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Riassunto sintetico Psicologia delle Organizzazioni, Schemi e mappe concettuali di Psicologia del Lavoro

Se dovete fare l'orale di psicologia del lavoro B e avete poco tempo disponibile per preparare l'esame, o in alternativa se dovete fare un ripasso finale questo documento fa per voi. Riassume in maniera sintetica e discorsiva i singoli capitoli del libro. (Da studiare insieme al riassunto di Psicologia del Lavoro)

Tipologia: Schemi e mappe concettuali

2020/2021

Caricato il 09/08/2022

SarahNigro
SarahNigro 🇮🇹

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Scarica Riassunto sintetico Psicologia delle Organizzazioni e più Schemi e mappe concettuali in PDF di Psicologia del Lavoro solo su Docsity! PSICOLOGIA DELLE ORGANIZZAZIONI 1. SVILUPPO DELLE ORGANIZZAZIONI L’esistenza delle organizzazioni è da sempre parte del nostro background, ma viene percepita quasi sempre per difetto, quando qualcosa non funziona. Il termine organizzazione può essere utilizzato in doppia accezione, in riferimento alle varie parti di un ente dinamicamente connesse o coordinate tra loro, o per denotare una categoria di enti sociali fondati sulla divisione del lavoro delle competenze. La psicologia dell’organizzazione è costituita dall’orientamento del lavoro delle persone e all’indagine psicologica di lavoro, individuale o di gruppo. Negli ultimi cent’anni si sono sviluppate teorie descrittive dei comportamenti dei membri dell’organizzazione, il cui obiettivo è l’analisi e la descrizione delle azioni e delle motivazioni dei singoli. Quello che si cerca di fare, ad oggi, è riuscire ad interpretare la dimensione fenomenica-relazionale, analizzando il contesto e le dimensione di sistema che coinvolgono gli attori organizzativi e il ricercatore- consulente che coordina l’intervento. Nello scenario contemporaneo sempre più diffusi è il fenomeno dell’atipicità contrattuale, che porta l’individuo non avere una livello di sicurezza adeguato garantito, portando così ad una condizione di vita precaria, in quanto viene percepita la propria condizione lavorativa come temporanea e instabile, con conseguenti difficoltà a progettare la vita. La sindrome della precarietà di vita comporta disinteresse per il lavoro attuale, sfiducia nel proprio lavoro professionale e conseguenze emotive nella vita quotidiana dell’individuo. Di fronte ad un problema la reazione è quella di mettere in atto strategie evitanti, ma anche per le organizzazione la gestione non è semplice in quanto sono sempre minacciate dall’instabilità del mercato e da un livello alto di competitività che mette a dura prova sia la resilienza umana che quella di contesto. Le organizzazioni devono quindi accedere a quello che viene definito capitale sociale, dato dal patrimonio in termini di relazioni di fiducia, di relazioni interpersonali consolidate e funzionali agli obiettivi. Karl Weck interpreta questi percorsi mediante il suo approccio all’organizzazione tramite il Sense making e le minime strutture di senso della conversazione, egli propone di interpretare tutti quelli che sono gli eventi istituzionali latenti, per ricostruire quelli che lui definisce ‘vocabolari’ dell’organizzazione, che descrivono fatti istituzionali che altrimenti rimarrebbero latenti (es: day hospital). Le organizzazioni vivono nell’incertezza del cambiamento strutturale, devono affrontare quella che è l’assoluta volatilità della domanda da parte dei clienti, rischiando di arrivare alla decadenza se non sanno rispondere con prontezza alle necessità del mercato, ma anche svilupparsi non sempre risulta facile, bisogna infatti stare attenti ad avere uno sviluppo sostenibile, utilizzando una risorsa senza intaccarne la sua naturale capacita di rigenerarsi, in quanto ad oggi si è passato ad una fase dove lo sviluppo viene valutare anche in base a diverse variabili sociali. 2. COMUNICARE E ORGANIZZARE Un’organizzazione altro non è che una rete di comunicazioni, è quindi rilevante la fisionomia di quelle che sono le reti comunicative, e le diverse chiavi di letture che può avere, che riguardano i partecipanti alla comunicazione, chi comunica con chi, se in prima persona, in terza o mediante circuiti misti, la sua finalità e soprattuto gli strumenti impiegati, che possono essere diretti o indiretti, rispettivamente basati sul rapporto interpersonale o su mezzi e tecnologie. Alle attività comunicative possono partecipare le singole persone, gli enti, interni o esterni, e i pubblici esterni rilevati in maniera circoscritta secondo qualche criterio, in tutto possiamo individuare sette principali circuiti caratteristiche della comunicazione verbale, nominati dalla A alla G, con focus sui canali C, D, ed F. Il circuito C è quello che possiamo denominare di marketing, a partire da un ente vero i singoli; questo tipo di comunicazione può avvenire in entrata o in uscite. Per quanto riguarda la comunicazione di raccordo in ingresso è importante adempiere alle funzioni di contenimento, accoglienza e contrattuale, che puntano rispettivamente a prefigurare o anticipare le richieste del cliente, prestando attenzione all’utenza mediante l’analisi della domanda. La seconda e la terza funzione sono tra loro correlate in quanto una buona accoglienza, che tiene conto dei materiali fondamenti, degli spazi e degli arredi, spesso porta alla stipulazione di un contratto. Da qui ne derivano quelle che sono le comunicazioni in uscita, ovvero la possibilità di mantenere nel tempo il rapporto con il cliente, magari mediante il Costume Related Management, che si occupa di accumulare 1 sapere sul cliente come strumento di contatto. In generale la comunicazione di raccordo ha come intento la fidelizzazione della clientela, massimizzando la qualità della relazione con il cliente. Il circuito D corrisponde alla comunicazione interna, normalmente monodirezionale. I principali strumenti della comunicazione interna sono il sistema base, che rimanda all’appartenenza all’organizzazione, e quindi far parte di una grande famiglia, il sistema della motivazione gerarchica, che mediante la prossimità esprime quelli che sono i canali privilegiati e diretti esclusivamente ai pochi, e quindi l’appartenenza alla coalizione dominante, di quella professionale attua a promuovere le prestazioni e la capacita di fare e per la circolazione dell’innovazione, legata alla rapidità nel decidere e nell’adeguarsi ai cambianti, in quanto la domanda varia di continuo, come visto in precedenza. Il circuito F è rappresentato dalla comunicazione esterna, finalizzata a promuovere sul mercato i prodotti dell’organizzazione per sostenere l’attività, e quindi rivolta essenzialmente al cliente. Risulta essere un’attività altamente specialistica e strategica, in quanto diventa cruciale saper modulare l’offerta in funzione delle caratteristiche degli interlocutori, proponendo quella che è un’esperienza, piuttosto che un prodotto, promuovendo l’azienda e la sua immagine mediante i suoi simboli. 3. ORGANIZZAZIONE COME CULTURA L’approccio culturale si accosta a quello che era il paradigma razionalista degli anni ’70, solo nel decennio successivo, riportando l’attenzione alla cultura, alla necessità di metodi qualitativi e non più quantitativi, in quanto era impellente il bisogno di rispettare la proprio soggettività, ed essere coinvolti emozionalmente ed espressivamente nel proprio lavoro. Selznick e successivamente Smircich avevano già parlato di cultura in riferimento alle organizzazioni. Il primo parlava di cultura come una duplice dimensione organizzativa e istituzionale, per raggiungere obiettivi ma anche impregnata di valori; mentre Smircich la intendeva in tre modi differenti, come variabile indipendente all’organizzazione, e quindi costruita a partire dal contesto e poi fatta propria, come variabile dipendente interna (riti, cerimonie, coesione…) e infine come metafora di base di ciò che è un’organizzazione, che è cultura. La cultura organizzativa è tutto quell’insieme di significati che racchiudono assunti, valori e credenze che un gruppo ha inventato e scoperto, e sono visibili nei comportamenti, nei linguaggi verbali. Interiorizzare quella che è la cultura organizzativa permette ai nuovi arrivati di orientarsi all’interno dell’organizzazione, a partire da modelli cognitivi, emotivi e affettivi creati dalla cultura. All’interno di un’organizzazione possono convivere più culture, a seconda che siano di sostegno, opposte o ortogonali. Martin nel 2002 distingue tre paradigmi interpretativi, quello dell’integrazione, della differenziazione e della frammentazione, che rispettivamente generano consenso diffuso, mancanza di consenso mediante le sottoculture, o dubbi circa l’esistenza della cultura stessa I contenuti fondamentali della cultura organizzativa sono divisi in categorie: Logos, Ethos, Pathos, Aisthesis, Genus, Polis e Methodos, e trovano espressioni mediante il linguaggio, i miti, i riti e le cerimonie, gli artefatti (prodotti tangibili) 4. CONOSCERE A APPRENDERE Nel capitolo si parla della conoscenza come rimando ai saperi pratici, una conoscenza che è all’interno di delle dimensioni di cornice. La prima dimensione di cornice riguarda la mutazione continua degli scenari contemporanei, che viene riassunti da qualche autore come una quarta rivoluzione industriale, e possiamo vedere come un cambiamento di fatto introdotto nel panorama lavorativo. La seconda dimensione di cornice riguarda l’evoluzione delle caratteristiche di professionalità, infatti ai nuovi lavoratori viene richiesto una certa disposizione morfogenetica, orientata a far emergere nuovi modi di pensare ed agire. La terza dimensione riguarda l’esperienza degli attori organizzativi e la sollecitazione della loro soggettività, che può essere considerata come un intreccio dinamico di aspetti con cui le persone costruiscono la propria identità e si mettono in relazione con i propri contesti. Queste tre dimensioni possono essere meglio comprende grazie alla WOP, Work and Organization Psychology, la quale aiuta a comprendere meglio lo sviluppo delle culture organizzative. 2 cultura opera a livelli superiori (ideologico); possiamo quindi dire che mentre il clima è l’insieme dei comportamenti, la cultura rappresenta il perché. Ad oggi non si parla più di clima ma di climi, in quanto viene considerato come un costrutto multidimensionale, complesso e al quale partecipano una pluralità di cause ed effetti. Il clima può essere valutato mediante strumenti tailor-made, ovvero specifici ma consentiti solo per analisi intra-organizzative, o ready-made, schemi già pronti utili per la ricerca e scientificamente garantiti. Un intervento di analisi del clima può presentare elementi positivi come non, in generale possiamo dire che risulterà tanto più favorevole quanto più l’intervento sarà progettato ed eseguito in maniera corretta, i rischi che ne derivano sono quelli di scatenare tensioni, creare resistenze o anche frustrazione e sfiducia se le aspettative di miglioramento vengono deluse. Per quanto riguarda la tempistica non esiste un tempo migliore, l’intervento può avvenire nelle fasi di stabilità e di normale funzionamento o quando si sta attraversando un periodo di crisi, aldilà del tempo, la scelta spetta ovviamente al management. Possiamo dividere gli step in 14, ma in generale la linea che si andrà a seguire sarà quella di individuare un gruppo di lavoro e definire gli obiettivi, si andrà ad eseguire un’analisi preliminare per poi definire nuovamente ma in maniera più dettagliata gli obiettivi, scegliendo le metodologie e gli strumenti, per poi verificare le funzionalità. A questo punto verranno raccolti i dati ed elaborati, per poi stendere il report da mostrare in primo luogo ai responsabili e solo successivamente ai partecipanti, infine si stenderà un report finale, che porterà alla proposta di cambiamento e al confronto con i primi dati raccolti. 8. GRUPPI DI LAVORO Sappiamo che il gruppo è qualcosa di più della somma dei suoi membri, ha una struttura propria, delle relazioni particolari con gli altri gruppi e una sua essenza, può quindi essere considerato come un soggetto sociale. Il suo punto chiave è l’interdipendenza tra i componenti, quel processo mediante il quale un cambiamento di stato da una parte del gruppo va a influenzare lo stato di tutte le altre parti. È proprio l’interdipendenza che va a trasformare il gruppo da interazione a integrazione, cioè avere consapevolezza da parte dei membri di quanto dipendono gli uni dagli altri. La collaborazione di un gruppo è resa possibile dalla negoziazione continua, dalla fiducia e dalla condivisione delle decisione prese, ed è data da due dimensioni, quella del fare insieme e quella dello stare insieme. I gruppi possono essere formali o informali, categoria a parte sono invece le task force, e secondo Sundstrom possiamo distinguere tra sei diversi tipi di gruppo: action and performing, di consulenza, di gestione, di produzione, gruppi project e service. I fattori essenziali per l’essenza di un gruppo sono senz’altro l’avere un obiettivo condiviso, che giustifica e da senso all’esistenza di un gruppo, e che dovrebbe essere SMART, specifico, misurabile, attuabile, orientato al risultato e legato al tempo. Secondo fattore è il metodo, il modo di funzionamento del gruppo, tutte quelle norme operative che lo governan, poi si ha il ruolo, che deve esser determinato per ogni membro, la comunicazione, il clima, preferibilmente positivo, lo sviluppo e la leadership, che ha il ruolo di garantire la sopravvivenza e la crescita del gruppo stesso. Secondo Tuckman un gruppo segue delle fasi per precise, si forma, emergono le differenze personali che fanno in modo che ogni membro si inserisca nella struttura di potere in una determinata posizione, arrivando quindi ad una fase di determinazione dei ruoli, i compiti vengono poi portati avanti fino a che l’obiettivo non viene raggiunto e il gruppo si disgrega. Questo ciclo può chiaramente essere ripetuto, e bisogna inoltre ricordare che potrebbe disgregarsi in una qualunque delle fasi, per diverse motivazioni, che siano le troppe differenze individuali, o il venire a meno dei ruoli nel tempo. Le dinamiche di gruppo vanno rintracciate nella duplice fatica psicologica legata al fare e alla relazione con gli altri, l’esigenza di limitare questa fatica può portare il gruppo a funzionare in risparmio energetico, che però è solo un’apparenza e metta a rischio la qualità e l’efficacia, alcuni esempi sono la diffusione della responsabilità, il social loafing, il bystanding, la giustificazione morale, il confronto vantaggioso… Quando si parla di efficacia all’interno del gruppo facciamo riferimento alla performance, che porta al raggiungimento di un risultato atteso, e alla vitalità, che corrisponde alla soddisfazione dei membri nel gruppo. 5 Per l’efficacia sono importanti i fattori di processo e affettivi, che si rifanno rispettivamente alle norme, ai ruoli e a tutti quei valori affettivi quali coesione, cooperazione, fiducia. La composizione del gruppo, invece, è determinata dal team tenure, cioè quanto tempo i membri hanno fatto parte di uno stesso gruppo, dalle personalità presenti nel gruppo e dalla diversità di questo, questi possono essere punti di forza o di debolezza a seconda della loro gestione. Un gruppo lavora bene quando determinati aspetti sono ben specificati, quali l’obiettivo, che porta il gruppo a convergere, nel momento in cui l’obiettivo assume la valenza di nostro, e non di mio, il metodo, le risorse e i vincoli e infine il coordinamento. Negli ultimi anni si sono andati a definire nuove tipologie di gruppi, quali ad esempio i gruppo autogestiti, che hanno come riferimento un leader esterno, i gruppi virtuali, e i gruppi transculturali. 9. LA LEADERSHIP Per la leadership è centrale la relazione con i follower, in quanto il suo significato è quello di aver seguito e conseguito dei risultati, a differenza del management, la leadership è una relazione di influenza tesa a realizzare significativi cambiamento, e non una relazione di autorità finalizzata a produrre o vedere beni o servizi. Le prime ricerche sulla leadership riguardarono teorie come quella del grande uomo, la credenza generale era quella che ci fossero determinare caratteristiche che rendevano le persone leader naturali, idea che si è superata, lasciando il posto all’idea che i tratti di una persona dovevano essere posti in relazione alla situazione del momento. Lewin in primis individuò tre tipi di leadership: autocratico, centrato sull’autorità in visione centrale che portava a risultati migliori in presenza del leader, ma anche a sentimenti di odio verso di esso, a differenza della leadership democratica, che richiamava risultati e emozioni positivi; un terzo stile venne definito laissez-faire, riferito ad una tendenza passiva del leader. La prospettiva di Lewin è stata confermata e approfondita dall’università del Michigan che riconosce due tipi di leadership, centrata sul lavoro, con enfasi sugli obiettivi, e centrata sulla persona. Il tema degli stili di leadership diviene centrale negli anni 50-60 con Tattenbaum e Schmidt, i quali vedevano alla leadership come posta in un continuum tra il capo e i suoi subordinati, e orienta il suo stile in base al manager, ai collaboratori e alla situazione. Un contributo successivo è quello di Blake e Mouton sugli stili di direzione, secondo il loro modello la scelta del modello di leadership oscilla tra due dimensioni, quella dell’interesse per la produzione e per le persone, da qui ne derivano cinque principali stili di leadership: debole, manipolatore, amichevole, moderato e della squadra. Ulteriore modello importante è quello di Fiedler, il quale riteneva che lo stile di leadership fosse solo in parte modulabile, e potesse essere distinto in due tendenze motivazionali legate al compito o alle relazione, l’autore mise a punto un questionario per determinare due tipi di stili, definendoli in base alla struttura del compito, al potere di posizione e alla relazione tra leader e follower. Il lavoro di Hersey e Banchard prendeva in considerazione la variabilità della maturità dei collaboratori nell’affrontare un compito assegnato, il leader poteva quindi scegliere se prescrivere, vendere, coinvolgere o delegare un compito. Modello path goal: caratteristiche dei lavori e del contesto influenzano lo stile più adeguato di leadership da utilizzare, che può quindi essere direttivo, di sostegno, partecipativo o realizzativo. Da qui ne deriva la leader-member exchange, ovvero la formazione di una diade verticale tra leader e collaboratori che assumerà una certa caratteristica a seconda dei tipi di scambio tra questi, scambi che potranno quindi essere in-group, caratterizzate da condivisione e reciprocità o outgroup, nel quale il leader controllerà i suoi follower attraverso richieste formali. In generale l’efficacia di questa relazione è legata al supporto organizzato percepito dai leader stessi. Secondo Burns possiamo iniziare a parlare di leader transformazionale, considerando quelle che l’autore definisce come le considerazione delle 4 I: individuale, intellettuale, ispirazione e idealizzante. Da questa prospettiva si è passati a parlare di leadership empowering, l’empowering è l’obiettivo di fornire una maggiore assunzione di responsabilità da parte dei collaboratori, attraverso la condivisione reale del potere, i leader inoltre si impegna a non nascondere i suoi punti di debolezza, ad agire in base ai propri valori personali, a promuovere fiducia nei collaboratori, rendendo sempre esplicite le ragioni delle azioni. Secondo alcune teorie possiamo ritrovare un lato oscuro dei comportamenti di leadership, che si basa sulle prime esperienze infantili di una soggetto, la relazione follower-leader sarà quindi un transfer delle relazione 6 con le figure parentali, la leadership dovrebbe quindi esprimere la capacità di gestire questa tossicità per mezzo di un continuo esercizio di equilibrio. 10. LA FOLLOWERSHIP Il termine followership deriva dal verso to follow, che con l’aggiunta del suffisso ship rimanda anche ad un processo, un movimento volontario di qualcuno che va dove qualcun’altra è andato o dove gli viene richiesto di andare. Il legame tra leader e follower ha alla base un rapporto reciproco e complementare, diverso da quello del subordinato, un’asimmetria nella relazione e la presenza di azioni mudiate verso un obiettivo che è comune tra chi guida e chi segue. Shamir, ruolo dei follower Cinque categorie assegnate ai follower: Destinatari dell’influenza, teorie tradizionali, follower passivi con attenzione rivolta al leader Moderatori dell’impatto del leader, la teoria vede nelle caratteristiche dei follower una possibile influenza sul leader Sostituti nella leadership, i follower possono fare a meno dei leader, questo perché le loro caratteristiche stesse sono sostituti della leadership Costruttori della leadership, mettono in discussione la distinzione tra leader e follower, definendola come generata dai follower, che idealizzano il loro leader magari in periodi di crisi Leader, a rotazione tra i vari membri Si sono identificate diverse tipologie, a seconda che iamo comportamentali descrittive, prescrittive o situazionali Descrittive: secondo burns I follower si dividono in passivi, partecipativi e close follower, kelly invece li posiziona lungo due continuum, attività/passivita e indipendenza dipendenza, dall’incrocio dei due autori si definiscono cinque profili di follower: passivo, alienato, conformista, pragmatico ed effettivo Kellerman invece propone un modello fondato su concetto di engagement, coinvolgimento, i follower, divisi in cinque categorie si posizionano lungo un continuum che va da un profilo assolutamente distaccato a uno pronto a morire per la causa, con posizionamenti centrali quali bystanders, partecipanti e attivisti. Ultimo dei modelli comportamentali è quello di Potter, rosenbach e Pittman che dividono i follower secondo il loro grado di iniziativa, la quale si esplica sotto due versanti, l’iniziativa sulla performance, che si rifà alla prestazione fornita e quella riferita alla relazione; da qui ne derivano quattro tipi di followership: subordinati, politici, contributori e partner Comportamentali descrittive: Chaleff pone l’accento sul coraggio, il coraggio di supportare il leader, lavorando duramente e assumendosi carichi di lavoro, e il coraggio di sfidare il leader, in maniera costruttiva, ponendo un obiettivo di miglioramento del gruppo. L’autore propone anche uno strumento di autovalutazione nel quale è possibile collocarsi in 4 differenti profili, a secondo del valore del coraggio verso la sfida o il supporto: resource, individualista, implementare, e partner Teorie situazionali: descrive la followership in relazione alle caratteristiche del contesto in cui la relazione leder-follower prende forma. Le tre varianti che sono comprese nelle descrizioni situazionali sono l’asimmetria di potere, che può rivelarsi più o meno equilibrata, il potere infatti va diviso tra i due elementi della relazioni, mantenendo sempre un certo equilibrio nonostante la dinamica asimmetrica di base; la condivisione di un obiettivo comune, che alza il livello di coinvolgimento, e la possibilità dei follower di esercitare un’influenza sul leader, influenza che può essere vista come scambio sociale. Il leader tende ad amare chi lo ama, questo vuol dire che follower adulatori potrebbero essere più ascoltati di altri, e rinforzare eventuali tendenze narcisistiche del capo, con ovvie conseguenze negative per il gruppo di lavoro e più in generale per l’organizzazione. Per quanto riguarda le ricerche sul campo, si possono fare ricerche qualitative, trasversali che puntano a individuare dimensioni attorno alle quali si costruisce l’idea di una buona o cattiva followership, o quantitative, che puntano a individuare quelli che potrebbero essere gli antecedenti di uno stile di followership efficace. Kelly propone un questionario formato da 20 item su scala likert, che è stato poi validato in italiano e proposto in versione breve. 7 Ulteriori trappole nel processo decisionale possono essere l’intensificazione dell’impegno, al fine di difendere la propria immagine, o magari perché vengono sottovalutati i rischi o sopravvalutate le probabilità di successo e infine per un fenomeno detto paraocchi percettivo. Anche i fattori organizzativi, concettuali e in generale le caratteristiche del progetto possono essere influenze, negative o positive, sul processo decisionale Le decisioni di gruppo, a differenza di quelle individuali, possono avere vantaggi e svantaggi. Vantaggi: qualità delle decisione migliore in quanto più persone danno prospettive diverse e numerosi punti di vista, in più in un gruppo è presente sostegno e motivazione tra i suoi partecipanti e si ha la possibilità di gestire il tempo al meglio, creando sottogruppi e accelerando il processo Svantaggi: in un gruppo, però, ci possono essere conflitti, situazioni di dominio e monopolizzazione della situazione da parte di un individuo, situazioni di conformismo e in generale dispersioni di risorse e tempo Shein, a tal proposito, suggerisce sei differenti modalità di raggiungimento di una decisione da parte di un gruppo: per unanimità, per consenso (condizione migliore), della maggioranza o della minoranza, per autorità o per mancanza di risposta (male minore) Si riconoscono diverse tecniche portano a facilitare la presa di decisione in gruppo quali, ad esempio, il brain storming, o in alternativa il gruppo nominale, il gruppo Delphi, l’avvocato del diavolo e dell’angelo Si riconosco anche delle disfunzioni all’interno di un gruppo, come il conformismo, che può essere rilevato sottoforma di influenza infrmazionale, normativa o obbedienza alle autorità, si può presentare poi il pensiero di gruppo e il rischio aggiunto. Per la presa in carico di decisioni difficili e complesse Klein ha coniato il termine naturalistic decision making, a cui si fa riferimento quando si è interessanti a offrire buona descrizioni dei processi osservati piuttosto che a definire modelli capaci di generalizzare principi, questo punto di vista si rifà alla razionalità ecologica, secondo cui le persone, sfruttando semplicemente la loro esperienza, sono in grado di prendere decisioni a partire da meccanismi mentali. In riferimento all’etica della decisione, Teske e Hallam suggeriscono un ordine attraverso il quale le organizzazioni dovrebbero prendere decisioni, a partire dal contesto economico finanziario, per poi passare a quello legale, fino al contesto etico e morale e infine si va a guardare il modello di leadership o management dell’organizzazione, dimensione nella quale i decisori valutano se la cultura dell’org ha le risorse per portare a termine la decisione presa. 13. CONFLITTO NELLE ORGANIZZAZIONI Oggi sembra essere sempre più diffusa la paura di essere inadeguati, soli ed esclusi da relazioni e contesti, questo anche per il processo di globalizzazione che introduce tante possibilità quante sensazioni di precarietà e frammentazione. La dimensione conflittuale sembrerebbe essere costitutiva di fenomeni emergenti, e in generale lo scenario organizzativo alimenta protetti processi si identificazione e individuazione cosi come aspetti di riconoscimento connessi alle culture organizzative. Vista la situazione attuale il conflitto diventa variabile inevitabile da attraversare. Il conflitto è stato letto in maniera differente con il succedersi degli anni, inizialmente veniva visto come una deviazione pericolosa e nociva, con conseguenze distruttive e disfunzionali, negli anni ’50 però questa visione ha lasciato posto ad un concetto di conflitto come un fenomeno da gestire in modo da trarne il massimo beneficio e negli anni ’90 la visione è stata ulteriormente confermata, guardando al conflitto come una condizione strutturale, il management deve quindi rapportarsi ad esso come fenomeno da valorizzare, in quanto può determinare il raggiungimento di obiettivi e innovazione organizzativa. Possiamo dire che l’evoluzione di una relazione conflittuale dipende in buona parte da come il conflitto viene percepito, dalla sua dimensione relazionale e dal livello di minaccia, non è infatti sufficiente che il ci siano due punti di vista differenti e contrastanti, ma che le due parti considerano le reciproche idee minacciose e destabilizzanti. Il confitto può essere percepito a diversi livelli, alcuni autori ne hanno classificati certi Rahim: conflitto interpersonale, intragruppo e intergruppo Ferrari pone l’attenzione sul conflitto più inconsapevole: intrapsichico, interpersonale, nei gruppi di lavoro, interruppi Sheppard presenta una classificazione in merito ai livelli nella ricerca sul conflitto: istituzionale, livello macro, quindi strutture, relazionale, livello intermedio, e microsociale 10 Per quanto riguarda la direzione del conflitto, può essere orizzontale, quindi tra sottounita dello stesso livello, o verticale, tra livello gerarchici differenti L’oggetto del conflitto puo essere il task conflict, connesso ad un compito e riguardante dispute circa la distribuzione o l’allocazione delle risorse, e la relationship conflict, che riguarda discordanze connesse a gusti e stili personali Per le organizzazioni il conflitto può rivestire funzioni positive o negative, alcuni autori ipotizzano infatti che un certo livello di conflitto sia funzionale mentre una totale assenza o eccessiva potrebbe causare effetti negativi. Si è inoltre riscontrata una correlazione tra soddisfazione lavorativa e conflitto, in quanto una bassa soddisfazione porta a disagio psicofisico, minore impegno lavorativo, producendo quindi conflittualità verso il contesto, evocando sentimenti d riabbia, disgusto, paura… fino ad arrivare a sentimenti di Bornout In letterature emergono due prospettive in merito agli effetti che il conflitto può avere circa l’efficacia e la produttività: la relazione può avere la forma di una U rovesciata, quindi essere funzionale quando è presente in giusta misura (infromation-processing perspective) oppure può essere non basata sull’intensità del conflitto bensì sulla distinzione tra conflitto relazionale che interferisce con i compiti di performance e conflitto task che conduce i soggetti a considerare prospettive differenti per arrivare ad una soluzione. 14. QUALITÀ NELLE ORGANIZZAZIONI Il problema della qualità si impone con l’avvento dell’era industriale, dove l’operaio non aveva alcun feedback circa il suo lavoro, per qualità infatti si intendeva un semplice concetto tangibile, il prodotto doveva semplicemente essere privo di difetti, e il controllo non migliorava né la produzione né la produttività. Successivamente si è passati all’assicurazione di qualità, tecnica orientata a monitorare il processo produttivo e a istituire azioni correttive, registrando in questa fase il tentativo di superamento delle qualità negativa, connessa all’obiettivo zero difetti. Nel 1969 Feigenbaum definisce il termine di qualità totale, per intendere una qualità che interessa tutta l’organizzazione, in quel periodo in occidente si riscontrava la presenza del modello giapponese, con i circoli di qualità, cioè gruppi di operai che si incontravano con il management per discutere e proporre azioni migliorative. Si diffonde quindi questo modello che coinvolge l’intero processo produttivo, suddividendo la responsabilità fra tutti, facendo uscire la qualità dalle organizzazioni e allargandola verso il cliente alla ricerca della sua soddisfazione La qualità può assumere diverse sfumature: attesa, progettata, erogata, percepita, confrontata, negativa, latente L’insieme di attività volte a coordinare e dirigere viene definito sistema qualità, ed è teso a soddisfare le esigenze qualitative dei clienti e dell’organizzazione, può essere diviso in quattro componenti attive: enti normatori, i quali realizzano regole uniformi, norme, promuovendo l’adozione di standard internazionali per l’eliminazione di barriere tecniche, gli enti di accreditamento, volti a verificare le capacita professionali degli enti di certificazione, i quali verificano che l’azienda sia conforme ai requisiti richiesti, sorvegliandole periodicamente e rilasciando i certificati di conformità. Il quarto componente è l’azienda stessa, che può scegliere in totale libertà se adottare o no le norme, la motivazione è solitamente di carattere esterno o interno Le caratteristiche che distinguono la qualità totale sono tre: i principi quali attenzione al cliente, miglioramento continuo con il ciclo plan-do-check-act di Deming, che serve per affrontare i problemi e risolverli, e il gruppo di lavoro, nel quale tutti i membri possono dare il loro contributi per il successo dell’impresa. La seconda caratteristica solo le pratiche, come quelle di raccolta informazioni, e le tecniche dedicata alla traduzione delle informazioni raccolte. Il total quality management è una strategie manageriale volta a diffondere la consapvolezzadella qualità in tutti i processi organizzativi, coinvolgendo tutte le componenti delle organizzazioni, la sua applicazione evoluta, che Cole definisce nuovo modello risulta essere più corretta, in quanto più spinto verso la soffisfazione del cliente, inteso come non solo i fornitori esterni ma anche il cliente interno come i dipendenti e collaboratori, orientando le azioni manageriali alla cooperazione, alla prevenzione verso il raggiungimento degli obiettivi della qualità 15. EMOZIONI NELLA VITA ORGANIZZATIVA Fra i ricercatori non c’è accordo in merito alla definizione di un’emozione, ma si può ricostruire il suo senso attraverso terminologie quali: 11 Affetto: termine generico Emozione: stato affettivo intenso e di beve durante, di carattere dinamico, accompagnato da modificazioni fisiologiche Sentimento: più soggettivo, cio che sentiamo in maniera autentica e intima Umore: stato affettivo con intensità minore ma durata maggiore rispetto alle emozioni Nelle organizzazioni il paradigma dominante fino al 1930 trascurava i sentimento egli individui perché li riteneva fattori ininfluenti, Mayo e colleghi rompono questa concettualizzazione affermando la necessità di considerare il morale dei dipendenti per capire davvero i comportamenti organizzativi. Negli studi l’interesse per la vita emotiva degli individui rimane marginale fino alla prima meta degli anni ’80, questo dato anche la connessione della cultura occidentale, fra l’inizio degli anni cinquanta e settanta, pur rimanendo un’area piuttosto ristretta iniziano a dispiegarsi in due direzioni principali: modello dell’Affective Events Theory, secondo cui alcune variabili sono influenzate al odo in cui le persone reagiscono emotivamente agli eventi lavorativi, e la seconda direzione in lettura psicodinamica secondo cui le persone all’interno delle organizzazioni rivivono angoscia e paure primarie Le emozioni si sono iniziata a studiare dagli anni 80, definendo le organizzazioni come arene in cui le emozioni sono rappresentate a favore di un pubblico che si intende influenzare, i sentimenti provati dai singoli danno forma ad azioni e decisioni, e viceversa, azioni e decisioni modellano le emozioni. In primo piano si trovano gli studi sull’ansia, in quanto il lavoro in se è considerato un attivatore di ansie, quando un individui deve affrontare un compito lavorativo si attivano in lui ansie paranidi legate alla paura di essere distrutti e antidepressive legate alla paura di non essere capace. Per proteggersi da questo le persone ricorrono a quelli che Jacques definisce meccanismi di difesa, individuali e collettivi, al fine di ripararsi, queste tecniche sono ad esempio la scissione dei dirigenti in buoni e cattivi o l’idealizzazione da parte dei dirigenti degli operai. Il lenimento che ne deriva è tuttavia illusorio, in quanto l’organizzazione offre meccanismi di difesa e contemporaneamente genera altrettanta ansia, infatti entrare in organizzazioni implica ilriattivarsi di antiche ansie primarie, producenti un circolo ansiogeno. Approccio costruttivista: enfatizza il contesto socio-culturale, le emozioni sono apprese nei contesti sociali e alla loro espressione sono associate reazioni corporee, l’esibizione di una emozione è parte di un processo di costruzione di significati, le espressioni verbali e le parole con cui vengono esplicitate le emozioni sono cariche di significati sociali, non solo le emozioni si provano, ma sono anche qualcosa che si impara a mostrare, mediante l’emotion work: gestione e controllo dei sentimenti o l’emotion Labour, che si compie quando si fa uno sforzo fisico al fine di generare o sopprimere alcuni sentimenti per generare espressioni appropriate. Si utilizzano anche tecniche di surface attinge o deep Active. Il processo di regolazione è considerato adattivo, non ci sono prove empiriche per sostenere l’esistenza di una migliore strategia di regolazione, questo processo è legato anche alle caratteristiche delle persone e al concetto di dissonanza cognitiva. 16. PSICOLOGIA DEI CONSUMI La psicologia dei consumi si rivela essere un corpus di conoscenze piuttosto disomogeneo, regolato da forti polarizzazioni e tensioni interne, quali ad esempio il rapporto fra saperi di base e saperi locali, che rendono la p dei consumi un sapere generale ma anche un sapere locale generato in rapporto al fenomeno del consumo. Si ritrovano poi tensioni tra i saperi della comunità scientifica e delle comunità di pratica, le quali si focalizzano su oggetti e metodi diversi, a questo si aggiunge la rappresentazione del consumatore in prospettiva industriale e post-industriale, che presuppone nuove visioni in contrapposizione a quelle maturate nei decenni precedenti. Il fenomeno del consumo viene letto in riferimento agli attori considerati e alla relazione tra questi, l’oggetto di lavoro risulta quindi essere a livello individuale, ponendo attenzione al singolo individuo e alla sua attività in risposta agli stimoli ambientali, al fine di identificare una regolarità di funzionamento; da qui si riconducono approcci quali la prospettiva di tipo funzionalità, condizionamento classico e operante, le elaborazioni psicodinamiche, e prima di tuti la prospettiva cognitivista che si interessa a compressore il consumatore che acquirente evidenziandone i processi in riferimento alle attività di consumo. Si può poi leggere la psicologia del consumo a livello macrosociale, incrociando la psicologia dei consumi con l’introduzione dei beni di massa, analizzando il consumatore non in termini di aspetti comuni ma ponendo in evidenza le differenze esistenti tra gruppi diversi di consumatori , questa visione risulta essere dominante negli ultimi decenni, in quanto costituisce una sorta di consumatore plurale. 12
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