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Riassunto sintetico ma esaustivo del libro Ottocento, Sintesi del corso di Storia Contemporanea

Lezioni di storia contemporanea da metà '800 fino alla prima guerra mondiale

Tipologia: Sintesi del corso

2023/2024

Caricato il 20/06/2024

caterina-girotti
caterina-girotti 🇮🇹

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Scarica Riassunto sintetico ma esaustivo del libro Ottocento e più Sintesi del corso in PDF di Storia Contemporanea solo su Docsity! Ottocento di Raffaele Romanelli Dell’Ottocento si è parlato come di un “secolo lungo”, che finisce solo con la prima guerra mondiale, e del Novecento come di un “secolo breve”, che inizia con la prima guerra mondiale e termina alla fine degli anni 80 con il crollo del comunismo. L’età dei diritti Si parte dal 26 agosto 1789, quando i rappresentanti del popolo francese esposero in una solenne Dichiarazione i diritti naturali, inalienabili e sacri all’uomo, affinché costantemente presente a tutti i membri del corpo sociale essa rammentasse loro continuamente i loro diritti e i loro doveri. I primi due articoli sono i seguenti: 1. Gli uomini nascono liberi e rimangono liberi ed eguali nei diritti. Le distinzioni sociali non possono essere fondate che sull’utilità comune. 2. Lo scopo di ogni associazione politica è la conservazione dei diritti naturali e imprescrittibili dell’uomo. Questi diritti sono la libertà, la proprietà, la sicurezza e la resistenza all’oppressione. Questo è solo il primo passo di una serie di testi nel corso degli anni, dal settecento fino ai giorni nostri, che mano a mano ampliano la sfera dei diritti. I deputati francesi avevano in mente la dichiarazione di indipendenza americana approvata il 4 luglio 1776, che a sua volta era ispirata dal Bill of Rights inglese del 1689. In questi documenti i principi vengono dichiarati, non decisi, perché si riteneva che avessero fondamento nella natura umana, che fossero “autoevidenti”. Gli uomini nascono liberi, la condizione di libertà e uguaglianza è un dato originario. L’essenza naturale dei diritti era affermata per mostrare quanto poco le corrispondesse la realtà delle cose, e dunque per agire su di essa, riformando o sconvolgendo il mondo circostante a seconda dei casi e degli orientamenti politici. Il sistema disegnato da tali principi e concetti ha una chiara matrice europea e negli ultimi due secoli si è esteso prima nelle regioni periferiche dell’Europa e al Nordamerica, quindi a tutto il mondo. La storia contemporanea è dunque la storia assai contrastata di questa espansione, dei suoi modi e percorsi, spesso violenti e traumatici, delle accoglienze e delle resistenze che ha incontrato nel contatto con altre culture, degli adattamenti, delle modificazioni e dei rovesciamenti subiti. Agli inizi dell’800 Benjamin Constant distingueva la libertà dei moderni e la libertà degli antichi: la prima ha per oggetto il godimento privato di alcuni beni fondamentali, ed è assenza di impedimento, e perciò è anche chiamata libertà negativa, e riguarda l’individuo; la seconda riguarda invece la possibilità di partecipare al potere politico, è libertà di fare, di partecipare, è detta dunque libertà positiva e riguarda un ente collettivo, un corpo sociale, lo Stato. La distinzione non è sempre netta, anche nella dichiarazione dell’89 dove la libertà è sicuramente individuale, essa si confonde poi in una concezione nazionale e statalista della società. Però è anche vero che le libertà dei moderni, riguardando generalmente l’individuo, rifiutano le concezioni olistiche della società, per le quali l’uomo è una semplice cellula di un organismo che lo trascende. Ma il timore che l’individualismo possa tramutarsi in atomismo, una società fatta di particelle autonome, ha alimentato lungo tutta l’età contemporanea forti suggestioni collettivistiche o organicistiche. è problematico anche il nesso tra la rivendicazione di libertà degli individui e della loro eguaglianza. Il fondamento ultimo dell’idea individuale è nell’indipendenza del singolo da costrizioni e condizionamenti, nella sua capacità di decidere autonomamente. Questo tipo di libertà è l’esito di processi sociali che rendono gli individui differenti l’uno dall’altro, e in questo senso l’eguaglianza è l’eguale possibilità di ciascuno di un libero sviluppo della personalità, ed è dunque un’eguaglianza di partenza e non di arrivo. L’ideologia è una parola coniata alla fine del settecento e che nell’ottocento assunse per lo più connotazioni negative. è l’atteggiamento di chi, essendo sicuro delle proprie verità, vuole imporle agli altri, un pensiero politico astratto, dottrinario, lontano dalla realtà, con forti contenuti prescrittivi e normativi. A partire dall’Illuminismo e dalla rivoluzione la politica fu pervasa dall’ideologia, e i vari programmi, progetti o visioni del mondo che si confrontarono sul terreno politico furono più o meno astratti, sistemici e prescrittivi. E poiché il fine giustifica i mezzi, l’elevatezza dei fini annunciati dalle moderne ideologie non pone limiti alla scelta dei mezzi. Con “stato di diritto” ci si riferisce alla difesa dei singoli dall’arbitrio del potere, e dunque anche alle varie forme di limitazione del potere assoluto elaborate in Europa nel corso dell’età moderna, si voglia attraverso la separazione dei poteri oppure alla loro subordinazione alla volontà popolare, o anche alla tradizione e ai suoi antichi patti. Un punto importante è che nessuno deve essere privato della libertà se non dopo un giudizio legale: tutti hanno diritto a un giudizio equo e imparziale. Una delle conseguenze dell’adozione di principi individualistici, garantisti ed egualitari fu l’abolizione legale della schiavitù, e delle forme di dipenddenza personale. Ovviamente ciò non ha cancellato subordinazione e dominio dell’uomo sull’uomo, o degli uomini sulle donne. Nel campo della prostituzione, l’appropriazione e la mercificazione delle persone ha continuato a connotare vaste aree del mondo, e ad alimentare vasti traffici internazionali. E anche forme estreme di sfruttamento personale nei rapporti di lavoro o di discriminazione razziale che mal si distinguono nei fatti dalla schiavitù sono continuate (per esempio sotto il comunismo bolscevico e sotto il regime hitleriano in tempo di guerra). I principi e valori evocati non sono stati accolti ovunque, hanno provocato resistenze e opposizioni, e anche laddove hanno segnato il percorso degli eventi, si sono comportati in maniera diversa. Trasformare il mondo Il percorso della modernità rivoluzionaria è molto accidentato, anche se agli inizi la rivoluzione francese sembrò imprimere una accelerazione lineare di enorme portata alla diffusione dei suoi principi. L’idea di rivoluzione suggerisce un’aggressione all’ordine tradizionale, un rinnovamento radicale, una palingenesi. Di queste idee è piena l’età contemporanea. I valori tipici della modernità, quali autonomia, laicità, verità, umanità, universalità, razionalità, di tutto ciò che muoveva guerra all’oscurantismo, al fanatismo, alle autorità arbitrarie e assolute, venivano diffusi non solo attraverso la carta stampata, ma anche attraverso i salotti, le taverne, le accademie… Viene dichiarata guerra soprattutto contro ogni “corpo intermedio” che si ponesse tra la nazione e gli individui, termine generico che poteva includere le corporazioni, la famiglia, la Chiesa e gli ordini mercantili. In Francia nel 1791 la legge Chapelier proibì ogni coalizione, in particolare le corporazioni e le compagnie dei mestieri. Nel 1792 viene istituito il divorzio, per dare agli individui una preminenza all’interno della comunità familiare e anche per colpire la sacralità della famiglia concepita dalla Chiesa. Secondo una definizione di fine 800 lo stato moderno è un apparato amministrativo centralizzato che provvede alla prestazione dei servizi pubblici e detiene il monopolio della forza legittima. Nella costituzione del 1791 l’unica superiorità sociale riconosciuta era appunto quella dei funzionari pubblici. Ma questa accezione di Stato, è un prodotto storico non solo nel suo farsi, ma anche nella sua concettualizzazione, che fu messa a punto nell’800. Un ruolo essenziale è svolto dal diritto incentrato sulla legge. Prima di allora su un vie di comunicazione si ampliò e i tempi di percorrenza si dimezzarono. La popolazione aumenta, aumenta la produzione e la produttività, aumenta la richiesta e il consumo. Sia la rivoluzione francese che quella industriale adottarono linguaggi messianici, universalistici, anche se di natura tanto diversa: i diritti naturali dei cittadini da un lato, le virtù taumaturgiche del libero commercio dall’altro. Per i governi liberali del primo 800 il corollario di questa pretesa di universalità, di questa capacità espansiva, erano politiche intese a lasciar fare le forze del mercato. Si icoraggiavano le iniziative economiche della borghesia trionfante senza intervenire per favorire la libera circolazione delle merci. Per i sostenitori del free trade, le relazioni commerciali internazionali non dovrebbero essere impacciate da vincoli, ovvero dazi e tasse. Queste politiche sono chiamate liberiste, dove il liberismo economico ha forte connotazione politica e carattere universale ed è evidentemente da collegare al liberismo politico. Il liberismo integrale ebbe soprattutto successo in Gran Bretagna quando, dopo una intensa battaglia parlamentare e d’opinione furono abolite le corn laws, che proteggevano con dazi di importazione la produzione nazionale di cereali. In realtà il lasciar fare ha sempre incontrato molte obiezioni e di fatto non è mai stato praticato del tutto. Accordi politici ed economici tra Stati, tariffe doganali, leggi industriali hanno sempre indirizzato la circolazione delle merci e quantomeno segmentato il mercato. è da ricordare che ciò che davvero permise il decollo dell’economia fu il suo retroterra imperiale, il mercato esterno, e i flussi commerciali che lo regolavano. La marina della Gran Bretagna dominava i mari. Lo spirito commerciale e d’impresa era pecepito dagli inglesi come un tratto dei popoli civili che li rendeva superiori agli altri e destinati a dominarli, stabilendo un nesso essenziale tra conquista e civilizzazione. L’impero coloniale inglese costituiva una sorta di mercato comune chiuso, infatti fin dalla metà del seicento era stabilito che le merci coloniali potessero viaggiare solo su navi britanniche. Zucchero e cotone erano i maggiori prodotti coloniali. L’industria cotoniera fu il volano di tutte le innovazioni, ma la pianta del cotone non cresceva in inghilterra, la materia prima proveniva interamente dalle grandi piantagioni coltivate dagli schiavi nelle Indie occidentali e poi dagli stati uniti meridionali. Per il loro carattere espansivo, potenzialmente universale, le trasformazioni economiche e politiche germinate tra francia e gran bretagna si imposero ad altri Paesi a volte con la forza e vi portarono sconvolgimenti profondi. L’ideologia della libertà enfatizzava i grandi benefici più che la carica distruttiva. Attorno a quell'ideologia si formarono un ceto sociale nuovo, la borghesia, una dottrina politica, il liberalismo, e una serie di istituzioni politiche e giuridiche nuove. Il tempo della borghesia Protagonisti degli eventi e dei mutamenti sociali che scossero la società europea tra 700 e 800 furono i commercianti, gli imprenditori, i banchieri e gli intermediari finanziari e con loro gli avvocati, i professionisti, gli scrittori e i loro lettori, gli studenti, i militari, i proprietari terrieri più attivi, gli organizzatori dei club politici, i deputati delle assemblee e i notabili. Anche se avevano poco in comune era evidente che incarnassero un nuovo protagonista della storia. Quando in Francia gli Stati generali si trasformarono in Assemblea nazionale, il cambiamento fu segnato dal rifiuto di accettare ancora la divisione della rappresentanza per stati ( assegnati in base alla nascita, alla propria funzione, a volte provenienza etnica e religione), e dall’affermazione del Terzo stato come vero rappresentante della nazione. Il Terzo Stato era l’insieme dei cittadini appartenenti all’ordine comune, tutti coloro che si erano sentiti schiacciati dal sistema dei privilegi, ora ambivano ad essere considerati la vera forza economica, intellettuale e politica della nazione. La prima cosa che ottennero in assemblea fu di votare non più per corpi ma per teste, ciascuna uguale alle altre. Il termine “società civile” che un tempo aveva indicato l’organizzazione politica, e dunque lo Stato, acquista un nuovo significato, ora indica il pullulare di attività, di organizzazioni, di movimenti, di pubblicazioni non regolato dallo Stato, ma che si auto-organizzava, si esprimeva nel fervore delle libere iniziative economiche o intellettuali, al di fuori o anche contro quello Stato che pretendeva un controllo universale. La società civile era anche il luogo dove si esprimeva la pubblica opinione. L’opinione pubblica rivendicava la libertà di espressione, di stampa, di riunione contro i rigori della legge. Questa pubblica opinione si formava nei più variati luoghi associativi fioriti ovunque , nei circoli, accademie, società, club… erano luoghi “societari”, riservati ai soci, che li sostenevano finanziariamente, e che ne difendevano lo status, le condizioni d’ammissione, il profilo sociale, l’orientamento politico, costituendo essi stessi un microcosmo politico. E qui si vede sorgere il problema di fondo della società contemporanea: la società appare disarticolata, acquista carattere atomistico, e se le sue gerarchie non sono più definite istituzionalmente, vengono ricostruite ed individuate in altre maniere. La nuova società viene definita “borghese”. Il termine ha origini medievali ed indicava gli abitanti del borgo, ovvero i ceti mercantili urbani che con le loro attività, valori, istituzioni, si differenziavano dai ceti aristocratici e dai contadini. La borghesia ottocentesca era l’espansione di quel ceto all’intera società del mercato, che si espande fino ad inghiottire la società intera. Parlando di classi sociali, i proprietari terrieri, gli industriali, i funzionari, gli intellettuali, i professionisti, tendevano ad agire in quanto gruppi, come persona che avevano interessi e attività comuni. Questi gruppi ricordavano molto i corpi o gli ordini di antico regime, ma erano un fenomeno del tutto nuovo quando agivano attraverso le loro organizzazioni come gruppi di pressione per difendere gli interessi della categoria nell’agone politico e sindacale. Le classi sociali non hanno più la consistenza istituzionale degli ordini di antico regime, ma sono astrazioni concettuali che si formano spontaneamente nella dinamica della società civile, rispondendo alla necessità di ordinare una società senza ordini. I gruppi borghesi avevano una maggiore consistenza rispetto al passato, e avevano un ruolo centrale nell’ordine sociale (erano a metà della scala della ricchezza); per questo poi spesso si parla più di classe media che di borghesia. Le classi medie erano al centro della società, ne plasmavano le istituzioni e ne dirigevano le politiche, ma la loro sicurezza trionfante per la propria crescita era percorsa da inquietudini. Vengono abolite antiche barriere, ma se ne creano delle altre, tra ricchi e poveri, tra i ceti dominanti e i ceti dominati (vedi la nascita del proletariato). Da qui poi nacquero le dottrine socialiste. Le città crebbero a dismisura, aumentò la popolazione e soprattutto la popolazione urbana. All'inizio dell’800 Londra era l’unica città europea con più di un milione di abitanti, e solo Parigi superava il mezzo milione. Alla fine del secolo erano 25 le città che superavano il mezzo milione, e cinque superavano il milione: Londra (4,5 milioni), Parigi (2,8), Berlino (2,1), San Pietroburgo(2), Mosca (1,6) Budapest (1). Mutamenti del genere cambiavano la natura della città, facendone una rappresentazione spaziale delle strutture sociali e delle distinzioni tra gruppi o classi. I centri cittadini si specializzarono nella direzione degli affari e del potere, di cui moltiplicavano le raffigurazioni monumentali (banche, borse, palazzi del governo…). Le antiche mura vengono abbattute e diventano viali che separano il centro dai nuovi quartieri socialmente segmentati, quelli residenziali e signorili, quelli operai. Proprio perché i gruppi non erano più istituzionalmente definiti, perché erano sottoposti a una forte mobilità sociale, i singoli erano sempre tesi ad elevarsi nella scala sociale, ma erano anche perennemente minacciati dal pericolo di una discesa sociale. L’appartenenza a una classe non era più dovuta al sangue, il singolo poteva innalzarsi, e proprio per questo occorreva distinguersi, mostrare il proprio stato, mantenere le distanze il più possibile. Le antiche aristocrazie erano tutt’altro che scomparse, si mescolavano con la borghesia più elevata, ma erano ben presenti. I monarchi restaurati, e anche costituzionali, riconobbero gli antichi titoli e ne concessero nuovi, così l’aristocrazia sopravvissuta alla rivoluzione si mescolava con la più alta fascia della borghesia che otteneva titoli. Alcune classi aristocratiche europee si mostrarono aperte alla sfida dell’innovazione, altre invece si mostrarono rigide nella difesa dei propri antichi privilegi. Molti aristocratici inoltre aderirono ai valori del ceto medio. Il dinamismo, l’ambizione, la mobilità sociale sono valori borghesi, ma anche il consolidamento dello status sociale e la sua riproduzione attraverso le generazioni, con la costruzione di dinastie, questa volta commerciali o industriali più che nobiliari. Le classi medie dovevano costruirsi come classe, come aristocrazia del denaro o del merito. Questioni di genere La dichiarazione del 1789 parlava solo di uomini, quella del 1948 di uomini e donne. L’egualitarismo evidentemente si era scordato di metà della popolazione mondiale. Ma già da allora ci sono state donne che hanno fatto notare le enormi contraddizioni: nel 1791 Olympe de Gouges scrisse la Dichiarazione dei diritti della donna e della cittadina che ricalcava la Dichiarazione dell’89 volgendo i principi al femminile; nel 1792 Mary Wollstonecraft fa uscire un pamphlet sulla Rivendicazione dei diritti della donna. Con queste due donne nasce una rivendicazione, una causa perpetrata nei due secoli successivi, e che continua ancora oggi. Nei secoli precedenti la multiforme collocazione istituzionale delle persone rendeva le donne variamente visibili e attive nell'agire economico sociale o culturale a seconda dei ceti sociali e dei corpi di appartenenza. Ora, proprio la riduzione ad unità di quel complesso universo istituzionale sociale attorno ai valori e alle istituzioni individualistico-borghesi, affievolì la soggettività delle donne. Messo l'individuo alla base dell'ordine sociale in un panorama così semplificato, le donne vennero nascoste dietro il soggetto-uomo. L'ordine rivoluzionario più che negare l'eguaglianza di tutti gli esseri umani, cosa che avrebbe costituito una clamorosa negazione dei suoi principi, la caricò di distinzioni di natura funzionale. Parlando di uomini la dichiarazione del 1789 intendeva includere anche le donne attribuendo loro un diverso statuto giuridico, nel quale a garantire i diritti sarebbero stati gli uomini, i loro uomini. Il codice civile di Napoleone dedicava grande spazio alla regolamentazione dei rapporti familiari del matrimonio, dei diritti dei coniugi, della patria potestà e delle successioni e costruiva un sistema che contraddiceva l'assolutismo individualistico, perché ridava spazio al più elementare di quei corpi intermedi che il progetto rivoluzionario aveva inteso cancellare, la famiglia. L'istituto familiare rimaneva un soggetto corporato e la legge rinunciava ad entrarvi, ed anzi lo tutelava. In questo senso la famiglia borghese è apparsa ad alcuni come un residuo dell'antico ordine,l'unico spazio in cui trovava rifugio il borghese guerriero, finalmente signore di una corte di donne, giovani, parenti e servitori. Nel corso dell'Ottocento le donne borghesi venivano educate ad una sofisticata cultura della domesticità che le doveva specializzare nella cura della propria persona e della casa, nella direzione del personale domestico e nell'educazione dei figli. In realtà lo sviluppo di una cultura separata delle donne fu anche un fattore di crescita e di emancipazione. La vita dei salotti, dei circoli letterari, delle associazioni assistenziali e di beneficenza fece emergere figure di rilievo autorevoli e capaci. Alle donne era riservata anche l'educazione dei figli maschi e le madri riuscirono a guidare i figli nelle dure esperienze dell'impegno assai meglio dei padri. La sfera privata, i comportamenti, i sentimenti, la dimensione intima dell'esistenza venivano disciplinati da canoni morali di comportamento estremamente rigidi. A questi ci si riferisce in genere quando si parla di morale vittoriana, epoca caratterizzata accettato del tutto e perché comunque alle chiese era consentito di esprimere liberamente il proprio pensiero che poteva influenzare la società politica. Inoltre le chiese hanno avuto un ruolo fondamentale nell’alfabetizzazione delle classi popolari nelle società di antico regime, indirizzando e spesso limitando la cultura popolare. A rendere più acuta l'avversione della Chiesa per il liberalismo fu poi la realizzazione dell'unità italiana, che portò alla fine del dominio temporale dei Papi e alla stessa occupazione di Roma da parte delle truppe di uno stato liberale. Lo smantellamento delle strutture sociali di potere dell'antico regime richiedeva la ricostruzione di un sistema di valori condivisi tale da dare un senso alla vita di tutti e di ciascuno, e da indicare una speranza e un futuro, cioè appunto una religione. La fede nella patria francese e nella rivoluzione stessa fu la base di questa religione in Francia, dove la rivoluzione aveva elaborato una serie di rituali laici ricalcati su quelli della religione storica: fu abolito il calendario gregoriano e contato il tempo dall’anno zero della rivoluzione, al culto dei santi fu sostituito il culto dei martiri della rivoluzione, furono soppresse le feste religiose e su quelle furono modellati i rituali della propaganda politica. In quelle vicende gli storici vedono la matrice delle moderne religioni politiche imposte dall'alto, che si ritrovano poi particolarmente nelle grandi mobilitazioni di massa novecentesche, tipicamente nei regimi totalitari, e più in generale vedono la conferma che la modernità secolarizzata manifesta un bisogno di assoluti, di verità ultime, di una religione invisibile e di padri. La scomparsa delle gerarchie dei poteri del passato aveva creato un vuoto che richiedeva di essere colmato e che si poneva l'esigenza di riorganizzare su basi nuove un sistema di credenze condivise. A quel tempo il ripensamento della religione in forme secolarizzate avvenne e si diffuse soprattutto attorno al concetto di nazione, un concetto esploso nel clima romantico che esalta i sentimenti, le emozioni, gli affetti, la dedizione ad una causa politica, tipicamente la liberazione dei popoli oppressi e la conquista della libertà. La rigenerazione, il risorgimento dei popoli oppressi costituiva una missione di valenza universale. Nel 1832, fondando la giovane Italia, Mazzini scelse una formula politica nuova che si distaccava dal settarismo delle precedenti associazioni segrete ed era aperta a tutti, quasi configurando un partito di tipo nuovo. Ma proprio per questa vocazione popolare, per questa apertura alla società e all'opinione pubblica, la giovane Italia adottò concetti e fraseologie di tipo religioso. La guerra per il raggiungimento di un'Italia indipendente, libera e repubblicana era per Mazzini una guerra Santa. Il nesso tra visione conservatrice della società e sensibilità sociale era nel pensiero della Chiesa, e per questo fu possibile alla chiesa cattolica elaborare una dottrina della modernità meno lineare e drastica, e far sentire la sua voce anche nelle battaglie ideali contemporanee, venendosi a trovare a volte al fianco di altri movimenti anch'essi egualmente popolari antiborghesi e antiliberali. Una svolta epocale si ebbe con l'enciclica Rerum Novarum emanata da Leone XIII nel 1891, e riguardante la condizione operaia: occorreva contrastare le iniquità del capitalismo con un nuovo associazionismo basato sulla collaborazione tra operai e padroni, sulla promozione di politiche sociali come il controllo pubblico sulle condizioni di lavoro e la difesa del giusto salario. La religione che per un verso era forza del passato, aveva poi un'affinità con la società di massa ed ha una sua modernità che in più occasioni le ha consentito di prendere posizione su temi di stretta attualità. Parlando del rapporto tra religione e modernità c’è un'altro punto al quale conviene accennare: esso riguarda la matrice storico geografica del messaggio cristiano e l'estensione della sua pretesa di universalità. I valori cristiani hanno una matrice europea. Quando le potenze europee iniziano avventure espansionistiche lo fecero anche armate dal senso di missione e di civilizzazione, e le loro imprese furono sostenute e accompagnate dall’opera di missionari e uomini di fede, i quali condividevano l’idea laica che i popoli extraeuropei fossero senza storia, senza civiltà, e che occorresse fornirla loro. L’età delle libertà Il ciclo rivoluzionario che corre tra il 1789 e il 1815 ha un che di paradigmatico. In un primo momento nel 1789-91 prevalsero le soluzioni liberali costituzionali. Nel 1793 94 invece prevalse il radicalismo che portava all'estremo alcune affermazioni egualitari dell'89; è questo il periodo detto giacobino, che vede l'instaurazione di un potere intransigente e rigorosissimo che non esita a usare strumenti più duri per realizzare il suo progetto. Poi arriva il potere forte, dittatoriale di Napoleone che vide uno sdoppiamento tra la politica, che sembrò annullare gran parte delle conquiste della della rivoluzione, e la spinta innovatrice nell'ordine sociale, economico, istituzionale che proseguì con anche maggiore forza espansiva. Quando Napoleone fu sconfitto nel 1815 si aprì una fase di restaurazione dell'ordine antico. L'insieme di queste vicende può delineare una dinamica propria del processo rivoluzionario, con la successione di rivoluzione, radicalizzazione, quindi involuzione e ristabilimento dell'ordine. L'estremismo radicale è una negazione della spinta innovatrice iniziale o una sua inevitabile conseguenza? L'idea di libertà può coniugarsi con quella di eguaglianza? Molti scrittori ottocenteschi si pongono domande del genere, e le loro idee vanno a formare il pensiero liberale. Liberalismo è un termine che comprende il liberismo ma ha significati molto più ampi. Prima di allora liberale indicava un atteggiamento aperto e tollerante o le arti praticate da uomini liberi. A questi significati si aggiunse la traduzione politica di quell'atteggiamento, il cui significato ultimo inglobava il lungo percorso compiuto in età moderna della ricerca della libertà. Non c'è una dottrina liberale unitaria e teorizzata. Ne fecero parte le rivendicazioni di libertà mosse contro assetti politici ancora variamente dispotici, l'abbattimento di privilegi, di vincoli al commercio e alla proprietà e alla circolazione delle idee, nonché il controllo delle scelte dei governanti e la loro trasparenza di fronte all'opinione pubblica. L'articolo 16 della dichiarazione dell'89 affermava che la società nella quale la garanzia dei diritti non è assicurata, né la separazione dei poteri determinata, non ha costituzione. La garanzia dei diritti e la limitazione del potere sono presenti in tutte le costituzioni successive. Il fatto che queste regole fossero fissate in un testo scritto e concluso in se stesso fa una differenza sostanziale. La prima costituzione scritta fu quella americana del 1787, e da allora l'uso di redigere costituzioni scritte rimase, prima di tutto in Francia (che vide varie costituzioni durante la rivoluzione e successive, nel 1815) ma anche in Spagna e in Sicilia. Le costituzioni europee ebbero diverso carattere rispetto a queste, non derivarono da un originario impulso rivoluzionario ed assemblee costituenti, ma risultarono piuttosto da compromessi tra le prerogative ormai acquisite dell'opinione pubblica e i monarchi, che manifestavano il loro potere autolimitandolo. Ne è un esempio lo statuto che Carlo Alberto concesse nel 1848. Il primo dei due punti irrinunciabili perché una costituzione fosse tale era la garanzia dei diritti, il secondo la divisione dei poteri. In un sistema in cui è affermata la sovranità della legge, ovviamente l'organo deputato a emanare le leggi occupa un posto centrale, ed essendo elettivo nel modello francese-rivoluzionario esso incarna la volontà generale. Un elemento fondamentale di questa organizzazione della sovranità è infine la partecipazione popolare alla nomina dei governanti. Ovunque negli Stati moderni la partecipazione del popolo al governo avviene attraverso dei rappresentanti. Gli organi di rappresentanza esistono sia per una funzione pratica, sia per dare unità politica a un corpo sociale frammentato, variegato e molto esteso. Ciascun deputato non rappresentava mai la collettività che l'aveva eletto ma sempre l'interesse nazionale. Il Parlamento è il luogo dove il corpo politico nazionale non è tanto rappresentato, quanto costituito (principio del divieto di mandato operativo). Le assemblee devono essere rinnovate periodicamente (ogni periodo si chiama legislatura). Un periodo breve tra una legislatura e l'altra obbliga ad una più frequente verifica e dunque in teoria uno strumento migliore di controllo ma rende più difficile svolgere programmi solidi ed efficaci. Il sistema si è assestato empiricamente su una durata di circa 4-5 anni. Sono egualmente essenziali i modi con i quali le camere sono elette, in ogni paese vengono votati a questo fine delle leggi elettorali che stabiliscono chi ha diritto di votare, come si calcolano i voti, dove si vota, con quali procedure e come si traducono i voti in seggi… Negli Stati Uniti nella costruzione delle assemblee rappresentative si erano duramente confrontate due diverse anime politiche: l’una che insisteva sulle libertà e le autonomie delle singole comunità dei singoli stati, e l'altra che invece riteneva necessario rafforzare le istituzioni centrali e la sovranità collettiva del popolo americano. Alla fine prevalse l'orientamento centralizzatore o unitario (federale) e su di esso si fondò la potenza americana. Vanno dunque aggiunti i problemi riguardanti il vincolo tra le diverse entità politiche, sociali, o territoriali del corpo sociale, il difficile equilibrio tra efficacia e rappresentatività del governo comune, tra autorità e libertà, tra eguaglianza e competenza. Nel Congresso di Vienna tra il 1814 e 1815 lo zar, l'imperatore d'Austria e il re di Prussia si erano uniti in una Santa alleanza che li impegnava a governare come delegati della divina provvidenza. Altre intese seguirono per intervenire ogni qualvolta l'ordine internazionale fosse minacciato da movimenti eversi: via questo fine erano previste regolari riunioni dedicate all'esame delle questioni di interesse generale per la prosperità dei popoli e il mantenimento della pace in Europa. Primo esempio di azioni internazionali coordinata, le riunioni si tennero effettivamente nel 1818, nel 1820, nel 1821 e nel 1822, ed ebbero efficacia nel contrastare il movimento d'opinione liberale quando questi impugnava le armi. A Cadice, una città commerciale sulla costa atlantica della Spagna, nel 1820, uno dei comandanti che era stato mandato a reprimere la grande insurrezione guidata da Simon Bolivar nei possedimenti spagnoli d'america, rifiutò di partire e dette il segnale della rivolta. In breve la sollevazione si estese a varie città e re Ferdinando VII fu costretto a concedere il ripristino della costituzione di Cadice del 1812. Una insurrezione scoppiò a Nola, e quindi a Napoli, nello stesso 1820 ed anche lì furono chieste costituzione e libertà, diritti ed elezioni e si rivendicò l'adozione della costituzione di Cadice. Nel marzo del 1821, mentre gli austriaci marciavano verso il sud per soffocare il regime costituzionale, scoppiò una rivolta ad Alessandria e di lì a Torino, dove il principe reggente Carlo Alberto di Savoia concesse la stessa costituzione di Cadice. Mentre gli austriaci marciavano per abbattere il regime costituzionale del Regno di Napoli, la Francia di Luigi XVIII fu incaricata di inviare un corpo di spedizione in Spagna per restaurare la monarchia assoluta: fu uno dei primi esempi di azione militare internazionale per il mantenimento dell'ordine politico. Però, sostenute dai progressi dell'economia, dalla crescita dei ceti medi e degli operai di fabbrica, le rivendicazioni di maggiore libertà crebbero e si fecero più forti. Quando nel luglio del 1830, in Francia, Carlo X subì una grave sconfitta elettorale e reagì emanando quattro ordinanze che sceglievano il Parlamento e convocavano nuove elezioni con un suffragio ancor più ristretto e senza libertà di stampa, il popolo di Parigi insorse. In tre “gloriose giornate” di combattimenti il re fu costretto ad abdicare. I parlamentari offrirono allora la corona a un cadetto della famiglia reale Luigi Filippo d’Orleans, che prestò giuramento di fedeltà alla nuova carta costituzionale. Nacque una monarchia costituzionale di tipo liberale moderato, dove il re godeva ancora di ampi di poteri e il popolo era in larga parte escluso dai meccanismi della rappresentanza politica: anche se l'elettorato fu ampliato, la legge ispirata al sistema inglese. Anche il re di Sardegna Carlo Alberto di Savoia annunciò la concessione di uno statuto, cioè appunto di una costituzione, così come Pio IX. Ma a quel punto si infiammò l’Europa intera e gli avvenimenti precipitarono. All'inizio del 1848 l'opinione pubblica francese chiedeva che fosse ampliato il diritto al voto, allora molto ristretto. Presto si accesero delle manifestazioni di protesta (per il divieto di riunioni politiche), che sfociarono in rivolte: furono erette quasi 1500 barricate per le vie di Parigi. Anche a Vienna, Berlino, Monaco di Baviera, Budapest, Milano, Venezia successe qualcosa di simile. Dopo Febbraio ad accendere gli animi non erano solo le tensioni locali, ma anche le notizie che arrivavano da Parigi e dalle altre capitali: anche questa era la nuova società borghese in cui le notizie circolarono con velocità incredibile, considerando lo stato delle comunicazioni e raggiunsero immediatamente gli estremi d'europa. C'erano motivi profondi ben radicati perché uno scossone sconvolgesse l'Europa: la spinta di trasformazioni economiche e sociali avevano rafforzato i ceti medi, gli artigiani, i borghesi, e dato sostegno alle loro rivendicazioni e al loro bisogno di vedersi riconosciuto un posto di rilievo nella società; inoltre la crisi agricola unita alle trasformazioni produttive della rivoluzione industriale, aveva alimentato il malcontento. Ma è pur vero che la crisi rivoluzionaria fu aggravata e alimentata dall'incapacità di risposta da parte di classi dirigenti spaventate e colte di sorpresa. Dopo la prima ondata le cose presero una piega diversa da paese a paese. In Inghilterra la rivoluzione non ci fu. La vicenda tedesca fu complicata dalla pluralità degli Stati, ciascuno dei quali seguì un suo percorso particolare, ma nel complesso si sovrapposero spinte riformatrici sempre più ardite in senso liberale costituzionale e progetti di unificazione nazionale, rivendicazioni radicali e agitazioni operaie che spaventarono le classi dirigenti. L'assemblea riunita a Francoforte discusse quasi un anno prima di arrivare alla proposta di una costituzione federale con una Dieta eletta a suffragio molto ampio e un sistema in sostanza parlamentare, con la responsabilità ministeriale e un imperatore capo del governo. Ma a questo punto il re di Prussia, naturale candidato alla corona imperiale, dichiarò che non l'avrebbe accettata dalle mani di un'assemblea elettiva. Il significato del gesto era chiaro: l'idea liberale della sovranità popolare elettiva non sarebbe passato negli Stati tedeschi. La dieta fu sciolta, la prospettiva federale abbandonata e nei singoli Stati il vecchio ceto dirigente riprese il potere. In Italia, dopo gli avvenimenti di Parigi e di Vienna, insorsero le province sotto il governo imperiale austriaco. Il 17 Marzo il comandante Austriaco si ritirò da Venezia, e due veneziani illustri, Daniele Manin e Niccolò Tommaseo, formarono un governo provvisorio e acclamarono pochi giorni più tardi la Repubblica di San Marco. Il 18 Marzo una grande manifestazione popolare percorse Milano e dopo 5 giorni di combattimento per le strade il generale austriaco Radetzky dovette lasciare la città: Milano era libera e anche lì si formò un governo provvisorio. Allora Carlo Alberto di Savoia, re del Piemonte, decise di dichiarare guerra all'austria. I democratici del governo provvisorio milanese non apprezzavano fino in fondo l'iniziativa di Carlo Alberto, che spostava l'attenzione sul terreno monarchico nazionale distogliendola dal suo percorso repubblicano. Ma una ventata d’entusiasmo percorse la penisola e parteciparono perfino la Napoli borbonica e la Roma Pontificia. Ma poi Pio IX si tirò indietro perché gli sembrava inopportuno che il pontefice appoggiasse una guerra tra cattolici, e inoltre dichiarò che rifiutava di essere capo di una qualche Repubblica che unisse i popoli d'Italia infrangendo dunque il sogno neoguelfo. E dopo che Carlo Alberto incominciò ad annettere le parti liberate di Lombardia, Veneto e Ducati anche Ferdinando II di Borbone si ritirò e chiuse il Parlamento. A luglio poi arrivò la controffensiva austriaca e ad agosto Carlo Alberto firmò un armistizio e si ritirò nel suo regno. In Francia il governo provvisorio era per lo più composto da liberali moderati privi di esperienza politica, e fece proprie le rivendicazioni tipiche del momento. I provvedimenti sociali del governo erano costosi, così il governo pensò di aumentare del 45% le imposte dirette, che andarono a gravare principalmente sui contadini, che arrabbiati, quindi decisero di non votare a sinistra, e così le elezioni del 1848 portarono all’assemblea costituente una maggioranza di ricchi notabili, per lo più di sentimenti monarchici. Ricominciarono le tensioni sociali e nei quartieri popolari furono di nuovo alzate le barricate, e il governo provvisorio reagisce violentemente, fucilando 3000 operai e arrestandone 12000. Nel dicembre del 48 viene eletto presidente della repubblica Luigi Napoleone Bonaparte, nipote dell’imperatore. Tornando in Italia, l’entusiasmo per la liberazione dell’Italia e la sua successiva unione, era alle stelle. Giuseppe Verdi, un compositore che aveva sentimenti repubblicani, con le sue opere (Nabucco, La battaglia di Legnano) mandava chiari messaggi politici e suscitava entusiasmo. Dopo l’armistizio alcuni volontari continuarono a combattere, gli austriaci vennero cacciati da Bologna. Anche a Roma l’agitazione crebbe, tentarono di assalire il Quirinale, dove risiedeva allora il Papa, che cedette alle richieste di nominare un governo di impronta democratica, e poi fuggì a Gaeta, in territorio borbonico. Roma restò in mano ai gruppi democratici, che elessero un’assemblea costituente che votò per la Repubblica romana. Cose simili accaddero anche in Toscana e a Venezia. L’ondata democratica acquistava forme diverse nei vari contesti locali, ma era spinto da idee comuni, fortemente sostenute da Giuseppe Mazzini. Il 5 marzo Mazzini arrivò a Roma, dove era stato eletto all’assemblea, e si espresse subito per la ripresa della guerra all’Austria. Carlo Alberto riprese la guerra rompendo l’armistizio, ma la perse in soli quattro giorni. Carlo Alberto abdicò e il suo successore Vittorio Emanuele II firmò un nuovo armistizio col generale Radetzsky. A questo punto anche le sorti dei vari governi provvisori erano segnate. Il 25 maggio 1849 a Firenze Leopoldo II fu reinsediato sul trono granducale. Più cruenta fu la fine delle due repubbliche, di Roma e di Venezia. Napoleone III decise di muoversi in difesa del papa, e incominciò la resistenza da parte dei romani, che non erano pochi, ed erano sostenuti nella loro causa da volontari provenienti da tutta Italia, tra cui Giuseppe Garibaldi. Ma a luglio la repubblica romana cadde, e dopo un mese, dopo un lungo assedio si arrese anche Venezia. Quando si parla di repubblicanesimo non ci si riferisce solo a un orientamento politico, o a una forma di governo, ma si fa riferimento a un pensiero che esalta le forme istituzionali che danno sostanza alle libertà e al governo della legge, alla partecipazione civica e alla solidarietà comunitaria. Il repubblicanesimo è un contermine di democrazia, ma più nettamente di questa si distingue dal liberalismo e ha riferimenti storici che risalgono all’età classica e poi soprattutto guardano all’età medievale come fucina di ideali e di istituti civili. Una lunga tradizione di pensiero vuole che tra Tre e Cinquecento proprio l’Italia abbia dato i natali al repubblicanesimo con i governi delle città del centro-nord della penisola (Firenze, Venezia, Siena, Genova…). Era una memoria, o piuttosto un mito culturale, ben presente ai protagonisti delle repubbliche cittadine del 1849. Nei simboli, nelle parole e negli atti delle due repubbliche del ‘49, e in quella romana soprattutto, la classicità era presente, basti pensare all’adozione del glorioso nome di Repubblica romana e poi all’istituzione del triumvirato, presente nei vari esperimenti politici di quella fase. La medesima funzione ideologica ebbe allora l’adozione del tricolore, modellato sul tricolore della Francia rivoluzionaria e adottato da Mazzini per la Giovane Italia. Sia Mazzini che più tardi Garibaldi prestarono particolare attenzione alla comunicazione simbolica e alla stessa costruzione di un proprio mito. Fu così fondata una moderna religione politica, per lo più dedicata alla difesa militare, cosicché ciò che rimane del loro mito è il coraggio dei difensori, i forti ideali. Inutile dire però che i messaggi e i provvedimenti emanati dalle repubbliche del 49 non ebbero la consapevolezza istituzionale che invece caratterizza i momenti più alti del repubblicanesimo in America o in Francia. Questa astrattezza era del resto una cifra tipica di Mazzini, che prestava scarsa attenzione alle questioni istituzionali e al dibattito costituente, propagandava un repubblicanesimo etico più che giuridico, metteva l’accento sui doveri più che sui diritti ed era altamente spirituale e messianico. Nazioni nuove, nuovi Stati Quando stava per scadere il suo mandato, nel 1851, con un colpo di stato Carlo Luigi Napoleone Bonaparte conquistò il potere assoluto. Volle che un plebiscito lo autorizzasse a scrivere una nuova costituzione,e lo ottenne, con una schiacciante maggioranza. Nel 1852 riportò la Francia alla forma imperiale, prendendo il nome di Napoleone III. L’ascesa al trono imperiale di Napoleone III era stata approvata dal popolo, con maggioranza quasi unanime. Questo voto costituiva dunque il trionfo della sovranità popolare, che il nuovo regime esplicitamente confermava, ma realizzava anche i timori che da tempo i liberali avevano manifestato attorno alla democrazia, ovvero che le maggioranze potessero divenire tiranniche e appoggiare un potere illiberale. La costituzione del 1852 era la rappresentanza di questi timori. Conferiva al presidente tutti i poteri essenziali, la camera poteva solo discutere le leggi proposte da lui, non respingerle né emendarle, ed era sempre il presidente che nominava i senatori. I giornali erano soggetti a censura, l’università sorvegliata: è una tipologia di potere nuovo, il “bonapartismo” o “cesarismo”, ovvero un potere autoritario basato sulla mobilitazione delle masse, in particolare di quelle meno avvedute politicamente. Solo negli anni 60 l’autoritarismo si attenuò: un’amnistia politica fece rimpatriare esiliati e deportati, la censura alla stampa fu attenuata, furono concessi maggiori poteri alla Camera. Napoleone III sostenne il libero scambio e gli affari per lo sviluppo economico e produttivo del paese. In politica estera tentò una politica di movimento, che mirava a costruire un nuovo equilibrio europeo ispirato ai principi di nazionalità, da garantirsi con una serie di congressi internazionali, e con questo spirito partecipò a varie imprese internazionali (partecipa a guerra di crimea per difendere impero ottomano da russia, interviene in Messico a favore degli asburgo). La politica estera di Napoleone III interessò soprattutto la penisola italiana, e strinse tra i due paesi vincoli forti, ma suscitò anche forti diffidenze. Dopo le vicende del 48-49, le politiche duramente repressive appoggiate dalla tutela austriaca aumentarono l’impopolarità dei regimi restaurati (austriaci del lombardo veneto, il granduca di toscana, lo stato della chiesa e i borboni del regno delle due sicilie). La presenza delle truppe austriache in varie province dava il senso tangibile del dominio straniero. La novità sta nel ruolo assunto sulla scena italiana dal Regno di Sardegna, che era l’unico ad aver mantenuto quello statuto concesso da Carlo Alberto, pur essendo uno statuto conservatore. Eppure, pur con i suoi limiti, lo statuto albertino costituì la cornice entro cui si sviluppò un regime di libertà, fu sperimentata una prassi parlamentare e si formò una classe politica indipendente. Il Regno di Sardegna fu l’unico che accolse gli esuli provenienti dagli altri stati della penisola. Protagonista del decennio fu Camillo Benso conte di Cavour. Entrò subito in Parlamento e poi nel 1850 nel ministero retto da Massimo D’Azeglio, come ministro dell’Agricoltura, commercio e marina e poi delle Finanze, sostenendo una politica di stampo liberista e di sostegno allo sviluppo delle ferrovie e delle società di navigazione. I primi governi costituzionali si misurarono soprattutto sui rapporti con la Chiesa. Il Piemonte abolì alcuni tradizionali privilegi, come il privilegio che sottraeva il clero ai tribunali civili o il diritto di asilo nei luoghi di culto, imponendo alcuni limiti all’aumento del patrimonio degli enti religiosi e introducendo il matrimonio civile. Proprio in seguito a una crisi di governo suscitata da fondamento dell’economia, e poi la proibizione di vendere la terra e la totale interruzione dei rapporti con l’estero. Ciascun individuo aveva un posto definito nella gerarchia sociale, l’uomo era considerato un semplice anello dell’infinita catena delle generazioni, e non un soggetto dotato di capacità di scelta (era la visione dello shintoismo). La rigidità del vecchio regime impediva all’economia di svilupparsi, e non consentiva di esprimersi ai fermenti che pure scuotevano il Giappone agli inizi dell’ottocento. Già sottoposto a pressioni interne, il regime Tokugawa non resse le conseguenze della penetrazione occidentale, e nel 1867 fu abbattuto da una sollevazione di samurai. Si instaurò la dinastia Meiji (1868-1912), che consolidò il potere imperiale, rivoluzionò le strutture sociali e produttive del paese, e il Giappone si avviò a diventare una grande potenza continentale. In Europa intanto era ancora aperta la questione tedesca. Le agitazioni non avevano portato ad un esito nazionale, e che anzi il re di prussia Federico Guglielmo IV e ancor più suo fratello Guglielmo I, avevano orientamenti nazionali autoritari per nulla inclini al liberalismo. L'intera area germanica aveva infatti opposto una rigida chiusura alle rivendicazioni liberali. La prussia a nord e l'Austria sud erano le maggiori polarità di quest'area. Nel nuovo impero asburgico di Francesco Giuseppe la costituzione concessa nel 1849 fu soppressa e tutto il potere si concentrò nelle mani dell’imperatore che governò con metodi autoritari. Non meno severo sul governo in prussia dove la costituzione non fu abrogata ma fu emendata in senso ancor più restrittivo, con una camera bassa, che aveva scarso potere, e una camera alta nominata dal re tra l’aristocrazia. Lo sviluppo dell'economia procedette a ritmo sostenuto soprattutto in Prussia, che presto divenne il polo di attrazione dell'universo germanico. Attorno al 1865 la prussia possedeva 2/3 delle macchine a vapore tedesche e la costruzione della rete ferroviaria tedesca, potente strumento di unificazione economica, fu incentrata sulla Prussia e si sviluppò collegando gli Stati della Germania meridionale, quasi tagliando fuori l'Austria. La stessa cosa avvenne per la Lega doganale, che già a partire dal 1835 integrava attorno alla prussia 25 stati e che ora escluse l'Austria costituendo un'area di scambio gravitante sulla Prussia. Incominciò a diffondersi tra gli stati tedeschi l’idea di un’unione attorno alla potenza prussiana. Otto Von Birmark-Schonhausen fu nominato cancelliere prussiano nel 1862, e rimase in carica fino al 1890. Mentre metteva mano a un ardite costoso programma di rafforzamento dell'esercito operò per guadagnarsi la neutralità degli Stati europei nel conflitto forse inevitabile che si apprestava ad aprire con l'Austria. Per questo stabilì buoni rapporti con la Francia di Napoleone III e aiutò lo Zar a reprimere l'insurrezione polacca, guadagnandosi l'appoggio russo. Quando Bismark si impadronì di due ducati di lingua tedesca sotto la corona danese, lo Schleswig e lo Holstein, creò un nuovo motivo di tensione con l’Austria,e dopo essersi garantito l’appoggio dell’opinione pubblica tedesca, ed aver stipulato un contratto con l’Italia, mosse guerra all’Austria. L’esercito austriaco combatteva su due fronti ed era formato da truppe di nazionalità varia, mentre quello prussiano era moderno, ben armato e addestrato alla guerra rapida di annientamento. La Prussia sconfisse l’Austria in 15 giorni. L’impero austriaco non subì mutilazioni territoriali, ma fu definitivamente separato dalla Germania, e nel 1867 firmò un compromesso con la dieta ungherese riconoscendo una condizione di parità tra monarchia austriaca e ungherese, diventando Austria-Ungheria. Contemporaneamente a nord del fiume meno fu creata una Confederazione della Germania settentrionale, di fatto uno stato federale presieduto dal re di Prussia. A questo punto Bismark si volse alla francia, provocò Napoleone III che fu costretto alla guerra, che vide una vittoria schiacciante per la Prussia. La Francia dovette cedere l’Alsazia e la Lorena, paesi di lingua e cultura francese, alla Prussia e pagare un’indennità di cinque miliardi di franchi. L’assemblea degli stati tedeschi inoltre proclamò l’impero, il secondo Reich dopo quello medievale. Crollato l'impero la Francia elesse un'assemblea nazionale, che si riunì dapprima a Bordeaux e poi mosse verso Parigi, insidiandosi provvisoriamente a Versailles. Per prima cosa il governo francese, presieduto dallo storico Adolphe Thiers, doveva installarsi a Parigi: la capitale era rimasta senza governo, in mano alla guardia nazionale, come dire alla sua società civile alla piccola borghesia in armi. Questa, scossa dalla sconfitta, accusando di tradimento e l'assemblea e il suo governo provvisorio, era incline piuttosto a resistere che a cedere le armi. I leader improvvisati erano democratici radicali, e optarono per delle elezioni, dove stravinsero le correnti di sinistra, ostili al governo. Si insediò così il governo della Comune, i cui membri avevano pochissima esperienza politica e molto idealismo. Già 5 giorni dopo le truppe versagliesi attaccarono. Parigi si riempì di barricate, che volontariamente o no, vennero date alle fiamme. La Comune cessò di esistere, dopo due mesi di governo. Socialismo, comunismo L’idea di eguaglianza, di un'eguaglianza effettiva, stava rinnovandosi e rafforzandosi, traendo forza da un messaggio ben radicato nella tradizione religiosa della cristianità, e che nell'europa moderna aveva già tante volte animato conflitti e insurrezioni. Di fronte al dinamismo della società borghese, capitalistica, industriale questo messaggio acquistava tutt'altro vigore e nuova urgenza. Sappiamo che l'ordine individualistico egualitario è un ordine di principi, è normativo, non descrittivo: dice come le cose dovrebbero essere, non come sono in realtà. Se la legge fosse davvero eguale per tutti e non guardassi in faccia a nessuno, potrebbe essere ingiusta o meglio iniqua. Il mondo contemporaneo annuncia giustizia più che equità, mentre i deboli vorrebbero equità e fraternità, come aveva annunciato la rivoluzione francese. A che giova ai poveri la proclamazione di una eguaglianza di partenza e la libertà di possedere, se patrimoni, competenze, cultura passavano dei padri ai figli tenendo lontani i poveri? dov'era la libertà del lavoro se gli operai erano inermi davanti al più crudo sfruttamento delle fabbriche senza più nemmeno la protezione delle antiche corporazioni? Soprattutto nel mondo del lavoro iniquità e ingiustizia sembravano accompagnare le nuove libertà. Nessuna associazione collettiva avrebbe dovuto intromettersi nel libero incontro dal singolo datore di lavoro e il singolo lavoratore. Così aveva stabilito una serie di norme eversive, la più nota delle quali è quella legge Le chapelier, che nella Francia del 1791 aveva appunto abolito le corporazioni padronali e associazioni operaie, alle quali prima era obbligatorio essere iscritti per esercitare un mestiere. La legislazione anti - associazionistica aveva dunque due diversi contenuti, era intesa da un lato a liberare la manodopera dai vincoli di antico regime (secondo la logica della negazione di ogni corpo intermedio), dall'altro a contrastare i germi di resistenze organizzata presenti nel mondo del lavoro. I padroni, sciolti da ogni vincolo, avevano accresciuto il loro potere sugli operai, che nulla difendeva dalle condizioni di vita disumane create dal nuovo sistema di fabbrica che dall'inghilterra si stava espandendo sul continente. Legioni di uomini vivevano vincolati ai ritmi delle macchine, sradicati dalle campagne e concentrati in quartieri industriali, minacciati dalle malattie, dipendenti per intero dal loro salario e privi di ogni protezione. Leghe, trade union, società di mestiere, club operai, si dedicavano al mutuo soccorso (le quote raccolte servivano a soccorrere i soci in caso di bisogno, a dar loro un vitalizio per la vecchiaia o ad aiutare gli orfani e le vedove o integrare il salario) ma allo stesso tempo alimentavano il bisogno di lottare insieme per delle condizioni di vita tollerabili, di unirsi per una causa più vasta, universale, che riguardava tutti gli oppressi, tutte le vittime dello stesso sistema e che dunque aveva carattere politico, non più soltanto assistenziale o mutualistico. Si delineavano due vie possibili per il riformismo borghese, due diversi percorsi che avrebbero segnato tutta la storia a venire. Da un lato consentire l'autodifesa del mondo del lavoro e dunque, in una prospettiva liberale, ammettere l'azione collettiva, la rivendicazione della libertà di associazione, le lotte sindacali, e questa era una prospettiva ancora interna alle dinamiche del mercato capitalistico. Dall'altro si affermava l'idea di un intervento pubblico di tipo nuovo, che tornasse a regolamentare il lavoro per legge come nell'antico regime, ad esempio proteggendo o proibendo i lavori infantili nelle fabbriche o nelle miniere e dunque alterando con la forza della legge la dialettica delle forze di mercato. Le prime leggi speciali a tutela del lavoro furono varate già nell'inghilterra del 1833: fu allora stabilito che nel settore tessile la giornata lavorativa doveva durare non più di 15 ore, 12 ore nel caso di adolescenti e 8 ore per i ragazzi dai 9 ai 13 anni, essendo proibito impiegare i bambini al di sotto dei 9 anni. Altre leggi successive poi diminuiranno ulteriormente le ore di lavoro. Nel campo borghese tuttavia la via delle riforme era sostenuta da pochi riformatori illuminati o da pochi utopisti e le riforme effettivamente varate ebbero scarsa e problematica attuazione. Inevitabilmente sia le spinte riformatrici sia le rivendicazioni popolari o le iniziative del solidarismo operaio, tutto questo ribollire di idee e di esperienze, coinvolgeva la politica nel suo insieme, ovvero progetti, visioni che riguardavano l'intera società e i rapporti di potere. Le varie utopie sociali facevano riferimento ad una aspirazione democratica variamente coniugata nel solidarismo e nel mutualismo sindacale, nel repubblicanesimo, nel socialismo ma anche nell'anarchismo e nel comunismo. Emersero dei capi e dietro di loro un sempre più vasto movimento corale di popolo esercitava un crescente fascino presso gli studenti, gli uomini di cultura, quelli che presto sarebbero stati chiamati intellettuali, predicando il riscatto degli individui delle catene della miseria, dell'abbrutimento e della soggezione. Fra questi nacque la disillusione verso le possibilità di riforme e di collaborazione, e la formulazione di programmi più combattivi che consideravano la spaccatura della società irresolubile. Prendeva il sopravvento la visione della società di tipo dicotomico, basata su due polarità: i buoni e i cattivi, i ricchi e i poveri, i produttori e i consumatori, i padroni e gli schiavi. Questa dicotomia di fondo ha sempre avuto una potenziale forza eversiva, una promessa di riscatto che è già nel rovesciamento annunciato dal cristianesimo. Il socialismo, e poi soprattutto Marx, offrirono la versione più radicale e pervasiva di questa opposizione. Il concetto stesso di classe era definito dal conflitto. Marx diceva che i singoli individui formano una classe solo in quando devono condurre una lotta contro un’altra classe, e poi dice anche che la storia di ogni società finora esistita è lotta di classi. Nel Manifesto affermava che nella sua epoca la società intera si stava sempre più scindendo in due grandi campi nemici, due classi direttamente opposte l’una all’altra: la borghesia è il proletariato. Marx ed Engels stavano fondando sulla lettura delle trasformazioni del loro tempo una interpretazione non solo della storia contemporanea, ma della storia intera, del processo storico. La lotta del proletariato per abbattere il potere borghese fino al trionfo universale di una società comunista corrispondeva dunque ad una tendenza necessaria è ineluttabile, iscritta nella storia e nella logica stessa del potere capitalistico-borghese. Era necessario per i proletari attaccare radicalmente i pilastri su cui reggeva la società ottocentesca, perché le leggi, la morale, la religione nascondono solo interessi borghesi che vanno distrutti. Marx dunque è polemico nei confronti di tutti gli altri pretesi socialismi, i gradualismi, le riforme sociali per sanare la spaccatura sociale senza rivoluzione. La democrazia estrema, il socialismo, il comunismo e l’anarchismo cominciarono a differenziare il messaggio palingenetico e a contendersi la guida della classe operaia. In Gran Bretagna solo occasionalmente gli operai si animavano in moti (uno è il moto luddista, movimento che distrugge a i telai meccanici in quanti responsabili della industrializzazione di alcune regioni (industria tessile e pesante). In questo periodo ripensa anche a rinverdire le sue glorie imperiali, tentando di riprendere una posizione dominante in America Latina, ma le nostalgie imperiali contrastavano con la grave impreparazione militare, con l’inettitudine e a volte la corruzione dei governi incapaci di ampie prospettive, sempre presi tra gli opposti radicalismi della destra carlista e della sinistra democratica. Nel 1868, preparato da partiti progressisti, un ennesimo levantamiento costrinse la regina Isabella all’esilio. Nel successivo “sessennio democratico” fu proclamata una monarchia costituzionale con elezioni a suffragio universale, ma i governi si susseguirono senza forza, indeboliti dai ripetuti levantamientos repubblicani. Nel 1873 fu proclamata la Prima Repubblica, che durò soli 11 mesi. Dopo sollevazioni e colpi di stato alla fine nel dicembre del 1874 restaurò la monarchia costituzionale, che garantì una nuova stabilità politica, tra il 1874 e il 1923. La nuova costituzione del 1876 attribuì una sovranità compartita tra il sovrano e il parlamento e costruì un sistema bicamerale. Caratteristica del regime era la corruzione, il trasformismo, clientelismo, brogli elettorali. Articolati in una serie di poteri, sia lo stato amministrativo sia la rappresentanza politica mancavano alla loro funzione primaria di dare unità al paese, di esprimere un'anima e una volontà comune, né contribuivano a farlo la casa regnante o la Chiesa cattolica. Di fatto l’identità spagnola non era una identità nazionale, perché era miniata all’interno da forti regionalismi, e poi storicamente si identificava con i grandi spazi coloniali e con la dimensione imperiale. Per questo l’esito di una breve guerra scoppiata nel 1898 con gli Stati Uniti a causa delle ribellioni di Cuba, che vide la perdita di quel che restava dell’impero coloniale della Spagna, costituì una svolta profonda nella storia del paese. Questo trauma alimentò una critica al sistema politico, che vide una crescita di repubblicani, socialisti e libertari, a una esigenza di modernità, e un ripensamento sull’identità spagnola, sulla storia e l’essenza del paese, un ripensamento che accomunò un gruppo di letterati, filosofi e artisti. All'inizio dell'Ottocento cadevano sotto la formale sovranità ottomana vasti territori dell'europa danubiana, tutta l'anatolia e l'armenia, la mezzaluna fertile, la penisola arabica e poi il Nord Africa fino al Marocco. Per tutto il secolo fino alla prima guerra mondiale la storia di questo impero è quella di una graduale e costante perdita di territori, in genere ad opera delle varie potenze europee che ne conquistarono intere province, come per esempio in Nord Africa, oppure sostennero locali movimenti indipendentisti come in Grecia o nei Balcani. Bisogna però aver presente che il controllo del sultano su molti dei suoi territori periferici era assai incerto e molti di essi già godevano di una sostanziale autonomia. Pur avendo una grande tradizione militare, a quel tempo l’impero perdeva regolarmente la guerra. A partire dagli anni 30, quando incominciava l’erosione del grande territorio ottomano, furono avviate profonde riforme in senso occidentale: l’esercito fu riformato, furono riorganizzate l’amministrazione centrale, con ministeri su modello occidentale, guidati da ministri facenti capo a un consiglio, e anche l’amministrazione delle 27 province in cui fu ripartito l’impero, con a capo un governatore, furono emanati un codice commerciale e uno agrario e un codice penale. Un vasto codice civile, tentava un compromesso tra la tradizione islamica e il diritto occidentale. Il dato più rilevante fu forse la secolarizzazione e l’adozione di uno stato di diritto. In generale nel mondo islamico i religiosi non esercitavano potere civile e i governi non intervenivano in materia religiosa. Tuttavia l’istruzione era impartita dal clero, al clero era demandata la disciplina in materia familiare ed era comunque indispensabile che la legislazione non seguisse i precetti della legge coranica. Ora, fu adottata una legislazione a base individualistica ed egualitaria, come in occidente, e dunque eliminata ogni tipo di distinzione di tipo religioso o etnico su cui si basava l’antico sistema. Erano riforme di grandissimo significato in un impero multietnico. I non musulmani, ora uguali ai musulmani di fronte alla legge, furono ammessi all’istruzione pubblica, nelle file dell’esercito e di ogni altro ufficio. Nel 1876 venne approvata una costituzione ispirata a quella belga del ‘31 che istituiva un governo parlamentare e confermava l’uguaglianza di diritti per tutti i cittadini dell’impero. Per quanto riguarda l’idea dello stato nazionale c’erano due filoni di pensiero, uno che inclinava a trovare nell’islam i materiali per la costruzione di stati nazionali moderni in senso occidentale, l’altro che piuttosto insisteva sull’universalità del popolo musulmano (che si estendeva ben oltre l’impero ottomano), e proclamava la necessità di una purificazione dei costumi e contro ogni sincretismo un ritorno alle fonti originarie. Su questi movimenti influì in maniera determinante il sostanziale, drastico misconoscimento che la cultura europea del tempo riservava alla cultura islamica, ritenuta comunque Barbara e arretrata. Un atteggiamento che accompagnò l'espansione coloniale che proprio in quel periodo investiva la vasta area sulla quale si estendeva l'islam. L'intreccio di questi due aspetti della medesima realtà, l'occupazione coloniale e la svalutazione della cultura islamica, avrebbe col tempo portato le varie correnti di pensiero qui sommariamente tratteggiate, quella nazionalistico-progressista e quella del classicismo, del rigorismo panislamico, a radicalizzarsi in senso anti-occidentale. C’è da dire che Istanbul non esercitava un sicuro controllo su tutto il vasto territorio dell’impero, e dunque le innovazioni avviate dalle riforme suscitarono molte resistenze e in alcuni casi rimasero lettera morta. E poi le riforme liberali avevano dato maggiore autonomia alle varie comunità etnico-religiose, garantendo loro libertà di culto, parificazione di fronte alla giustizia e all’erario, ma anche alcune forme di autoamministrazione comunitaria, rafforzandone l’autonomia, che nel caso delle comunità più coese e territorialmente radicate era pronta a tramutarsi in rivendicazione di indipendenza. In questo processo le potenze europee giocarono un ruolo ambiguo e in ultima analisi distruttivo. Gli europei premevano per l'ammodernamento del paese, ma poi oltre eroderne il territorio, ne minavano proprio il processo di statualizzazione, facendosi protettori dei gruppi e degli interessi che resistevano alle innovazioni. Il rafforzamento delle borghesie cristiane sostenuto dagli occidentali, evidentemente a danno dell'elites arabe o turche, dette un tono fortemente anti-occidentale agli atteggiamenti di chi pure sosteneva le riforme. Proprio l'insieme di questi fattori, la pressione alle frontiere e i conflitti e le tensioni interne che ne derivavano, tolse energia alla stagione delle riforme: già due anni dopo la sua proclamazione la costituzione del 76 fu abrogata, in seguito alle rivolte balcaniche e una nuova guerra con la Russia nella quale nuovamente intervennero le potenze europee. L’impero russo dello zar era un gigante possente per la ricchezza delle sue terre e per l’ambizione dispotica del suo centro, ma per gli stessi motivi era fragile, disarticolato, soggetto a pericoli di disgregazione. Il numero delle religioni, delle lingue e delle etnie era incalcolabile. Per quanto variati fossero gli assetti del potere e malcerto l’effettivo controllo di terre lontane, si può dire che reggesse l’impero una struttura di potere articolata attorno ai tre poli dell’autocrazia zarista, della nobiltà e dei contadini, in una catena di dipendenze. Per l’assolutismo zarista infatti i proprietari, o i nobili, erano tenuti a servire lo Stato nell’esercito, nella marina oppure nella burocrazia, mentre i contadini a loro volta erano legati alla proprietà terriera, o allo Stato, da un regime di servaggio. Al centro del mondo contadino era l’azienda familiare allargata e vigeva la comunità rurale, basata sulla proprietà collettiva, che offriva un modello di collettivismo e di autogoverno comunitario molto mitizzato dalla cultura russa di ogni tendenza. Data anche l’assoluta predominanza delle campagne nei territori dell’impero, il mondo contadino era ben poco scalfito dalla modernità urbano-industriale che pure si affermava nel frattempo: era come se convivessero realtà appartenenti a tempi storici diversi e lontani. Durante tutto l’800 la struttura tripartita andò erodendosi, mentre l’impero era scosso da tensioni, conflitti, rivolte: richieste di riforma, rivolte nazionali, rivolte contadine. Come risposta il potere autocratico ogni volta inaspriva le repressioni. A metà del secolo tuttavia una grave sconfitta militare suggerì al nuovo zar Alessandro II di avviare una stagione di riforme. Parliamo della cosiddetta guerra di Crimea. La Crimea è una penisola che si estende nel Mar Nero. Si contendevano allora il controllo dei luoghi santi a Gerusalemme (che appunto cadevano sotto il controllo dell’autorità ottomana) i cattolici sotto il patronato della Francia e gli ortodossi di cui si diceva protettore lo zar russo. Quando nel 1854 Nicola II si vide negata l'autorità sui 10 milioni di ortodossi che vivevano un impero ottomano dal governo turco, gli mosse guerra. La Russia mirava agli stretti, e dunque ad uno sbocco nel Mediterraneo che avrebbe alterato l'equilibrio di tutta l'area, e dunque fu inevitabile l'intervento di una coalizione internazionale guidata dalla Gran Bretagna e dalla Francia. Dopo due anni di scontri la Russia dovette cedere: la via degli stretti le era preclusa. L'insuccesso della guerra contribuì a indirizzare il successore di Nicola I, Alessandro II, sulla via delle riforme interne. La riforma per eccellenza fu l'abolizione del selvaggio proclamata nel Febbraio del 1861. Si avviò così un profondo rinnovamento delle campagne , mentre declinava il ruolo della nobiltà, aumentò quello della popolazione rurale che era anche in crescente espansione demografica. Ciò nonostante si diffuse anche una cui insoddisfazione: infatti la terra era stata divisa tra signori e contadini, ma mentre i primi, che la detenevano in cambio di un servizio allo stato che non esisteva più, l'ebbero in regalo, i secondi, che ricevettero gli appezzamenti peggiori, dovettero pagarla con denaro anticipato dallo stato e da rimborsare a rate. Per isolare la campagna dalla città e impedire che le giungesse il contagio della modernità, fu favorito il mantenimento di un quadro sociale tradizionale. L'opinione liberale manteneva verso lo zar e il sistema politico un antagonismo radicale, che portò anche ad atti di terrorismo: infatti lo zar Alessandro II fu assassinato nel 1881. Il suo successore Alessandro III chiuse la stagione delle riforme e inasprì la repressione politica e la persecuzione delle nazionalità, tra le quali particolarmente colpiti furono gli ebrei, vittime di discriminazioni legali e violenti saccheggi. Gli ultimi zar strinsero ancor più le maglie di una spietata repressione, ma seppero anche avvalersi di alcuni ottimi ministri che alla fine dell'Ottocento avviarono l'economia russa verso un'eccezionale sviluppo. Per ragioni sia economiche che militari fu innanzitutto iniziato un grosso programma di costruzioni ferroviarie, in linea con quanto avveniva a quel tempo in altri paesi europei. Tra il 1880 e il 1900 raddoppiò la base industriale. Però l'industria, l'impresa, in genere il capitalismo industriale erano come i nuclei accerchiati da un mondo antico che ostacolava l'espandersi di una società borghese di tipo europeo occidentale, di una classe media robusta di orientamento liberale. Nel 1904 la Russia è in guerra con il Giappone, e sta perdendo. In patria le notizie non fecero che alimentare le tensioni sociali e i fermenti rivoluzionari già in atto. Le manifestazioni dilagavano, gli operai a Pietroburgo entrarono in sciopero, si lamentavano chiedendo provvedimenti sociali, libertà, riduzione delle tasse e la fine della guerra. Il 22 gennaio 1905 un corteo di 150.000 persone si diresse verso il palazzo d'inverno. La rivolta dilagò in tutto il paese, ben oltre la Russia, in Polonia, ne Caucaso, nel Baltico, in Ucraina e vi parteciparono operai, soldati, marinai, intellettuali, borghesi. Fu come lo scoppio ritardato a est di quella primmavera dei popoli che aveva percorso l’europa centro-orientale 50 anni prima. Intanto continuano le sconfitte con il Giappone. Firmata la resa, lo zar promise l’istituzione di una Duma, un’assemblea elettiva. Poi il governo emanò il manifesto costituzionale con il quale erano garantite le fondamentali libertà civili, e istituita la duma con il potere di approvare le leggi. Ma intanto il movimento rivoluzionario costituì i primi consigli operai, i soviet. Un'insurrezione armata a Mosca durò 11 giorni dal 9 al 19 dicembre, e la repressione fu spietata, con migliaia di morti, feriti, arrestati. Negli anni seguenti fece le sue prime difficili prove il regime costituzionale e la duma fu eletta, sciolta, americano, settentrionale e meridionale. Così mentre si allentava la pressione demografica nel vecchio continente, si popolava il continente americano. Migliorando lo standard di vita e diminuendo i prezzi alimentari, alla fine del secolo più ampi strati operai poterono mutare il proprio stile di vita e avvicinarlo a quello della classe media. Mutarono gli svaghi extradomestici, non più legati soltanto al bere e a manifestazioni di brutale forza fisica, ma a giochi di squadra e alle gite collettive rese possibili dai nuovi mezzi di trasporto, quindi agli spettacoli sportivi e poi cinematografici. Con la crescita dei consumi furono adottati nuovi metodi di vendita al pubblico. Le merci andavano incontro all’acquirente e lo attraevano attraverso le vetrine, nacquero le gallerie commerciali e poi anche i grandi magazzini. Nella sua fase germinale, la produzione industriale sembrava potersi irradiare pacificamente, si assumeva che l’economia fosse una, globale, e si auspicava che nessuna forza politica ostacolasse la dinamica del mercato. Ma col tempo l’immagine di un libero e arioso mercato delle idee e dei progressi industriali si era appannata. Per esempio, nel caso delle ferrovie, la cui costruzione poteva essere legata a obiettivi politici (espansione, colonizzazione, nuove vie di comunicazione…), le imprese investivano chiedendo però garanzie ai poteri pubblici, per esempio gestendo poi le tariffe. È chiaro che potessero entrare nel gioco solo i capitalisti più forti e dotati. Stavano crescendo poche grandi società. E poi c’è la questione del libero scambio e protezionismo. Per protezionismo si intende una politica che imponendo dazi in entrata alle merci importate, oltre a realizzare un introito fiscale per lo stato rende più elevati i prezzi di quei beni sul mercato interno e dunque favorisce i produttori nazionali. Il fondamento di una politica protezionistica è essenzialmente politico, non economico. Si presenta come una deroga al principio economico del libero scambio che mantiene un valore universale. Questa tensione politica andò crescendo con l’aumento della competizione tra i paesi industriali, con una competizione sempre più serrata e aggressiva. Alla conquista del mondo I moderni stati sono nati dalla rottura dell’antica unità imperiale dell’Europa, e si sono definiti affermando la loro piena e autonoma sovranità su un piano di parità con tutti gli altri e dunque senza poteri sovraordinari. Se uno stato agisce in maniera ostile con un altro stato le uniche risposte possibili sono dunque le trattative o la guerra. Le relazioni tra gli stati perciò sono instabili, soggette a cambiamenti, e sono dominate da una costatante ricerca di equilibrio, dalla continua riformulazione di un “sistema” internazionale. In alcuni casi si ricorse a un “arbitrato”, una formula con la quale degli stati si rimettevano ad autorità da loro scelte, che agivano come tribunali arbitrali, una pratica fortemente sostenuta dai movimenti pacifisti. In altri casi apposite conferenze o congressi erano convocati per mettere fine a uno stato di guerra (Vienna 1815, Parigi 1856, Berlino 1878). Si aggiungano tutte quelle intese volte a coordinare azioni comuni, come quelle di polizia, quelle sanitarie, o quegli accordi tecnici che servivano a dare un ordine ai crescenti flussi di merci, denaro, persone, fissando standard comuni di natura tecnica. Tutto ciò non creò un ordine internazionale, ma certamente contribuì a stabilire procedure, intese, regole e convenzioni che tutti erano interessati a rispettare. Il sistema creato a Vienna nel 1815 funzionava mediante la costante rinegoziazione sulla base di due principi: l’equilibrio di potenza, per il quale l’eventuale emergere di una potenza sarebbe stato corretto dalle opportune alleanze, e una certa consonanza politica, in quel caso chiaramente in senso antirivoluzionarie è antidemocratico, volta al mantenimento dello status quo. Ora si noti già che il principio di nazionalità non rispettava il sistema di vienna e minacciava di produrre cambiamenti profondi. Comunque quel sistema resse almeno fino alla guerra di Crimea. Ma dopo di allora, con l’unificazione italiana e poi soprattutto con quella tedesca e infine con la disgregazione dell’impero ottomano, si aprì una lunga fase di tensioni, squilibri, e rivalità nei rapporti tra stati che solo una fitta rete di accordi bi o multilaterali e una incessante opera di mediazione diplomatica riuscì a controllare. Bismarck, già nel 1873 strinse con l’austria-ungheria e la russia una “intesa dei tre imperatori”. Qualche anno più tardi le rivalità austro-russe di fronte alla patente insorgenza anti-ottomana nei Balcani portarono a un nuovo intervento militare dei russi. La questione fu risolta con un grande congresso svoltosi a Berlino nel 1878. Completarono il quadro nel 1882 una triplice alleanza che legò italia, Germania e austria-ungheria. Progresso industriale non era più solo il pacifico cotone, o le linee ferrate che trasportavano merci, voleva dire cannoni, corazze, fucili a ripetizione. Intanto si parlava sempre più spesso di imperi: si proclamarono imperatori Napoleone III, il sovrano del nuovo reich germanico, la regina Vittoria, e vi ambivano lo zar russo e il sultano ottomano. Cuscino di questi titoli aveva significati e implicazioni diverse, ma testimoniavano di una tendenza comune, che all’inizio non riguardò le proiezioni aggressive esterne dei vari stati quanto le ambizioni egemoniche di alcuni negli assetti politici interni. Attorno al nuovo termine imperialismo si andavano aggrumando fatti e tendenze diverse. Avevano a che fare con l’accelerata espansione delle economie industriali europee, con i progressi della tecnica e della scienza, con l’adozione di politiche autoritarie e popolari a un tempo, con la diffusione di ideologie nazionalistiche, con le nuove lotte per l’egemonia che si stavano profilando in europa e fuori dall’europa. La proiezione esterna dell’ imperialismo interno non coincideva necessariamente con lo stabilimento di colonie. Al contrario nella prima fase dell’ imperialismo cosiddetto liberale molto ritenevano che l’epoca degli imperi coloniali fosse ormai tramontata, e che non fosse né necessario né conveniente possedere delle colonie quando il libero accesso ai mercati mondiali, l’intenso di azione degli scambi, l’emigrazione, l’apertura al commercio di aree nuove avrebbero procurato ben maggiori vantaggi. Lo sviluppo dell’economia sostenne ad esempio una fortissima penetrazione non apertamente coloniale nel continente americano. Il crescente livello di vita nei paesi industriali, la loro dipendenza dall’estero per molti prodotti alimentari, lo sviluppo straordinario delle comunicazioni marittime fecero esplodere l’economia di alcuni paesi latinoamericani. L’argentina diventò famosa per le pelli, la lana e la carne di manzo, specialmente quando fu inventata la tecnica di conservarla in scatola, e diventò uno dei primi paesi esportatori di grano e mais. Queste trasformazioni sostennero anche la forte immigrazione che veniva dall’europa. Arrivando a milioni, gli immigrati resero definitivamente “europei” il nord e il sud america, proprio mentre venivano annientate le popolazioni amerindie (deportazioni, epidemie, alcol). Non diversamente andò nella parte settentrionale de continente. Gli americani pensarono di ridurre in schiavitù le popolazioni autoctone, che consideravano comunità da accerchiare, respingere, ischeletrire. Simmetricamente altri europei stavano effettuando un’espansione verso est. Parliamo della russia dello zar che a metà ottocento riprese l’antica spinta verso la siberia, tornò a interessarsi alla sua presenza nel pacifico, scontrandosi come sappiamo con il giappone e soprattutto a guardare alle frontiere con la cina. In siberia l’emigrazione russa finì con il mettere in minoranza le diverse etnie locali, e alla fine del secolo era ormai una nazione bianca. Nell’emisfero meridionale l’espansione non fu meno potente, ma le sue tipologie furono più variate e complesse a causa della molteplicità storica, culturale, naturale dei vari continenti e subcontinenti investiti. Vi sono almeno tre principali direttrici da considerare per delineare tre aspetti del fenomeno: la prima ai confini stessi dell’europa, nel mediterraneo meridionale e in medio oriente, la seconda nell’intera africa subsahariana, la terza verso i grandi imperi asiatici, come l’india e la cina. Consideriamo dapprima questi ultimi. Con le diverse nazioni indiane, sulle quali finì dal cinquecento regnava la dinastia moghul, le potenze europee avevano da tempo legami commerciali, prima fra tutte l’inghilterra. In queste nazioni indiane lo sfruttamento commerciale e il controllo politico degli interessi era affidato a una compagnia privata, la Compagnia delle indie orientali, che controllava gli stati attraverso signori locali, formalmente vassalli dell’imperatore moghul. Gli affari della compagnia consistevano essenzialmente nell’organizzare e sfruttare la produzione di tessuti di cotone e di te per il mercato inglese e di oppio, che veniva esportato in Cina in cambio di sete e porcellane. Erano questi i prodotti esotici che plasmarono l’identità delle élites inglesi in età industriale, tutte cose delle quali ben presto si perse la nozione dell’origine, è che diventarono tipicamente inglesi. Spostiamoci in cina. A metà ottocento era in grave crisi interna e suscitava tentazioni di penetrazione o di conquista. Era un vasto millenario impero che nell’ottocento aveva prodotto un forte aumento della popolazione, ma che non aveva grandi tradizioni tecniche e capacità di innovazione per poter affrontare le conseguenze dell’aumento demografico. La maggior pressione sulle risorse agricole, specie nelle regioni meridionali che attirarono flussi migratori dal nord, provocarono la crisi di molti settori produttivi, tensioni tra i vari gruppi della popolazione è un generale abbassamento del tenore di vita non solo tra i contadini, ma anche ha tra artigiani e piccoli funzionari. Il governo imperiale non aveva la forza di agire. L’arrivo degli stranieri fu un’ulteriore causa di declino, per l’indebolimento indotto nel potere politico, gli ostacoli posti all’innovazione produttiva, nonché gli effetti devastanti del maggior prodotto introdotto dall’esterno, l’oppio. Le autorità cinesi cercarono di frenare l’ingresso della droga, che cominciava a minare la stessa efficienza dell’esercito e si stava diffondendo anche tra i contadini, ma i divieti non impedirono che il traffico crescesse (prima guerra dell’oppio, vinta dagli inglesi). L’impero si stava dissolvendo, lasciando dietro di sé un arcipelago di poteri locali e presenze straniere. Presero l’avvio fenomeni nuovi: da un lato l’emigrazione di massa sciamò verso l’asia sudorientale e il pacifico, dall’altro il continente fu scosso da periodiche rivolte di contadini e di gruppi marginali impoveriti dalle trasformazioni economiche, dalla crisi, dalla corruzione, e guidati da sette segrete, pariti clandestini, fazioni e chiese che agitavano parole d’ordine di sapore protonazionalistico a sfondo xenofobo. la maggiore fu quella dei Taiping, il cui capo carismatico, proclamandosi fratello minore di gesù, aveva elaborato una propria dottrina religiosa, con forti elementi sincretistici di origine buddhista, cristiana e taoista. Tra i seguaci, contadini, soldati, commercianti, banditi e pirati, tutti in vario modo messi in crisi dalle trasformazioni in atto e dalle aggressioni occidentali. Fu una vera rivoluzione, che tra il 1853 e 1864 riuscì a creare uno stato e a introdurre una radicale riforma agraria, che distribuì la terra per nucleo familiare. Alla fine il regime Taiping fu sconfitto militarmente, più che dalle armate imperiali, da truppe reclutate dai proprietari espropriati appoggiate da mercenari europei. Insurrezioni simili dilagarono in tutta la Cina: tra il 1860 e il 1885 ne sono state contate oltre un centinaio. Il potere centrale cedeva, e a ogni occasione gli europei ottenevano nuovi privilegi. Tra 1856 e 1860 fu combattuta una seconda guerra dell’oppio, vinta dagli inglesi, che fecero pagare alla cina un prezzo ancora più alto in termini di penetrazione commerciale, apertura di porti e di arre urbane sottratte alle autorità cinesi. Anche la Russia e il Giappone parteciparono a questa erosione del territorio imperiale. Tra il 1895 e il 1902 oltre al giappone, la germania, la gran bretagna, la russia e la francia, anche il belgio, l’italia e l’impero austro-ungarico avevano concessioni o aree privilegiate in cina. Solo gli USA non parteciparono alla gara coloniale, preferendo adottare la politica della porta aperta, che sosteneva la libertà di tutti di accedere alla penetrazione commerciale e finanziaria. La penetrazione incontrastata e lo sfruttamento occidentali accentuarono la crisi economica e sociale e suscitarono sentimenti contrastanti riguardo le civiltà straniere. Si una condanna non solo morale e politica, ma economica. Indicava il fondamento dell’imperialismo nella ricerca di mercati privilegiati esterni nei quali collocare le eccedenze di merci e capitali. Il fulcro era dunque nell’incapacità dell’economia nazionale a investire i propri profitti in patria, e questa incapacità derivava dalla cattiva distribuzione interna delle risorse economiche. Sosteneva che se le risorse fossero state meno concentrate e meglio distribuite, il tenore di vita della popolazione sarebbe stato più elevato, la capacità di spendere maggiore, cosicché merci e capitali non avrebbero avuto bisogno di emigrare. Facendo riferimento al liberismo questa critica prefigurava degli interventi di politica economica e sociale intesi a correggere le storture proprie del capitalismo e quindi costruire un effettivo libero scambio, con vantaggio di tutti. Occorre tenere presente che le spiegazioni teoriche, generali e sistemiche di un processo storico non necessariamente illustrano i singoli casi presi in esame. Il fenomeno imperialistico però richiedeva una spiegazione, perché aveva qualcosa di eccezionale nello sviluppo della modernità politica ed economica. In sostanza, benché andasse posto al culmine di un percorso secolare, benché fosse in tutto figlio della duplice rivoluzione, l'imperialismo aveva in sé qualcosa che negava le sue premesse borghesi, capitalistiche e liberali. Un economista ausiaco, schumpeter, sosteneva che il sistema capitalistico era per sua natura anti - imperialistico: individualismo, razionalità, calcolo, spirito civico, interesse nel mantenimento della pace, questi e altri caratteri del mondo moderno erano l'opposto delle tendenze militaristiche, aggressive, pulsionali e irrazionali che connotavano l'imperialismo contemporaneo. Queste tendenze che non avevano nulla di economicamente razionale, ma che avevano grande successo presso l'opinione pubblica, potevano essere spiegate come sopravvivenze di epoche passate, come un atavismo che percorreva il mondo contemporaneo. Schumpeter non intendeva rovesciare la preminenza delle motivazioni economiche di fondo e fornire un'interpretazione extra - economica. Argomentava però che idee, mentalità, culture, pur essendo espressione di strutture materiali, possono cambiare più lentamente di quelle, cosicché le tendenze imperialistiche moderne avrebbero potuto essere riflesso di mondi passati, precapitalistici, ad esempio feudali. Effettivamente molti hanno osservato che nell’Europa industriale, capitalistica e borghese vigevano in realtà anche istituzioni e assetti o valori del passato. Gran parte degli Stati erano ancora retti da monarchi, che continuavano a concedere titoli nobiliari, nel campo di rapporti civili e privati rapporti tra padroni e operai, tra i proprietari e contadini, ma anche tra uomo e donna o tra genitori e figli, tra borghesi e servitù domestica non erano forse improntati a quell'insieme di deferenza e soggezione che caratterizza le forme di dipendenza personale anziché la parità tra eguali? Esistevano naturalmente varie declinazioni del comune spirito coloniale, che seguivano i profili e le vocazioni nazionali, ma queali che fossero le diverse varianti, fu soprattutto l'imperialismo britannico, del resto il più esteso e duraturo, a lasciare una forte impronta sull'intero fenomeno. Con la convinzione della propria superiorità culturale, gli europei in colonia dettero vita da assetti sociali assai peculiari che puntigliosamente riproducevano in contesti ambientali, culturali, perfino climatici del tutto diversi l'ordine e i consumi europei, che però in colonia venivano dilatati e potenziati dall'eccezionale superiorità delle risorse disponibili. Conoscevano così una sorta di improvviso innalzamento sociale e vivevano in aree di privilegio impensabili in patria. Naturalmente non era la prima volta che gli europei si erano rivolti al mondo con quello spirito, già forgiato all'epoca delle scoperte tra cinque e seicento. Un simile senso di superiorità antropologica e religiosa si riprodusse ora rafforzato dalle poderose energie suscitate dalle innovazioni economiche e tecniche. I bianchi, cristiani, civilizzati borghesi si sentivano indiscutibile la superiorità del proprio mondo su ogni altro, e l'affermarono senza remore e senza distinzioni. Si tratta dunque di una sfida di civiltà che portò gli europei non tanto a confrontarsi e battersi contro una specifica civiltà quanto ad affermare in modo assoluto e indiscriminato la superiorità della propria. Nell'indifferenza di questo sguardo, nella sua cecità, la civiltà occidentale definì se stessa e circoscrisse anche l'ambito di applicazione dell'universalità dei diritti che affermava. E’ singolare ad esempio il fatto che mentre gli europei studiavano ogni sorta di meccanismo istituzionale per dare rappresentanza politica ai propri gruppi sociali primi esclusi, non sperimentarono nulla di tutto ciò nelle colonie. Una contraddizione che rimase celata finché perdurò la convinzione che fuori d'europa allignassero non persone, cittadini, ma diversità e immaturità, e dunque sudditi e servi. La democrazia alla prova Con i grandi mutamenti della seconda metà del secolo crebbe in Europa il numero delle persone che potevano essere raggiunte da un maggior benessere, ma anche mobilitate dalla politica, agitate dalla crescente instabilità e dal dinamismo del sistema. Nella prima metà del secolo il ceto borghese aveva guadagnato la centralità sociale della quale abbiamo già parlato, conquistando il costituzionalismo liberale e ritagliando sua misura il diritto di voto: si trattava di elites sociali abbastanza omogenee, ed era il meccanismo del sistema notabilare, basato cioè su persone notabili socialmente eminenti la cui funzione direttiva era naturalmente riconosciuta da tutti. Già nel 1848 si era però delineata una situazione diversa nella quale il suffragio universale mobilitava su un piano di parità la totalità della popolazione maschile adulta, ceti popolari compresi. Questa universale coralità enfatizzava gli elementi rituali e simbolici che sono presenti sempre nel voto politico: il voto diventava un periodico rito di fondazione, una riaffermazione della sovranità nazional popolare e della sua onnipotenza, festa collettiva e culto laico della nazione. Si scopriva che con il suffragio universale una personalità forte e carismatica poteva stabilire con le masse un rapporto diretto, emotivo, che scavalcava gli istituti costituzionali nati per limitare il potere assoluto dei vecchi sovrani e si tramutava così in una nuova tirannia , a tirannia delle masse (Napoleone). Il suffragio universale, i grandi numeri, erano dunque temuti dalla sinistra quando ci si riferiva a masse contadine e non alfabetizzate, legate a rapporti di deferenza verso i padroni o verso la chiesa, e dunque possibili armate di eserciti reazionari, ed erano tenuti dalla destra che invece pensava ai nuovi gruppi operai e artigiani politicizzati mossi da rivendicazioni radicali. In effetti la crescita operaia fu accompagnata da una forte conflittualità alimentata dall'estendersi di sindacati e dell'evolversi della legislazione liberale che ne permetteva la formazione e le tecniche di lotta. Benché si profilasse la paventata lotta di classe, ed anche al fine di prevenirla, in quegli stessi decenni tra fine 800 e i primi del 900, i governi europei, anche se scossi da fermenti e da crisi, non scelsero le vie della repressione della lotta sociale. Anzi, alla svolta del secolo imboccarono la via democratica. I due percorsi paralleli del riformismo borghese che abbiamo già indicato, consentire l'autodifesa nel mondo del lavoro e intervenire per legge ad attenuare gli squilibri sociali indotti dallo sviluppo, furono seguiti entrambi dei vari paesi europei. Iniziava poi anche la lunga avventura dell'assistenza sanitaria. Accanto a questi nacque anche un'altro tipo di intervento pubblico, inteso a favorire e a sostenere la previdenza. Le prime iniziative in tal senso furono prese da Napoleone III in Francia, con la creazione di apposite casse nazionali di assicurazione in caso di morte e di infortuni sul lavoro. Ma fu soprattutto la Germania di bismarck a imboccare decisamente questa strada: a partire dal 1883 fu varato in Germania un sistema di assicurazioni obbligatorie in caso di malattia, poi di infortuni, quindi di vecchiaia e di invalidità. Non è privo di significato il fatto che alcune riforme sociali del periodo fossero attuate da governi conservatori o autoritari. Qualcuno parlò di monarchia sociale o di socialismo di Stato. Ma tutto ciò non evitò che proprio in Germania si costituisse il più forte partito socialista europeo di orientamento marxista. In tutta Europa del resto la fine del secolo vide rafforzarsi il movimento socialista e sindacale. Ma per quanto il patto sociale inaugurato da bismarck non arrestasse la conflittualità di classe, e si risolvesse in questo senso in un fallimento, il principio dell'obbligatorietà della tutela sociale si diffuse anche in altri paesi e si estese gradualmente a nuovi gruppi occupazionali. Così ad esempio in Italia nel 1898 fu varata una legge che rendeva obbligatoria l'assicurazione contro gli infortuni sul lavoro e introduceva il principio della responsabilità del datore di lavoro. L'idea che fosse tutelato dalla legge un rischio professionale oggettivo, prevalente sul rapporto contrattuale che intercorreva tra lavoratore e datore di lavoro, ovvero che esistesse un diritto non solo al salario ma anche alla tutela da alcuni rischi professionali, evidentemente sanciva il declino della concezione meramente privatistica ispirata alla pura logica del mercato. Di fatto l'applicazione delle nuove norme rimaneva assai limitata e certo non eliminava il conflitto di fondo che attraversava il mondo del lavoro. Preparava però il terreno per nuove convergenze tra i governi borghesi e quella parte del movimento socialista che era più incline a rivedere la dottrina classista e a collaborare alle riforme. Su questa via si sarebbero incamminati molti governi agli inizi del 900, quando in vari paesi giunse a maturazione una più stretta collaborazione fra socialisti riformisti e liberali. Possiamo dunque dire che tra gli anni 80 dell'Ottocento e la prima guerra mondiale si era aperto un ciclo di democrazia sociale che sembrava aver soppiantato l'originale idea liberale della libertà come condizione di partenza, e adottato l'idea sociale che attribuiva ai governi il compito di garantire le condizioni di arrivo, intervenendo attivamente nell'economia. Nel campo borghese non tutti accettavano di buon grado il dialogo con le rivendicazioni operaie, molti anzi denunciavano nella violenza operaia una criminalità di tipo nuovo non individuale, ma collettiva. Si andò allora affermando l'idea che la massa, la folla, non andasse considerata come aggregato di singoli individui, ma avesse dinamiche proprie nelle quali la razionalità che guidava i singoli suoi comportamenti andava persa, lasciando spazio a comportamenti dominati dai sentimenti e dalle emozioni. C'era chi sosteneva che l'individuo che fa parte di una folla perdesse ogni capacità di discernimento, diventasse un automa e regredisse ad una condizione primitiva. Si tenga anche presente che secondo questi autori la folla in quanto dominata dall'irrazionale aveva tratti femminili e la crescente partecipazione delle donne alla politica accentuava questa impressione. Con tutta evidenza queste posizioni oltre a testimoniare della crescente paura nei confronti della violenza delle folle, e di quelle operaie in particolare, contenevano una forte carica antiegualitaria e quindi antidemocratica. Si formulò anche una teoria delle elites, secondo la quale in ogni società il potere sia economico che politico appartiene a una ristretta cerchia di persone, una minoranza organizzata che usando la forza o l'astuzia sa costruire reti di alleanze e si serve ai propri fini dell'apparato statale. Questo fenomeno si verificava anche nelle moderne democrazie, dove i grandi partiti, primo fra tutti quello socialdemocratico tedesco, erano macchine organizzative di tipo oligarchico nelle quali gli eletti controllavano i loro elettori. Tra le nuove discipline del corpo umano c'era l'eugenetica, l'insieme delle discipline e delle politiche volte a perfezionare la specie umana, potenziando e selezionando i caratteri fisici ritenuti positivi e rimuovendo quelli negativi. Il termine eugenetica fu coniato nel 1883 da un esploratore statistico inglese, Francis Galton. Qualche anno prima Charles Darwin aveva formulato la teoria dell’evoluzione delle specie animali e vegetali, che sosteneva tra le altre cose che tutti i primati, uomo compreso, derivassero da un antenato comune. Il libro L’origine delle specie pubblicato nel 1859 era destinato a provocare una rivoluzione nella cultura scientifica e nel comune sentire dell'umanità, oltre che un forte turbamento delle fedi condannato all’ergastolo e alla deportazione. Contro di lui non c’erano prove, e forse a partire da un semplice errore l’intero ordinamento militare aveva coperto il vero colpevole e aveva manipolato l’istruttoria. Ottenuta la revisione del processo, il tribunale militare condannò nuovamente Dreyfus, questa volta a dieci anni di prigione. Fu allora che Emile Zola scrisse una lettera aperta al presidente della repubblica, che fu pubblicata, dal nome J’accuse! nella quale denunciava un clima antisemita in Francia, nella nazione che vantava di essere la nazione della giustizia, della verità, dell’umanità. Un caso così clamoroso di giustizia negata minava al cuore la civiltà dei diritti di cui la Francia si faceva paladina. Zola fu condannato a un anno di carcere e fu costretto a fuggire. Ma nel 1899 Dreyfus fu graziato dal presidente della repubblica e reintegrato nei ranghi dell’esercito, e nel 1906 gli fu concessa la Legion d’onore. Il caso Dreyfuss rivela quanto radicati fossero i sentimenti antisemiti non solo nelle alte gerarchie militari, ma anche nell’opinione pubblica francese. Nella campagna contro Dreyfus risuonarono tutti i motivi fondanti dell’antisemitismo di fine ottocento: l’identificazione tra l’ebreo, il ricco, il parassita, il terrore del complotto di forze cosmopolite, nemiche della nazione, la colpevolezza atavica del popolo deicida, la negazione dell’alterità religiosa e della diversità razziale. Infine, la piena riabilitazione del capitano Dreyfus ebbe anche un altro significato, indicando la tenuta del sistema democratico francese e la riaffermazione dello stato di diritto ad opera degli stessi ordinamenti repubblicani che avevano decretato l’ingiustizia. L’affaire Dreyfus scosse in profondità la vita politica francese, ma non ne mutò gli elementi di fondo. La tensione tra gerarchie militari e politica non era risolta, ma ne uscì comunque irrobustito il blocco repubblicano, ora costruito soprattutto attorno ai radicali, che governarono negli anni successivi, senza però riuscire a trovare la personalità carismatica di cui era alla continua ricerca. Anche in Gran Bretagna, come abbiamo visto, nel corso dell’ottocento assistiamo ad un ampliamento del suffragio, che gradualmente finì con l’uniformarsi ai criteri universalistici con cui era concepito il suffragio nell’occidente europeo. Anche in Gran Bretagna l’allargamento della cittadinanza politica a più vasti strati sociali introdusse notevoli cambiamenti nell’equilibrio politico della nazione, senza però intaccarne i pilastri fondamentali costituiti dal re e dall’egemonia dei ceti aristocratici. Il dato che forse differenziava di più la vicenda inglese da quella europea del tempo è la mancanza di gravi conflitti sociali e di scontri ideologici, pur essendovi grandi distanze sociali. Per certi versi gli squilibri sociali erano anche più accentuati in Gran Bretagna che altrove in Europa: le condizioni operaie erano misere e il numero dei milionari non aveva eguali nel mondo. La Gran Bretagna aveva una classe dirigente esperta di conduzione politica ed esponenti politici di forte statura, e benché il sistema politico inglese fosse andato strutturandosi fin dal 700 sulla base di una efficiente bipolarità, a metà 800 i due partiti si contrapposero non tanto sulla chiusura verso i ceti popolari, quanto sui percorsi da seguire per governare l’apertura. La regina Vittoria svolse al meglio il ruolo politico, ma anche simbolico e carismatico che il sistema le attribuiva. La Gran Bretagna era una potenza mondiale da sempre proiettata sui mari, e come nessun altro paese d’europa le sue vicende interne erano collegate a quelle dei suoi vasti possedimenti, e della sua crescente partecipazione al traffico mondiale. Era anche legata all’europa, sulla quale esercitava un’influenza culturale, politica ed economica determinante, ma guardava all’europa da una posizione di distaccata superiorità. La Gran Bretagna era altresì il paese nel quale la politica estera influiva più che altrove sull’opinione pubblica. Lo si era visto chiaramente in occasione della guerra di Crimea. L’opinione pubblica inglese non aveva simpatia per la Turchia, ed era parimenti ostile alla Russia, ma quali che fossero le simpatie per i contendenti, di fronte alla guerra russo-turca vi fu in Gran Bretagna una mobilitazione pressoché unanime a favore dell’intervento. In questo caso si vide la necessità della classe dirigente di tener conto di un’opinione pubblica istintiva e rumorosa e di adeguare il paese ad alcune esigenze di conduzione moderna della guerra. Il popolo di città fu attraversato da un eccitato brivido antirusso, e gli inglesi, insieme ai francesi, organizzarono contro la Russia una spedizione navale di grande portata. Da quel momento lo svolgimento della guerra fu seguito con grande emozione in patria. Accadde però che le notizie che arrivavano in inghilterra, spesso ad effetto, esaltassero le qualità dei soldati, il loro coraggio ed eroismo, ma anche la disastrosa impreparazione dell’impresa. La guerra fece molte vittime, ma solo un sesto dovute a fatti d’arme, la maggior parte colpita da epidemie e morte per mancanza di cure. E inoltre l’Inghilterra non aveva particolari tradizioni di guerra terrestre, e il suo esercito aveva ancora carattere aristocratico, era cioè formato da brigate al comando di vari nobili che spesso brillavano per incapacità e mancavano di qualsiasi organizzazione. Le ripetute denunce giornalistiche trasformarono l’isteria anti-russa in polemica anti.aristocratica, dando nuova linfa alla critica radicale e all’invocazione di modi di gestione diversi: perché non affidarsi agli uomini d’affari e ai tecnici invece che ai nobili e ai politici? Ma introdurre una logica manageriale nella conduzione dell'esercito avrebbe intaccato l'intera impalcatura della gerarchia, nonché la fedeltà alla corona che rimaneva ben salda anche grazie al saggio comportamento della coppia reale. Dopo la Crimea in effetti per la prima volta la Gran Bretagna dovette affrontare la guerra terrestre moderna e pensare ad attrezzarsi di conseguenza (tipo sistema sanitario militare). Ma le campagne contro l'inefficienza non riguardarono solo la macchina militare, si estesero a tutta la pubblica amministrazione, dove in luogo del tradizionale sistema di cooptazione neopodistica fu introdotto il sistema cinese del concorso per merito attraverso esami di Stato. Anche queste erano spinte verso la democrazia, ma i liberali che governavano l’Inghilterra certamente democratici non erano. Gladstone fu una figura centrale del liberalismo vittoriano, e finì col diventare il più amato paladino degli interessi popolari e del loro inserimento nelle istituzioni britanniche.Incarnò il programma liberale dell'età medio Vittoriana: free trade e non intervento nell'economia, riduzione del peso fiscale, apertura ai ceti popolari. La maggiore riforma dell'epoca, l'allargamento del suffragio, non fu però opera dei liberali, la promosse il capo dei tories, Benjamin Disraeli. Libertà e diritti, sosteneva disraeli, erano salvaguardati non dai partiti rivoluzionari, ma dalle istituzioni e dalle tradizioni storiche. Dichiarava che le classi popolari inglesi erano per loro natura conservatrici, orgogliose di appartenere ad un grande paese imperiale. Se dunque nell'ottica dei rivoluzionari francesi, ma anche dei radical inglesi, mettiamo al centro del concetto di democrazia l'abbattimento dei rapporti di deferenza, obiettivo di Disraeli era invece di integrare più vaste masse in quel sistema. Questo era per il torismo popolare il significato di chiamare al voto: più si allarga il suffragio popolare, disse disraeli, più potente diventa l'aristocrazia naturale .Di qui la riforma elettorale del 67. Nel lungo duello tra gladstone e disraeli si confrontavano le versioni diverse di un progetto simile, l'una più proiettato sull'avventura imperiale e su una tory democracy, una democrazia deferenziale di cui disraeli divenne il simbolo, l'altro sul perfezionamento interno di un liberalismo trascendente nella democrazia, un liberalismo popolare più pragmatico e attento alle riforme. Le tensioni sociali che si erano placate in inghilterra sia cuirono invece in Irlanda. L’irlanda era un corpo separato della nazione. La sua parte meridionale era agricola, non toccata dallo sviluppo industriale, che recava i tratti del feudalesimo più crudo. Tra il 1845 e il 1848 su questa società povera si abbatté la terribile carestia della patata, centinaia di migliaia di contadini non ebbero più nulla da mangiare e la denutrizione diffuse epidemie. In tanti morirono e in tanti emigrarono verso altri luoghi. Si approfondì definitivamente il solco che divideva la minoranza di origine inglese e la massa degli irlandesi poveri. Fin dai tardi anni 50 gli aderenti alla confraternita repubblicana irlandese, i feniani, adottarono un programma di indipendenza dall'inghilterra da raggiungere mediante l'insurrezione armata. Era una situazione contrastante col modello del buon equilibrio inglese e che ha fatto parlare di colonialismo interno, come a ricordare che la potenza e l'equilibrio inglese si basavano sullo sfruttamento di un vasto impero esterno, che all'occasione poteva avere un'equivalente anche in patria. Il disegno di legge per l’autonomia irlandese fu approvato solo nel 1914. Nel 1884 in Inghilterra alcuni intellettuali fondarono la Fabian Society, una sorta di club impegnato nello studio scientifico delle trasformazioni sociali. Intanto i sindacati che nel 1881 avevano ottenuto il riconoscimento legale avevano acquistato un seguito crescente e dato vita continui e intensi conflitti del lavoro. Col nuovo secolo l'età dell'equilibrio cedette dunque a una stagione di forti conflitti. Nel 1900 i sindacati superarono i due milioni di iscritti e decisero di affiancare alle battaglie sindacali un'azione politica diretta. Si unirono perciò alla società Fabiana e ad altre organizzazioni di lavoratori creando un comitato di rappresentanti del lavoro, che nelle elezioni del 1906 fu in grado di presentare 51 candidati e di farne leggere alla camera 29: il comitato allora si trasformò in Labour Party, da allora e fino ad oggi un nuovo protagonista della politica britannica. Nonostante il carattere radicale di larghi settori del sindacalismo il labour sostenne tuttavia i liberali. Spostiamoci di nuovo in Germania. La Germania era caratterizzata da profonde differenze di tradizioni culturali, strutture economiche, vocazioni ambientali che però in questo caso non erano unificate né dalla commune rivoluzione politica, come in Francia, né da una subordinazione alla corona equilibrata da una tradizione parlamentare, come in Gran Bretagna. L'accentuato particolarismo tedesco rimaneva insuperato e gelosamente difeso, e le varie entità che componevano l’impero, mantenevano la propria identità politica. Ciascuno degli Stati aveva proprie istituzioni e prerogative più o meno estese. Di competenza imperiale erano la politica estera, l'esercito, la marina, le dogane e la moneta. Nei vari stati esistevano una o due assemblee legislative, nominate con sistemi diversi, alcuni dei quali nemmeno elettivi. A ciò si aggiunge che le varie correnti politiche locali si distinguevano oltre che per i diversi profili socio-economici delle varie regioni, anche sulla base della frattura religiosa che attraversava la Germania e che opponeva gli Stati prevalentemente cattolici, come la Baviera, a quelli protestanti, tra i quali la prussia. In questa situazione ben si comprende perché la costituzione dell'impero avesse il carattere federale che del resto la Germania ha sempre mantenuto, salvo ovviamente la parentesi nazista. Il re di prussia era di diritto imperatore, e lo assisteva un cancelliere. Il potere legislativo risiedeva in due camere: il Reichstag, la dieta imperiale, e il Bundesrat, la dieta federale. Mentre la dieta federale era una sorta di consiglio di delegati degli Stati con mandato vincolante e carattere funzionale burocratico secondo le mie tradizioni dell'assolutismo prussiano, il reichstag era invece eletto a suffragio universale. In questo modo la più tradizionale delle autocrazie si sposava con una istituzione per eccellenza democratica. Ma la grande differenza che correva tra gli ordinamenti imperiali tedeschi e quelli costituzionali europei erano il fatto che mancava in Germania l'istituto che tipicamente definisce il regime parlamentare, ovvero la fiducia delle camere al governo. Infatti il cancelliere e i suoi ministri dipendevano direttamente dall'imperatore, e il loro operato non era sottoposto ad alcun sindacato popolare. Per quattro anni Bismark governò riferendosi solo al supremo potere imperiale, senza presentare un bilancio e in contrasto con il Parlamento. L'unità nazionale raggiunta con la proclamazione dell'impero si basava dunque sul carisma dell'imperatore e del suo cancelliere e sulla potenza militare-industriale del paese. In molti campi Bismark persegueì una politica di nazionalizzazione, ad esempio nei confronti delle minoranze proibendo l'uso Tutti obiettivi falliti. Quando l’esercito italiano fu travolto ad Adua, per Crispi fu la fine, e per diverso tempo di politica coloniale non se ne parlò più. Tra il 1891 e il 1893 Crispi aveva dovuto cedere il governo a un uomo nuovo, Giovanni Giolitti. Era portatore di un programma riformatore avanzato, ma un grave scandalo bancario coinvolse Giolitti, che dovette lasciare, e tornò Crispi, con la sua politica energica e repressiva verso i moti sociali. Furono anni di tensioni e lotte sociali. Il re Umberto I venne assassinato da un anarchico, Gaetano Bresci, e il nuovo re, Vittorio Emanuele III, sembrava avere idee più aperte al cambiamento. Nel 1901 il re affidò il governo al leader della sinistra liberale, Giuseppe Zanardelli, che chiamò Giolitti al ministero dell’interno. Superata così la crisi di fine secolo e sconfitte le forze più conservatrici, anche l’Italia imboccò la via delle riforme. Il nuovo governo sconfessò la scelta repressiva. Secondo Giolitti il rafforzamento del sistema si sarebbe potuto ottenere mediante la graduale integrazione delle masse nel progetto liberale, e a questo fine era necessario sconfiggere i partiti estremi e guadagnare consenso popolare mediante leggi di riforma sociale, tutela dei diritti di libertà, ampliamento dei diritti politici e assoluta neutralità dello stato nei conflitti del lavoro. Il clima più liberale favorì una forte crescita delle organizzazioni sindacali. Il periodo seguente è chiamato età giolittiana perché dominato dalla figura di Giovanni Giolitti, che fu con qualche interruzione il presidente del consiglio dal 1903 al 1914. La politica liberale accompagnò e sostenne una fase di forte crescita dell’economia, anzi un vero decollo industriale. Crebbero la siderurgia, l’industria cotoniera, quella dello zucchero, e poi la chimica, la meccanica e soprattutto l’industria elettrica. Così l’Italia entrò nel novero dei paesi sviluppati. Anche se fortemente migliorati, gli indici dell’analfabetismo, dei consumi, della sanità, erano lontani dai livelli europei, il livello di povertà era molto alto. lo testimoniava la fortissima emigrazione. C’era un forte squilibrio tra le diverse regioni, polarizzato attorno ad un fondamentale dualismo che distingueva la parte meridionale dal resto del regno. Nel mezzogiorno soprattutto si manifestava il maggior difetto di modernità: in società prevalentemente rurali era debole l’industria e più rari i centri urbani, era bassa la produttività dell’agricoltura, forti gli squilibri sociali, diffusi la povertà, l’analfabetismo, le pessime condizioni sanitarie, insufficienti i trasporti e le vie di comunicazione. Questa era la “questione meridionale”. Contravvenendo al dogma dell’assoluta omogeneità amministrativa, furono varate leggi speciali per il Mezzogiorno, nel 1904 furono nazionalizzate le ferrovie e nel 1909 fu trasferito dai comuni allo stato l’onere dell’istruzione elementare, fino ad allora schiacciata dalla cronica carenza di risorse comunali. Sul piano politico Giolitti, come i suoi predecessori, non godendo di una solida maggioranza riformatrice, dovette continuamente contrattare le riforme con i più vari interessi, concedendo molto ai conservatori e peraltro non trovando appoggio presso i socialisti. Per la sua strategia riformatrice l’appoggio a sinistra era indispensabile. Nel 1903, al leader dei socialisti, Filippo Turati, Giolitti offrì di entrare al governo. Nel PSI i sostenitori del programma “minimo”, le riforme, prevalevano sui “massimalisti”, i sostenitori del programma massimo, cioè la rivoluzione, ma tuttavia i socialisti rifiutarono di entrare al governo, consapevoli che avrebbero perso l’appoggio della componente massimalista. L'intesa con i socialisti dunque non si rafforzò, e Giolitti, oltre ad abbandonare alcuni progetti, dovette sempre mantenersi in equilibrio tra diversi gruppi. Nell’alternarsi di brevi governi non giolittiani, nel 1906 e nel 1909, fece le sue prove una opposizione liberal-conservatrice guidata da Sidney Sonnino. L’equilibrio politico laboriosamente costruito da Giolitti giunse a rottura con il quarto governo che egli costituì nel 1911. Da un lato accentuò la vocazione riformatrice del suo programma con due leggi di sistema, l’istituzione del monopolio statale delle assicurazioni sulla vita e la concessione del suffragio universale maschile, dall’altro riprese la politica coloniale con l’occupazione della Libia e la guerra all’Impero ottomano. Le due leggi crearono dibattito, che si intrecciò con le questioni africane. Nell’intreccio delle vicende diplomatiche di inizio Novecento, attraverso le varie crisi mediterranee e il moltiplicarsi degli accordi segreti tra potenze, l’Italia aveva visto riconosciuta ormai da tutti la legittimità dei propri interessi sulla Tripolitania e sulla Cirenaica, ultimi lembi di terre non occupate dagli europei in nordafrica, e formalmente sotto l’impero ottomano. Giolitti dunque decise di perseguire questi interessi, e nel settembre del 1911 sbarcò sulle coste libiche. La risposta del governo ottomano trasformò la spedizione in una guerra italo-turca. Per anticipare ogni iniziativa internazionale sulla vicenda, che stava suscitando molte riserve, all’inizio di novembre, quando tripolitania e Cirenaica erano ben lungi dall’essere state sottomesse, Giolitti proclamò l’annessione. Un anno più tardi fu stretto un accordo col governo turco, che in sostanza accettò la sconfitta. Si era dunque trattato di una scelta pragmatica adottata da Giolitti senza entusiasmo. Anche in Italia, sia pure con minore enfasi e ritardo, si stavano muovendo le forze tipiche dell'imperialismo di fine 800: le banche erano interessate a tutelare i forti investimenti fatti in Nord Africa, ma anche nell'opinione pubblica qualcosa si muoveva. La diffusa adesione all'impresa sovrastò alle voci dissenzienti che denunciavano i costi e l’inutilità di conquistare uno scatolone di sabbia. Le correnti di sinistra del partito, i rivoluzionari massimalisti, condussero un'opposizione dura e intransigente alla guerra, e l'opposizione alla guerra fu in effetti l'occasione perché emergesse una frattura di fondo, una frattura storica non solo italiana, tra le due anime del socialismo, quella riformista e quella rivoluzionaria. E nel 1912 al Congresso del partito svoltosi a Reggio Emilia, prevalse la seconda, trascinata dal leader Benito Mussolini. L'anno successivo nell'ottobre del 1913 si svolsero le prime elezioni politiche a suffragio universale. La guerra e la vittoria della sinistra socialista avevano messo fine alla collaborazione tra Giolitti e le sinistre. Di fronte alle incognite del voto allargato fu giocoforza per i liberali cercare alleanze tra i conservatori, e fu così che i cattolici entrarono apertamente nella politica italiana. Per lungo tempo assenti, come sappiamo, dalla scena politica ufficiale a causa del divieto pontificio, il non expedit, i cattolici erano però attivi anzi sempre più attivi in alcune associazioni locali, dividendosi in diverse correnti anche fieramente contrapposte. Alcuni giovani inclinavano alla democrazia. Nella loro critica antiborghese i democratico-cristiani si trovavano più vicini al socialismo che non al liberalismo, e dei socialisti erano comunque concorrenti sul terreno sindacale. Le leghe bianche, sindacati cattolici, ebbero notevoli diffusione. Ma la reazione antimodernista del pontefice Pio X colpì anche il movimento democratico. Prevalse dunque tra i cattolici un diverso orientamento, quello di chi in linea di continuità con i cattolici liberali sentiva più forte l'ostilità verso la sfida laica e socialista di quella verso lo stato liberale borghese, del quale dunque era naturale alleato nell'opposizione alla sfida socialista. Nel 1904 furono eletti alla camera due esponenti cattolici moderati .Di questo orientamento detto Clerico-moderato e favorito dal pontefice , fu esponente il Conte Vincenzo ottorino Gentiloni. Il non expedit non fu revocato, ma di volta in volta sospeso, cosicché di nuovo nel 1909 furono presentate delle candidature di cattolici. La guerra di Libia e il suffragio universale, ben visti entrambi dai cattolici, e poi la scelta massimalista dei socialisti, enfatizzarono la convergenza tra liberali giolittiani e clerico moderati. Con l'avallo del pontefice e il gradimento di Giolitti, Gentiloni invitò i cattolici a votare per quei candidati liberali che avessero sottoscritto 7 punti che li impegnavano ad osteggiare ogni misura contraria agli interessi cattolici, alle congregazioni religiose, alle scuole private, all'insegnamento della religione e alla sacralità della famiglia. All'elezione del 1913, le prime a suffragio universale, questa serie di accordi locali complessivamente noti come patto Gentiloni portarono alla camera oltre 200 deputati gentiloniani. I socialisti avevano riscosso un buon successo (115 seggi), la maggioranza liberale era restata maggioranza ottenendo 304 seggi, ma tra di loro ben 228 avevano sottoscritto gli accordi con i cattolici, i quali avevano anche eletto 20 deputati propri. Il profilo del giolittismo ne uscì radicalmente mutato. Nel 1914 Giolitti lasciò la guida del governo a Salandra, con Sonnino al ministero degli esteri. Il nazionalismo integrale era la tendenza a fare dell’appello ai valori e agli interessi nazionali lo strumento di mobilitazione delle masse. Oltre che verso la politica estera, le pulsioni e le emozioni così suscitate si dirigevano apertamente verso la guerra. L’idea della guerra affascinava. All’irruenza verbale si accompagnava poi una diffusa pratica di violenza negli aspri conflitti politici, ma anche sociali e sindacali che caratterizzarono quel tempo. Conta poco il fatto che queste correnti estreme del sindacalismo e del socialismo si contrapponessero al nazionalismo aggressivo, e sostenessero un internazionalismo proletario: quando la guerra scoppiò, della solidarietà internazionalista rimase ben poco. La germania era forse il paese europeo in cui erano maggiormente diffuse le inclinazioni marziali, dove era più sentito il nazionalismo integrale. Aderivano allo spirito originario della nazione germanica, ben lontano, come sappiamo, dagli ideali liberali, e incline a una vocazione guerriera. Ma la Gran Bretagna non era da meno. A differenza della Germania rimaneva ben salda entro l'alveo del costituzionalismo liberale, così che le pulsioni militari imperiali non conobbero gli sbocchi di tipo antiparlamentari anticostituzionali conosciuti da altri paesi. Ma la foga con la quale il largo pubblico seguiva la politica estera era altrettanto e forse maggiormente accesa. Anche se il paese controllava ancora quasi la metà degli investimenti finanziari mondiali e varava 1 / 3 delle navi da guerra del globo, si percepiva che stava perdendo la sua posizione di assoluto dominio a vantaggio di altre potenze, quella tedesca in particolare. La crescita dell'economia industriale si concentrava nell'industria pesante e di questa gli armamenti erano il prodotto più significativo più conveniente e più dinamico. Tra il 1890 e il 1900 le spese militari delle maggiori potenze raddoppiarono e di nuovo raddoppiarono nel decennio successivo. Sappiamo che il dominio dei mari era stato fino ad allora il tratto distintivo della potenza inglese e della sua flotta, ma rispetto ai tempi gloriosi dei velieri britannici, ora le navi erano un prodotto della grande industria siderurgica e meccanica. Da cui non solo i programmi navali americani ma anche quelli tedeschi, che erano tanto più significativi in quanto la Germania era una potenza terrestre e intendeva sfidare la Gran Bretagna sul suo terreno quasi a simboleggiare che ormai i secondi arrivati avevano sopravanzato il primo paese industriale. I governi erano consapevoli dei rischi di una guerra generalizzata e fecero qualche tentativo per prevenirla. Nel solco di precedenti iniziative internazionali per il mantenimento della pace, la regolamentazione del diritto bellico e la riduzione degli armamenti, per iniziativa dello zar russo nel 1907 si svolse all'Aia in Olanda una nuova conferenza internazionale dedicata questa volta agli armamenti navali e alla proposta russa di limitazione controllata. Ma la Germania rifiutò il piano russo sostenendo che solo una preventiva fiducia tra le parti avrebbe potuto avviare il disarmo. La Russia legata alla Germania e l'Austria Ungheria dal trattato dei tre imperatori si era gradualmente avvicinata alla Francia in un legame rafforzato dallo sviluppo industriale che largamente contava sui prestiti francesi. Intanto una cordiale intesa sulle questioni mediterranee era stata raggiunta nel 1904 tra Francia e Gran Bretagna, e l'accordo anglo russo e i legami stretti tra russi e Francia trasformarono l’accordo in una triplice intesa tra russia, Gran Bretagna e Francia. La Germania era così accerchiata: si stava realizzando proprio quell'intesa tra i suoi avversari orientali e occidentali che bismarck aveva sempre cercato di impedire con le sue arti diplomatiche. Sappiamo d'altra parte che l'austria-Ungheria, la Germania e l'Italia erano legate fin dal 1882 in un'alleanza difensiva. I Balcani erano la regione dove l'intero sistema era sottoposto a maggior tensione. Ne conosciamo le componenti esplosive: la pressione russa verso gli stretti e il ribollire dei
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