essere esteriorizzato, cioè sviluppato nel gesto. L’attore deve trovare un’espressione percettibile, esterna, per le emozioni del suo personaggio, possibilmente un’azione scenica che ne tradisca le intime vicissitudini. Esemplare nel trattamento del gesto è l’arte drammatica cinese: il fatto di studiare visibilmente i propri movimenti è quello che permette agli attori cinesi di raggiungere l’effetto di straniamento. La stessa arte peculiare dell’attore, la sua maestria tecnica, devono essere presentate dall’artista al pubblico in modo da essere accolte facilmente. Egli propone allo spettatore la vicenda in maniera compiuta, così come, a suo parere, può svolgersi o essersi svolta nella realtà. Non tenta di nascondere di averla appresa con studio; anzi, sottolinea che quella è la sua testimonianza, opinione, versione in merito alla vicenda. Il punto di vista che l’attore sceglie è un punto di vista sociale. La sua arte diviene un colloquio con il pubblico al quale si rivolge sulle condizioni sociali e induce lo spettatore a giustificare o a rifiutare quelle condizioni, a seconda della classe cui appartiene. Scopo dell’effetto che studiamo è di straniare il “gesto sociale” sotteso ad ogni vicenda. Per “gesto sociale” deve intendersi l’espressione mimica e gestuale dei rapporti sociali che presiedono alla convivenza degli uomini di una data epoca. La formulazione della vicenda ad uso della società è agevolata dall’invenzione di titoli per le singole scene. Questi titoli devono avere carattere storico. L’attore deve recitare la vicenda come una vicenda “storica”: cioè come un fatto che si verifica una sola volta, transitorio, connesso con una determinata epoca. Il comportamento dei personaggi all’interno della vicenda non è alcunché di tipicamente umano e invariabile, presenta invece certe particolarità, elementi superati o superabili dal corso della storia, ed è soggetto a critica per chi si ponga dal punto di vista dell’epoca immediatamente successiva. Un processo di sviluppo costante ci rende ostico il comportamento di quelli che vissero prima di noi. E questa presa di distanza che lo storico compie verso avvenimenti e modi di vivere del passato, l’attore deve compierla verso gli avvenimenti e i modi del presente: deve cioè “straniare” ai nostri occhi quei fatti e quelle persone. La tecnica di diffidenza dei fatti consueti, ovvi (come fatti e persone della vita di ogni giorno) è una mediata conquista della scienza. E’ un atteggiamento che è venuto alla scienza dall’incremento della forza di produttività umana, e dallo stesso motivo proviene all’arte. Per quanto riguarda la capacità emotiva, i tentativi esperiti con l’effetto di straniamento negli esempi di teatro epico in Germania, hanno dimostrato che anche da questa tecnica possono derivare emozioni, pur se si tratta di emozioni di natura diversa di quelle prodotte dal teatro tradizionale. Un atteggiamento critico dello spettatore è un atteggiamento innegabilmente artistico. Naturalmente questo tipo di recitazione non ha nulla a che fare con la cosiddetta “stilizzazione”. Il pregio principale del teatro epico è proprio la sua naturalezza, il suo umorismo, la rinuncia a tutte le incrostazioni mistiche che il teatro tradizionale si porta appresso fin dall’antichità. NOTE SUL TEATRO POPOLARE Generalmente il teatro popolare è teatro grezzo e senza pretese, e l’estetica dotta o non ne parla per nulla, o lo tratta con degnazione. E’ un teatro di burle grossolane e di facile sentimentalità, di morale rozza e di sensualità a buon mercato. I cattivi vi sono puniti, mentre i buoni si sposano; i laboriosi fanno un’eredità e i pigri restano con un palmo di naso. La tecnica degli autori di questo genere teatrale è, si può dire, internazionale e pressoché invariabile. Quanto agli attori basta che parlino con affermazione e che si comportino con naturale vanità. Il gusto della grande città, col passare del teatro popolare alla rivista, si è conformato ai tempi. La rivista sta al teatro popolare come la canzonetta alla canzone popolare, se si tiene presente che, nelle forme popolari, il teatro non raggiunse mai la nobiltà del canto. Intorno al 1930 la rivista assunse forme letterarie. Il tedesco Wangenheim, il danese Abell, l’americano Blitzstein e l’inglese Auden scrissero, in forma di rivista, dei lavori interessanti, che però non erano né grezzi né privi di pretese. Essi hanno qualcosa della poesia del vecchio teatro popolare, ma nulla assolutamente della sua ingenuità. Evitano le sue situazioni convenzionali, i suoi personaggi schematici; ma sono ancora più profondamente penetrati di spiriti romantici. Qui le situazioni sono grottesche, e i personaggi, in fondo, non esistono; ci sono tutt’al più delle parti. La monotona trama è stata buttata ai rifiuti. Per rappresentare questi nuovi spettacoli occorrono i mezzi dell’arte, ma si tratta dei mezzi propri dell’arte del cabaret. Il vecchio Urfaust non si addiceva al compunto incedere olimpico attribuito ai classici: come se l’umorismo fosse incompatibile con la vera dignità! Le azioni sì stupendamente inventate vennero sfruttate solo ai fini di una declamazione altisonante, il che è quanto dire che vennero totalmente ignorate. La falsificazione e lo svuotamento giunsero a tal punto che scene dell’importanza del patto fra l’umanista e il diavolo, che pure costituisce una premessa necessaria alla tragedia di Margherita, furono semplicemente tagliate: evidentemente perché si riteneva che in una tragedia classica un eroe non potesse commettere che azioni eroiche. Beninteso, sia il Faust che l’Urfaust non possono essere concepiti se non tenendo conto il Faust trasformato e purificato della fine della seconda parte, il Faust che vince il diavolo e che da una condizione improduttiva, dal godimento della vita che il diavolo gli ha procacciato, passa ad una condizione produttiva, feconda: ma che senso può avere quella grandiosa metamorfosi, se si saltano gli stadi iniziali? Il vero rispetto che queste opere giustamente esigono richiede che ogni bigotta, adulatoria e falsa venerazione venga messa alla gogna. BREVIARIO DI ESTETICA TEATRALE PREMESSA Ci proponiamo di esaminare come si configuri un’estetica desunta da una particolare pratica di stile teatrale che si va sviluppando da alcuni decenni. Le indicazioni e gli enunciati teorici, polemici o tecnici, pubblicati occasionalmente sotto forma di note alle opere dello scrivente, non facevano che sfiorare i problemi estetici, senza accordar loro grande interesse. In quelle note un particolare tipo di teatro estendeva e delimitava la sua funzione sociale, ampliava o sceverava i suoi mezzi artistici, e , quando la discussione ve lo portava, prendeva piede nel campo dell’estetica rifiutando o facendo propri, secondo le condizioni della lotta, i vigenti precetti della morale e del gusto. Così gli accadeva di difendere la sua inclinazione a esprimere tendenze sociali, mostrando le tendenze sociali di opere generalmente riconosciute, che però in quelle non disturbavano, proprio perché erano le tendenze ormai riconosciute. Denunciava come sintomo di decadenza il disinteresse della produzione contemporanea per le cose più degne di interesse: accusava questi spacci di divertimento serale d’aver fatto del teatro un ramo del commercio borghese di stupefacenti. Le false raffigurazioni della vita sociale sulle scene, comprese quelle del cosiddetto naturalismo, gli facevano rivendicare ad alta voce rappresentazioni scientifiche esatte, e invocare la bella logica della tavola pitagorica. Ripudiava sdegnoso il culto del bello che andava di pari passo coll’avversione all’apprendere e col disprezzo dell’utile, tanto più che nulla di bello ormai veniva prodotto. Si aspirava a un teatro dell’era scientifica, si minacciava semplicemente di fare del mezzo di godimento un oggetto di studio e di trasformare certe istituzioni, da luoghi di divertimento che erano, in organi di pubblicazione. Tuttavia, quello che si realizzava sotto l’insegna di teatro dell’era scientifica, non era scienza, bensì teatro; e poiché durante il nazismo e la guerra si accumularono le innovazioni teoriche mentre mancava la possibilità pratica di sperimentarle, ora pare opportuno tentar di esaminare questo genere di teatro riguardo alla sua posizione estetica, o almeno di tracciare i lineamenti di una sua possibile estetica. Oggi si potrebbe perfino scrivere un’estetica delle scienze esatte. Già Galilei parla dell’eleganza di certe formule e si esperimenti “faceti”. Einstein attribuisce al senso del bello funzioni inventive, e il fisico atomico R. Oppenheimer esalta l’atteggiamento scientifico che ha una sua particolare bellezza e sembra conforme alla condizione terrestre dell’uomo. Revochiamo, dunque, la nostra intenzione di emigrare dal regno del piacevole, e affermiamo ora la nostra intenzione di stabilirci invece in questo regno. 1. “Teatro” , vecchio o moderno che sia, consiste nel produrre rappresentazioni vive di fatti umani tramandati o inventati, al fine di ricreare. 2. Vi si potrebbe includere anche gli avvenimenti fra uomini e dèi. Ma anche se volessimo accettare questa estensione, la funzione più generale dell’istituzione “teatro” resterebbe per noi quella del divertimento. E’ la funzione più nobile che siamo riusciti a trovare per “teatro”. 3. Compito del teatro, come di tutte le altre arti, è di ricreare la gente. Questo compito gli conferisce sempre la sua speciale dignità: non lo si nobiliterebbe affatto facendone, per esempio, un mercato della morale; anzi, è ben più probabile che lo si degraderebbe, ciò che puntualmente avverrebbe qualora non riuscisse a rendere la morale divertente, e divertente proprio per i sensi- della qual cosa, certo, la morale non può che trarre vantaggio. E nemmeno sarebbe da imporgli l’obbligo di insegnare o, ad ogni modo, d’insegnare cosa più utile di quanto non sia il sapere come ci si muova piacevolmente, sia con il corpo che con lo spirito. Il teatro, infatti, deve assolutamente poter restare una cosa superflua, il che significa che per il superfluo allora si vive. Meno di qualsiasi altra cosa i divertimenti abbisognano di giustificazioni. 4. Quello che secondo Aristotele gli antichi facevano fare alle loro tragedie, non era dunque cosa né più eletta né più vile che di ricreare la gente. Quando si dice che il teatro ha la sua origine nel culto, si dice appunto che divenne teatro per selezione; dei misteri non si appropriò la missione liturgica, ma il puro e semplice piacere che procuravano. E quella catarsi di cui parla Aristotele, la purificazione attraverso l’orrore e la pietà, o dall’orrore e dalla pietà, è un lavacro che nono solo avveniva in modo divertente, ma che avveniva propriamente allo scopo di divertire. Esigere di più dal teatro o concedergli di più è deprezzare il suo vero fine. 5. Anche quando si distingue un genere elevato e un genere volgare di divertimenti, si considera l’arte da un lato impenetrabile: perché essa vuol muoversi in alto e in basso come le pare, e venir lasciata in pace mentre, così facendo, diverte la gente. 6. Ci sono invece dei divertimenti deboli (semplici) e dei divertimenti forti (composti) che il teatro può procacciare. Questi ultimi sono più complessi, più suggestivi, più contraddittori e fecondi di conseguenze. 7. I divertimenti delle diverse epoche furono naturalmente diversi, secondo il modo di convivenza degli uomini. Nel circo ellenico il demos dominato dai tiranni doveva essere ricreato altrimenti che i nobili della corte di Luigi XIV. Il teatro doveva fornire altre immagini della convivenza fra gli uomini: non soltanto immagini di una convivenza diversa, ma anche un altro genere di immagini. 8. A seconda della ricreazione possibile e necessaria nell’una o nell’altra forma di convivenza, i personaggi mutavano di proporzioni, le situazioni venivano inquadrate in altre prospettive. Ben diverso ha da essere il modo della narrazione, a seconda che si debbano intrattenere gli Elleni di quelle leggi inesorabili la cui ignoranza non preserva dalla collera degli dèi; oppure i nobili francesi intorno all’elegante vittoria sulle proprie passioni che il codice di corte impone ai grandi della terra; o ancora gli inglesi dell’epoca elisabettiana sul franco riconoscersi del nuovo individuo che si abbandona al proprio istinto. 9. Occorre anche tenere presente che il divertimento tratto da così disparate figurazioni ben poco aveva a che vedere col grado di somiglianza della figurazione con la cosa raffigurata. L’inesattezza, perfino la decisa inverosimiglianza disturbavano poco a punto, perché l’inesatto avesse una certa consistenza e l’inverosimile fosse coerente. Bastava che si creasse, attraverso ogni sorta di procedimenti poetici e teatrali, l’illusione che quella data vicenda non poteva essere svolta altrimenti. Anche noi passiamo oltre facilmente a inesattezze simili quando ci è dato dilettarci ai lavacri spirituali in Sofocle, agli olocausti in Racine o alle frenesie di Shakespeare, e tentiamo di appropriarci i sentimenti belli o grandi degli eroi di queste vicende. 10. Difatti, fra i tanti e svariati modi di rappresentare importanti vicende umane, che dagli antichi in poi sono stati prodotti sul teatro e, malgrado le loro inesattezze e inverosimiglianze, hanno divertito, è sorprendente la quantità di quelli che ancor oggi divertono pure noi. 11. Ma se constatiamo questa nostra facoltà di trarre godimento dalle rappresentazioni di epoche così diverse, non sorge naturale il sospetto che la nostra epoca debba ancora scoprire i suoi peculiari divertimenti, la forma di ricreazione che è propria? 12. Anche il godimento che ci procura il teatro deve essersi indebolito in confronto a quello degli antichi, seppure le nostre forme di convivenza umana siano ancora abbastanza simili alle loro da permettere che quel godimento si produca. Noi ci appropriamo le vecchie opere mediante un procedimento relativamente nuovo, quello dell’immedesimazione, cui esse veramente non si prestano troppo. I nostri teatri non hanno più né la capacità né il gusto di raccontare in modo chiaro queste vicende (nemmeno quelle del grande Shakespeare che non sono poi tanto vecchie), ossia di rendere verosimile la connessione dei fatti. Eppure secondo Aristotele la vicenda è l’anima del dramma. Sempre più ci disturbano la primitività e la trascuratezza con cui viene rappresentata la convivenza sociale, e non soltanto nelle opere antiche, ma anche in quelle contemporanee fatte sul vecchio stampo. Tutto il nostro modo di godere comincia a farsi inattuale. 13. Sono le incongruenze nella rappresentazione di fatti umani che diminuiscono il nostro godimento in teatro. E questo perché, di fronte ai fatti rappresentati, il nostro atteggiamento è diverso rispetto a quello dei nostri antenati. 14. Nella nostra ricerca di quale sia il divertimento immediato che il nostro teatro potrebbe procurarci col rappresentare la convivenza sociale, dobbiamo infatti pensare a noi stessi come ai figli di un’era scientifica. Le scienze determinano in una misura affatto nuova la nostra convivenza sociale- vale a dire la nostra vita. 15. Qualche centinaio di anni fa, alcune persone, in paesi diversi, ma non isolatamente, tentarono degli esperimenti coi quali speravano di strappare alla natura i suoi segreti. Appartenenti a una classe di artigiani nelle città che ormai avevano raggiunto un notevole sviluppo, essi trasmisero le loro invenzioni ad altre persone che le sfruttarono praticamente, senza ripromettersi dallo sviluppo delle nuove scienze molto di più che un lucro personale. Mestieri che da un millennio si servivano di metodi pressoché immutati, conobbero allora uno sviluppo straordinario, raccogliendo intorno a sé in molti luoghi grandi masse di uomini, le quali, organizzate in modo nuovo, iniziarono una produzione su scala gigantesca. Ben presto l’umanità spiegò energie di tale portata che prima di allora non aveva osato nemmeno sognare. 16. Fu come se l’umanità solo allora si accingesse, unita e cosciente, a rendere abitabile il pianeta su cui viveva. Diversi elementi della terra, come il carbone, l’acqua, il petrolio, si trasformarono in tesori. Il vapore fu diretto ad azionare veicoli. Quelle cose che l’uomo da tanto tempo vedeva senza aver mai pensato a sfruttarle, ora dappertutto le guardava con occhi nuovi per farle servire alle sue comodità. Il suo ambiente andava trasformandosi di decennio in decennio, poi di anno in anno e infine quasi di giorno in giorno. 17. Se le nuove scienze hanno reso possibile un grandissimo mutamento e soprattutto una formidabile mutabilità del nostro ambiente, non si può dire per questo che lo spirito scientifico ci animi tutti in modo altrettanto decisivo. La nuova maniera di pensare e di sentire non ha ancora penetrato veramente le grandi masse, e la ragione è da ricercarsi nel fatto che alle scienze, tanto efficienti nello sfruttare e sottomettere la natura, viene impedito dalla borghesia, la classe cui procurano il potere, di trovare applicazione in un altro campo, mantenuto tutt’ora nell’ombra: quello cioè dei rapporti reciproci degli uomini nello sfruttamento e nella sottomissione della natura. Questo processo, da cui dipendevano tutti gli altri, si effettuava senza che i nuovi metodi del pensiero, che lo avevano condizionato, mettessero in luce i rapporti esistenti fra coloro che l’attuavano. 18. In realtà, i rapporti degli uomini fra di loro sono oggi più impenetrabili che mai. L’aumento della produzione provoca l’aumento della miseria, e solo pochi uomini traggono un utile dallo sfruttamento della natura: come? Sfruttando altri uomini. Inoltre una parte sempre maggiore della produzione è adibita a creare mezzi di distruzione per terribili guerre. 19. Oggi gli uomini si trovano davanti alle proprie imprese come nei tempi antichi davanti alle imponderabili catastrofi della natura. La borghesia ben sa che verrebbe messo fine al suo potere se le sue imprese venissero considerate con occhio scientifico. Un centinaio di anni fa sorse dunque la nuova scienza che ha per oggetto lo studio della società, e sorse proprio dalla lotta degli oppressi contro i loro oppressori. Da allora qualcosa dello spirito scientifico esiste nel profondo, presso la nuova classe dei lavoratori il cui elemento vitale è la grande produzione: dal loro punto di vista le grandi catastrofi si presentano come le imprese dei potenti. 20. Scienza e arte si incontrano in ciò: che lo scopo di entrambe è di agevolare la vita degli uomini, l’una curandosi del loro mantenimento, l’altra della loro ricreazione. Nell’era che s’annuncia, l’arte attingerà il divertimento dalla nuova produttività, la quale è in grado di migliorare di abbandonarsi all’ambiente scenico. Egli non avrà più l’impressione: “così agirei anch’io”; dovrà perlomeno aggiungere “se vivessi nelle medesime condizioni”. E quando rappresentiamo in luce storica lavori ispirati al nostro tempo, anche le condizioni che determinano le sue proprie azioni potranno apparirgli nel loro carattere particolare; e questo è l’indirizzo della critica. 38. Queste “condizioni storiche” non si devono però immaginare come forze oscure, perché sono solo gli uomini a crearle e a mantenerle: esse nascono proprio per quello che avviene sulla scena. 39. Ciascuno risponde altrimenti a seconda dei tempi o della classe; e se vivesse in altri tempi, o da meno anni, o nella fase declinante della vita, risponderebbe senza dubbio in modo diverso ma non meno determinato, e così come ognuno risponderebbe nella stessa situazione e nella stessa epoca; ma non è il caso di chiedersi se non possano esistere altre, differenti risposte? E’ evidente che la figurazione deve renderlo visibile, e ciò può avvenire se questa contraddizione nel personaggio viene raffigurata. La figurazione “storica” avrà in sé qualcosa degli schizzi che intorno alla figura elaborata mantengono le tracce di altri movimenti e di altri tratti. Oppure si immagini un uomo che tenga un discorso pronunciando frasi contraddittorie, così che l’eco, ripetendo le sue parole, permetta il confronto tra quelle frasi. 40. Figurazioni simili richiedono, certo, una recitazione che consenta libertà e mobilità allo spirito dello spettatore. Questo deve essere in grado di effettuare continui montaggi fittizi sulla nostra costruzione, enucleandone in forma di pensieri i moventi sociali, oppure sostituendoli con altri: processo che conferisce al comportamento effettivo un che di “innaturale”, e fa si che i moventi presentati appaiano meno naturali e, di conseguenza, meglio maneggevoli. 41. Cosi vede il fiume chi lo vuole arginare. E mentre egli col pensiero vede un nuovo fiume, il socialista ode col pensiero i contadini delle campagne in riva al fiume ragionare in modo nuovo. E così anche il nostro spettatore dovrebbe poter vedere, sulla scena, fatti che avvengono tra quei contadini, incorniciati da altrettanti accenni ed echi. 42. Il tipo di recitazione sperimentato tra la prima e la seconda guerra mondiale al Teatri Schiffbauderdamm di Berlino per ottenere figurazioni di questo genere, si basa sull’ “effetto di straniamento”. Chiamiamo così la raffigurazione che lascia bensì riconoscere l’oggetto, ma al tempo stesso lo fa apparire estraneo. Il teatro antico e quello medioevale straniavano i loro personaggi per mezzo di maschere umane e animali; quello asiatico usa ancora oggi effetti di straniamento musicali e mimici. Essi ostacolavano senza dubbio l’immedesimazione dello spettatore, ma la loro tecnica è basata sull’ipnosi e sulla suggestione forse ancor più di quella che mira all’immedesimazione. Le finalità sociali di questi antichi effetti erano completamente diverse dalle nostre. 43. I vecchi effetti di straniamento sottraggono in modo assoluto la cosa raffigurata alla presa dello spettatore, la presentano come fatalità. Quelli nuovi non hanno in sé nulla di bizzarro. I nuovi straniamenti dovrebbero solo togliere ai processi socialmente influenzabili quell’impronta di familiarità che oggi li pone fuori dalla portata di mano. 44. Ciò che da lungo tempo non ha subito mutamenti sembra infatti immutabile. Da ogni parte incontriamo cose troppo ovvie perché ci si preoccupi di capirle. E se uno è abbastanza audace da desiderare qualcosa di diverso, troverà eccezionale il proprio desiderio. Anche se arrivasse a riconoscere che il destino riserbatogli dalla “provvidenza” in realtà è quello che gli impone la società, quest’enorme agglomerato di esseri consimili gli sembrerà una cosa che a lui non è dato influenzare; e ciononostante, benché non influenzabile, gli parrà familiare, e chi diffida di ciò che gli è familiare? Perché tutti questi fatti “naturali” giungano ad apparirgli come altrettanti fatti problematici, egli dovrebbe riuscire a sviluppare in sé “l’occhio estraneo” con cui il grande Galileo osservò la lampada oscillante. Costui guardò con meraviglia le oscillazioni, come se così non le avesse previste e proprio non le capisse; e in tal modo poté scoprirne le leggi. Il teatro deve meravigliare il pubblico, e a tanto può giungere mediante una tecnica che stranii ciò che è familiare. 45. Una tecnica, cioè, che consenta al teatro di sfruttare, nelle sue rappresentazioni, il metodo della nuova scienza sociale, la dialettica materialistica: quel metodo che, per concepire la società nel suo moto, considera le condizioni sociali come processi e osserva tali processi nella loro contraddittorietà, e per il quale tutto esiste solo in quanto si trasforma, dunque in antinomia con se stesso. Ciò vale anche per i sentimenti, le opinioni, i comportamenti degli uomini nei quali si esprime sempre il particolare modo della loro convivenza sociale. 46. E’ un godimento peculiare della nostra era, che ha realizzato tante e tante diverse trasformazioni della natura, quello di concepire ogni cosa in modo da poterla trasformare. Nell’uomo c’è molto, dunque si potrà fare molto dell’uomo. Non basta che io mi metta al suo posto: devo mettermi di fronte a lui, in rappresentanza di noi tutti. Ecco perché il teatro deve straniare ciò che mostra. 47. Per produrre effetti di straniamento, l’attore deve lasciare da parte tutto quello che ha imparato al fine di ottenere che il pubblico s’immedesimi nel suo personaggio. Non intendendo ipnotizzare il pubblico. Non reciti con i muscoli tesi. La sua dizione sia priva di liturgiche cantilene e di quelle cadenze che cullano l’ascoltatore facendogli perdere il senso delle parole. Persino nel rappresentare un ossesso egli non deve essere ossessionato; altrimenti, come può lo spettatore scoprire cosa possiede gli ossessi? 48. Mai, nemmeno per un attimo, egli si trasformi interamente nel suo personaggio. L’attore deve limitarsi a mostrare il suo personaggio. Ciò non significa che, avendo da raffigurare dei personaggi passionali, egli debba restare impassibile. Ma, in via di principio, i suoi sentimenti non dovrebbero essere quelli del suo personaggio. Il pubblico deve restare assolutamente libero. 49. Il fatto che l’attore sul palcoscenico agisca in duplice aspetto- come Laughton e come Galilei- che il Laughton raffigurante non scompaia nel raffigurato Galilei, altro non significa, infine, se non che il processo reale, profano, non viene più occultato: sul palcoscenico sta veramente Laughton e mostra come si figura Galilei. Il pubblico, ammirando Laughton, certamente non lo dimenticherebbe, anche se egli tentasse di trasformarsi totalmente nel personaggio; non lo dimenticherebbe, ma si priverebbe tuttavia delle opinioni ed emozioni dell’attore che si sarebbero interamente risolte nel personaggio. Facendo proprie le opinioni e le emozioni di Galilei, l’attore, in effetti, non realizza che un modello unico; e poi ce lo impone. Per evitare questa atrofia, egli deve riuscire a rendere artistico anche l’atto del mostrare. 50. Come non si deve indurre il pubblico a credere che sulla scena non agisca l’attore, ma il personaggio inventato, così non gli si deve far supporre che quanto succede sulla scena non sia stato elaborato, ma stia succedendo per la prima ed ultima volta. L’interprete deve mostrare senz’altro di sapere già all’inizio e a metà quale sarà la fine, e deve perciò conservare una serena libertà. Egli racconta, rappresentandole, le vicende del suo personaggio, ne sa più di lui e non impone l’ “adesso” e il “qui” come finzioni autorizzate dalle regole del gioco, bensì li differenzia dall’ “ieri” e dall’ “altrove” onde divenga visibile la connessione degli avvenimenti. 51. Ciò riveste particolare importanza quando si tratti di rappresentare avvenimenti di massa o un ambiente in via rivolgimento, come in tempo di guerre o di rivoluzioni. Allora lo spettatore può vedere rappresentati la situazione e il decorso nel loro insieme. Sentendo parlare una donna, per esempio, egli potrà immaginare di sentirla parlare anche altrimenti, qualche settimana dopo, e figurarsi altre donne che nel medesimo istante, ma altrove, parlino in modo diverso. Questo può verificarsi se l’attrice recita così come se la donna si ricordasse di tutta quell’epoca dopo averla vissuta e, cosciente di ciò che avvenne dopo, non esprimesse delle sue parole di allora che quelle valide per quel dato momento. Ma straniare un personaggio così da farne “proprio quel personaggio” e “proprio quel personaggio in quel dato momento”, sarà possibile solo qualora si eviti di creare l’illusione che l’attore si identifichi col personaggio e la rappresentazione con l’avvenimento. 52. Ma già per giungere a questo abbiamo dovuto abbandonare ancora un’altra illusione: quella per cui ognuno agirebbe come il personaggio. Sarebbe troppo semplificare voler conformare le azioni al carattere e il carattere alle azioni; a questo modo non si possono mostrare le contraddizioni inerenti alle azioni e al carattere di persone reali. Non è possibile dar la dimostrazione delle leggi che muovono la società illustrandole con “casi ideali”. In ogni caso basterà che sia possibile immaginare un contro-esperimento: che si tratti la società come se ciò che essa compie, fosse un esperimento. 53. Nelle prove l’attore potrà anche servirsi dell’immedesimazione, ma non l’userà che come uno fra i tanti metodi di osservazione. Nelle prove essa è utile, visto che, pur usata smodatamente, ha portato anche il teatro contemporaneo a un alto grado di raffinatezza nell’interpretazione dei caratteri. L’unità del personaggio si forma dal modo in cui le sue singole caratteristiche si contraddicono a vicenda. 54. L’osservazione è un elemento fondamentale dell’arte drammatica. L’attore osserva gli altri uomini con tutti i muscoli e tutti i nervi, in un atto di imitazione che è al tempo stesso un processo mentale. Per giungere dalla copia alla raffigurazione, l’attore guarda le persone come se gli dimostrassero quello che fanno, come se gli raccomandassero di riflettere su quello che fanno. 55. Senza opinioni e senza intenzioni non si può raffigurare. Senza conoscere non si può mostrare nulla. Se l’attore non vuole essere un pappagallo o una scimmia, deve appropriarsi delle nozioni del suo tempo circa la convivenza umana, col partecipare alla lotta delle classi. Al di sopra delle classi in lotta non ci può stare nessuno, perché nessuno può stare al di sopra degli uomini. La società non ha un portavoce comune finché è divisa in classi che si combattono. Per l’arte, dunque, essere “apartitica” non significa altro che essere “del partito dominante”. 56. Così si arriva a dire che la scelta della posizione è un altro elemento precipuo dell’arte drammatica; e bisogna sceglierla al di fuori del teatro. Al pari della trasformazione della natura, la trasformazione della società è un atto di liberazione; ed è la gioia che nasce da tale liberazione ciò che il teatro di un’era scientifica dovrebbe comunicare. 57. Il passo successivo consisterà nell’esaminare come, assumendo questa posizione, l’attore debba per esempio leggere la sua parte. Quello che importa è che non “afferri” troppo in fretta. Anche se troverà subito il tono più naturale, la maniera più comoda per dire il suo testo, eviti tuttavia di trovare naturale l’enunciazione stessa; esiti sul senso di essa e consulti le sue opinioni generali, prenda in esame altre enunciazioni possibili, assuma, in breve, l’atteggiamento di chi si stupisce. E questo non solo per evitare di giungere troppo presto a fissare un determinato personaggio, al quale poi molto resterebbe da aggiungere; ma anche, e soprattutto, per introdurre nel personaggio quella distinzione “non sono così- ma così” che ha tanta importanza, se il pubblico, che rappresenta la società, deve poter afferrare gli avvenimenti dal lato suscettibile di esercitare un’influenza. Inoltre l’attore anziché appropriarsi le caratteristiche che gli si addicono come “umane per eccellenza”, dovrà mirare in special modo a quelle che non gli si addicono, alle caratteristiche particolari. E, insieme col testo, egli dovrà registrare nella memoria coteste sue prime reazioni, riserve, critiche e perplessità, affinché non vadano perdute nella figura definitiva del personaggio, non vi si “risolvano”, ma vi restino conservate e percepibili. Perché il personaggio, come tutto il resto, deve non tanto convincere il pubblico, quanto sorprenderlo. 58. L’attore studierà insieme agli altri attori, costruirà il suo personaggio insieme con gli altri personaggi. Poiché la più piccola unità sociale non è l’uomo, ma due uomini. Anche nella vita ci costruiamo a vicenda. 59. A questo punto dobbiamo trarre un ammaestramento dalla cattiva usanza propria ai nostri teatri, dove l’attore principale, il divo, riesce fra l’altro a mettersi in luce facendosi servire da tutti gli altri attori: egli rende il suo personaggio temibile o saggio nella misura in cui costringe i suoi compagni a rendere i loro pavidi o attenti, e così via. Per estendere a tutti tale privilegio e giovare così alla verosimiglianza della vicenda, gli attori dovrebbero ogni tanto scambiarsi le parti durante le prove, così che i personaggi ricevano gli uni dagli altri ciò di cui abbisognano. Ma giova anche agli attori incontrare i loro personaggi in copia o in una concezione diversa. Impersonato da un attore di sesso diverso, il personaggio rivelerà più chiaramente il proprio sesso; impersonato da un comico acquisterà nuovi aspetti. Ma, soprattutto, l’attore, sviluppando insieme al suo anche i personaggi antagonisti, o almeno sostituendosi ai loro interpreti, definisce la posizione sociale, decisiva, da lui assunta per presentare il suo personaggio. Il padrone sarà quel padrone che il suo servo gli permette di essere, e così via. 60. E’ evidente che innumerevoli elementi hanno già contribuito alla struttura del personaggio al momento del suo incontro con gli altri personaggi del dramma; e l’attore dovrà ricordarsi le proprio fratello. I fratelli dei due re uccisi, diventati re a loro volta, evitano la guerra con un accordo che consente alle truppe norvegesi di attraversare il territorio danese per una guerra di rapina contro la Polonia. Avviene però che il giovane Amleto si sente chiamato dallo spirito del suo bellicoso padre a vendicarlo del misfatto commesso contro di lui. Indeciso per un certo tempo se rispondere ad un eccidio con un nuovo eccidio, e anzi già disposto a partire in esilio, Amleto incontra sulla costa il giovane Fortebraccio che avanza verso la Polonia colle sue truppe. Sopraffatto dall’esempio guerresco, Amleto fa ritorno per trucidare in una barbara strage suo zio, sua madre e se stesso, abbandonando la Danimarca al norvegese. Tali avvenimenti ci mostrano come quest’uomo, giovane ma già corpulento, applichi assai male a proposito la nuova logica appresa all’università di Wittenberg. Essa non fa che intralciarlo negli intrighi feudali ai quali è ritornato. Di fronte ad una prassi illogica, la sua logica è del tutto priva di senso pratico. E della contraddizione tra un tale raziocinio e un’azione così diversa, egli cade tragicamente vittima. Una simile lettura del dramma potrebbe interessare il nostro pubblico. 69. Ogni progresso, ogni passo con cui si emancipa la produzione della natura, portando a una modificazione della società, ci procura sempre un senso di trionfo e di fiducia. E’ questo che Galilei esprime dicendo: “E’ mia opinione che la terra sia cosa molto nobile e ammirabile, se tante e sì diverse trasformazioni e generazioni esistono incessantemente su di essa”. 70. Compito precipuo del teatro è interpretare la vicenda e comunicarla al pubblico attraverso appropriati straniamenti. E non è l’attore che deve far tutto, anche se nulla deve essere fatto senza riferirsi a lui. Ciascuno (attori, scenografi, truccatori ecc.) associa la propria arte nell’impresa comune, senza rinunciare con ciò alla sua autonomia. 71. Negli intermezzi musicali rivolti al pubblico, il gesto generale del “mostrare”, che sempre accompagna quello mostrato nel caso singolo, viene accentuato dalle canzoni. Perciò gli attori dovrebbero evitare di “sconfinare” dalla recitazione al canto, bensì staccarlo nettamente dal resto, possibilmente anche con l’aiuto di mezzi scenici veri e propri come il cambiamento delle luci o la proiezione dei titoli. Quanto alla musica, essa dovrà indubbiamente rifiutare di fare la parte di domestica senza idee proprie, che generalmente le è riservata. Hanns Eisler, per esempio, nel Galileo ha connesso in modo esemplare gli avvenimenti, componendo per il corteo mascherato della scena carnevalesca una musica trionfale e minacciosa, atta ad indicare la piega sovversiva data dal basso popolo alle teorie dello scienziato. E similmente nel Cerchio di gesso il recitativo freddo e impassibile del cantore che descrive come la serva salvò il bambino denuncia gli orrori di un’epoca in cui il sentimento materno può divenire debolezza suicida. Insomma, la musica può situarsi in molte maniere di propria iniziativa, e commentare a suo modo l’argomento; ma può anche limitarsi ad arricchire la ricreazione di altri diversivi. 72. Ma non solo il musicista ritrova la sua libertà, quando non è più costretto a creare atmosfere che consentano al pubblico di abbandonarsi senza ritegno agli avvenimenti scenici; molta libertà guadagna anche lo scenografo allorché, nel costruire il luogo dell’azione, è esentato dal produrre l’illusione di una stanza o di un paesaggio. Basta allora qualche accenno, ma bisogna che esprima cose storicamente e socialmente più interessanti di quelle contenute nell’ambiente reale. Nel teatro ebraico di Mosca, il Re Lear veniva straniato per mezzo di una costruzione architettonica che ricordava un tabernacolo medievale; il Galileo realizzato da Neher era posto davanti a proiezioni di carte geografiche, documenti e opere d’arte del Rinascimento; nel teatro di Piscator, Heartfield, per la commedia Haitang erwacht, si servì di uno sfondo di bandiere girevoli con iscrizioni che indicavano il mutamento della situazione politica, a volte ignorato dai personaggi sulla scena. 73. Anche la coreografia ritrova compiti di carattere realistico. Un teatro che trae tutto dal “gesto” non può comunque fare a meno della coreografia. Già l’eleganza di un movimento, la grazia di una disposizione scenica, conseguono un effetto di straniamento, e l’invenzione pantomimica è di grande utilità per la vicenda. 74. Così chiamiamo a noi tutte le arti sorelle dell’arte drammatica, non per creare un’ “opera d’insieme”, ma perché ognuna di esse, insieme all’arte drammatica, dia a modo suo impulso e sviluppo all’opera comune; e il loro rapporto reciproco sarà proprio quello di straniarsi a vicenda. 75. E ancora una volta ricordiamo che è loro compito ricreare i figli dell’era scientifica, in maniera sensuale e in letizia. Noi trasformiamo le gioie dei sensi in doveri coniugali, assoggettiamo il godimento artistico all’istruzione, e per studio non intendiamo una lieta conoscenza. Il nostro “fare” non è un allegro affaccendarsi; e per attestare le nostre capacità non parliamo del piacere che ci ha procurato una cosa, ma del sudore che ci è costata. 76. E’ necessario che la rappresentazione pubblica si impronti al gesto di consegnare una cosa finita. Allo spettatore si presenta ora quello che non si è respinto dopo averlo provato più volte; e le figurazioni ultimate debbono essere consegnate in piena coscienza, affinché in piena coscienza possano essere accolte. 77. Giacché le rappresentazioni dovranno cedere il passo alla cosa rappresentata, alla convivenza degli uomini; e il piacere di vederle perfette si rafforzerà nel piacere più eletto di vedere che le norme di questa convivenza, ora messe in luce, sono state trattate come provvisorie e imperfette. Nel suo teatro lo spettatore può godere come divertimento il tremendo e infinito lavorio che gli procura da vivere, e anche la terribilità del suo incessante trasformarsi. Possa il teatro consentirgli di prodursi nel modo più lieve: poiché dei vari modi di esistenza, il più lieve è l’arte. LA DIALETTICA NEL TEATRO Gli appunti seguenti, che ebbero per tema il capitolo 45 del Breviario di estetica teatrale, suggeriscono il dubbio se il termine “teatro epico” non sia troppo formale per quel teatro che con tale termine s’intende e che in parte s’è messo in pratica. Il teatro epico è bensì la premessa di quegli spettacoli, ma quest’espressione da sola non basta a mettere in rilievo la produttività e la mutabilità del corpo sociale, che devono costruire la principale fonte del godimento da essi prodotto. Ne consegue che il termine deve essere considerato inadeguato, senza però che possa esserne proposto un altro. STUDIO DELLA PRIMA SCENA DEL “CORIOLANO” DI SHAKESPEARE B. Come inizia il dramma? R. Una folla di plebei si è messa in armi per uccidere Caio Marzio, patrizio e nemico del popolo, il quale si oppone al ribasso del prezzo del grano. La miseria dei plebei, dicono, è il benessere dei patrizi. B. Qualcuno parla dei meriti di Marzio? R. Si, e altri li contestano. P. Dunque lei pensa che i plebei non siano concordi? Eppure affermano molto energicamente la loro risolutezza. Nel teatro tradizionale, del resto, questa risolutezza ha sempre un aspetto comico: i plebei, affermandola, si rendono ridicoli, soprattutto perché hanno armi insufficienti: mazze, bastoni. E infatti per afflosciarli basta un bel discorso del patrizio Agrippa. B. Questo non in Shakespeare. P. Ma nel teatro borghese, sì. R. Lei mette in dubbio la risolutezza dei plebei, però non vuol sentir parlare di comicità. Ma che non si lasciano incantare della demagogia del patrizio, lei lo crede perché altrimenti parrebbero comici anche in questo caso? B. Se si lasciassero incantare, a me non parrebbero comici, ma tragici. Secondo me lei non misura a dovere le difficoltà di realizzare un’unione fra gli oppressi. La loro miseria li unisce- quando si rendono conto da chi è provocata. Ma la loro miseria può anche dividerli, perché sono costretti a portarsi via i magri bocconi uno di bocca all’altro. R. Dunque in realtà i plebei non sono affatto concordi? B. Si: anche il secondo cittadino si unisce agli altri. Solo non dobbiamo nasconderci, né nascondere al pubblico, i contrasti che hanno da essere superati, soffocati, accantonati, in questo momento in cui la massa, spinta dalla cruda fame, muove alla lotta contro i patrizi. R. Io sostengo che questi contrasti non risultano dalla lettura del testo. B. D’accordo: bisogna prima aver letto l’intero dramma. Più in là, questa concordia dei plebei si spezza di nuovo: sarà bene, perciò, mostrarla fin dall’inizio non come un semplice dato di fatto, ma come un risultato raggiunto. R. A questo punto entra il patrizio Agrippa, che con una similitudine dimostra la necessità della supremazia patrizia per i plebei. W. Agrippa inizia con l’affermare che il rincaro non è opera dei patrizi, ma degli dèi! B. Shakespeare fa rispondere ai plebei con argomenti solidi. Anche la parabola viene da loro respinta energicamente. R. I plebei protestano per il prezzo del grano e per lo strozzinaggio, e sono contro gli oneri della guerra, o meglio contro la loro ingiusta ripartizione. Entra Caio Marzio e ingiuria i plebei in armi. Agrippa fa un po’ da paciere e lo informa che i plebei chiedono prezzi speciali per il grano. Marzio li schernisce: parlano di cose di cui non s’intendono, dato che non sono ammessi in Campidoglio e non possono perciò avere un’idea degli affari di stato. Va su tutte le furie quando sente affermare che di grano ce n’è a sufficienza. W. In ogni caso quando scoppia la guerra, gli promette il grano dei Volsci. R. Durante la sua sfuriata, Marzio dà la notizia che il Senato ha testè concesso ai plebei i tribuni del popolo; Agrippa se ne stupisce. Entra un gruppo di senatori capeggiati dal console in carica Cominio: il Volsci stanno marciando su Roma. Marzio si rallegra al pensiero di poter combattere con il duce dei Volsci, Aufidio, e viene posto sotto il comando del console Cominio. B. Accetta questa nomina? R. Si. Ma i senatori sembrano esserne un po’ sconcertati. B. Divergenze di opinione tra il Senato e Marzio? R. Non di grande rilevo. B. Ma noi abbiamo letto l’intera opera, e sappiamo che Marzio non è per nulla un uomo comodo. W. Interessante il fatto che, mentre disprezza i plebei, abbia in tanto concetto il nemico del suo paese, il patrizio Aufidio. Dimostra una profonda coscienza di classe. R. Insieme ai senatori giungono anche i nuovi tribuni della plebe, Sicinio e Bruto. B. Penso che lei li abbia dimenticati perché al loro arrivo, non c’è nessuno che li festeggi né li saluti. R. Da questo punto in poi, in generale, i plebei passano in secondo piano. Un senatore li spedisce aspramente a casa; Marzio protesta con sarcasmo che possono seguirlo in Campidoglio. Li paragona a topi. P. La loro ribellione, come si deduce dal dramma, è stata intempestiva. Lo stato di necessità creato dalla minaccia dei Volsci fa sì che i patrizi riprendano in mano le redini della cosa pubblica. R. I tribuni, rimasti indietro da soli, esprimono la speranza che la guerra, anziché esaltare Marzio, lo travolga e lo ponga in conflitto con il Senato. La chiusa della scena non è molto soddisfacente. B. Prendiamo nota di questa insoddisfazione. Però anche della probabile opinione di Shakespeare che la guerra indebolisca le posizioni dei plebei: la trovo straordinariamente realistica. R. L’affollamento dei fatti in una così breve scena. Come appaiono poveri di contenuto, al confronto, i drammi moderni! P. E tuttavia non produce nessun effetto sui plebei! R. La chiarezza cristallina dei discorsi di Marzio…che figura gigantesca! E si riesce ad ammirarla proprio quando il suo comportamento riesce particolarmente odioso! B. E di tutti i grandi e piccoli motivi contrastanti gettati in fascio sulla scena, che cosa si vede sui palcoscenici borghesi? W. Normalmente l’intera scena viene sfruttata per l’esposizione del carattere di Marzio, l’eroe. Ci viene mostrato come un patriota ostacolato dalla plebe egoista e da un Senato vilmente remissivo. Il teatro borghese, perciò, non fa sua la causa dei plebei, ma quella dei patrizi. I plebei vengono rappresentati come tipi comici e miserabili, e non già come tipi umoristici e oppressi dalla miseria; e la battuta di Agrippa in cui esprime meraviglia perché il Senato ha concesso il tribunato della plebe, è utilizzata più a scopo di caratterizzazione del personaggio che non per suggerire un nesso tra la dichiarazione di guerra dei Volsci e le concessioni fatte alla plebe romana. W. E i plebei? In Shakespeare non ci sono battute per loro : ma farli ammutolire è tutt’altro. E ci sono altri problemi. Devono salutare i nuovi tribuni? Ne ricevono qualche consiglio? Cambiano di atteggiamento verso Marzio? B. Il fatto che tutti questi interrogativi rimangano senza risposta ci fornisce la chiave della soluzione scenica: e cioè, è necessario che siano sollevati. I plebei dovranno schierarsi per rendere il saluto ai tribuni, ma non riusciranno a salutarli. I tribuni dovranno cercare di dare consigli, ma neanche loro ci riusciranno. E i plebei non riusciranno a mutare atteggiamento verso Marzio. Il vento è girato, non spira più propizio alle insurrezioni, ormai su tutti pesa una grave minaccia: e solo per la plebe viene annotato, in modo del tutto negativo, l’effetto della nuova situazione minacciosa. Non abbiamo davvero motivo di tenerci indietro rispetto a Plutarco, il quale ci parla della grandissima dedizione mostrata dal basso popolo in occasione della guerra. Si è verificata, e sia pure in senso cattivo, una nuova unità delle classi: e noi dobbiamo indagarla e ricomporla sulla scena. W. Nella nuova unità troviamo anzitutto i due tribuni della plebe: ne sporgono fuori inutilizzabili e incerti. Come potremo riuscire, con quei due e col loro inconciliato e inconciliabile oppositore, Marzio, che ora è diventato così necessario, a comporre visibilmente l’unità di due classi che un momento fa ancora si combattevano? B. Io penso che non ne verremo mai a capo. Ho sottolineato un passo nel saggio Sulla contraddizione di Mao Tse-tung. Che cosa vi è detto? R. Che in qualsivoglia processo che presenti numerose contraddizioni, si trova sempre una contraddizione principale, che ha importanza primaria, decisiva: mentre le altre sono di portata secondaria e subordinata. B. Abbiamo la contraddittoria unità fra patrizi e plebei, che viene ad essere complicata dalla contraddizione, dal contrasto, con un popolo confinante, i Volsci. Quest’ultima contraddizione è la principale. L’altra, quella fra patrizi e plebei, la lotta di classe, è accantonata per il fatto che sorge la nuova, la guerra nazionale contro i Volsci; ma non per questo è scomparsa. Il tribunale della plebe è stato istituito in conseguenza dello scoppio della guerra. W. Ma come possiamo rendere evidente il fatto che la contraddizione patrizi-plebei viene posta in ombra dalla nuova e prevalente contraddizione Romani-Volsci? E, nello stesso tempo, rendere anche evidente il prevalere della classe dominante patrizia sulla nuova classe dominante plebea? Mescoleremo i gruppi e li scuoteremo energicamente: i punti deboli, i passaggi interni fra l’uno e l’altro, verranno fuori. Leggiamo in Plutarco, là dove parla della rivolta dei plebei: “Uomini in estrema miseria venivano trascinati via uno per uno e messi in prigione, anche se i loro corpi erano pieni di cicatrici causate dai combattimenti e dalle fatiche delle guerre per la patria. Essi avevano vinto i nemici: ma non per questo i creditori usarono loro alcuna misericordia. In mezzo ai plebei, dicevano prima, potrebbe esserci uno di questi invalidi; e il suo ingenuo patriottismo potrebbe spingerlo ad avvicinarsi a Larzio, benché costui appartenga alla classe che lo tratta male. I due invalidi, ricordando l’ultima campagna combattuta fianco a fianco, potrebbero abbracciarsi, incitati da ogni parte, e andarsene via zoppicando. B. Questo servirebbe anche assai bene a creare la sensazione che si è in tempo di guerra. Inoltre potremmo sviluppare il nostro punto di vista sull’armamento. Il console Cominio, che è comandante in capo, potrebbe tastare sogghignando le armi improvvisate dai plebei per la guerra civile, e restituirle ai loro portatori perché le usino nella guerra patriottica. P. E per Mazio e i tribuni? W. Marzio può invitare i plebei a seguirlo al Campidoglio in tono di condiscendenza e non privo di rispetto; e i tribuni possono incitare gli invalidi di guerra a salutare Tito Larzio; ma Marzio e i tribuni non si guarderanno in faccia, si volteranno le spalle. R. Insomma, entrambe le parti faranno mostra di patriottismo, ma i loro contrasti resteranno evidenti. B. E chiaro dovrà anche essere che chi domina è Marzio. R. Che decidere ora circa il carattere del protagonista, che deve pur essere definito, e definito appunto nel quadro di questa materia? B. E’ uno di quei personaggi che si dovrebbero cominciare a costruire non dalla prima loro apparizione sulla scena, ma dalla successiva. Per Coriolano penserei ad una scena di battaglia. P. Per la parte di Coriolano lei pensa a Ernest Busch, il grande attore popolare, che è egli stesso un combattente. B. Non troppo simpatico, ma simpatico. Se vogliamo che la tragedia dell’eroe generi diletto, dobbiamo prestare a lui il cervello e la personalità di un Busch. Egli trasferirà il suo proprio valore nell’eroe e saprà capirlo, nella sua grandezza come nella sua costosità. E quanto alla forza fisica, non è di questa che ha bisogno per incutere paura ai suoi nemici. Dato che raffiguriamo la metà della plebe romana con sei o sette uomini e l’intero esercito con non più di nove, sarebbe un po’ curioso portare sulla scena un Coriolano di un paio di quintali. W. Lei tende in linea generale a delineare lo sviluppo dei personaggi grado a grado. Perché non vuole applicare anche a Coriolano questa regola? B. Forse perché in realtà non ha un vero sviluppo. Il fatto che, da romanissimo fra i Romani, diventi il più feroce nemico di Roma, dipende appunto dal suo rimanere sempre lo stesso. P. Coriolano è stata definita la tragedia dell’orgoglio. R. Fin dal nostro primo esame abbiamo visto che il tragico, per Coriolano come per Roma, sta nella convinzione di essere insostituibile. P. Ma questo non avviene forse perché una simile interpretazione del dramma lo rende pienamente attuale per noi, che vediamo ripetersi un tale errore anche ai nostri tempi e sentiamo la tragicità delle lotte che ne derivano? W. Sarà molto importante che riusciamo a rappresentare Coriolano e ciò che avviene a lui e intorno a lui, in maniera da rendere plausibile quella convinzione di insostituibilità. B. Poiché è tutto imperniato nel suo orgoglio, dobbiamo cercare i punti nei quali si atteggia ad umiltà, e ciò secondo l’insegnamento di Stanislavskij, che esigeva dall’interprete dell’avaro che mettesse in rilievo i punti in cui era prodigo. P. Dunque, che insegnamenti potremmo trarre da una simile esecuzione della scena? B. Che la posizione delle classi oppresse può essere rafforzata da una minaccia di guerra e indebolita dallo scoppio della guerra. R. Che una situazione disperata può produrre l’unità delle classi oppresse, mentre il profilarsi di una soluzione può dividerle: e la guerra può presentarsi come una soluzione. P. Che le differenze di guadagno possono costituire un fattore di disunione fra queste classi. R. Che i combattenti e gli stessi invalidi di guerra vedono la guerra trascorsa in una luce leggendaria e possono essere sedotti dall’idea di una nuova guerra. W. Che i bei discorsi non cancellano la realtà ma possono temporaneamente mascherarla. P. Che anche la classe degli oppressori non è completamente concorde. R. Lei crede che tutto questo e tutto il resto si possa dedurre dal testo di Shakespeare? B. Si può dedurre e si può indurre. P. E per questa certezza vogliamo metterlo in scena? B. Non solo per questo. Desideriamo provare a trasmettere ad altri la gioia di rendere palpabile un episodio storico vissuto in piena luce. E di sperimentare al vivo la dialettica. P. Non è, quest’ultimo, un piacere squisito, riservato solo a pochi intenditori? B. No. Anche nei quadri storici dei baracconi da fiera, anche nelle ballate popolari, si vede come la gente semplice, che in realtà è così poco semplice, tragga diletto dalle narrazioni di splendore e decadenza dei grandi; come goda nell’assistere all’eterna vicenda dei destini, all’astuzia degli oppressi, alle possibilità dell’uomo. E quello che cercano è la verità, “quello che sta dietro al quadro”, la morale della favola. (1953). FRETTA RELATIVA Nella Figlia adottiva di Ostrovskij si rappresenta un tè pomeridiano, durante il quale la benefica proprietaria esprime giudizi piuttosto superficiali sulla vita della sua figlia adottiva. La soluzione più ovvia sarebbe stata quella di rappresentare anche la scena del tè come qualcosa di affrettato e di superficiale; decidemmo invece di costruire una cerimonia silenziosa, che desse a quella scena un carattere di molta importanza. I domestici dovevano approntare il tè lentissimamente ma con gran cura: portare il samovar, stendere la tovaglia ecc. Il servo più anziano sorvegliava le fantesche che preparavano la tavola, e solo dopo un certo tempo il regista gli faceva compiere un movimento col braccio, ampio ma non rapido, con il quale incitava le ragazze alla rapidità. Se ne deduceva un’impressione di controlli, di dominio. La fretta è relativa. Difficile da realizzare era piuttosto, nel quadro dello stesso problema, la lenta irruzione di un valletto che giungeva in ritardo, recando una tazza di porcellana. (1955). UNA DIGRESSIONE (“IL CERCHIO DI GESSO DEL CAUCASO”) P. Hanno intenzione di tagliare tutta la Fuga nelle montagne del Nord. Il lavoro è lungo, e l’intero atto non è in fondo che una digressione. Vediamo la serva che, dopo aver portato il bambino fuori dalla zona d’immediato pericolo, vuole liberarsi di lui, ma poi invece lo tiene: in sostanza, si dice, è tutto qui. B. Sarebbe bene studiare accuratamente le digressioni nelle opere teatrali moderne, prima d’imboccare le scorciatoie: possono proprio essere queste a dare un’impressione di maggior lunghezza. Certi teatri, mettendo in scena L’opera da tre soldi, tagliano uno dei due arresti del bandito Macheath, giustificandosi col fatto che gli arresti sono due solo perché per due volte Macheath, invece di fuggire, va al bordello. Lo si fa dunque cadere in trappola perché va al bordello, non perché ci va troppo spesso: per negligenza, cioè. E così, per voler essere più brevi, si diventa noiosi. P. Quelli di X… sostengono che, se si attenua l’affetto della serva per il bambino, il suo diritto a tenerlo per sé, nel successivo processo, appare meno fondato. B. Anzitutto nel processo non si tratta del diritto della serva a tenere il bambino, ma del diritto del bambino ad avere la madre migliore; e l’idoneità della ragazza al compito di madre, il suo esser degna di fiducia e adatta allo scopo, sono messi in rilievo proprio dalle sue ragionevoli esitazioni di fronte a questa prospettiva. R. A me sembra bella anche questa esitazione. La bontà non è illimitata, è giusto tener conto di una misura. W. Questo è un modo di vedere realistico. B. Per me è troppo meccanico, privo di bontà. Perché piuttosto non osserviamo questo: che i tempi tristi rendono il senso di umanità un pericolo per gli esseri umani? Nella serva Gruscia l’interesse per il bambino entra in conflitto con l’interesse per se stessa. Essa deve rendersi conto dell’uno e dell’altro interesse, e cercare di seguirli tutti e due. Quest’osservazione, ritengo, ci permetterà di giungere ad un’interpretazione più mossa e più ricca della parte di Gruscia. Essa corrisponde alla verità. (1955). UN ALTRO CASO DI DIALETTICA APPLICATA Allorché il breve lavoro I fucili di madre Carrar, scritto da B. sulla traccia di un atto unico di Synge, venne posto in prova al Berliner Ensemble sotto la guida di un giovane regista, la parte della Carrar fu affidata alla Weigel, che già molti anni prima l’aveva recitata in esilio, per la regia di B. Dovremmo avvertire B. che la chiusa, quando la pescatrice consegna al fratello e al figlio minore le armi dissotterrate e li segue verso il fronte, risultava poco convincente. Neppure la Weigel riusciva a spiegare la ragione di questa debolezza. Quando B. venne alla prova, essa rese con maestria il progressivo affievolimento che le continue visite dei compaesani e i loro sempre nuovi argomenti producono nella volontà della donna, divenuta religiosa e ostile ad ogni violenza, fino al crollo che si verifica in lei alla visita del cadavere del figlio, partito tranquillamente per la pesca. Eppure anche B. fu costretto a riconoscere che quel capovolgimento non era del tutto credibile. L’errore era scoperto. Nella recitazione della Weigel, si vedeva la Carrar piegare sotto ogni colpo, fino a crollare sotto il più forte. Invece si doveva mostrare come ad ogni nuovo colpo si indurisse sempre di più, e tutt’a un tratto crollasse sotto l’ultimo. “Straordinario, disse B. quando la prova ebbe L’azione del dramma si svolge nella stanza principale del municipio e in una stanza attigua. Quando il regista accennò ad una piccola tavola che intendeva collocare al centro della scena, e alla quale dovevano pranzare, ospiti dei contadini, prima un mercante che collaborava con i giapponesi, e poi un graduato della locale guarnigione militare, B. gli fece notare che sarebbero venuti a trovarsi con la schiena rivolta alla porta: cosa che, in un luogo dove erano mal visti, non poteva riuscire loro gradita. Il regista si dichiarò d’accordo ma era alquanto titubante a spostare la tavola sul lato, perché così tutto lo spazio scenico perdeva di equilibrio: sull’altro lato, infatti, c’era la stanza attigua, raramente occupata da azioni sceniche. “ Ah dunque c’è un errore nella scenografia! Commentò B. con interesse. – Le occorrono proprio due ambienti? Non si potrebbe costruire la stanza attigua solo quando ce n’è bisogno? Il regista spiegò perché questo non era possibile. “Bene- disse B. – allora si deve animare la stanza attigua. Abbiamo bisogno di un’azione che si combini con l’azione principale e abbia un qualche sbocco. C’è un altro errore di cui mi ricordo: il partigiano che deve simulare un attacco dell’8ava Armata al villaggio, per fornire ai contadini una scusa verso i giapponesi per la scomparsa del miglio, esce di scena senza che sia chiaro che ora egli trasporterà il miglio al di là dei monti. In che stagione siamo?”. “ In agosto, dato che il miglio è stato appena mietuto: questo non lo si può cambiare”. “Perciò è impossibile stiano cucendogli una giubba di panno caldo? Mi avete capito: una donna potrebbe stare seduta nella stanza attigua a cucirgli questa giacca o a rattoppargliela”. Fu convenuto che le donne avrebbero rattoppato il basto del mulo del sindaco. Il mulo doveva servire per il trasporto. Ci decidemmo per due donne, madre e figlia, perché potessero parlottare tra loro, mentre il collaborazionista veniva rinchiuso nell’armadio dei pubblici registri. Ben presto l’idea si mostrò vantaggiosa sotto vari aspetti. La comicità del finto attacco in presenza del collaborazionista chiuso nell’armadio era sottolineata dalle risatine delle due donne; il collaborazionista poteva mostrare il nessun conto in cui teneva le due donne. Ma soprattutto veniva dato rilievo alla collaborazione dell’intero paese allo stratagemma; e la riparazione del basto e la sua consegna ai partigiani da parte delle donne davano luogo a un momento poetico. “Le trovate fioriscono nella vicinanza degli errori”, commentò B. andandosene. QUALCHE PAROLA SULLA CARATTERIZZAZIONE Nel dramma popolare cinese Miglio per l’8ava Armata ci viene mostrata la storia di un villaggio che, sotto la guida del sindaco, sottrae il proprio raccolto di miglio alle truppe d’occupazione giapponesi e alle bande loro alleate di Ciang Kai-scek, per passarlo all’8ava Armata rivoluzionaria. Per la parte del sindaco il regista cercava un attore che potesse raffigurare un uomo scaltro. B. criticò questo punto di vista. Perché, disse, il sindaco non poteva essere un uomo semplice e saggio, costretto dai suoi nemici a battere vie traverse e a ricorrere all’astuzia? Può darsi che il progetto sia stato architettato dal giovane partigiano che ha spesso idee pazzesche; ma il sindaco lo attua, anche quando già da un pezzo il partigiano lo giudica irrealizzabile per difficoltà insorte da ogni parte, e vuole escogitare e improvvisare qualcos’altro. Siamo in un villaggio della Cina, non in un villaggio imprecisato dove abita un uomo astutissimo. E’ la necessità che rende astuti. DIALOGO SULL’IMMEDESIMAZIONE COATTA B. Ho qui con me l’Arte poetica di Orazio nella versione di Gottsched. Vi è felicemente formulata una teoria che noi abbiamo sovente discussa, quella che Aristotele ha posto come fondamento del teatro: Non basta che le opere poetiche siano belle: dovranno anche essere piacevoli, trascinare l’uditore dove vogliono. Come ridono con chi ride, così partecipano con chi piange i tratti di un vero uomo: se vuoi che io pianga, per prima cosa devi essere triste tu stesso. A proposito di questo passo famoso, Gottsched rinvia anche a Cicerone, là dove, scrivendo dell’oratoria, narra come l’attore romano Polo interpretasse la parte di Elettra che piange il fratello. A Polo era morto da poco l’unico figlio; ed egli ne recava in scena l’urna cineraria e recitava quei versi “facendone a tal punto cosa propria, che il suo lutto gli strappava vere lagrime; e nessuno dei presenti avrebbe potuto, in quel momento, trattenersi dal piangere”. A me sembra che un simile procedimento non possa che definirsi barbaro. W. Allo stesso modo un interprete di Otello dovrebbe ferirsi col pugnale, per procurare a noi il gusto di provare la sua sofferenza! Ce la farebbe più a buon mercato se, poco prima di entrare in scena, si facesse allungare di soppiatto un pacco si recensioni laudative di qualche collega. Anche così riuscirebbe probabilmente a comunicarci quella disposizione d’animo tanto gradita, in cui non possiamo trattenerci dalle lagrime! B. L’intenzione, comunque, è di dare in pasto a noi spettatori un dolore qualunque, che sia però trasportabile, cioè che si possa senza danno staccare dalla sua occasione e mettere a disposizione di un’altra. P. D’accordo, può darsi che Gottsched sia barbaro a questo riguardo, e altrettanto Cicerone. Ma Orazio parla di una sensazione schietta e per nulla presa a prestito, che deve essere suscitata direttamente dal fatto rappresentato. W. Perché dice allora: “Se vuoi che io pianga…” Devo tollerare che mi malmenino l’anima finché mi spuntino le lacrime liberatrici? O devo aspettarmi che mi siano presentati avvenimenti capaci di addolcire il mio spirito, così che trovi la via a un comportamento degno di essere umano? P. E perché questo non ti sarebbe possibile quando vedi un uomo soffrire e puoi soffrire con lui? W. Perché ho bisogno di sapere perché soffre! Prendi Polo, per esempio: metti che suo figlio fosse un mascalzone. Lui può soffrire ugualmente, ma perché dovrei soffrire io? P. Te ne potrai rendere conto di fronte alla vicenda che l’attore interpreta in teatro e per la quale pone a disposizione il suo dolore. W. Me ne renderò conto se lui me lo permette: se non mi costringe a lasciarmi ad ogni costo sopraffare dal suo dolore, che lui vuole ad ogni costo farmi sentire. B. Facciamo un’ipotesi: la sorella piange per il fratello che va in guerra; è la guerra dei contadini, lui è un contadino e va insieme a loro. Dobbiamo abbandonarci completamente al dolore della sorella? O niente affatto? Dobbiamo poter abbandonarci a questo dolore, e poter non abbandonarci. La nostra particolare reazione scaturirà dal riconoscimento e dal sentimento provocati in noi dall’evento polivalente cui assistiamo. (1953). PARTE SECONDA Pratica teatrale SUL TEATRO DI OGNI GIORNO Voi artisti che fate del teatro in grandi edifici, sotto soli di luce artificiale di fronte alla folla silenziosa, ricercate ogni tanto anche il teatro che si svolge sulla strada. Il teatro di ogni giorno, dai mille aspetti, senza gloria, ma anche assai vivace, terrestre, il teatro che si alimenta dalla convivenza degli uomini. Com’è utile però questo teatro, serio e allegro, e com’è degno di rispetto! Non come il pappagallo e la scimmia imitano costoro, soltanto a scopo di imitazione, indifferenti all’oggetto che imitano, solo per mostrare che loro sanno imitare a dovere; no, hanno di mira degli scopi. Possiate voi grandi artisti, magistrali imitatori, in questo non essere inferiori a loro! Non allontanatevi troppo, da quel teatro d’ogni giorno, che si svolge sulla strada. Guardate là quell’uomo all’angolo della strada! Egli mostra com’è avvenuto l’incidente. In verità consegna il conducente al giudizio della folla. E ora imita chi è stato investito. Di tutti e due lui dà solo quel tanto che serve a spiegare l’incidente e tuttavia abbastanza perché i due appaiano ai vostri occhi. Ma non li rappresenta in modo che siano incapaci di sfuggire ad un incidente. L’incidente diventa così comprensibile e tuttavia incomprensibile, perché entrambi potevano anche muoversi in modo diverso. Lui ora mostra come in effetti avrebbero potuto muoversi perché l’incidente non capitasse. Poiché questo testimone oculare non è superstizioso, non abbandona i mortali alle stelle ma solo ai loro errori. Osservate anche la serietà e lo scrupolo della sua imitazione. Lui sa che dipende molto dalla sua esattezza, se l’innocente sfuggirà alla rovina o se la parte lesa verrà risarcita. Guardatelo ora mentre ripete la scena che ha già rappresentato. Esitando, chiamando in aiuto i ricordi, incerto sul valore della sua imitazione, interrompendosi e invitando un altro a correggerlo su questo o quel punto. E con stupore possiate notare una cosa: che questo imitatore non si perde mai in un’imitazione. Non si trasforma mai del tutto nella persona che imita. Quello non lo ha iniziato ad una fede, lui non condivide né i suoi sentimenti né le sue opinioni. Di quello sa solo poche cose. In perfetta coscienza è colui che mostra, e mostra il vicino estraneo. La misteriosa trasformazione che si vuole avvenga nei vostri teatri tra spogliatoio e palcoscenico: un attore lascia lo spogliatoio, un re sta sulla scena, quell’incantamento di cui ho visto così spesso ridere i lavoratori dello spettacolo con le bottiglie di birra fra le mani, qui non avviene. Il nostro attore in ogni momento potrete interromperlo; lui vi risponde in tutta calma e continua, quando avete parlato con lui, la sua rappresentazione. Ma voi non dite: quell’uomo non è un artista. Alzando un tale muro fra voi e tutto il mondo, non fate che scagliare voi stessi fuori dal mondo. Se non lo definite un artista, non potete neppure definirlo un uomo, e questo sarebbe un grande rimprovero. Dite piuttosto: è un artista perché è un uomo. Il vostro fare del teatro riportate dunque sul terreno della pratica. Le nostre maschere, dite, non sono niente di speciale, in quanto sono solo maschere. E i nostri versi, dite, li avete anche voi. Noi recitiamo un testo estraneo ma gli amanti e i venditori imparano anche testi estranei e quante volte voi citate sentenze! Così maschera, verso e citazione divengono normali ma maschera vista di grandezza inusitata, verso recitato a perfezione e citazione a proposito. Ma per intenderci: anche quando migliorate quello che fa l’uomo all’angolo della strada, voi fate meno di lui se il teatro che fate è meno significativo, ha motivi più futili, incide di meno sulla vita degli spettatori ed è meno utile. COME VALERSI NON SERVILMENTE DI UN MODELLO DI REGIA Prefazione al “Modello per l’Antigone 1948” 1. Il completo sfacelo materiale e spirituale ha indubbiamente prodotto una generica sete di novità; anche l’arte viene da più parti spronata a tentare nuove vie. Poiché naturalmente sussiste grande confusione intorno alle idee di nuovo e di vecchio, e la paura del ritorno del vecchio si unisce a quella dell’instaurazione del nuovo, e per di più molti incitamenti si rivolgono da varie parti ai vinti affinché il superamento del nazismo sia soltanto ordine spirituale e interiore, ben faranno gli artisti a non fidare ciecamente nell’affermazione che ogni novità sia da salutarsi con simpatia. L’arte, però, insieme alle parti progressive della popolazione, deve passare dallo stato di attesa della cura a quello dell’intervento attivo e, nella generale rovina, scegliere il punto da cui iniziare. La rapida decadenza della tecnica teatrale sotto il nazismo si verificò, diremmo, pressoché inavvertitamente. Le distruzioni subite dai teatri sono oggi molto più appariscenti di quelle avvenute nel campo della recitazione: perché le prime hanno coinciso con il crollo del nazismo, le seconde con la sua ascesa. Così può avvenire oggi di sentir parlare della splendida tecnica dei teatri di Goring. Una tecnica che è servita a tener celati i nessi del processo sociale non può essere usata per renderli evidenti; ed è gran tempo che si faccia del teatro per curiosi! La società borghese, che produce anarchicamente, solo nei momenti di catastrofe si capacita delle proprie leggi di movimento. Se il teatro è in grado di mostrare il vero, deve anche essere in grado di trasformare l’osservazione del vero in godimento. Come costruire dunque un simile teatro? il guaio è che con la ricostruzione riappaiono le vecchie infiltrazioni e i focolai di malattia. E, per di più, il difficile dell’arte è quello di dover attendere alle proprie faccende con assoluta leggerezza di tocco. Può darsi perciò che, proprio in tempo di ricostruzione, fare dell’arte progressiva sia tutt’altro che facile. Ma questo dovrebbe stimolarci. attori- ad eccezione della Weigel- si comportavano per così dire empiricamente. Tali velleità naturalmente falliscono e così ci avviene, in una stessa messinscena, di cozzare contro un’enfasi sonora capace di rendere insopportabile Eschilo, o in bizzarrie che farebbero altrettanto di Gozzi; ed è a tutti palese che gli attori, mentre recitano, hanno di mira scopi affatto diversi. Questo deplorevole stato di cose pregiudica fatalmente anche il settore d’interessi più peculiare al modello, e cioè quello degli atteggiamenti e raggruppamenti delle masse. In linea generale si può dire che a questo problema sia stata dedicata la maggiore attenzione possibile. La parsimonia nel muovere in su e in giù gruppi e personaggi, tende a conferire a tali movimenti tutto il loro significato. Le singole figurazioni, le distanze stesse, hanno un loro senso drammaturgico, e in certi momenti può bastare il movimento della mano di un attore a modificare una situazione. Si è anche fatto il possibile per rendere visibili le invenzioni della regia e degli attori, in quanto costituiscano idee teatrali; ma in questo campo ogni misura si è smarrita, sicché nessuno riesce più a distinguere il grande dal piccolo. Sotto questo come sotto gli altri riflessi, lo studio delle illustrazioni e delle note dovrebbe indirizzarsi principalmente verso ogni spunto di cominciamento e di differenziazione, di cui si avverte l’urgenza nel confuso e strabocchevole panorama di conclusioni, compiutezze e generalità, proprio alla nostra arte. Il teatro che, per rifiuto della complessità, vuol restare semplice, diventa melenso. Non più serietà di quanta ne occorra in qualsiasi gioco deve ispirare chi lavora sui modelli di regia. SE IL FAR USO DI MODELLI DI REGIA SIA DI OSTACOLO ALLA LIBERTA’ ARTISTICA (Winds-> ex direttore del Teatro di Wuppertal) WINDS Per la rappresentazione della nostra messinscena di Madre Courage, lei ci ha posto a disposizione l’intero materiale dell’allestimento berlinese affinché lo usassimo a scopo di studio. La sua incaricata signora Berlau ha ampiamente informato me, il regista, lo scenografo e gli attori dei suoi desideri, illustrandoli con un gran numero di fotografie di scena correlate di testi esplicativi e con le sue istruzioni scritte per la regia. Poiché normalmente non rientra negli usi teatrali che l’autore influisca così minutamente sulla messinscena, e qui Wuppertal è la prima volta che siamo fatti oggetto di una richiesta in forma tanto esplicita, ci interesserebbe conoscere le ragioni che l’hanno spinta a documentare un allestimento tipo e a prescrivere tale allestimento come modello per lo studio delle rappresentazioni future. BRECHT In via di principio, Madre Courage e i suoi figli ,può anche essere rappresentata nella maniera tradizionale. Ciò che in tal caso andrebbe perduto sarebbe l’effetto specifico di un’opera come questa, e si vanificherebbe la sua funzione sociale. Ai metodi del teatro epico non si può accedere per via puramente teorica: il modo migliore di apprenderli è la copiatura materiale, unita però allo sforzo di scoprire il perché delle figurazioni, dei movimenti, dei gesti. Prima di poter fare noi un modello è necessario che ne abbiamo già copiato uno. L’importantissimo contributo che la letteratura può dare agli uomini nella conoscenza di se stessi consiste nella raffigurazione artistica degli uomini e del loro divenire; grazie a tale raffigurazione, ciò che vi è di nuovo nel primo stadio di ogni divenire può essere reso visibile. Questa grande, autonoma funzione dell’arte non si addice che ad un’arte altamente realistica. Il realismo non è dunque un tema per discussioni specialistiche tra letterati, ma è il fondamento di ogni grande significato sociale proprio dell’arte e, per ciò stesso, della posizione sociale dell’artista. I nostri libri, i nostri quadri, i nostri teatri, i nostri film e la nostra musica possono e devo dare un apporto decisivo alla soluzione dei problemi riguardanti la nostra vita nazionale. Nell’ordinamento sociale della nostra repubblica la scienza e l’arte occupano un posto di tanto rilievo, perché questo è il posto che spetta all’importanza di una scienza progressiva e di un’arte realistica. Una politica culturale così concepita esige dalla nostra classe intellettuale una feconda collaborazione, data l’elevatezza degli scopi che si prefigge. WINDS Non sussiste il pericolo che, adottando un modello di regia quale lei lo intende, vada perduta, in una pedissequa messinscena, una certa libertà artistica? BRECHT Che venga meno la libertà della creazione artistica, è una lagnanza che dobbiamo aspettarci, dato che viviamo in un’epoca di anarchia della produzione. Eppure anche in quest’epoca vi è una continuità dello sviluppo: vediamo per esempio come la tecnica e la scienza si approprino delle conquiste precedenti; pensiamo al concetto di “standard” tecnico. E i “liberi” artisti del teatro, a guardar bene, non sono poi tanto liberi. Sono anzi, di solito, gli ultimi a sapersi liberare da pregiudizi, convenzioni e complessi vecchi di secoli: e in primo luogo dalla subordinazione veramente ignobile nella quale si trovano rispetto al loro pubblico. Sono obbligati a tener desta la sua attenzione, a scoprire il suo gusto e ad attenervisi: insomma, non sono loro stessi a trovare diletto nell’attività che svolgono, giacché debbono lavorare su modelli a loro estranei. E come potrebbe darsi molta libertà, quando è inevitabile che la si perda? Tutt’al più, potrà rimanere quella di scegliere quale tipo di schiavitù verso il pubblico sembra preferibile. WINDS E non c’è da temere che la teoria dei modelli possa avere come conseguenza una certa tendenza a forme stereotipe e congelate, sicché ogni nuovo allestimento non rivesta più che il valore di una copia? BRECHT Dobbiamo liberarci dall’abitudine di disprezzare le copie. Copiare è un’arte. Se in proposito la mia esperienza può avere qualche interesse, posso ricordare che io stesso, nella mia carriera di autore teatrale, ho copiato testi giapponesi, greci, elisabettiani, mentre come regista ho copiato gli adattamenti del comico popolare Karl Valentin e i bozzetti scenici di Caspar Neher; e, con tutto ciò, non ho mai avuto la sensazione che la mia libertà fosse limitata. In fin dei conti, ciò che noi portiamo sul teatro non è altro che questo: copie di comportamenti umani. Gli aggruppamenti, il modo di muovere i vari gruppi, sono altrettante prese di posizione in merito a quei comportamenti. La prima ragione per cui il nostro teatro non è realistico, è il poco conto in cui tiene l’osservazione. I nostri attori guardano dentro di sé anziché al mondo che li circonda. I registi si servono delle opere come di stimolanti per le loro “visioni”. Naturalmente è necessario, anzitutto, imparare a copiare con arte, allo stesso modo che a costruire dei modelli: i quali, per essere imitati, devono essere imitabili. L’inimitabile e l’esemplare sono due concetti da tenere distinti; e c’è un’imitazione servile come c’è un’imitazione che è indizio di maestria. Ma non è detto che la seconda debba essere, quantitativamente, meno “simile” della prima. In termini pratici, sarà sufficiente che si assuma, come punto di partenza del lavoro di prova, il sommario che all’inizio del modello dà la trama dell’opera. Dobbiamo ottenere una sempre più esatta descrizione della realtà: il che vuol dire, esteticamente parlando, una descrizione sempre più delicata e potente. A tal scopo, è indispensabile che mettiamo a profitto le conquiste già fatte; beninteso, senza arrestarci ad esse. Le variazioni al modello saranno provviste di una carica espressiva tanto maggiore, in quanto costituiranno una negazione del dato esistente. WINDS Nelle sue istruzioni per la regia relative al dramma Madre Courage, si parla anche della concezione del teatro epico e dello stile di recitazione epica. Vorrei pregarla di qualche breve delucidazione in proposito, dato che senza dubbio, non solo gli artisti di teatro ma anche l’intera pubblica opinione interessata ai problemi teatrali desidera essere meglio informata su quest’argomento, in cui potrebbe essere implicito un nuovo indizio stilistico. BRECHT Una breve descrizione della recitazione epica è sommariamente difficile. Nei miei Versuche si potranno trovare indicazioni abbastanza particolareggiate. Desidero, inoltre, mettere in rilievo che questo tipo di recitazione è ancora in fase di sviluppo, o, per essere più precisi, in una fase iniziale, ed abbisogna tuttora della collaborazione di molte persone. WINDS Ritiene lei che lo stile teatrale epico possa essere applicato solo a una “cronaca” come Madre Courage, o che esso presenti un interesse pratico per tutta la nostra attività teatrale contemporanea? Che converrebbe, per esempio, adottarlo in pratica anche per il repertorio classico, per quello romantico e per gli autori tra l’Otto e il Novecento? BRECHT La recitazione epica non può essere presa indistintamente in considerazione per tutta la drammaturgia classica. Più facile ne appare l’applicazione in opere come quelle di Shakespeare e nella prima produzione dei nostri classici (Faust compreso). Dipende da quale posizione queste opere dimostrino di avere intorno alla funzione sociale del teatro: raffigurazione della realtà allo scopo di agire sulla realtà. WINDS Non v’è dubbio, infatti, che gli spettatori e gli uditori degli odierni teatri non sono più disposti a sottostare ciecamente alla finzione del “come se” che gli si vuole imporre, cioè ad identificare mentalmente l’attore e la parte da rappresentare nell’interpretazione soggettiva che ne viene fornita. E’ indubbiamente necessario che il palcoscenico acquisti una nuova capacità d’illusione, per poter parlare in maniera convincente a tanti uomini semplici ma permeabili alle nuove esperienze; a mio parere il problema non riguarda solo la materia, ma investe l’intera giustificazione del sussistere di un teatro del nostro tempo. Ogni nuova iniziativa dei poeti e dei drammaturghi per infondere alla scena quei nuovi impulsi che riescano a trarre il teatro dalla sua crisi artistica deve essere salutata con simpatia. LA MUSICA NEL TEATRO EPICO Nel teatro epico, per quanto riguarda la mia produzione, è stato fatto uso di musica per i seguenti drammi: Tamburi nella notte, Carriera dell’asociale Baal, La vita di Edoardo II d’Inghilterra, Mahagonny, L’opera da tre soldi, La Madre, Teste tonde e teste a punta. Nei primi due o tre lavori, la musica appariva in forme piuttosto consuete: si trattava di canzoni o di marce, e i vari pezzi inseriti avevano pressappoco sempre una giustificazione naturalistica. Tuttavia, l’uso della musica costituì comunque una rottura con le convenzioni drammatiche dell’epoca: il dramma, per dir così, perdeva di peso e le messinscene dei teatri acquistavano un carattere più spettacolare. Già per il semplice fatto di introdurre un diversivo, la musica era un elemento di reazione rispetto all’opacità, alla viscosità della drammaturgia impressionista, alla maniaca unilateralità di quella espressionista. Ma contemporaneamente essa rendeva nuovamente possibile qualcosa che già da parecchio tempo era tutt’altro che ovvia e naturale, e cioè un “teatro poetico”. Io stesso scrissi quelle musiche. Cinque anni dopo, per il secondo allestimento berlinese della commedia Un uomo è un uomo allo Stadttheater, le scrisse Kurt Weill. Da questo momento, la musica assunse carattere d’arte (cioè valore autonomo). Il lavoro contiene scene di una violenta comicità: Weill compose una “piccola musica notturna” quale sottofondo alle proiezioni di Caspar Neher, e inoltre una musica di battaglia e una canzone, le cui strofe erano da cantarsi durante i cambiamenti di scena a vista. Ma nel frattempo erano già state enunciate le prime teorie circa la distinzione dei vari elementi. La messinscena dell’Opera da tre soldi (1928) fu il più fortunato esempio del teatro epico. In essa le musiche di scena vennero per la prima volta usate secondo una prospettiva moderna. L’innovazione più vistosa consiste nel fatto che le parti musicali erano nettamente distinte dalle altre; ciò veniva anche sottolineato dalla collocazione dell’orchestrina, piazzata visibilmente sul palcoscenico. Per le parti cantate (songs) era previsto un cambiamento di luci, l’orchestra veniva illuminata, e sullo schermo disposto contro la parete di fondo apparivano i titoli dei singoli numeri; inoltre gli attori compivano un cambiamento di posizioni. Vi erano duetti, terzetti e finali a coro. I pezzi musicali, nei quali prevaleva il carattere della ballata, erano d’indole speculativa e moralistica. Il lavoro mostrava la stretta affinità esistente tra la vita sentimentale dei borghesi e quella dei banditi da strada. Uno dei temi era, per esempio, la dimostrazione che solo chi vive nel benessere vive in modo piacevole, anche se per questo sia necessario rinunciare a molte “cose elevate”. In un duetto d’amore era messo in rilievo come certe circostanze esteriori, quali l’estrazione sociale della partner, o la sua situazione economica, non dovessero minimamente influire sulla scelta fatta dallo sposo. In un terzetto veniva espresso il disappunto per il fatto che l’insicurezza dell’esistenza su questo pianeta non consente all’uomo di assecondare la sua naturale inclinazione alla bontà e ad un contegno civile. Il più soave e tenero canto d’amore dell’opera descriveva l’ininterrotto, incancellabile affetto tra un “protettore” e la sua donna: non senza commozione i due amanti cantavano le lodi della loro piccola dimora, un bordello. In tal modo la musica, proprio con l’atteggiarsi a pura sentimentalità, aiutava a svelare le ideologie borghesi; adempiva, diciamo, un compito di sollevatrice di sudiciume, di provocatrice, di denunziante. Quei songs conobbero larga diffusione, gli incassi da loro realizzati vennero commentati in articoli di fondo, in discorsi. Molti li cantarono accompagnandosi con il pianoforte o coi dischi suonati dall’orchestra, così come solevano cantare i pezzi di successo delle operette. Il song di questo tipo nacque allorché, per la Settimana musicale di Baden-Baden del 1927, dove venivano presentate opere in un atto, io chiesi volontà, ma soprattutto di capacità e di studio; e lo studio può essere fecondo solo se condotto in permanente contatto con le masse e con gli altri artisti: non nell’isolamento! SULLA MUSICA GESTUALE DEFINIZIONE Per “gesto” non si deve intendere la gesticolazione: non si tratta di movimenti delle mani intesi a sottolineare o a chiarire, bensì un atteggiamento d’insieme. “Gestuale” è un linguaggio che si basa sul gesto così inteso: un linguaggio che dimostra determinati atteggiamenti che colui che lo tiene assume di fronte ad altre persone. E’ UNA REGOLA ARTISTICA? Per il musicista si tratta anzitutto di una regola artistica, e come tale di non grande interesse: regola che può tuttavia aiutarlo a conferire ai suoi testi maggiore vivacità e comprensibilità. Importante è invece il fatto che la regola possa consentirgli di assumere, nell’atto di scrivere la musica, un atteggiamento politico. A tale scopo è necessario che egli configuri un gesto di carattere sociale. CHE COS’E’ UN GESTO SOCIALE? Non ogni gesto può dirsi sociale. Certamente non è un gesto sociale quello di difendersi da una mosca: può invece esserlo quello di difendersi da un cane, se per esempio si esprime in esso la lotta che un uomo miseramente vestito deve condurre contro i cani da guardia. L’arte tende sovente a dissocializzare il gesto. L’attore non si dà pace finché non è giunto ad avere “lo sguardo del cane bastonato”: perché quell’uomo è allora semplicemente “l’uomo”; il suo gesto è spogliato da ogni qualificazione di carattere sociale, è svuotato da ogni riferimento o misura concernente quell’uomo particolare in mezzo agli uomini. Lo “sguardo di cane bastonato” può diventare un gesto sociale solo se si intenda dimostrare come un singolo uomo possa, per determinate macchinazioni dei suoi simili, essere ridotto al rango della bestia. Il gesto sociale è il gesto rilevante per la società, il gesto che permette di trarre illazioni circa le condizioni sociali. COME PUO’ IL COMPOSITORE ESPRIMERE, NEL SUO ATTEGGIAMENTO VERSO IL TESTO, IL SUO ATTEGGIAMENTO VERSO LA LOTTA DI CLASSE? Supponiamo che, in una cantata sulla morte di Lenin, il musicista debba esprimere il suo atteggiamento nella lotta di classe. La narrazione della morte di Lenin può naturalmente essere presentata in modi assai diversi, per quanto attiene al “gesto”. Un certo atteggiarsi a solennità non ha grande significato, dato che può essere ritenuto opportuno anche di fronte a un nemico in caso di morte. Lo sdegno verso la “cieca furia della natura”, che immaturamente ha stroncato il miglior uomo del gruppo, non sarebbe un “gesto comunista”; così come non lo sarebbe il saggio rassegnarsi a un cotal “volere del fato”: il gesto del cordoglio comunista per la morte di un comunista è, infatti, un gesto tutto particolare. Il comportamento del musicista di fronte al suo testo, dello storico di fronte alla sua narrazione, indica il grado della rispettiva maturità politica e quindi umana. LA MATERIA IN SE’ E’ PRIVA DI CARATTERE UMANO In certo senso, com’è noto a tutti gli artisti, ogni materia in sé e per sé ha qualcosa di semplice, d’ inqualificato, di vuoto e di autosufficiente. Solo il gesto sociale- critica, astuzia, ironia, propaganda ecc. – vi inserisce l’elemento umano. La pomposità fascista, se considerata unicamente come pomposità, mostra un gesto vuoto di contenuto. Gente che cammina al passo anziché camminare alla buona, una certa rigidezza di movimenti, molto colore, petto ostentatamente in fuori, ecc. Tutto ciò potrebbe benissimo costituire il “gesto” di uno svago popolare. Solo quando il passo di marcia avviene sopra i cadaveri, il gesto sociale è quello del fascismo. UN CONSIGLIO E’ un ottimo criterio, di fronte a una composizione musicale con testo, di far vedere all’artista l’atteggiamento, il “gesto” che egli dovrà osservare nell’eseguire le varie parti: cortesia o ira, umiltà o disprezzo, assenso o rifiuto; dando la preferenza ai gesti più correnti, più volgari e più banali. Così sarà possibile giudicare esattamente del valore politico di quella musica. LA SCENOGRAFIA DEL TEATRO EPICO Talvolta cominciamo a provare senza avere nessuna nozione della scena, e il nostro amico (Neher) ci prepara solo dei piccoli schizzi delle situazioni che dobbiamo rappresentare: mettiamo che si tratti di sei persone, sedute intorno ad un’operaia che muove loro dei rimproveri. In quali punti della scena debbano trovarsi i sedili per la donna, per suo figlio e per i suoi ospiti, è cosa che starà a noi stabilire, e il nostro amico, costruendo le scene, li collocherà nei luoghi prescelti. A volte, invece, egli ci comunica in anticipo i suoi bozzetti, e in tal caso ci aiuta a decidere i raggruppamenti e i gesti e, non di rado, a definire la caratterizzazione dei personaggi e la loro maniera di esprimersi. Ogni sua scena è impregnata dallo spirito dell’opera trattata e fa sì che gli attori siano orgogliosi di agire su di essa. Le sue scenografie sono altrettanto significative prese di posizione verso la realtà. Il suo lavoro procede per linee maestre, alieno da minuzie o fronzoli che distraggano dalla prospettiva scelta, prospettiva che è artistica e ideologica insieme. Ma ogni cosa vi è bella, ogni particolare realizzato con amore. E tutto è di aiuto alla recitazione. Questo maestro, che conosce tutti i mestieri manuali, veglia a che i mobili siano fabbricati a regola d’arte: anche i più modesti, giacché i segni che contraddistinguono la modestia e la povertà hanno da essere apportati con arte. Perciò i vari materiali- ferro, legno, tela- sono trattati con perizia e alternati nella giusta misura, con parsimonia e con abbondanza, a seconda che il testo lo esiga. Molti dei suoi accessori sono pezzi da museo. Questi piccoli oggetti, che egli pone fra le mani degli attori- armi, strumenti, borse, borsellini, ecc.- sono sempre autentici e reggono al più minuzioso esame tecnico; ma per quanto riguarda le architetture, quando cioè questo maestro costruisce interni o esterni, egli si limita a cenni essenziali, raffigurazioni artistiche e poetiche di una località o di una capanna, che fanno onore tanto alla sua bravura di osservazione quanto alla sua fantasia. E non v’è alcuna sua costruzione che non rechi, per così dire, le impronte digitali degli uomini che vi sono vissuti o vi hanno collaborato. Nei suoi progetti il nostro amico prende sempre le mosse dalle “persone”, da quello “che succede a loro e per loro causa”. Non fa uno “scenario”, bensì costruisce il paesaggio nel quale certe “persone” vivono una certa storia. Quasi tutti i problemi di ordine estetico e stilistico, in cui normalmente si esaurisce il mestiere dello scenografo, egli li risolve senza darvi molta importanza. Se prepara le scene per i poeti, le fa raggianti di luce. Con diverse tonalità di grigio e di bianco, in strutture diverse, riesce ad ottenere, se vuole, effetti più ricchi che non molti altri con l’intera tavolozza. Egli è dunque un grande pittore, ma prima di tutto un ingegnoso narratore. Sa come nessun altro che ciò che non serve ad una storia, la danneggia: perciò, quando qualcosa “non entra in gioco” si limita ad accennarvi. Quei cenni sono sempre altrettanti stimoli, capaci cioè di ravvisare la fantasia dello spettatore, che verrebbe paralizzata dalla “completezza”. Spesso si serve di un’invenzione che da molto tempo è divenuta patrimonio internazionale, svuotandosi però generalmente del suo significato: intendiamo la scena bipartita, comprendente cioè, sul davanti, una camera in posizione alquanto sopraelevata, e sul dietro un altro ambiente, proiettato o dipinto, che cambia ad ogni scena o rimane fisso per tutta la durata dello spettacolo. Quest’ambiente arretrato può anche consistere di materiale documentario, oppure di un quadro o di un arazzo. Un simile accorgimento naturalmente arricchisce la narrazione, mentre rammenta in permanenza agli spettatori che lo scenografo ha costruito una scena: qualcosa, cioè, che mostra la realtà in aspetto diverso da come la si vede fuori dal teatro. Questo procedimento, per quanto rinnovabile sia, è beninteso uno dei tanti di cui egli si avvale: perché le sue scenografie si diversificano una dall’altra non meno delle opere. In linea generale, se ne ricava l’impressione di strutture assai leggere, facilmente trasformabili, belle e giovevoli alla recita, che agevolano e rendono più eloquente la narrazione della storia cui la serata è dedicata. Se infine si accenna allo slancio con cui lavora, al disprezzo che nutre per tutto ciò che sa di dozzina e di ripiego, all’impressione di serenità che emana dalle sue costruzioni, si sarà data un’idea del modo di lavorare del massimo scenografo del nostro tempo. I SIPARI Sul grande sipario dipingete la combattiva colomba della pace di mio fratello Picasso. Dietro stendete il filo metallico ed appendete il siparietto lievemente ondeggiante che, ricadendo in due onde di schiuma sormontantisi, nasconde l’operaia che distribuisce volantini e Galilei che abiura. A seconda dei drammi può essere di lino grezzo o di seta, di pelle bianca o rossa o altro. Solo non fatemelo troppo scuro, poiché su di esso dovrete proiettare i titoli degli avvenimenti successivi in modo da ottenere la tensione voluta e che si attenda il compimento del giusto. E fatemi il siparietto a mezza altezza, non bloccatemi il palcoscenico! Appoggiato alla spalliera lo spettatore noterà i laboriosi accorgimenti che scaltramente vengono presi per lui, una luna di stagno che vede scendere ondeggiando, un tetto di assicelle che vien portato dentro; non mostrategli troppo ma qualcosa sì. E fategli notare che voi non fate degli incantamenti ma che lavorate, amici. L’ILLUMINAZIONE Dacci la luce sul palcoscenico, datore di luci! Come possiamo noi drammaturghi e attori, rappresentare le nostre immagini del mondo nella semioscurità? La penombra crepuscolare invita al sonno. Ma noi abbiamo bisogno di spettatori svegli, anzi vigili. Falli pure sognare nella luce chiara! Quel po’ di notte che talora si richiede, può essermi accennata con lune o lampade; anche la nostra recitazione può distinguere le ore del giorno quando è necessario. Sulla landa di sera, l’Elisabettiano ha scritto dei versi che nessun datore di luci eguaglia, neppure la landa stessa. Illumina quindi quello che noi abbiamo fatto sorgere, così che gli spettatori possano vedere come la contadina offesa si siede sul suolo del paese di Tavasto, come se fosse il suo! VISIBILITA’ DELLE SORGENTI LUMINOSE Esempi di mezzi meccanici atti a neutralizzare la tendenza del pubblico ad abbandonarsi all’illusione: scena molto vivamente illuminata e visibilità delle sorgenti luminose. Il mettere in mostra l’apparecchiatura delle luci riveste un suo significato, poiché può essere un mezzo per impedire un’indesiderabile illusione. Non impedisce punto, invece, la desiderabile concentrazione. Col mettere in mostra le sorgenti luminose si tende a combattere l’intenzione di nasconderle, tipica del vecchio teatro. In una serata sportiva- per esempio, in un incontro di pugilato- nessuno si aspetterebbe che venissero occultate le lampade; e sebbene le manifestazioni del teatro moderno siano indubbiamente altra cosa da quelle sportive, non si differenziano da esse sul punto della necessità, propria al vecchio teatro, di occultare le fonti di luce. LE CANZONI Staccate le canzoni dal resto! Con un simbolo musicale, l’alterna illuminazione, i titoli, le immagini, indicate che l’arte sorella ora entra in scena. Gli attori si trasformano in cantanti. In posa diversa si volgono al pubblico, sempre figure del dramma, ma ora anche in modo palese complici del drammaturgo. Nanni Callas, la testa-tonda figlia del fittavolo, portata al mercato come una gallina, canta la canzone della nuda vicenda dei signori, incomprensibile senza il muover dei fianchi, contegno professionale che della sua vergogna ha fatto uno stigma. E incomprensibile la canzone della vivandiera sulla grande capitolazione, senza che l’ira del drammaturgo si aggiunga GLI ACCESSORI DELLA WEIGEL Come il piantatore di miglio per il suo campo sperimentale sceglie i semi più pesanti e il poeta le parole più adatte, così lei sceglie gli oggetti che accompagnano i suoi personaggi sulla scena. Ogni pezzo delle sue merci è scelto con cura, fibbia e cinghia, barattolo e giberna, e scelti con cura sono anche il cappone e il bastone la cui estremità la vecchia attorciglia nella corda da tiro, la tavola su cui la basca cuoce il pane e la gogna della greca, che porta sulla schiena con i buchi per infilarvi le mani, la pentola di lardo della russa, minuscola nelle mani dei poliziotti, tutto scelto secondo l’età, lo scopo e la bellezza con gli occhi di colei che sa e le mani di colei che cuoce il pane, intreccia la rete fa bollire la minestra e comprende la realtà. RICERCA DEL NUOVO E DEL VECCHIO Quando leggete le vostre parti indagando, pronti a meravigliarvi, ricercate il vecchio e il nuovo, poiché la nostra epoca e quella dei nostri figli è l’epoca delle battaglie del nuovo e del vecchio. Le lotte delle classi, le lotte fra vecchio e nuovo, infuriano anche nell’intimo dell’individuo. La disposizione del fratello ad insegnare, non la vede il fratello: l’estranea la vede. Le speranze della rivendugliola Courage sono micidiali per i figli; ma la disperazione della muta a causa della guerra appartiene al nuovo. I suoi miseri movimenti quando trascina sul tetto il tamburo della salvezza, il grande soccorritore, vi devono riempire di orgoglio; il dinamismo della rivendugliola, che nulla apprende, di compassione. Leggete le vostre parti indagando, pronti a meravigliarvi, provate gioia del nuovo, vergogna del vecchio! PRATICA E TEORIA DA UNA LETTERA A UN ATTORE Devo constatare che molti miei enunciati riguardanti il teatro hanno fornito materia e malintesi; e lo constato principalmente in lettere o in scritti di consenso. Ritengo che alcune mie tesi siano state male interpretate perché ho dato per presupposte certe importanti ipotesi, anziché formularle. La maggior parte di tali enunciati, sono scritti in sede di osservazioni alle mie opere teatrali, allo scopo di una giusta esecuzione di dette opere. Ciò spiega il loro tono alquanto asciutto e professionale: allo stesso modo, uno scultore scriverebbe come si deve collocare una statua, in che posto, su quale piedistallo- delle pure e semplici istruzioni, insomma. I destinatari, che forse si aspettavano qualcosa che li illuminasse sullo spirito in cui la statua era stata scolpita, devono faticosamente trarre ogni loro conclusione da questo freddo elenco pratico. Prendiamo, ad esempio, la descrizione della tecnica della recitazione. Ovviamente la tecnica è uno strumento indispensabile all’arte, e perciò importa descrivere “come si fa”, ma non si deve credere sia qualcosa da imparare o praticare “freddamente”. Neppure la scuola di dizione può essere qualcosa di freddo o di meccanico. L’attore deve, per esempio, saper parlare chiaramente: ma questo non è semplicemente un fatto di consonanti e di vocali, bensì anche, e soprattutto, una questione di significati. Se l’attore non imparerà contemporaneamente anche a mettere in evidenza il significato delle sue battute, si limiterà a un’articolazione meccanica di suoni e, col suo “bel parlare”, distruggerà ogni significato. E nel concetto di chiaro esistono differenze e gradazioni di vario genere. Le diverse classi della società hanno un diverso concetto della chiarezza. L’attore che studia dizione deve, dunque, porre anche costantemente attenzione a che il suo eloquio rimanga sempre duttile, flessibile; neppure per un istante può smettere di pensare all’autentico linguaggio degli uomini. Altra questione, quella del dialetto. Anche qui l’aspetto tecnico non deve andare disgiunto da considerazioni d’ordine generale. La nostra lingua teatrale segue i canoni dell’alto-tedesco, ma coll’andare del tempo si è fatta molto manierata e rigida, è diventata un alto-tedesco a se stante ed ha perso la flessibilità propria di quella lingua nel suo uso quotidiano. Il popolo parla in dialetto, del dialetto si serve per esprimere il suo intimo spirito: come potrebbero i nostri attori ritrarre il popolo e parlare ad esso senza rifarsi al loro dialetto nativo, senza accogliere certe sue inflessioni nella lingua ufficiale scenica? Un semplice esempio: l’attore deve imparare a risparmiare la voce: non può diventare rauco. Ma deve, naturalmente, anche essere in grado di fingere un uomo che, in preda alla passione, parli o gridi raucamente. Nell’esercitarsi, dunque, non può prescindere dal “gioco”, dalla recitazione stessa. Otterremo una recitazione formalistica, vuota, esteriore, meccanica, se nell’educazione artistica degli attori dimenticheremo anche per un solo minuto che compito degli attori è il rappresentare uomini vivi. Ciò mi permette di rispondere al suo interrogativo se lo sforzo che io pretendo dall’attore affinché non si trasformi totalmente nel suo personaggio, ma gli stia per così dire a fianco, in veste di critico o di laudatore, non rischi di rendere la recitazione un fatto di puro artificio, qualcosa di più o meno disumanato. E’ fuor di dubbio che sulla scena di un teatro realista debbono stare uomini vivi, corposi, pieni di contraddizioni e di passioni, con le loro caratteristiche immediate nel parlare e nell’agire. L’attore deve essere in grado di creare questi uomini! Può tuttavia accadere che l’attore si annulli totalmente nel suo personaggio, con la conseguenza di farne alcunché di così “naturale”, che allo spettatore non resta più che accettarlo così com’è, con l’inevitabile e sterile corollario del “tutto comprendere, tutto perdonare”, tipico specialmente del teatro naturalista. Noi, che dedichiamo i nostri sforzi a trasformare la natura umana non meno che la natura in genere, dobbiamo scoprire le vie che ci consentono di mostrare l’uomo in una “prospettiva” nella quale egli appaia trasformabile grazie all’intervento della società. Ciò esige dall’attore un totale spostamento del suo angolo visuale, giacché finora il teatro si fondava sul presupposto che l’uomo non possa essere diverso da quello che è, e che tale rimanga in eterno. Il cambiamento del punto di vista che l’attore deve compiere non è un’operazione fredda, meccanica: nulla di freddo o di meccanico può avere a che fare con l’arte, e tale operazione è di ordine artistico. Senza un effettivo legame con il suo nuovo pubblico, senza un fervido interesse verso l’umano progredire, quel cambiamento non gli sarà possibile. Del pari, i meditati movimenti scenici che avvengono nel nostro teatro, non sono figurazioni o effetti “puramente estetici”, intesi a fini di bellezza esteriore. Essi fanno parte di un’attività teatrale che tratta grandi argomenti per una società nuova e, senza una profonda comprensione e un appassionato consenso al nuovo grande ordinamento dei rapporti umani, non possono essere raggiunti. Voglia considerare questi appunti come un’aggiunta provvisoria a quegli scritti, come un tentativo di riportare in evidenza ciò che erroneamente era stato dato per scontato. Mi resta ancora da chiarire come mai la recitazione del Berliner Ensemble dia talvolta l’impressione di una certa smorzatura. Questo tono smorzato non ha nulla a che fare con l’obiettività artistica- gli attori prendono anzi posizione rispetto ai loro personaggi- né tanto meno con la pedanteria raziocinante- il raziocinio non si getta mai a freddo nella battaglia- ma è semplicemente dovuto al fatto che non si permette più al focoso “temperamento scenico” di scatenarsi a suo piacimento sui testi. La vera arte s’infervora a contatto col proprio oggetto; e là dove il pubblico crede a volte di scorgere freddezza, in realtà si è imbattuto in quella superiore maestria senza di cui non sarebbe arte. UN DIALOGO DURANTE LA PROVA P. Come mai capita tanto spesso di leggere descrizioni del suo teatro- per lo più di giudizi negativi- dalle quali nessuno potrebbe farsi un’idea di quello che realmente è? B. Colpa mia. Quelle descrizioni non riguardano il teatro che io realmente faccio, ma quello che i miei critici deducono dalla lettura dei miei scritti teorici. Non riesco a togliermi l’abitudine di voler far partecipi lettori e spettatori della mia tecnica e delle mie intenzioni; e ne subisco le conseguenze. Il mio teatro è un teatro filosofico: ossia un teatro che si interessa al comportamento degli uomini e alle loro idee. Tutte le mie dottrine in pratica, sono molto più semplici di quel che si crede- e di quello che il mio modo di esprimermi lascerebbe supporre. Volevo applicare al teatro il principio che ciò che conta non è solo interpretare il mondo, ma trasformarlo. Le innovazioni che nacquero da questo mio intento, grandi o piccole che fossero, erano pur sempre innovazioni apportate all’interno dell’attività teatrale, il che valeva a dire che un’infinità di antiche regole restavano “logicamente” affatto inalterate. In questo “logicamente” sta il mio errore. Delle regole inalterate, io, in pratica, non facevo quasi parola: sicché molti lettori dei miei cenni e chiarimenti ritennero che intendessi sopprimere anch’esse. Se i critici guardassero al mio teatro come vi guardano gli spettatori- senza dare, cioè, quasi alcuna importanza alle miei teorie- vedrebbero del teatro puro e semplice: un teatro pieno di fantasia, di umorismo, di senso; e solo analizzandone gli effetti si avvedrebbero di qualcosa di nuovo- quel nuovo, appunto, la cui delucidazione è rintracciabile nelle mie argomentazioni scritte. Credo che tutto il male sia nato dal fatto che i miei lavori, per ottenere gli effetti cui tendono, dovevano essere recitati con precisione: il che mi costrinse a descrivere, ai fini di un’arte drammatica non aristotelica, i lineamenti di un teatro epico.
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