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La Prima Guerra Mondiale e le sue conseguenze, Sbobinature di Storia Contemporanea

La prima guerra mondiale, il suo scoppio, le sue conseguenze e le guerre civili che ne seguirono. Inoltre, viene analizzata la rivoluzione russa e la sua influenza sulla società e sulle politiche del novecento. Inoltre, viene discusso l'impacto della guerra sulla società e sul modo di vivere e di pensare. Infine, viene analizzata la situazione economica in italia nei primi anni trenta e l'impacto del fascismo sulla società italiana.

Tipologia: Sbobinature

2023/2024

Caricato il 02/04/2024

emanuelaalbertino
emanuelaalbertino 🇮🇹

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Scarica La Prima Guerra Mondiale e le sue conseguenze e più Sbobinature in PDF di Storia Contemporanea solo su Docsity! LA PRIMA RIVOLUZIONE INDUSTRIALE La Prima Rivoluzione Industriale avvenne in Inghilterra, avente come città simbolo della rivoluzione Manchester, e durò alcuni decenni. Avviata nella seconda metà del Settecento, essa infatti si protrasse fino agli anni Venti e Trenta dell’Ottocento. Tale fenomeno epocale fu innescato e alimentato da continue innovazioni tecnologiche, in particolare da diversi tipi di macchine, azionate da fonti energetiche inanimate e non più dalla sola forza di uomini e animali. I primi esempi significativi si ebbero durante gli anni Sessanta e Settanta del XVIII secolo nell’industria tessile del cotone, dove alcune invenzioni in particolare permisero di avviare un consistente processo di meccanizzazione della filatura: - dapprima la filatrice meccanica - poi il filatoio idraulico a cilindri - quindi il filatoio automatico. Poco tempo dopo, anche il ramo della tessitura del cotone si adeguò e iniziarono a comparire i primi telai meccanici, come quelli di Edmund Cartwright (Power loom) e, più tardi, di Joseph-Marie Jacquard. L’invenzione più importante fu la macchina a vapore, realizzata per la prima volta da James Watt nel 1775. Nel giro di pochi anni le macchine a vapore, che utilizzavano l’energia termica ricavata dai combustibili fossili, si diffusero nell’industria tessile e anche in quella metallurgica, riguardante la lavorazione dei metalli. Infine, la produzione di locomotive e di battelli favorì il decollo dell’industria meccanica, in particolare dei rami ferroviario e cantieristico, e dell’industria siderurgica, finalizzata a fornire ferro, ghisa e acciaio. Inoltre, anche il mondo dei trasporti ne risentì ampiamente, come mostrò la diffusione dei battelli e delle locomotive a vapore. Le prime locomotive a vapore furono realizzate da George Stephenson tra gli anni Dieci e Venti dell’Ottocento, mentre nel 1830 venne inaugurata la prima tratta ferroviaria importante,tra Manchester e Liverpool. Tale decollo industriale fu possibile anche per alcuni fattori ambientali, tipici del contesto inglese: ad esempio, l’efficacia di un sistema consolidato di istruzione tecnica, la diffusione di una mentalità imprenditoriale tra le classi medio-alte e il funzionamento dinamico del mercato locale. ll processo fu rivoluzionario anche sul piano sociale, poiché il cosiddetto “sistema di fabbrica” non modificò soltanto l’organizzazione del lavoro, ma, indirettamente, anche i modi di consumare e di vivere; infatti, quantità maggiori di merci, prodotte in tempi sempre più rapidi e con costi sempre più contenuti, si riversarono sui mercati, anche grazie al potenziamento del sistema dei trasporti, per essere venduti a prezzi sempre più bassi. Inoltre, all’inizio i lavoratori ebbero delle condizioni di lavoro e di vita peggiori ma con il tempo la rivoluzione ebbe effetti positivi che interessarono tutta la popolazione inglese. In altri paesi occidentali la rivoluzione si manifestò in forme diverse al modello inglese. Altrove essa si snodò su un periodo più ampio, finendo così per attutire, nell’immediato, gli effetti sociali più perversivi. La Rivoluzione industriale fu preceduta da una fase piuttosto lunga, la stagione della cosiddetta “protoindustria”, avviata già nel Seicento e basata su un’industria rurale: collocata dunque nelle campagne, la protoindustria era gestita perlopiù da famiglie allargate, che producevano a domicilio soprattutto prodotti tessili, non solo per se stesse ma anche per i nascenti mercati, grazie a legami sempre più stretti con i mercanti. LA SECONDA RIVOLUZIONE INDUSTRIALE Dalla metà del XIX secolo, la “seconda” Rivoluzione industriale permise di esportare le novità prodotte in Inghilterra oltremanica, nei principali Stati europei, e oltreoceano, negli Stati Uniti, rafforzando i processi di industrializzazione nel mondo occidentale. Il numero e l’efficacia delle invenzioni aumentarono a dismisura. Macchine sempre più complesse vennero mosse da fonti di energia sempre più potenti, come l’elettricità e il petrolio. Ci furono grandi rivoluzioni nel settore della chimica e nel settore siderurgico mentre prese a svilupparsi anche l’industria del petrolio, per l’estrazione del liquido e la lavorazione dei prodotti petroliferi. Se la patria della prima Rivoluzione industriale era stata l’Inghilterra, altri Paesi furono i protagonisti della seconda. In Europa il ruolo di guida fu assunto presto dalla Germania, che dopo il 1870 visse una stagione di straordinaria crescita economica. I banchieri tedeschi rafforzarono le loro posizioni nei mercati finanziari e tra i settori più dinamici vi fu certamente quello marittimo, che portò in pochi anni la Germania a competere con la Gran Bretagna nella cantieristica navale, sia civile che militare. Fuori dall’Europa, un processo analogo fu vissuto dal Giappone e anche in questo caso il dinamismo industriale si legò strettamente alle ambizioni militari. Tuttavia, furono gli Stati Uniti la potenza che fuori dall’Europa si affermò più di tutte. il mondo dei grandi affari si potenziò soprattutto negli ultimi due decenni dell’Ottocento, dopo la cosiddetta “ricostruzione” che seguì il dramma della guerra civile. La protagonista indiscussa fu l’industria pesante e proprio in quegli anni gli Stati Uniti divennero i primi produttori al mondo di acciaio. L’Italia invece fece parte della schiera dei Paesi cosiddetti late comers, arrivati cioè alla Rivoluzione industriale solo in un secondo momento, a causa di una persistente arretratezza economica. l’Italia finì per vivere contestualmente entrambe le Rivoluzioni industriali e in questo modo essa fu capace di bruciare le tappe e di recuperare molte posizioni nel ranking mondiale. TRASFORMAZIONI NEL MONDO DEL LAVORO Le profonde trasformazioni economiche e produttive avvenute nell’epoca delle Rivoluzioni industriali interessarono, inevitabilmente, anche l’universo dei lavoratori. Ciò avvenne soprattutto in tre direzioni:  Urbanizzazione: innanzitutto, con la crisi dell’agricoltura, una quota rilevante di persone si spostò dalle campagne verso le città.  Fabbriche: si diffusero le prime fabbriche, dai piccoli opifici ai grandi stabilimenti, che portarono al considerevole aumento del numero degli operai salariati e quindi essi ricevevano un salario che dipendeva dalle ore di lavoro o dalla quantità di lavoro prodotto.  Disciplina di fabbrica: all’interno delle fabbriche gli imprenditori imposero ai propri dipendenti condizioni di lavoro particolarmente gravose, per costringerli al rispetto di regole ferree, con una disciplina severa. Nelle prime fabbriche i padroni trattavano l’operaio come una sorta di “schiavo” moderno. Vennero scritti dei regolamenti di fabbrica basati sui doveri dell’obbedienza, della disciplina e del silenzio. Inoltre, le ore di lavoro arrivavano fino a 16 ore al giorno e c’era uno sfruttamento sia fisico che mentale dei lavoratori che spesso subivano danni severi al fisico e al sistema nervoso. Così, nella nascente società industriale iniziò a imporsi una vera e propria “questione sociale”. Le prime denunce provennero soprattutto dai socialisti, detti anche socialisti utopisti. Essi avanzarono ipotesi radicalmente diverse e più umane di organizzazione della produzione e della società, che tuttavia ebbero un impatto estremamente limitato. Diversa, invece, fu, a partire dalla metà dell’Ottocento, l’azione teorica e pratica del socialismo scientifico, che ebbe come capo stipite Karl Marx. Marx analizzò e denunciò gli sconvolgimenti in atto nel mondo del lavoro. LE NUOVE CLASSI SOCIALI Oltre al lavoro, nel medio periodo si modificarono le mentalità e i comportamenti, individuali e collettivi e migliorarono i livelli di alfabetizzazione e le condizioni igienico- sanitarie, determinando la diminuzione dei tassi di mortalità e l’allungamento delle aspettative di vita. Tra i cambiamenti sociali, una delle novità più rilevanti riguardò paese un ulteriore passo in avanti, con la proclamazione della Seconda Repubblica e il varo del suffragio universale. In seguito, le agitazioni si spostarono in Austria, Ungheria, Prussia e in molti Stati italiani dove i sovrani si trovarono loro malgrado costretti a concedere carte costituzionali timidamente liberali. La penisola italiana fu teatro della Prima guerra d’indipendenza contro gli Austriaci, la quale ebbe come momenti salienti il varo dello Statuto Albertino in Piemonte, le “cinque giornate” di Milano e la proclamazione della Repubblica di Venezia e della Repubblica romana. NAZIONE E STATO NAZIONE Nel corso del XIX secolo, la gran parte degli Statisi affermarono proprio come Stati- Nazione, cioè Stati dove una Costituzione limitava e disciplinava i poteri di capi di Stato e dove i cittadini potevano godere di fondamentali diritti di libertà. Il potere non poteva essere più esercitato in modo assoluto da una singola persona. In uno Stato- Nazione la sovranità era appannaggio della collettività di cittadini che costituivano la Nazione. La costruzione della Nazione, in definitiva, fu un fatto ideologico. L’ideologia nazionale si propagò rapidamente nel corso dell’Ottocento. Se il principio di nazionalità era servito a rendere più libere le persone e più liberali le istituzioni, a rovesciare tiranni e oppressori, ben presto però esso sarebbe degenerato nel nazionalismo, cioè nell’ideologia imperniata sulla supremazia di una Nazione sulle altre. Fu proprio da tale deriva che ebbero origine, tra Ottocento e Novecento, ostilità crescenti e nuove guerre, sempre più sanguinose e drammatiche. L’idea di Nazione sfuggiva alla grande maggioranza dei cittadini, per larga parte analfabeti e per questo non in grado di cogliere in modo razionale la complessità del messaggio che si intendeva proporre. Così le classi dirigenti nazionali avviarono in tutti i paesi un ampio e ambizioso progetto per insegnare ai cittadini il significato della parola “Nazione”. A differenza dei precedenti Stati assolutistici, che si fondavano sulla completa e supina passività delle masse, la “nuova politica” degli Stati-Nazione puntava a renderle attive, favorendone la mobilitazione a sostegno della Nazione. Alla “nuova politica” si accompagnò anche una nuova “estetica” della politica, fatta di riti e simboli, utilizzati con l’obiettivo di formare un’identità nazionale. Inoltre, le classi dirigenti utilizzarono ampiamente altri veicoli molto efficaci di comunicazione e diffusione del messaggio nazionale. Si puntò molto sulla scuola, per insegnare ai bambini a leggere e scrivere la lingua nazionale, nonché per farli sentire anch’essi parte di una patria. In secondo luogo, si utilizzò l’esercito, stabilendo la leva obbligatoria, un altro potente fattore di propagazione del patriottismo. Infine, anche la progressiva estensione del diritto di voto fu un altro elemento che contribuì ad accrescere la partecipazione politica dei cittadini. Tutto il processo venne favorito anche dalla maggiore facilità dei trasporti, in primis quelli ferroviari, che agevolavano gli spostamenti all’interno degli Stati. Nel giro di breve tempo l’insistenza sui tratti aggreganti della comunità nazionale finì per alimentare la contrapposizione con altre nazionalità, presenti all’interno o a ridosso del proprio Stato-nazione. IL RISORGIMENTO L’Italia nacque nel 1861il Risorgimento che aveva come obiettivo l’unificazione nazionale della penisola attraverso la costruzione di un nuovo Stato. L’artefice principale dell’unità d’Italia fu il Regno di Sardegna, guidato all'epoca dal re Vittorio Emanuele II di Savoia e da una classe dirigente liberale, il cui leader era Camillo Benso conte di Cavour. L’idea che esistesse una “Nazione italiana” iniziò a diffondersi nella penisola. Durante l’età napoleonica le speranze si trasformarono presto in illusioni: il percorso di unificazione, infatti, non era un processo né rapido né agevole. Ciò divenne ancora più evidente quando la Restaurazione cancellò i principi rivoluzionari della Rivoluzione francese. Nella penisola la Restaurazione fu dominata dagli Austriaci che controllavano buona parte del territorio. Tali equilibri cominciarono a essere contrastati da alcune sette segrete, come la Carboneria, che sognavano la costituzione di un nuovo Stato Nazione. Il primo moto patriottico si ebbe nel 1820-21: partito dalla Spagna, esso si sviluppò presto anche in Italia e in Piemonte, dove iniziò una guerra contro gli austriaci, i quali tuttavia s’imposero rapidamente. Il fallimento dei moti portò alle prime condanne ed esecuzioni, mentre non pochi insorti furono costretti all’esilio. Il secondo moto avvenne nel 1831 ed ebbe come epicentro soprattutto i piccoli ducati delle regioni centrali. Anche tale moto fu facilmente represso dagli austriaci. Nonostante i bruschi tracolli dei primi moti il movimento risorgimentale crebbe. Le correnti politiche principali furono due: i democratici e i moderati. I democratici furono inizialmente guidati da Giuseppe Mazzini che fondò la “Giovine Italia”, un’associazione che propagandava apertamente un programma radicale, centrato sull’unificazione dell’Italia e sull’adozione di una forma di governo repubblicana. Il progetto mazziniano prevedeva il coinvolgimento del popolo e nonostante il numero crescente di adesioni tali tentativi furono bollati come terroristici dalle autorità e per questo duramente repressi. I moderati furono inizialmente guidati da Vincenzo Gioberti, un sacerdote piemontese, il cui programma mirava a realizzare l’unificazione nazionale e il passaggio a un regime di tipo costituzionale, mantenendo tuttavia la forma monarchica. Inoltre, il ruolo di sovrano doveva essere affidato al Papa. Presto, però, tra i moderati prese a formarsi un ulteriore orientamento che considerava l’Austria, potenza cattolica per eccellenza, il principale ostacolo per l’unità della nazione italiana. Così si rafforzò la componente liberale, destinata ad assumere con la Prima guerra d’indipendenza l’egemonia del movimento risorgimentale. In questo clima si arrivò alla Prima guerra d’indipendenza. Il processo insurrezionale partì ancora una volta dal Sud e la guida fu presto assunta dal Piemonte, dove il nuovo re Carlo Alberto concesse la Costituzione, lo Statuto albertino. I momenti più salienti si registrarono: a Milano, con le “cinque giornate” di rivolta contro gli Austriaci, a Venezia, dove si arrivò a proclamare una Repubblica indipendente dagli Austriaci e nel Piemonte, inizialmente vittorioso contro l’Austria. Dall’estate del 1848 gli equilibri mutarono e si consumò la nuova sconfitta militare dei Savoia così, i vecchi sovrani poterono restaurare progressivamente il loro potere. L’esempio di molti volontari, rappresentati al livello più alto dalla figura di Giuseppe Garibaldi, mostrava che il sentimento nazionale, nonostante la repressione dura delle autorità, era tutt’altro che debole. Nel Regno di Sardegna la Costituzione rimase in vigore, mentre nuove leggi chiarirono i rapporti tra lo Stato e la Chiesa, a vantaggio del primo. Nello stesso tempo Cavour seppe introdurre importanti novità: riuscì a imporre sul piano istituzionale un modello sempre più parlamentare e avviò una politica estera spregiudicata, grazie alla quale, in breve tempo, la “questione italiana” fu inserita nell’agenda delle cancellerie europee e con gli accordi di plombiers del 1858, il Regno di Sardegna strinse un legame con la Francia in chiave antiaustriaca. La Seconda guerra d’indipendenza scoppiò nella primavera del 1859. Cavour, grazie all’aiuto decisivo di Garibaldi e dei suoi volontari, fu abile nel provocare l’Austria, il cui ultimatum contro il Regno di Sardegna spinse la Francia a intervenire a suo sostegno. Questa volta la vittoria militare, grazie soprattutto alle battaglie di Solferino e San Martino, arrise ai piemontesi. All’inizio del 1861 si tennero le elezioni del primo Parlamento italiano, la cui prima riunione si tenne il 18 febbraio. Un mese dopo, il 17 marzo, Vittorio Emanuele II fu proclamato re d’Italia. La capitale del nuovo Regno fu stabilita inizialmente a Torino; nel 1864, però, venne trasferita a Firenze, in attesa di risolvere il problema di Roma. L’UNIFICAZIONE TEDESCA Nel processo di unificazione tedesca il ruolo di Stato-guida toccò alla Prussia. Ma il vero protagonista politico dell’operazione fu Otto von Bismarck, un politico conservatore divenuto cancelliere nel 1862.La Prussia rappresentava da tempo il fulcro di un’alleanza tra numerosi Stati tedeschi. essa riuscì ad aumentare la sua influenza politica, che venne orientata sempre di più, con il passare del tempo, in funzione antiaustriaca. C’era la volontà di unificare tanti singoli Stati, i quali erano legati da elementi importanti quali la lingua, la cultura e le tradizioni. L’idea di Nazione aveva preso sempre più piede tanto che a Francoforte fu votata una Costituzione che fissava norme importanti in tema di istituzioni democratiche e diritti di cittadinanza. Nello stesso tempo, nel mondo tedesco erano emerse in modo chiaro due posizioni distinte: la prima era favorevole all’unificazione nazionale estesa anche all’Austria la cui presenza però rischiava di risultare particolarmente ingombrante e la seconda posizione ambiva a realizzare l’unità tedesca facendo a meno dell’Austria. Gli equilibri geopolitici iniziarono a mutare negli anni Sessanta, quando Guglielmo I e Bismarck decisero di accelerare sul terreno dell’unificazione tedesca, innescando lo scontro tra Prussia e Austria. Nel 1866 la Prussia mosse guerra all’Austria, sconfiggendola duramente nella battaglia di Sadowa. Dopo la vittoria militare gli Stati tedeschi del Nord si unirono alla Prussia, mentre quelli del Sud mantennero, per il momento, un profilo autonomo. Pochi anni dopo, nel 1870, la stessa sorte dell’Austria toccò alla Francia. Il Paese transalpino fu costretto così a cedere le due regioni di confine dell’Alsazia e della Lorena, abitate per buona parte da tedeschi. Nel gennaio 1871 la Francia venne ulteriormente umiliata, con la proclamazione nella reggia di Versailles dell’Impero tedesco. Il Secondo Reich, guidato dall’Imperatore ed esteso anche agli Stati del Sud, nasceva pochi decenni dopo la caduta del primo Impero, causata all’inizio dell’Ottocento da Napoleone. A livello parlamentare i liberali nazionali di Bismarck ebbero facilmente la meglio. In Germania la Nazione indicava per lo più una comunità organica, legata da vincoli di sangue e di razza, omogenea, pronta a lottare contro altre etnie. Con la guerra franco-prussiana del 1870 iniziava così un lungo conflitto franco-tedesco, culturale e politico oltre che militare, destinato a pesare sui destini dell’Europa e del mondo fino alla metà del Novecento. Per circa due decenni, Bismarck fu abile a mediare tra le diverse potenze continentali, riuscendo a tutelare gli interessi tedeschi. Egli favorì la nascita nel 1873 della Lega dei tre Imperatori (tedesco, austriaco e russo). Quindi, con il congresso di Berlino del 1878 mediò tra russi, inglesi e austriaci per la sistemazione dei Balcani. Infine, nel 1879 Bismarck firmò la Duplice Alleanza con l’Austria, sanando così la ferita del 1866. Questa si trasformò in Triplice Alleanza nel 1882, con l’ingresso dell’Italia. L’EUROPA DEGLI IMPERI Tra gli Stati che nell’Ottocento dominavano l’Europa (e il mondo), alcuni dei quali avevano assunto la forma di moderni Stati nazionali, quelli più importanti e influenti si presentavano come veri e propri Imperi. Sul piano politico, nonostante l’assenza di una Costituzione scritta, la Gran Bretagna era ormai da molto tempo una monarchia parlamentare, dove il Governo era espressione della maggioranza parlamentare e per questo aveva bisogno della fiducia del Parlamento e non del re. Prima della débacle contro la Prussia, la Francia era l’altra grande potenza europea. In seguito, il colpo di Stato di Luigi Bonaparte del 1851 aveva sancito il passaggio dalla Repubblica al Secondo Impero. L’Impero francese mantenne la forma parlamentare, con l’assemblea eletta a suffragio universale maschile, ma in realtà accentuò i caratteri autoritari con il varo di una nuova Costituzione. L’esito fu un modello plebiscitario – il “bonapartismo” – caratterizzato dall’indebolimento degli organismi di rappresentanza e dal legame diretto tra l’Imperatore, figura autoritaria e insieme paternalista, e la massa dei cittadini francesi. Con la disfatta del 1870 la Francia tornò alla (Terza) Repubblica. Il sistema istituzionale prevedeva l’elezione diretta da parte dei cittadini del Presidente della Repubblica, il quale mantenne così ampi poteri; il Parlamento invece restò diviso tra tanti partiti litigiosi. particolare dall’Europa più povera), provocando indubbiamente tensioni e ghettizzazioni, ma determinando anche un crogiolo effervescente di nazionalità e identità diverse (Melting Pot), che nel tempo vennero integrate soprattutto attraverso la partecipazione ai consumi e alla vita politica del Paese; 3. la marginalità dei socialisti, i quali, pure in presenza di una drammatica “questione sociale”, innescata da uno sviluppo industriale tumultuoso, e nonostante molteplici episodi di radicale conflittualità di classe, fallirono nel tentativo di unificare un mondo del lavoro molto frammentato, solcato da profonde divisioni etniche e odi razziali; 4. la solidità del sistema istituzionale, che nel corso degli anni subì al massimo qualche aggiustamento (arrivando praticamente integro fino ai giorni nostri), e l’efficacia del bipartitismo, che si stabilizzò intorno ai due poli dei repubblicani e dei democratici. LA POLITICA ESTERA E MILITARE Già nel 1823 il Presidente James Monroe aveva formulato una “dottrina” che prevedeva la futura egemonia statunitense in tutto il continente americano; tuttavia, ci vollero ancora alcuni decenni per assistere al salto di qualità da parte degli Usa in campo internazionale. L’anno decisivo fu il 1898, quello della guerra contro la Spagna, un ex impero in forte declino (specie dopo la perdita delle colonie in America Latina), a cui furono sottratte le isole delle Filippine, in Asia, e l’isola di Cuba, nei Caraibi. L’IMPERIALISMO INFORMALE Nei territori acquisiti, comunque, gli Stati Uniti non si comportarono come una potenza coloniale tradizionale, ma scelsero di sperimentare un modello inedito di imperialismo, definito dagli studiosi “imperialismo informale”, poiché basato soprattutto su una penetrazione di natura economica, finalizzata a conquistare l’egemonia sui mercati, anche nei Paesi formalmente indipendenti. Nei primi tempi il controllo statunitense si estese soprattutto all’America centrale; l’esempio più noto fu il protettorato su Panama, avviato nel 1903, dove nel 1914 venne completato uno snodo strategico decisivo, il canale, che permetteva in breve tempo di collegare l’Atlantico e il Pacifico, senza dover circumnavigare l’intera America Latina. Il Canale di Panama, che comportò benefici enormi per l’economia statunitense, mostrò in modo efficace al resto del mondo il tipo di imperialismo che gli Stati Uniti avevano intenzione di praticare. LA RIVOLUZIONE DEI TRASPORTI A ciò si aggiunga che i nuovi mezzi di trasporto, realizzati grazie alle nuove tecnologie (linee ferroviarie, metropolitane urbane, navi transatlantiche, automobili) facilitavano gli spostamenti da un Paese all’altro e all’interno di essi, e rendevano i costi dei viaggi più sostenibili anche per le classi più povere. Anche la sicurezza dei trasporti aumentò grazie alle nuove tecnologie. Così le famiglie europee, spontaneamente, lasciavano i propri villaggi o Paesi per cercare un futuro migliore. LA CRISI AGRARIA Inoltre, l’Europa visse una profonda crisi agraria in conseguenza della meccanizzazione dei processi produttivi e dell’avvio di una prima globalizzazione del mercato agricolo. Contemporaneamente, la crescita industriale condusse a una concentrazione del lavoro in città attorno alle nuove grandi fabbriche. Dalle regioni a economia agricola gli abitanti si spostarono in massa verso le città; fu il fenomeno della migrazione interna e dell’“inurbamento”. LE GRANDI OPERE Nell’era della costruzione degli Stati nazionali, i governi investirono nella realizzazione di grandi opere pubbliche e infrastrutture (ferrovie, strade, fabbriche, arsenali militari, ecc.). Per questi lavori si creò un enorme bisogno di manodopera, di cui i governanti erano consapevoli: serviva, dunque, forza lavoro per costruire le economie nazionali. LA MANODOPERA A BASSO COSTO Gli Stati investirono in politiche migratorie di reclutamento di manodopera dall’estero, da dove richiamarono masse di lavoratori a basso costo. Si svilupparono grandi compagnie di navigazione che pubblicizzavano i vantaggi del viaggio per mare e creavano un grande giro d’affari. DAL NORD AL SUD AMERICA Nel corso dell’Ottocento il contingente migratorio più significativo giunse dall’Inghilterra negli Usa; fu il periodo del mito della “caccia all’oro” e delle immense distese di terre libere, non più soggette al dominio inglese dopo la costituzione degli Stati Uniti. In seguito, dopo il 1890, i maggiori flussi partirono invece dall’Italia verso il Nord e il Sud America. I Paesi dell’America Latina avevano una bassa densità demografica e alla fine del XIX secolo, dopo essersi resi indipendenti dai regni di Spagna e Portogallo, chiamarono immigrati a lavorare e popolare i loro territori. In Brasile arrivarono soprattutto contadini tedeschi; gli italiani e gli spagnoli furono mercanti e piccoli imprenditori in Argentina e Brasile. FUORI DAL FEUDALESIMO Negli ultimi decenni dell’Ottocento, anche in Estremo Oriente, nel continente asiatico si affacciò una nuova potenza industriale e militare: il Giappone. Fino alla metà del XIX secolo il Paese del Sol Levante era rimasto rigidamente ancorato a una visione tradizionale dell’economia, della società e della politica, di stampo feudale, fondata sul potere assoluto di una casta piramidale, dominata a livello centrale dai governatori militari (shogun) e a livello locale dai feudatari (daimyo) e dall’antica nobiltà guerriera (samurai). L’ERA MEIJI Dalla seconda metà dell’Ottocento una nuova classe dirigente, composta prevalentemente da burocrati e militari, avviò un significativo processo di modernizzazione. La data simbolo della svolta fu il 1868, inizio della cosiddetta “era Meiji”, cioè “illuminata”, guidata dall’Imperatore Mutsuhito, il quale accentrò su di sé la gran parte dei poteri, con l’obiettivo di edificare, insieme ai suoi collaboratori, uno Stato nuovo, più efficiente e autorevole. LE RIFORME Le riforme si susseguirono in tempi brevi: l’amministrazione pubblica venne centralizzata, mentre nel 1873 venne introdotta l’istruzione obbligatoria; nacquero e si consolidarono le prime grandi industrie pubbliche, soprattutto nei settori pesanti (meccanico e siderurgico), funzionali alla crescita dell’esercito, a sua volta rafforzato dalla leva obbligatoria, introdotta anch’essa nel 1873. Ciò fu evidente anche in campo fiscale e in quello monetario, dove fu imposta una nuova valuta, lo yen, che nel 1871 sostituì le diverse monete dell’epoca feudale. La gestione e il controllo del sistema creditizio furono affidati alla Banca del Giappone, istituita nel 1882. Con il passare del tempo le industrie pubbliche vennero tuttavia dismesse o cedute a imprenditori privati; da allora iniziarono a formarsi potenti cartelli di imprese private (zaibatsu), che riuscirono a esercitare un dominio pressoché totale sui mercati giapponesi grazie all’aperto sostegno delle autorità statali. LA COSTITUZIONE Sul piano strettamente politico nel 1889 entrò finalmente in vigore una Costituzione: questa introduceva il Parlamento (Dieta), che però aveva compiti limitati ed era eletto con un sistema che escludeva per motivi di censo la quasi totalità dei cittadini. Il sistema istituzionale, dunque, divenne quello di una monarchia costituzionale, in cui il Governo doveva avere la fiducia soltanto dell’Imperatore, la cui figura restava “sacra e inviolabile”. LA POLITICA ESTERA Per i vertici politici e militari giapponesi l’obiettivo principale di politica estera era naturalmente la Cina, per la sua collocazione ravvicinata, nonché per l’ampiezza e la ricchezza del suo territorio. Così, nel 1894 il paese del Sol Levante decise di sferrare una pesante offensiva militare, riuscendo con relativa facilità a conquistare l’isola di Formosa, nel Mar Cinese, e a controllare la Corea, che venne incorporata in modo definitivo nel 1910. GUERRA GIAPPONE-RUSSIA Il dinamismo economico e militare, nonché l’attivismo diplomatico del Giappone (come segnalò il trattato di alleanza siglato con la Gran Bretagna nel 1902), destarono allarme nell’altra grande potenza della regione, la Russia, il cui vastissimo Impero partiva dall’Europa Orientale per arrivare fino alle coste del Pacifico. La tensione tra i due Paesi salì alle stelle nel febbraio 1904, dopo l’attacco nipponico sferrato a sorpresa contro la flotta russa, di stanza a Port Arthur. Iniziò così la guerra russo-giapponese, protrattasi per circa un anno; si trattò di un conflitto particolarmente violento, che rivelò al mondo tutta la forza militare della potenza asiatica. Le vittorie nipponiche si susseguirono, nelle battaglie terrestri come in quelle navali. Nel 1905 la pace di Portsmuth sancì l’affermazione del Giappone, al cui interno divenne ancora più decisivo il peso dei militari, interpreti di un imperialismo aggressivo e guerrafondaio, ben diverso da quello americano e più vicino a quello tradizionale delle potenze europee. L’ETA DELL’IMPERIALISMO Gli storici definiscono tale epoca come “l’età dell’imperialismo”, segnata cioè da una politica di potenza tesa ad assoggettare tutti i popoli del mondo, a impadronirsi delle loro ricchezze, a soggiogarli non solo sul piano militare ed economico ma anche culturale. Le principali potenze emergenti (come Germania, Giappone e Stati Uniti) e, in misura minore, altri Stati di recente formazione (come il Belgio e l’Italia), iniziarono sul finire dell’Ottocento la loro avventura “imperialista”. In ogni caso, tra gli Imperi coloniali il primato restò appannaggio della Francia e, soprattutto, della Gran Bretagna. L’AFRICA MEDITERRANEA L’Africa rappresentò la preda più ambita, sia per la debolezza delle comunità che l’abitavano, sia per l’estrema ricchezza di materie prime che il continente offriva. L’egemonia di Francia e Inghilterra divenne manifesta quando, nel giro di un biennio, tra il 1881 e il 1882, la prima s’impossessò della Tunisia, da tempo nel mirino anche del governo italiano, mentre la seconda estese il controllo sull’Egitto, la cui collocazione strategica tra Occidente e Oriente era stata esaltata dall’apertura del Canale di Suez nel 1869. IL RESTO DEL CONTINENTE Da allora le due potenze avviarono un percorso che parve inarrestabile. lavorare nelle piantagioni da zucchero delle isole Hawaii. Giapponesi si mossero anche verso l’America Latina e in particolare il Perù. Dall’inizio del XX secolo, invece, con la chiusura delle frontiere americane verso gli immigrati, circa un milione di giapponesi si installò in Brasile, andando a costituirvi una delle comunità più consistenti assieme ad afroamericani e indoeuropei. LE MOBILITA AFRICANE In Africa, invece, la Grande emigrazione presentò dinamiche discontinue e anche contrarie rispetto a Europa e Asia. Le migrazioni più massicce erano avvenute durante la tratta coloniale degli schiavi, in età moderna, lungo le rotte atlantiche, con gravi costi umani. A seguito dell’abolizione della schiavitù, nel corso dell’Ottocento l’emigrazione africana seguì rotte opposte rispetto a quelle europee e asiatiche: dalle Americhe (Usa e Brasile), dove le popolazioni africane erano state deportate in massa dai coloni europei, si verificò un ritorno massiccio di ex schiavi neri, soprattutto verso l’Africa occidentale. A seguito di questi rientri si crearono migrazioni interne fra Paesi africani in mano alle potenze coloniali europee, dall’Africa subsahariana verso i grandi centri urbani in via di formazione. Anche in Africa iniziava, in ritardo rispetto all’Occidente, l’urbanizzazione moderna. LA GERMANIA Il declino dell’impero ottomano attirò l’attenzione della germania che iniziò a mobilitarsi vista la sua posizione strategica. Tra gli accordi che finanzieri e industriali tedeschi, con il sostegno decisivo del loro governo, riuscirono a strappare ai turchi, particolarmente significativo fu quello relativo alla cosiddetta “ferrovia delle tre B”; si trattava di un progetto ambizioso per realizzare un’infrastruttura imponente, cioè il collegamento diretto tra Berlino e Costantinopoli (la vecchia città di Bisanzio), capitale dell’Impero ottomano, e quindi tra la penisola anatolica e Baghdad, importante centro situato nel cuore del Medio Oriente. LA GRAN BRETAGNA La politica economica e militare della Germania finì per preoccupare sempre di più gli inglesi, i quali decisero di correre ai ripari, modificando in breve tempo alcuni assi fondamentali della loro politica. Innanzitutto, il governo britannico invertì la rotta sul fronte della politica economica, rompendo con la tradizione secolare del libero scambio commerciale attraverso l’introduzione di appositi dazi doganali, cioè misure protezionistiche che servivano a difendere le proprie merci sui mercati internazionali. Inoltre, dopo quasi un secolo di “splendido isolamento”, il "governo di Sua Maestà" decise che era giunto il tempo di stringere nuove alleanze militari, ritenute essenziali per difendersi dall’inedita minaccia tedesca. LA TRIPLICE INTESA Composta da francia, gb e russia e contrapposta alla triplice alleanza tra italia, germania e austria. Il contenuto specifico dell’accordo riguardava il via libera da parte inglese al progetto francese di acquisizione del Marocco, territorio dell’Africa nord-occidentale situato in una zona strategica tra Mediterraneo e Atlantico. La scelta era orientata anche in funzione antitedesca, poiché la Germania nutriva analoghi propositi di controllo del Paese africano. LE CRISI MAROCCHINE IMPERIALISMO E NAZIONALISMO in tutti gli Stati si verificarono le prime manifestazioni di “nazionalismo integrale”, alimentate anche da una parte della stampa, che videro come protagoniste alcune minoranze aggressive e belliciste, le quali finirono per condizionare la politica dei governi. Imperialismo e nazionalismo divennero così le due facce della stessa medaglia; in entrambi i casi, tali ideologie rischiavano di far precipitare l’Europa e l’intero pianeta verso uno scontro epocale dagli esiti imprevedibili. LA POLVERIERA BALCANICA Da allora i Balcani divennero una vera e propria “polveriera”, pronta a esplodere a causa dell’incompatibilità tra interessi geopolitici ed economici profondamente divergenti. L’Impero russo voleva raggiungere finalmente uno sbocco nel Mediterraneo, mentre quello austriaco puntava a contrastare l’ascesa del nazionalismo serbo. L’Impero tedesco voleva aprirsi un varco verso l’Oriente, a scapito di quello inglese, da sempre sensibile alle rotte commerciali verso l’Asia. Anche la Francia, memore della grave sconfitta del 1870, puntava a ostacolare con ogni mezzo l’ascesa della potenza tedesca. Quest’ultima, peraltro, per rafforzare le sue posizioni faceva affidamento anche su nazionalismi emergenti, come quello bulgaro, in funzione antirussa. LA GUERRA ITALIANA IN LIBIA Dai primi anni dieci la situazione precipitò. L’Impero ottomano perse definitivamente tutti i suoi territori nell’Africa settentrionale. Infatti, nel settembre 1911, poco tempo dopo l’acquisizione del Marocco da parte francese, anche l’Italia aggredì i turchi in Libia. La scelta italiana di muovere guerra agli ottomani, inizialmente contrastata dall’alleato tedesco, permise di accrescere ulteriormente nella politica nazionale il peso di Giolitti, il quale raggiunse l’apice dei consensi; nello stesso tempo, tale decisione consolidò il ruolo del Paese sullo scacchiere internazionale. Alla fine, dopo circa un anno di combattimenti, nonostante la rabbiosa resistenza di molte tribù locali, l’Italia riuscì a conquistare la regione (insieme alle isole del Dodecaneso, nel mare Egeo) con la pace di Losanna dell’ottobre 1912. LE GUERRE BALCANICHE Nello stesso mese di ottobre del 1912 scoppiò la prima guerra balcanica, che vide impegnata un’ampia coalizione di Stati (la Lega tra Bulgaria, Grecia, Montenegro e Serbia) contro l’Impero ottomano, con il comune obiettivo di spartirsi l’ultima grande regione europea in suo possesso, la Macedonia. Nonostante l’estrema eterogeneità dei Paesi membri dell’alleanza, i quali continuavano a mantenere legami privilegiati con i principali Imperi europei in competizione tra loro, gli aggressori ebbero facilmente la meglio, riuscendo a dividersi la vasta area con la pace di Londra, raggiunta nel maggio 1913; la Macedonia venne divisa prevalentemente tra Serbia e Bulgaria, mentre la Grecia ottenne la città di Salonicco. La sistemazione territoriale, tuttavia, era provvisoria; dopo appena un mese, infatti, scoppiò una seconda guerra balcanica, a causa della rivalità tra le due principali potenze regionali, la Serbia e la Bulgaria. Quest’ultima, insoddisfatta della spartizione della Macedonia, dichiarò guerra contro gli ex alleati della Lega, ma finì per avere la peggio. Al termine delle ostilità, nell’agosto 1913 fu firmata la pace di Bucarest, con sui si raggiunse un compromesso che, oltre alla Serbia, favorì anche la Grecia e la Romania. VERSO LA GUERRA Fu proprio in questo scenario di grande fibrillazione che avvenne il famoso attentato di Sarajevo, capitale della Bosnia, dove il 28 giugno 1914 l’erede al trono d’Austria, l’arciduca Francesco Ferdinando, fu ucciso da uno studente nazionalista serbo, Gavrilo Princip, innescando un’escalation di reazioni che condussero allo scoppio della Prima guerra mondiale. UNA SVOLTA POLITICA Nel dicembre 1900 il primo sciopero generale nella storia d’Italia, svolto a Genova per la riapertura della locale Camera del lavoro, la quale era stata oggetto dell’ennesima chiusura da parte del Prefetto, contribuì in modo decisivo alla crisi del Governo Saracco, favorendo un profondo cambiamento politico che portò all’affermazione della parte progressista del liberalismo italiano. Con l’arrivo di Giovanni Giolitti al potere – dapprima come ministro degli Interni del Governo Zanardelli, quindi, dal 1903, come presidente del Consiglio – si realizzò una svolta liberale senza precedenti, con l’obiettivo di democratizzare le istituzioni statali. Il progetto mirava a risolvere soprattutto la “questione sociale”, non reprimendo le proteste popolari, bensì agevolando il benessere economico delle masse grazie alla collaborazione con i riformisti presenti nel Psi (Partito Socialista Italiano) e nella Cgdl (la Confederazione Generale del Lavoro, costituita a Milano nel 1906). ECONOMIA, SOCIETA E POLITICA: IL MONDO DEL LAVORO E LE SINISTRE Nel contempo, fino al 1913 (con l’eccezione della crisi del 1907), si ebbe la graduale trasformazione dell’Italia in paese agricolo-industriale. Infatti, durante il periodo giolittiano nacquero le principali industrie e iniziò a svilupparsi l’industria pesante (chimica e siderurgica). Il Psi, guidato dai riformisti, sostenne il Governo, fornendo un contributo rilevante per il varo della legge più importante del periodo, finalizzata alla tutela del lavoro di donne e bambini: il lavoro veniva escluso per i bambini con meno di 15 anni e venivano fissati limiti di orario sia per le donne che per i fanciulli. IL SISTEMA DI POTERE GIOLITTIANO Tra i motivi di polemica tra i due gruppi socialisti (riformisti e rivoluzionari) vi erano le critiche a Giolitti per l’atteggiamento repressivo delle lotte sociali, soprattutto nelle regioni del Sud, realizzato lasciando mano libera a prefetti e “mazzieri”, questi ultimi agli ordini degli agrari e della malavita. Di fronte agli ennesimi “eccidi proletari”, avvenuti in Sardegna e Sicilia nel settembre 1904, le forze radicali della sinistra proclamarono il primo sciopero generale nazionale, che spaventò i moderati e favorì l’avvicinamento tra Giolitti e i cattolici: nelle elezioni politiche di novembre i cattolici parteciparono per la prima volta in modo ampio, contribuendo alla sconfitta dei socialisti. OMBRE E LUCI DELLA POLITICA GIOLITTIANA: IL SUD E IL SUFFRAGIO UNIVERSALE Nonostante alcuni provvedimenti importanti di politica economica (lavori pubblici, leggi speciali per il Sud, nazionalizzazione della telefonia e delle ferrovie) e il sostegno esplicito di alcuni grandi gruppi industriali, Giolitti fallì nella risoluzione dell’annosa “questione meridionale”, mentre la sua spinta riformista subì un evidente rallentamento. Egli divenne sempre più oggetto di dure polemiche, riassunte bene nel libro di Gaetano Salvemini Il Ministro della malavita, che denunciava le violenze e i brogli del Governo nelle elezioni del 1909. Superata una fase di incertezza e grazie al nuovo sostegno dei riformisti, tornati alla guida del Psi nel 1908, si visse l’ultima stagione riformatrice di Giolitti, culminata nel 1912 con la costituzione dell’Ina (Istituto nazionale assicurazioni) e il varo della legge elettorale che istituiva il suffragio universale (maschile). LE ELEZIONI DEL 1913 “lungo” Risorgimento poteva dirsi concluso. L’11 novembre fu la volta della Germania, costretta a capitolare di fronte a una Francia assetata di vendetta; con la fuga del Kaiser Guglielmo II, anche per i tedeschi scoccava l’ora della Repubblica. Anche in Italia lo scoppio della Prima guerra mondiale nell’estate del 1914 arrivò a sconvolgere gli equilibri politici e a stravolgere qualsiasi previsione per il futuro. Lo stesso disegno di Giolitti, che prevedeva il ritorno al potere dopo un breve intervallo, fu travolto dagli eventi. Tra il giugno 1914 e il maggio 1915 l’Italia riuscì a tenersi fuori dallo scontro tra le potenze della Triplice Intesa e gli Imperi centrali. Il Paese, tuttavia, visse la crescente polarizzazione tra due campi contrapposti: da un lato quello delle forze neutraliste, che raggruppavano la gran parte della popolazione e delle forze politiche (cattolici, socialisti e i liberali che facevano capo a Giolitti); e, dall’altro lato, il campo degli interventisti, sostenuti da alcuni importanti gruppi bancari e industriali (ad esempio, la neonata Banca Italiana di Sconto e l’Ansaldo dei fratelli Perrone), che vedevano nella partecipazione alla guerra l’occasione per realizzare ingenti profitti, soprattutto attraverso le commesse statali. Nel fronte interventista c’era una minoranza di democratici irredentisti, favorevoli alla guerra contro gli Austriaci, e un’altra minoranza di sindacalisti rivoluzionari, che auspicavano la trasformazione del conflitto mondiale in una “guerra rivoluzionaria” contro le forze capitalistiche. Ben presto la campagna di mobilitazione a favore dell’ingresso italiano nel conflitto fu egemonizzata dai nazionalisti, sostenitori dell’imperialismo più aggressivo e protagonisti di violenze, anche fisiche, a danno dei neutralisti. L’obiettivo era il rovesciamento della maggioranza parlamentare, controllata ancora da Giolitti e dunque neutralista; lo strumento principale venne dalla mobilitazione, per la prima volta nella storia nazionale, della piccola e media borghesia, sempre timorosa di restare invischiata in un processo di crescente proletarizzazione e particolarmente sensibile alle sirene del patriottismo. Le "radiose giornate di maggio" Nelle “radiose giornate di maggio” del 1915 (come ebbe a definirle il poeta pescarese Gabriele D’Annunzio, uno dei principali protagonisti di quegli eventi), dopo scontri e soprusi di ogni genere la maggioranza liberale cedette, decidendo di ratificare l’ingresso dell’Italia in guerra a fianco dell’Intesa e votando i pieni poteri al Governo. Il 24 maggio 1915 l’Italia entrava in guerra. Nel frattempo Benito Mussolini, già direttore del quotidiano ufficiale “Avanti!”, veniva espulso dal partito PSI per aver abbracciato, in modo tanto fermo quanto spiazzante, la causa degli interventisti; il politico romagnolo, a sua volta, grazie ai lauti finanziamenti di alcuni gruppi industriali e finanziari, riuscì a pubblicare un suo giornale, “Il Popolo d’Italia”, che avrebbe svolto un ruolo primario nella campagna per l’ingresso dell’Italia in guerra. L'"inutile strage" Da subito si diffuse la percezione di un’immane tragedia, che avrebbe prodotto soltanto morte e avrebbe seminato distruzione. Così, anche l’esercito italiano subì perdite enormi, mai viste prima; e lo stesso fronte interno, nonostante l’uso massiccio della propaganda, fu travolto dalla scarsità dei beni di prima necessità, dalla crescita dei prezzi, dalla diffusione delle malattie e dallo sfruttamento intensivo del lavoro, stabilito dalle regole ferree e soffocanti della “Mobilitazione Industriale”. Sul piano politico il Governo del conservatore Salandra terminò la sua parabola nel giugno 1916, nel pieno della Strafexpedition austriaca contro l’Italia. Al suo posto subentrò Paolo Boselli, un liberale di tendenze più moderate, a capo della compagine di “Unità nazionale”, più ampia della precedente, in cui figurava anche la componente socialdemocratica che faceva capo a Ivanoe Bonomi. Il Governo durò oltre un anno, ma fu costretto a capitolare nell’ottobre 1917 di fronte alla disfatta di Caporetto, la pagina più nera per l’Italia in guerra. Al suo posto si insediava l’Esecutivo di Vittorio Emanuele Orlando, il governo della “vittoria” finale. La fine del conflitto Il conflitto ebbe termine nel novembre 1918. L’Italia riuscì a sedere al tavolo dei “grandi vincitori”, insieme a Francia, Inghilterra e Stati Uniti. Al di là dell’esito bellico, tuttavia, la Grande Guerra rappresentò uno spartiacque decisivo anche per la storia nazionale, un punto di non ritorno in ogni campo: nell’economia, poiché decretò il primato dei colossi dell’industria pesante (su tutti Ansaldo, Fiat e Ilva), più coinvolti nello sforzo bellico grazie al sostegno decisivo dello Stato attraverso le commesse; nella società, dove crebbe in modo determinante il peso dei mezzi di comunicazione di massa e dove si affacciarono nuovi protagonisti, come i reduci e come le donne, le quali avevano sostituito in grande quantità nei luoghi di lavoro gli uomini partiti per il fronte. La Grande Guerra è stata un vero e proprio laboratorio per gli storici. Fussell sottolineò soprattutto l’evidente omologazione della mentalità dei soldati, che fu il risultato della clamorosa distanza tra la propaganda prima della partenza per il fronte, e la vita concreta nelle trincee. Tale divario alimentò una contrapposizione tra chi aveva vissuto direttamente a guerra e chi era riuscito a sottrarsi alla tragedia. la Prima guerra mondiale generò sul piano culturale una regressione. Eric Leed riprese l’immagine della “terra di nessuno”, che nella realtà delle battaglie era quella porzione di terreno compresa tra due trincee contrapposte. Nella “terra di nessuno” potevano entrare solo i soldati, tra i quali esisteva un legame di solidarietà che nessuno era in grado di comprendere fino in fondo. Se i soldati, di fronte a tanto orrore, non riuscirono a elaborare in modo razionale il lutto della Grande Guerra, le classi dirigentisi organizzarono per mettere in campo una strategia raffinata di comunicazione politica affinché la guerra apparisse accettabile. Si elaborò così il “mito dei caduti”, cioè una vera e propria religione civile, dotata di propri martiri (i soldati uccisi), di propri monumenti di luoghi appositi dove coltivare il culto dei caduti. Così sorsero i cosiddetti “parchi della rimembranza”, giardini pubblici costruiti intorno a monumenti, lapidi e cippi (es. La tomba del Milite Ignoto). Per tutti coloro che non avevano vissuto direttamente l’orrore venne promossa un’operazione esattamente opposta, infatti la guerra venne banalizzata attraverso i “media”. RIVOLUZIONE RUSSA Durante la Prima guerra mondiale si verificò un evento epocale, la Rivoluzione bolscevica dell’ottobre 1917, destinata a condizionare in modo determinante la storia del Novecento a livello globale. Essa scoppiò in Russia, uno degli ultimi Imperi a essere dominato da un potere assoluto, quello dello zar, in un contesto economico e sociale piuttosto arretrato, per quanto solcato da timidi processi di modernizzazione. Nel XIX secolo l’Impero russo si presentava come un regime assoluto, tipico dell’epoca moderna, segnato dal potere incontrastato del re, lo zar, la cui sovranità era considerata di origine divina, sancendo una stretta alleanza tra il potere politico dell’aristocrazia e il potere religioso della Chiesa cristiana ortodossa. All’interno del vastissimo territorio imperiale, che si estendeva dall’Europa orientale fino all’Estremo Oriente asiatico, convivevano numerose nazionalità, molto diverse tra loro per usi e costumi, lingua e religione, cultura e storia; eppure, le ambizioni autonomistiche o indipendentistiche dei singoli popoli erano sistematicamente disconosciute e represse dall’autorità centrale. Inoltre, le condizioni economiche e sociali della Russia risultavano particolarmente depresse: i segnali tipici della Rivoluzione industriale erano molto flebili, mentre i rapporti tra i ceti sociali, specie nelle sterminate campagne, seguivano le regole rigidamente piramidali del sistema feudale. I cambiamenti economici e politici Nonostante questo, negli anni non erano mancati gli indizi di un iniziale, per quanto timido, processo di modernizzazione. L’abolizione della servitù della gleba, ad esempio, stabilita nel 1861, aveva rotto una delle pratiche più odiose risalenti al Medioevo; inoltre, la formazione di un iniziale sistema industriale, in particolare nelle grandi aree urbane di Mosca e di San Pietroburgo (la capitale dell’Impero), aveva liberato alcune energie in campo imprenditoriale, avviando la nascita e lo sviluppo di una moderna classe operaia. Tali trasformazioni strutturali avevano provocato qualche movimento anche a livello politico, dove i gruppi liberal-costituzionali (il futuro “Partito dei Cadetti”) avevano iniziato a prendere le distanze dagli ambienti più reazionari. Inoltre, sul finire del secolo, comparvero anche i primi partiti moderni: tra questi, occorre citare il Partito operaio socialdemocratico, costituito nel 1898 e più vicino alle istanze della nascente società industriale; e il Partito socialista rivoluzionario, costituito nel 1902, più legato all’esperienza precedente del populismo russo e più sensibile alle richieste dei contadini. Nel 1903 il Partito operaio socialdemocratico aveva vissuto un’importante scissione, che separò le strade dei moderati (menscevichi), il cui esponente principale fu Georgij V. Plechanov, e dei radicali (bolscevichi), guidati da Vladimir I. Ulianov, detto Lenin. La rivoluzione del 1905 e le sue conseguenze Il segnale più evidente dei sommovimenti politici in atto nella società russa si ebbe con il tentativo rivoluzionario del 1905, che portò alla concessione della Costituzione da parte dello zar e alla costituzione del Parlamento (Duma), eletto tuttavia solo dalla parte più ricca dei cittadini russi. La rivoluzione fu la principale conseguenza della sconfitta militare contro il Giappone, che rappresentò l’ennesima e più grave dimostrazione di un lungo declino militare, avviato – dopo la vittoria d’inizio secolo contro Napoleone – con la guerra di Crimea (1853-1856) e testimoniato soprattutto dalla difficoltà russa di espandersi nei Balcani. Fu proprio in questa fase rivoluzionaria che comparvero i primi Soviet, strutture inedite di rappresentanza popolare che praticavano forme di autogoverno. Lo slancio rivoluzionario, tuttavia, durò poco. Dopo alcuni mesi, infatti, lo zar riuscì a reprimere la rivolta e a ripristinare di fatto il suo potere assoluto. In questo scenario la Grande Guerra, che vide la Russia schierata a fianco della Francia e della Gran Bretagna, rappresentò, con il suo carico smisurato di lutti e di miserie, una sfida troppo impegnativa per lo zarismo, incapace di governare l’imponente mobilitazione militare ed economica in corso. La Rivoluzione di febbraio Così, nel febbraio 1917 scoppiò improvvisamente la prima rivoluzione, quella “borghese”, che causò l’abdicazione di Nicola II, la caduta della dinastia dei Romanov e la fine dello zarismo. A Pietrogrado (il nuovo nome della capitale) e in diverse altre città, le rivolte popolari delle classi lavoratrici e dei soldati, riuniti nuovamente nei Soviet, favorirono la nascita di una Repubblica costituzionale, che ebbe nei liberali, guidati dal principe Georgij E. L’vov, e nei socialisti rivoluzionari, diretti da Alexandr F. Kerenskij, le formazioni politiche più rilevanti; il primo fu a capo del Governo Provvisorio Russo dal marzo al luglio del 1917, il secondo dal mese di luglio fino a novembre. Tuttavia, la scelta decisiva operata dai primi rivoluzionari di continuare la guerra a fianco dell’Intesa, aumentò nel tempo il malcontento popolare, rafforzando le simpatie per i bolscevichi, schierati all’opposizione del Governo ma largamente presenti e particolarmente attivi nei Soviet. Per le loro idee radicali, favorevoli a una rivoluzione di tipo socialista e all’uscita dalla guerra “imperialista”, essi furono messi fuori legge dall’estate; tale scelta, tuttavia, finì per renderli ancora più graditi a larga parte del popolo russo. Le tesi di aprile Costretto da parecchi anni in esilio Lenin dal 1903 a capo della corrente dei bolscevichi, riuscì a tornare in Russia. Una volta tornato in patria, diffuse un documento “Le tesi di aprile”. Si affermava il diritto all’autodeterminazione e si annunciava la volontà di abbandonare la guerra “imperialista”. Infine, si invitava all’alleanza tra la classe operaia industriale e i contadini necessaria per procedere a una rivoluzione di stampo comunista. Fu durante il periodo della clandestinità che i bolscevichi videro crescere i consensi nella popolazione russa, soprattutto nelle grandi città; il popolo russo appariva provato dalla guerra e per questo era sempre più incline a sostenere chiunque avesse favorito la fine delle operazioni belliche. Così, nel mese significativa appendice europea di Istanbul. Fu proprio in tale scenario, reso particolarmente instabile dalla lunga guerra contro la Grecia combattuta tra il 1919 e il 1922, che la Turchia vide finalmente nascere nel 1923 una moderna Repubblica laica, guidata da Mustafa Kemal Atatürk. Tra le decisioni più importanti assunte dalla Conferenza di pace di Parigi vi fu certamente la costituzione della Società delle Nazioni, già prevista tra i 14 punti di Wilson: vale a dire un organismo sovranazionale, il primo nella storia globale, che si poneva l’obiettivo di allentare le tensioni ed evitare le guerre tra gli Stati nazionali. Nonostante il valore e la lungimiranza degli ideali di autodeterminazione dei popoli e di pacifica convivenza tra le Nazioni, al momento della scelta finale i vincitori commisero il grave errore di escludere gli sconfitti, Germania in testa; inoltre, si decise di non ammettere neanche la Russia, con il chiaro obiettivo di emarginare il governo bolscevico. Infine, il risultato delle elezioni presidenziali statunitensi del 1920, che vide l’affermazione dei repubblicani, fautori del ritorno all’isolazionismo, impedì l’ingresso degli Usa proprio in quella che era stata una creatura concepita da Wilson. ITALIA NEL DOPOGUERRA Nel Paese riprese vigore la spinta nazionalista, che alimentò il mito della cosiddetta “vittoria mutilata”, anche grazie all’azione dei Fasci di combattimento, una nuova organizzazione costituita a Milano dall’ex socialista Benito Mussolini nel marzo 1919. La caduta di Orlando, la sua sostituzione con Francesco Saverio Nitti, la spedizione di D’Annunzio a Fiume e l’occupazione della città per circa un anno, precedettero la risoluzione temporanea della questione, ottenuta con il trattato di Rapallo del novembre 1920, quando Fiume venne dichiarata “città libera”. La politica estera non fu il solo ambito nel quale si manifestò tutta l’instabilità del dopoguerra. Anche in politica interna la mancanza di alternanza al potere fu la causa principale che condusse, in breve tempo, alla crisi definitiva dello Stato liberale. Il passaggio dal sistema elettorale maggioritario al proporzionale, deciso nel 1919 e applicato per la prima volta nelle elezioni politiche dello stesso anno, da un lato indebolì lo schieramento liberale, rompendo il rapporto clientelare che spesso legava il candidato al territorio; e dall’altro favorì la prima affermazione dei grandi partiti di massa (il Psi e il Ppi, il Partito Popolare Italiano, fondato da Luigi Sturzo dopo la guerra). In ogni caso, il nuovo sistema non riuscì a offrire stabilità al sistema istituzionale. Il contrasto tra socialisti e popolari, infatti, indusse questi ultimi ad allearsi con i liberali, ma semplicemente per arginare il “pericolo rosso”. I fascisti, nonostante l’atteggiamento violento avuto sin dall’inizio nei confronti dei socialisti (si pensi all’incendio della sede dell’“Avanti!”, avvenuto nell’aprile 1919 a Milano), nelle elezioni del 1919 ottennero pochissimi consensi; fu così che, sbarrata la strada a sinistra, Mussolini scelse di posizionarsi a destra, individuando specie negli agrari i potenziali finanziatori del suo movimento e nei ceti medi i potenziali sostenitori, tutti impauriti dalla crescita del proletariato. Per circa due anni, tra il 1919 e il 1920, i fascisti furono assenti dalla scena politica. Il “biennio rosso”, infatti, fu un periodo di forti agitazioni sociali, senza precedenti, le cui ragioni andavano ricercate nella tragedia della guerra. Questa aveva allargato la forbice tra i pochi che si erano arricchiti grazie alla produzione bellica e la gran parte della popolazione che dalla guerra aveva ricevuto solo atroci sofferenze e un aumento della povertà. Il dopoguerra, dunque, fu carico di tensione. Ai danni della guerra, materiali e psicologici, si aggiunsero le notizie provenienti dalla Russia e l’impennata dei prezzi. Ciò produsse in Italia (ma anche altrove) una miscela micidiale che favorì lo scoppio di aspre lotte sociali. Da giugno iniziarono a La Spezia i primi moti contro il caroviveri, presto allargatisi nei territori vicini di Liguria e Toscana. Le agitazioni si estesero poi a tutto il territorio nazionale, soprattutto nelle campagne, dove iniziarono le prime occupazioni delle terre. Il “biennio rosso”, infatti, vide coinvolti soprattutto i braccianti. L’agricoltura era uscita particolarmente malconcia dalla Prima guerra mondiale; la povertà dilagava e il senso di frustrazione dei contadini, illusi da promesse strumentali, alimentava l’inquietudine. In gran parte d’Italia le Leghe “rosse” si imposero sia per l’intensità dello scontro che per la radicalità delle rivendicazioni. Già nel 1919 la Federterra, guidata dalla socialista Argentina Altobelli, disdiceva circa novemila patti. Le dure vertenze che seguirono videro il movimento bracciantile, mezzadrile e contadino ottenere importanti risultati. In pochi mesi, tuttavia, la violenta reazione degli agrari annullò le vittorie; nelle campagne i proprietari terrieri invocarono la soluzione forte, che riducesse al silenzio il movimento sindacale. Mentre dilagava il conflitto sociale nelle campagne, nelle città del Nord industriale, in particolare a Torino, dall’autunno del 1919 si diffusero i primi Consigli di fabbrica, i nuovi organismi di rappresentanza eletti da tutti gli operai e costituiti per controllare la produzione e contestare l’organizzazione capitalistica del lavoro e della società. Il modello di riferimento era quello dei Soviet russi. In Italia il gruppo promotore si riunì intorno al giornale “L’Ordine Nuovo”, diretto da Antonio Gramsci. Il momento più aspro dello scontro si ebbe nell’aprile 1920 con il cosiddetto “sciopero delle lancette”, promosso dai Consigli di fabbrica con epicentro nella Fiat, ma che si risolse in una sconfitta dei lavoratori. Quindi, nel mese di settembre ci fu una nuova fiammata quando, in seguito alla serrata di alcuni stabilimenti di Milano e Torino, molte fabbriche vennero occupate. L’impatto emotivo dell’evento fu forte, soprattutto tra gli industriali, tanto da costringere il Governo, guidato nuovamente da Giolitti, a intervenire direttamente nella disputa. Il risultato finale fu un accordo sindacale che poneva fine alle occupazioni in cambio della concessione di strumenti di controllo operaio sulla produzione, che tuttavia furono presto annullati. Nel campo socialista, fallito il sogno di “fare come in Russia”, il risveglio fu molto brusco. Le elezioni amministrative dell’autunno 1920 segnarono il primo consistente arretramento socialista e l’avvio dell’offensiva squadrista. L’attacco fascista partì da una delle capitali “rosse” d’Italia, Bologna; nel capoluogo emiliano la strage di Palazzo d’Accursio, determinata dall’assalto alla sede dell’Amministrazione comunale socialista, mise in luce la pericolosità del fenomeno fascista, fino ad allora sottovalutato da tutte le formazioni politiche. Iniziò così una nuova stagione, il “biennio nero” (1921-22), caratterizzato sempre di più dalle violenze dello squadrismo, che aprì la strada alla conquista del potere da parte di Mussolini. I fascisti ottennero il sostegno decisivo degli agrari e di alcuni industriali, mentre i prefetti e le forze dell’ordine offrirono spesso coperture decisive che, nei fatti, impedirono l’arresto delle violenze. Al nazionalismo aggressivo il fascismo aggiunse dunque un acceso antisocialismo, facendo breccia nella piccola borghesia. L’arma vincente di Mussolini fu la violenza politica. Nel dopoguerra, infatti, l’effetto più vistoso di un evento così brutale come la Grande Guerra fu la “brutalizzazione della politica”: cioè, alla dialettica politica, anche aspra, si sostituì sempre di più un vero e proprio odio verso il nemico, esaltato in particolare negli ambienti interventisti e nazionalisti. Così, lo squadrismo crebbe in modo esponenziale tra il 1920 e il 1921, soprattutto nella Val Padana e nelle Puglie, dove più forte era il movimento bracciantile e contadino. I bersagli privilegiati furono le Camere del lavoro, le Case del popolo, le leghe sindacali, le sezioni e i circoli di partito, le cooperative, le amministrazioni locali. Sotto i colpi delle spedizioni punitive morirono molti dirigenti, militanti, sindacalisti, politici, lavoratori; a migliaia furono oggetto di agguati, attentati, ferimenti e bastonature. Fu così che, nel giro di pochi mesi, il fascismo riuscì a ridimensionare i suoi oppositori, fino quasi a cancellarli. Negli stessi mesi in cui lo squadrismo dilagava, venne alla luce un nuovo raggruppamento politico. Il Partito Comunista d’Italia (PCd'I) nacque a Livorno nel gennaio 1921 con la scissione dal Psi, colpevole, secondo i promotori della nuova formazione, di non voler aderire ai 21 punti richiesti dalla Terza Internazionale, che prevedevano, tra le altre cose, il cambio del nome, l’espulsione dei riformisti e il pieno sostegno alle direttive bolsceviche. La minoranza comunista era piuttosto piccola; eppure, la statura dei dirigenti, da Antonio Gramsci a Palmiro Togliatti, da Amadeo Bordiga a Umberto Terracini, e il valore simbolico della rottura resero fondamentale l’evento, destinato a incidere profondamente nella storia nazionale. Di fronte alla crisi italiana del dopoguerra, la classe dirigente liberale non si mostrò all’altezza della sfida. Lo stesso Giolitti, grande mediatore politico, pensò di poter “normalizzare” i fascisti, svuotandone le componenti più eversive. Queste, però, erano parte integrante del progetto mussoliniano, in cui il “doppiopetto” in Parlamento era complementare alla “camicia nera” nelle piazze; in tale schema il terrorismo fascista aveva sempre il sopravvento sulla faccia “presentabile” del gruppo parlamentare, che fu finanche alleato con la maggioranza di governo, come accadde con i “blocchi nazionali” preparati per le elezioni politiche del 1921. Che la situazione fosse incandescente lo dimostrò proprio la campagna elettorale del 1921, segnata dalla spietata violenza fascista che provocò oltre cento morti in poche settimane. Ormai si era nel pieno di una “guerra civile” che il Governo, però, ignorava volutamente, per sfruttare fino in fondo l’alleanza elettorale con Mussolini. L’esito del voto non incise su una situazione confusa e sempre più polarizzata. Gli stessi Governi che si avvicendarono, presieduti da Ivanoe Bonomi e Luigi Facta, fallirono nel tentativo di arginare la violenza squadrista, che proseguì pressoché indisturbata nei mesi seguenti. Quando nell’estate del 1922 fallì il tentativo estremo dello “sciopero legalitario” contro la violenza fascista, per Mussolini si aprì la strada per la conquista del potere. Mentre i socialisti vivevano il dramma dell’ennesima spaccatura, fu preparata la “marcia su Roma”. L’evento poteva essere facilmente contenuto con la proclamazione dello stato d’assedio, ma il re si rifiutò di firmarlo. Il 28 ottobre 1922 si svolgeva la parata che condusse alla formazione del primo Governo Mussolini, con liberali e popolari, e all’instaurazione della dittatura fascista. DOPOGUERRA NEGLI ALTRI PAESI Nonostante la grave sconfitta militare, la Germania restò ancora l’ago della bilancia in Europa. All’inizio del 1919, nella città di Weimar, un’Assemblea costituente, votata a suffragio universale, redasse una Costituzione repubblicana innovativa, piuttosto avanzata sul piano sociale, cui contribuirono in particolare quei gruppi politici (cattolici, liberali progressisti e socialdemocratici), rimasti più ai margini durante l’epoca guglielmina. Il primo Presidente della nuova Repubblica fu Friederich Ebert, uno dei leader della socialdemocrazia tedesca, la quale dunque decise di non “fare come in Russia”, cioè si rifiutò di prendere il potere attraverso un moto rivoluzionario di stampo comunista che abbattesse il sistema di potere della borghesia. Nella Repubblica di Weimar operarono anche due importanti partiti di opposizione.  All’estrema sinistra si schierarono i comunisti, promotori di un tentativo rivoluzionario nell’immediato dopoguerra, che tuttavia fu duramente represso dall’esercito, col sostegno decisivo dei Freikorps, cioè milizie paramilitari composte da reduci nazionalisti; tale repressione causò la morte, tra gli altri, di Rosa Luxemburg e Karl Liebknecht, alla guida del cosiddetto Movimento spartachista, antimilitarista e pacifista, vicino alle posizioni dei bolscevichi, che era sorto durante la guerra.  All’estrema destra, invece, si schierarono i nazionalsocialisti, sostenitori di una linea ultranazionalista e razzista, guidati da Adolf Hitler, protagonista nel 1923 a Monaco di un putsch, cioè di un colpo di Stato, che fallì malamente; durante la successiva prigionia Hitler iniziò la stesura del suo libro “manifesto”, il Mein Kampf (“La mia battaglia”), in cui espose le sue tesi sanguinarie. Il diktat di Versailles e la crisi economica del 1923. Il problema principale della neonata Repubblica, comunque, non veniva per il momento dall’interno, cioè dall’instabilità istituzionale e dalla frammentazione politica. Infatti, il nodo più delicato riguardava la politica estera, cioè, in breve, l’umiliazione subita dalla Germania con il diktat di Versailles, dal quale scaturiva la manifesta impossibilità da parte tedesca di rispettare le clausole economiche, stante una situazione produttiva troppo sfavorevole. Tale impotenza, peraltro, veniva continuamente alimentata dai Paesi vincitori, in primis dalla Francia, che nel 1923, di fronte al mancato pagamento delle riparazioni, occupò militarmente la regione della Ruhr, epicentro strategico del sistema economico tedesco. Nello stesso tempo si scatenò una drammatica spirale iperinflazionistica che ridusse il valore del marco a livelli infimi, minando la credibilità internazionale della Germania. Soltanto dalla metà del decennio, dopo la “grande paura” del 1923, la situazione iniziò a migliorare, grazie soprattutto al sostegno economico dei capitali americani, che favorirono un riequilibrio nei conti pubblici tedeschi e rilanciarono l’economia della Germania. Nel 1924, ad esempio, il Piano del finanziere americano Charles G. Dawes, futuro Vicepresidente degli Stati Uniti, permise la ripresa di pagamenti più agevoli da IL FORDISMO E L’INIZIO DEL SECOLO AMERICANO Il taylor-fordismo Lo strumento principale dell’egemonia americana fu senza dubbio il nuovo modo di produrre, di lavorare e di consumare che prese il nome di taylor-fordismo e che ebbe il suo simbolo nell’automobile; infatti, tanto nell’immaginario collettivo quanto nella vita di tutti i giorni, questa divenne la rappresentazione più concreta di libertà e di benessere, un obiettivo cui aspiravano tutti i cittadini e tutte le famiglie. Non è un caso, infatti, che il termine “fordismo” derivi proprio dal nome di Henri Ford, un industriale del Michigan a capo di un vero e proprio “impero” economico, fondato sull’industria automobilistica, il quale, con le sue profonde innovazioni, intrecciando in modo indissolubile il mondo della produzione e quello dei consumi, riuscì a trasformare radicalmente la stessa filosofia di vita di milioni di persone in tutto il pianeta. Il taylorismo Il primo dei pilastri essenziali del fordismo fu il taylorismo, cioè quel metodo di organizzazione scientifica della produzione industriale introdotto per la prima volta all’inizio del XX secolo da un ingegnere americano, Frederick Taylor. Tale sistema consisteva nello scomporre nel modo più semplice possibile una determinata attività di lavoro, per renderla particolarmente elementare e ripetitiva, in modo che potesse essere più compiuta da chiunque, senza grandi capacità professionali; smontando al massimo livello l’operazione, questa poteva essere misurata in modo scientifico, ad esempio cronometrata per calcolarne la durata e quindi per accelerarne l’esecuzione, al fine di ottenere la modalità migliore di produzione (“one best way”). La catena di montaggio Ford decise di applicare su larga scala il nuovo metodo di lavoro nelle sue aziende automobilistiche. Inoltre, nel 1914 egli decise di introdurre un’ulteriore fondamentale novità, la catena di montaggio, che venne sperimentata per la prima volta nello stabilimento di Highland Park, a Detroit. La linea di montaggio consisteva in un nastro trasportatore che portava direttamente al singolo operaio, fermo nella sua postazione, i singoli pezzi su cui lavorare; con tale espediente il lavoratore, già incaricato di svolgere mansioni sempre più banali e monotone, non perdeva tempo nello spostamento da un’area a un’altra del suo reparto, alla ricerca di attrezzi e materiali, riuscendo così a migliorare le sue prestazioni. Così, se Taylor aveva standardizzato il lavoro operaio, Ford riuscì nell’impresa di renderlo più rapido; il duplice meccanismo del taylor-fordismo, alla fine, aumentò in misura esponenziale l’efficienza del lavoro industriale. La Ford T Tale sistema venne applicato su un nuovo modello di automobile, la Ford T, che nel giro di pochi anni divenne la vettura di gran lunga più venduta nel mercato americano. Con il tempo l’intero sistema si perfezionò a tal punto che, negli anni Venti, dagli stabilimenti Ford uscivano ogni giorno migliaia di macchine. L’aumento vertiginoso della produzione industriale (una produzione, appunto, di massa), insieme alla drastica riduzione dei costi di produzione, permise agli imprenditori di ridurre sensibilmente i prezzi dei loro prodotti, in modo da poterli commerciare più facilmente. In questo modo non erano soltanto le persone più ricche a potersi permettere un “bene di lusso”, come era accaduto per le prime automobili; anche i membri della classe media, infatti, si trovarono nelle condizioni di acquistare prodotti sempre più vantaggiosi. Gli alti salari e i consumi di massa Luci e ombre del fordismo Ben presto, però, anche gli stessi operai si trasformarono in veri e propri consumatori. Infatti, accanto al taylorismo, il secondo pilastro del fordismo riguardò le retribuzioni dei dipendenti. Ford infatti, con grande lungimiranza, fu il primo imprenditore a guardare ai suoi operai non solo come semplici lavoratori, ma come clienti, cioè acquirenti dello stesso prodotto da loro realizzato. Perché l’operaio potesse arrivare a comprarsi l’automobile occorreva però modificare radicalmente la politica salariale delle imprese. Ancora una volta Ford fece da apripista quando nel 1914 decise in un colpo solo di raddoppiare i salari dei propri dipendenti, innalzando da 2,50 a 5 dollari la paga giornaliera. Si calcola che, dopo la guerra, per un operaio della Ford occorressero circa due mesi di lavoro per acquistare una Ford T. Fu in questo modo che si avviò la lunga stagione dei “consumi di massa”, peculiarità del capitalismo industriale novecentesco. Luci e ombre del fordismo Ford non intervenne soltanto sui salari, ma migliorò le condizioni economiche dei suoi dipendenti grazie a un sistema di benefit aziendali per le loro famiglie, che prevedeva misure efficaci anche in campo assistenziale, sanitario, educativo e abitativo. Nello stesso tempo, però, nelle fabbriche del gruppo le regole sulla disciplina si fecero particolarmente severe. Ciò avvenne in due modi: sia grazie all’utilizzo di una sorta di “polizia” interna agli stabilimenti che controllava e puniva chiunque violasse le norme dell’organizzazione produttiva; sia attraverso il divieto di svolgere un’attività sindacale di rappresentanza e di tutela degli interessi dei lavoratori, ad esempio attraverso la contrattazione collettiva. Così, mentre altrove iniziavano i primi scioperi contro i metodi alienanti e soffocanti del taylorismo (il primo avvenne nel 1911 da parte dei fonditori del Watertown Arsenal), per lungo tempo nelle aziende della Ford non si registrarono casi di astensione collettiva dal lavoro. Anche il fordismo, che pure aveva innalzato i redditi degli operai ampliandone il potere d’acquisto, presentava una faccia “oscura”: quella di un governo autoritario della produzione, che limitava drasticamente i diritti dei cittadini nel momento in cui varcavano i cancelli di una fabbrica. LA GRANDE CRISI DEL ‘29 La quiete (apparente) prima della tempesta Sul finire degli anni Venti nella Germania di Weimar, nonostante i progressi compiuti in campo diplomatico ed economico dalla metà del decennio, le principali forze politiche continuavano ad apparire deboli e divise. Il centro della scena era tenuto dai liberali del Partito nazionale popolare e dal partito cattolico dello Zentrum, mentre la formazione che deteneva la maggioranza relativa, il Partito socialdemocratico, incalzato a sinistra dai comunisti, era stato costretto all’opposizione, dove rimase fino al 1928, quando tornò a far parte di un governo di coalizione. Nelle elezioni di quell’anno, infine, il Partito nazionalsocialista di Hitler era riuscito a entrare in Parlamento, ma aveva ottenuto pochi consensi, riuscendo a eleggere soltanto 12 deputati. Tuttavia, a mutare radicalmente il quadro politico intervenne un fattore esterno economica, i cui effetti , di natura divennero ben presto epocali, provocando in breve tempo la caduta rovinosa della Repubblica. Il “giovedì nero” Il 24 ottobre 1929 – una giornata drammatica, passata alla storia come il famoso “giovedì nero” – si ebbe il crollo fragoroso della Borsa americana di Wall Street, a New York, da tempo ormai la capitale finanziaria degli Stati Uniti e uno dei centri più importanti dell’economia globale. Lo shock fu enorme e il panico si diffuse in modo incontrollabile, finendo per innescare una serie rovinosa di reazioni a catena. Iniziò così la Grande Crisi, la più grave caduta e la più profonda recessione nella storia del mondo capitalistico occidentale, di gran lunga più pesante di tutte le crisi precedenti, compresa quella dell’immediato dopoguerra, scoppiata nel 1921, quando si scontavano ancora le drammatiche ripercussioni e incertezze sollevate dalla Grande Guerra. Gli Stati Uniti: cause ed effetti della crisi L’esistenza di risparmi cumulati e l’assenza di limiti alle attività speculative crearono le condizioni per un ampio ricorso al credito da parte degli investitori e spinsero questi ultimi, insieme alle banche, alla speculazione in Borsa. Dal 1920 al 1929 gli investimenti azionari triplicarono il loro volume e gli indici di borsa salirono, dal 1926 al 1929, da 100 a 216, ma all’aumento del valore delle azioni industriali, tuttavia, non corrispondeva un effettivo aumento della produzione e della vendita dei beni. La speculazione non fu comunque l’unica causa del grande crollo. Parte della crisi viene infatti addossata alla caduta dei prezzi dei prodotti agricoli avvenuta in conseguenza dell’enorme accumulazione delle scorte rimaste invendute a seguito del miglioramento della produzione agricola dei paesi europei; per cui si videro tonnellate di grano e di caffè rovesciate in mare o date alle fiamme nel tentativo di far risalire i prezzi. L’accumulo delle scorte che impedì agli agricoltori, fortemente indebitati, di corrispondere alle banche gli interessi per le somme avute in prestito e la speculazione furono dunque tra le cause che portarono allo scoppio della crisi. Le conseguenze A subirne le conseguenze furono proprio le industrie di beni di consumo durevoli come quelle dell’auto che dovettero tagliare le loro commesse verso aziende appartenenti alla stessa filiera, abbassare i salari (con grave pregiudizio dei consumi) e ridurre il personale. La contrazione dei consumi provocata dal taglio dei salari provocò l’espandersi della crisi dal settore industriale a quello agricolo arrecando danni ad un settore primario già fortemente indebolito. Poiché il settore industriale era poi legato al settore bancario che manteneva bassi i tassi per favorire gli investimenti sul mercato azionario, quando, al momento del crollo di Wall Street i piccoli risparmiatori si precipitarono negli istituti di credito per ritirare il loro denaro, il mercato andò incontro ad una crisi di liquidità contribuendo al fallimento di molte banche e, a catena, delle industrie in cui esse avevano investito. La Grande Depressione in Europa Sul piano internazionale la conseguenza più immediata del “giovedì nero” fu il ritiro dei capitali statunitensi. Questo evento non comportò soltanto la contrazione degli scambi commerciali, la fluttuazione delle monete nazionali e il fallimento delle imprese che beneficiavano di quei prestiti. La slavina innescata finì per travolgere inevitabilmente anche i conti pubblici degli Stati, compresi i più importanti, tutti trasformati dalla Grande Guerra in Paesi debitori degli Stati Uniti. Nei primi mesi del 1930 la crisi era ormai ampiamente diffusa in Europa, ma essa continuò a peggiorare ancora nel biennio successivo. Gli effetti furono laceranti, sul piano finanziario e produttivo: il governo britannico, ad esempio, interruppe nel 1931 la convertibilità della sterlina in oro (gold standard); anche in Francia, dove molte aziende furono costrette a cessare l’attività, la situazione appariva drammatica. Il caos in Germania e l’ascesa dei nazisti A tale proposito, i risultati più brillanti furono ottenuti in alcuni Paesi del Nord Europa, dove iniziò ad affermarsi un modello inedito di Stato, impegnato non solo a favorire la crescita economica ma anche a tutelale il benessere sociale dei propri cittadini. Già in precedenza, ai tempi di Bismarck, lo Stato tedesco aveva varato alcune misure in campo assistenziale e previdenziale; tuttavia, ciò era avvenuto all’interno di un quadro istituzionale autoritario, privo di elementi di garanzia democratica. Negli anni Trenta, invece, nei Paesi scandinavi, soprattutto in Svezia, avvenne qualcosa di diverso, poiché i provvedimenti sociali vennero contrattati liberamente all’interno di un sistema democratico. Infatti, il cosiddetto “welfare scandinavo” era il frutto di un patto sociale, di una collaborazione triangolare tra governi (a guida socialdemocratica), imprese e sindacati, i quali discutevano e concertavano insieme una vera e propria politica sociale in grado di offrire risposte concrete per le classi lavoratrici in termini di assistenza, occupazione, edilizia popolare, previdenza, sanità e tutela della maternità. Fu proprio tale modello di “redistribuzione dei redditi” a porre tali paesi all’avanguardia in tema di politiche sociali. IL NAZISMO Nella crisi di Weimar Nella Germania di Weimar, durante gli anni Venti, il Partito nazionalsocialista di Hitler non aveva ottenuto consensi significativi, restando ai margini della vita politica. Soltanto la crisi economica internazionale del ’29, con i suoi effetti disastrosi sulle finanze tedesche e sul locale mercato del lavoro (che fece registrare nel 1932 una punta di 6 milioni di disoccupati), mutò sensibilmente gli equilibri in campo. In pochi anni, tra il 1930 e il 1932, la propaganda nazista contro i nemici della Germania, sia stranieri che interni al Paese, si fece sempre più aggressiva; così come più aggressive divennero le spedizioni punitive condotte da vere e proprie formazioni paramilitari (le più famigerate furono le S.A., Squadre d’assalto) contro dirigenti e militanti degli altri partiti, specie quelli di sinistra, vittime di un clima sempre più cupo che ormai rasentava la guerra civile. La miscela esplosiva di violenza e propaganda, in un contesto segnato dall’incremento esponenziale della povertà e dell’insicurezza, portò i nazionalsocialisti a diventare il primo partito grazie a un voto di protesta sempre più diffuso. Considerati i risultati elettorali, il presidente della Repubblica, il generale Paul von Hindenburg, nel gennaio 1933, affidò a Hitler il ruolo di Cancelliere, cioè di capo del governo. Iniziava così la rapida dissoluzione della giovane democrazia tedesca, costituita nell’immediato dopoguerra. Hitler al potere Il primo episodio eclatante avvenuto dopo l’insediamento al potere di Hitler fu l’incendio del Parlamento, di cui furono accusati ingiustamente i comunisti, allo scopo di metterli fuori legge. Quindi, in breve tempo il Fuhrer decise di cancellare tutti i partiti, ad eccezione ovviamente di quello nazionalsocialista, che dunque rimase l’unico partito in Germania. Infine, dopo aver eliminato tutti i nemici “esterni”, decretando così la fine della democrazia, egli si rivolse contro i “nemici interni” allo stesso movimento nazista, per impedire qualsiasi forma di opposizione al suo potere assoluto; è in tale quadro che vanno collocati i fatti del 30 giugno 1934 – la cosiddetta “notte dei lunghi coltelli”. Circa un mese dopo, quando Hindenburg morì, Hitler assunse su di sé anche la carica di capo dello Stato. Il nazismo, ormai, era un regime pienamente totalitario, caratterizzato cioè dal ritorno a una forma di potere assoluto, ma all’interno di una nuova società, la società di massa. L'ideologia nazista Il nazismo era un’ideologia che presentava alcuni elementi peculiari. Innanzitutto essa era antidemocratica, nel senso che rifiutava categoricamente tutte quelle istituzioni e tutti quei soggetti, di diverso orientamento politico, che fornivano un’immagine plurale della Nazione. Il nazionalismo esasperato di Hitler nasceva da una visione organicistica della realtà, secondo cui la società funzionava come un corpo umano, in cui tutti gli organi dovevano essere in armonia, pena la decadenza dell’intero organismo, fino alla sua morte; trasferendo tale visione a livello politico, per i nazisti occorreva combattere, sconfiggere ed eliminare tutti coloro che attentavano alla salute del “corpo” della Nazione. Il nazismo, dunque, portò alle estreme conseguenze una concezione “biologica” della politica, per la quale finiva per vincere sempre l’organismo più forte e sano; come il darwinismo, studiando l’“evoluzione della specie", aveva mostrato la capacità di adattamento di quelle più forti, così lo stesso processo accadeva nella società (“darwinismo sociale”). Perciò, alle nazioni più forti, spettava il compito di conquistare e dominare il mondo, eliminando le nazioni, le “razze” e le persone ritenute inferiori. L'antisemitismo Tra le cosiddette “razze inferiori”, quella considerata di rango più basso fu quella ebrea. La scelta era ricaduta sugli ebrei non solo per presunte motivazioni biologiche, ma soprattutto per concrete motivazioni politiche ed economiche. Da secoli, infatti, gli ebrei erano stati costretti ad attrezzarsi per sopravvivere in contesti molto ostili, essendo oggetto di continue discriminazioni, se non di vere e proprie persecuzioni; così, molte famiglie e singoli individui si erano specializzati nel mondo dei commerci e dei traffici, della finanza e del credito, acquisendo notevoli ricchezze. Dalla fine dell’Ottocento, in parallelo con il processo di ascesa del nazionalismo, era andato crescendo anche un pericoloso antisemitismo, frutto di una propaganda che, attraverso l’esaltazione di vecchi e nuovi “luoghi comuni”, individuava negli ebrei il simbolo per eccellenza di un popolo senza patria, dotato di grandi ricchezze, la cui religione contrastava con i principi basilari del cristianesimo. Fu così che gli ebrei divennero il bersaglio privilegiato della propaganda paranoica del nazismo; e il razzismo antisemita divenne la principale peculiarità del nazismo, tanto da farne un unicum nella storia dell’umanità, non comparabile con nessun’altra ideologia e con nessun altro totalitarismo. La discriminazione verso gli ebrei, inaugurata con le leggi di Norimberga del 1935, che negarono loro i più elementari diritti di cittadinanza, si trasformò presto in una vera e propria persecuzione, come documentò in modo eloquente il grande pogrom della “notte dei cristalli”, avvenuto tra il 9 e il 10 novembre 1938. La politica estera Se nella politica interna l’impegno principale di Hitler si rivolse a eliminare tutti i nemici politici, esterni e interni al nazismo, e a rilanciare l’economia per sconfiggere la piaga della disoccupazione, nella politica estera egli si dedicò da subito a destabilizzare il quadro internazionale uscito dai trattati di pace del 1919-20 e faticosamente stabilizzato negli anni Venti. La prima scelta, effettuata nel 1933, fu quella di uscire dalla Società delle Nazioni. Dopodiché Hitler iniziò a lavorare alla riunificazione di tutti i territori tedeschi sottratti dal diktat di Versailles, come premessa per la successiva politica di aggressione finalizzata alla conquista dello “spazio vitale” (lebensraum), necessario per assicurare alla nazione tedesca potenza e ricchezza. I passaggi essenziali, in ordine cronologico, furono: -        il sostegno alla guerra fascista in Etiopia nel 1935-36; -        la formazione dell’asse Roma-Berlino con l’Italia nel 1936; -        la rimilitarizzazione della Renania, decisa nello stesso anno; -        l’appoggio al colpo di Stato di Francisco Franco, proseguito fino alla vittoria del dittatore spagnolo nel 1939; -        la firma del Patto anticomintern con Italia e Giappone nel 1937; -        l’annessione dell’Austria (Anschluss) nel 1938; -        la successiva annessione della regione cecoslovacca dei Sudeti, sancita dal patto di Monaco; -        infine, nel 1939, l’invasione della Cecoslovacchia nel mese di marzo e la firma del “patto d’acciaio” con l’Italia a maggio. Il 23 agosto 1939, poi, a pochi giorni dall’attacco alla Polonia – con cui iniziò la Seconda guerra mondiale in Europa – la Germania nazista riuscì a raggiungere un sorprendente accordo di “non aggressione” con il nemico per eccellenza, l’Unione Sovietica di Stalin; il patto Molotov-Ribbentrop, così chiamato dal nome dei due ministri degli esteri firmatari dell’intesa, mostrò al resto del mondo il livello di cinismo e spregiudicatezza messo in campo dai principali regimi totalitari per affermare la loro volontà di potenza. LO STALINISMO Stalin al potere Dopo la nascita dell’Urss si aprì la sfida per la successione a Lenin, le cui condizioni di salute andarono peggiorando tra il 1922 e il 1923, fino alla sua morte, avvenuta il 21 gennaio 1924. La partita, trasformatasi ben presto in uno scontro duro, condotto senza esclusione di colpi, vide contrapposti: da un lato Trotsky, sostenitore della necessità di esportare il processo rivoluzionario comunista a livello mondiale; e dall’altro Stalin, che divenne il paladino di una linea politica, riassunta dallo slogan “il socialismo in un solo Paese”, che puntava a concentrare tutti gli sforzi nella difesa della patria del comunismo. D’altronde, l’esperienza russa aveva già smentito le previsioni marxiste sulla diffusione del socialismo innanzitutto nei Paesi capitalistici occidentali; dunque, è comprensibile che molti dirigenti bolscevichi, dopo le sofferenze della Grande guerra e della guerra civile, pensassero principalmente a consolidare il giovane regime, isolato e accerchiato dalle altre potenze. Con questo programma Stalin riuscì a stringere importanti alleanze, specie con la “destra” di Nikolaj I. Bucharin, grazie alla quale, già alla metà degli anni Venti, ottenne la sconfitta dei trotzkisti (la “sinistra” bolscevica), ben presto costretti a fuggire in esilio per scampare alla persecuzione degli stalinisti. In questo modo iniziava una nuova fase nella storia del comunismo, quella dello “stalinismo”, un’ideologia anch’essa totalitaria, che presentò non poche analogie con il nazismo, soprattutto nell’uso della propaganda e nell’impiego di pratiche terroristiche a danno dei nemici interni e della stessa popolazione civile. Per il resto, il comunismo restava agli antipodi del nazifascismo. tragedie sociali e militari, non incise più di tanto sulla popolarità di Mussolini. Gli effetti della Grande depressione cominciarono a sentirsi nel Paese già nel 1930: dapprima entrò in crisi il sistema bancario, quindi toccò al sistema produttivo, sia industriale che agricolo, producendo in pochi mesi centinaia di migliaia di disoccupati. L’Italia era appena uscita dalla stretta economica causata dalla scelta di “quota 90” quando l’occupazione operaia, i salari dei lavoratori, gli stipendi degli impiegati e i risparmi della piccola borghesia iniziarono a ridursi drasticamente. Il capitalismo pubblico Nel 1931 fu costituito l’Imi (Istituto Mobiliare Italiano), con l’obiettivo di sostenere le banche e, per questa via, risollevare la produzione. Nel 1933 fu la volta dell’Iri (Istituto per la Ricostruzione Industriale), questa volta con il compito non solo di finanziare la ripresa, ma anche di entrare nel capitale azionario di banche e industrie. Iniziò così anche in Italia la lunga stagione del capitalismo pubblico, che permise allo Stato di controllare istituti come il Credito italiano, la Banca commerciale italiana e il Banco di Roma, nonché aziende fondamentali del ramo meccanico e siderurgico (come Ansaldo e Ilva) e di altri settori. Il mondo del lavoro durante il fascismo I lavoratori, duramente colpiti dalla crisi, vissero una fase molto difficile. Per lungo tempo le decurtazioni salariali, decise sia a livello centrale che aziendale, consistenti riduzioni degli orari e una maggiore intensificazione dei carichi di lavoro, non bastarono a favorire il recupero dei livelli precedenti alla crisi. Privi della possibilità di esprimere il loro dissenso attraverso lo sciopero (abolito dalla legge n. 563 del 3 aprile 1926), in tanti scelsero la strada della insubordinazione individuale, giorno dopo giorno, che segnalava uno stato di insofferenza e mostrava la semplice accettazione pragmatica di uno stato di fatto. La vittoria del regime contro il “pericolo rosso”, in ogni caso, era stata piena: il numero degli oppositori in clandestinità, quasi tutti comunisti, era sceso ormai a poche centinaia in tutta Italia; anche sul piano dell’immaginario collettivo, il fascismo aveva colpito i simboli operai più importanti, a partire dal Primo Maggio, la Festa dei lavoratori, al posto della quale si celebrava dal 1923 il “Natale di Roma” (21 aprile). La “macchina del consenso” Gli strumenti principali con cui la dittatura provò a conquistare il consenso del mondo del lavoro furono due: l’assistenza, gestita dalle organizzazioni di massa, con la quale si avviò anche un sistema innovativo di assegni e sussidi; inoltre, lo Stato decise una massiccia campagna di lavori pubblici con l’obiettivo di rilanciare l’economia e combattere la disoccupazione. Se in alcune zone del Paese, ad esempio nell’Agro pontino, si ebbero importanti interventi di bonifica, arrivando anche alla costruzione di nuovi agglomerati urbani (come Littoria, l’attuale Latina), in molte città si procedette con lavori nei centri storici e nelle periferie, con cui si affermò una nuova concezione dello spazio fatta di razionalità e di richiamo alla classicità romana. Nella realtà, l’impatto dei lavori pubblici, così come della campagna ruralista, fu assai debole, soprattutto a livello occupazionale. Eppure, i primi anni Trenta furono quelli in cui l’adesione al regime raggiunse i livelli più alti, tanto che nel 1934, in occasione del nuovo plebiscito, crebbero sia il numero dei votanti, sia il numero dei “sì”, che raggiunse la quota del 99,8%. Dalla campagna di Etiopia alle leggi razziali Il picco più alto di consenso al regime si ebbe in conseguenza della campagna di Etiopia del 1935-36. Fino a quella data il fascismo, pur presentando in campo internazionale un volto nazionalista e aggressivo, aveva dedicato una minore attenzione alla politica estera, limitandosi a un atteggiamento di favore verso quei Paesi che chiedevano una revisione dei trattati di pace. Anche dopo l’arrivo al potere di Hitler in Germania nel 1933, per alcuni mesi Mussolini non aveva modificato una linea che prevedeva il dialogo con le altre grandi potenze europee, a partire dalla Gran Bretagna. Ecco perché la decisione di avviare la svolta imperialistica con l’aggressione all’Etiopia, Stato membro della Società delle Nazioni, rappresentò un passaggio centrale nella storia del regime. D’altronde, la volontà di potenza era sempre stata uno dei cardini dell’ideologia fascista. Una volta repressa definitivamente l’opposizione interna, Mussolini poté finalmente approfittare dello scompiglio portato nel mondo dal nazismo per realizzare il suo disegno di espansione coloniale. L’attacco militare, condotto senza preavviso, avvenne nell’ottobre 1935. Esso suscitò un grande sdegno per i modi brutali con cui avvenne, ma anche una reazione piuttosto debole della comunità internazionale che si limitò, attraverso la Società delle Nazioni, a stabilire delle sanzioni economiche, il cui effetto fu debole. Le sanzioni, però, furono utilizzate in modo abile dal duce, che alimentò una campagna propagandistica in nome dell’orgoglio patriottico. Dopo mesi di battaglie, durante le quali le forze militari italiane fecero anche un largo uso di armi chimiche proibite dalle convenzioni internazionali, nel maggio 1936 l’Etiopia fu conquistata; anche l’Italia, ultima tra le potenze occidentali, aveva il suo impero in Africa. L’alleanza con il nazismo La campagna di Etiopia rappresentò il momento in cui si saldò definitivamente l’alleanza politica e militare tra la Germania nazista e l’Italia fascista. I due regimi totalitari presentavano molte analogie e una comune ideologia fondata sul nazionalismo e sul bellicismo. Le tappe che fecero precipitare l’Europa e il mondo verso il baratro della guerra sono note: dalla guerra civile spagnola, avviata con il tentativo di colpo di Stato del generale Franco nel luglio 1936, alla firma, nello stesso anno, dell’Asse Roma-Berlino; dal patto anti-Comintern tra Italia, Germania e Giappone del 1937, all’Anschluss (annessione) dell’Austria da parte della Germania nel 1938; dalla “falsa pace” di Monaco del 1938, all’invasione italiana dell’Albania, che precedette di pochi giorni la firma del “patto d’acciaio” tra Germania e Italia (maggio 1939), intesa raggiunta in vista della deflagrazione bellica, ormai imminente. Le leggi razziali Una delle dirette conseguenze dell’abbraccio mortale con il nazismo fu la scelta dell’autarchia economica, con cui l’Italia rompeva ogni scambio commerciale con i Paesi stranieri considerati nemici, causando tuttavia notevoli disagi a un sistema produttivo fortemente dipendente dai rapporti con l’estero. Ma, soprattutto, l’Italia mutuava dalla Germania la politica antisemita, culminata nelle leggi razziali del 1938. Si trattava di una scelta inedita per le classi dirigenti nazionali, che spiazzò il popolo italiano, abituato da secoli alla convivenza con il popolo ebraico, ma che incontrò la complicità della monarchia; la Chiesa cattolica non fu d’accordo, ma si limitò a un’opposizione passiva, ancora più flebile dal marzo 1939, quando salì al soglio pontificio Pio XII. Precedute dal “Manifesto degli scienziati razzisti”, pubblicato sul primo numero del periodico “La difesa della razza”, le leggi imponevano l’espulsione degli ebrei stranieri dal paese e cancellavano la cittadinanza per gli ebrei italiani, allontanando i giovani e gli insegnanti dalle scuole e dalle università. Gli ebrei, inoltre, erano allontanati dall’esercito, dalla pubblica amministrazione e dal commercio; infine, venivano proibiti i matrimoni misti. La discriminazione verso la minoranza ebraica fu certamente uno dei capitoli più terribili della storia italiana. LA GUERRA CIVILE SPAGNOLA E LE ALTRE CRISI DEGLI ANNI TRENTA IL MONDO VERSO UNA NUOVA TRAGEDIA La fase storica compresa tra le due guerre mondiali fu una stagione di gravi crisi sia nel campo delle relazioni internazionali che all’interno dei singoli Stati. Tuttavia, se negli anni Venti si era riusciti faticosamente a raggiungere una relativa stabilità, negli anni Trenta tutti gli equilibri saltarono e l’intero pianeta iniziò a rotolare verso il baratro di una nuova, immane tragedia bellica. Da questo punto di vista, la crisi economica del ’29 sembra assumere veramente un valore di spartiacque: infatti, dopo il panico generatosi nei mercati, tra le imprese e tra i cittadini, il mondo della politica subì urti sempre più imprevedibili e forti, tra i quali l’ascesa del nazismo in Germania fu certamente la manifestazione più evidente e allarmante. Mentre gli effetti perversi della crisi economica si propagavano a livello sociale e mentre il sistema dei trattati internazionali diveniva di giorno in giorno più fragile, le principali potenze dell’Occidente capitalistico, ossessionate dal pericolo sovietico, mantennero a lungo un atteggiamento accomodante nei confronti dei regimi fascisti, che finì, però, per rivelarsi troppo conciliante e remissivo, a volte persino ambiguo. Fu così che all’orizzonte iniziarono ad apparire nubi sempre più nere e minacciose. LA GUERRA CIVILE SPAGNOLA Uno dei principali scenari di crisi che si ebbe nell’Europa degli anni Trenta fu quello della Spagna, dove dal 1936 al 1939 si combatté una terribile guerra civile. Il dramma iberico evidenziò la minaccia nazifascista che incombeva sul Vecchio continente e, nello stesso tempo, la debolezza della risposta messa in campo dai Paesi democratici; tuttavia, all’interno di questi ultimi, una parte significativa dei cittadini mostrava una sensibilità politica ben più elevata di quelle mostrata dalle classi dirigenti, imprigionate nelle dinamiche e negli equilibri della realpolitik. La guerra civile spagnola fu l’evento più importante accaduto in Europa prima della nuova guerra mondiale: infatti, essa fu la prima guerra combattuta nel continente dopo la firma degli armistizi del 1918; ma soprattutto fu la prima guerra che vide contrapposte forze antifasciste alle potenze nazifasciste, anticipando di fatto i futuri schieramenti della Seconda guerra mondiale. LA SPAGNA DALLA REPUBBLICA DEMOCRATICA ALLA DITTATURA FRANCHISTA La Spagna attraversava da molto tempo una fase di decadenza. La sconfitta del 1898 contro gli Stati Uniti aveva sanzionato definitivamente tale declino, accelerando la caduta della monarchia; infatti nel 1931, al termine di un dominio ultrasecolare, questa era stata sostituita dalla Repubblica. All’interno delle nuove istituzioni alcune forze politiche, sia di orientamento liberale che socialista, s’impegnarono subito per la modernizzazione del Paese, favorendo l’avvio di un consistente programma di riforme, a partire dalla riforma agraria e dalla laicizzazione dello Stato. Tale dinamismo, tuttavia, suscitò la rigida opposizione delle forze conservatrici, espressione soprattutto 1939-40: dall’attacco nazista alla battaglia aerea d’Inghilterra Il 1 settembre 1939, a due anni di distanza dall’aggressione giapponese alla Cina, la Germania attaccò la Polonia con l’obiettivo di riunificare il territorio tedesco, diviso in due dal trattato di Versailles. Nello stesso tempo anche l’Urss si mosse da Est, avviando la spartizione del territorio polacco tra i due regimi totalitari. Questa volta Francia e Gran Bretagna si videro costrette a reagire, dichiarando il loro ingresso nel conflitto. Iniziava così (anche) in Europa la Seconda guerra mondiale, un avvenimento epocale che avrebbe seminato morte e distruzione in quasi tutto il pianeta. In realtà, dopo la “guerra-lampo” ai danni della Polonia, le operazioni belliche subirono un arresto per alcuni mesi, in corrispondenza dei mesi invernali. Nella primavera del 1940 la Germania riprese l’avanzata, conquistando rapidamente la Danimarca e la Norvegia, per poi rivolgersi a Ovest contro la Francia. L’offensiva tedesca partì il 10 maggio; il 14 giugno Parigi era nelle mani dei nazisti. La parte settentrionale del Paese fu occupata dai tedeschi, mentre nel meridione nasceva il regime “collaborazionista” di Vichy, guidato dal maresciallo Philippe Pétain. Negli stessi giorni in cui la Francia capitolava, l’Italia fascista volle approfittare della situazione favorevole, entrando in guerra a fianco dell’alleato tedesco. Da luglio l’aviazione tedesca prese a bombardare l’Inghilterra. Qui, il 10 maggio, Chamberlain era stato sostituito dal nuovo premier Winston Churchill, anch’egli un conservatore, ma deciso a combattere in maniera strenua il nemico nazista. Ed è proprio ciò che avvenne durante la “battaglia aerea”, un momento decisivo del conflitto che non impedì la distruzione di intere città, come Coventry, e di interi quartieri della stessa capitale Londra, ma che impedì lo sbarco dei tedeschi nell’isola. Fu così che i nazisti subirono la prima battuta d’arresto. I bombardamenti aerei dei civili rappresentarono la vera novità della nuova tragedia bellica, trasformandola nel primo esempio concreto di “guerra totale”, in cui il fronte militare era di fatto in ogni luogo. Prima della pausa invernale, ci fu ancora tempo per l’attacco italiano alla Grecia, avviato il 28 ottobre. Mussolini, infatti, di fronte all’imprevista prosecuzione della guerra, aveva necessità di combattere e individuò nel vicino Paese mediterraneo un facile obiettivo; la realtà, invece, fu molto diversa e le truppe italiane non riuscirono a sfondare le linee nemiche, mostrando gravi limiti. La svolta del 1941: le aggressioni tedesca e giapponese all’Urss e agli Usa Alla fine dell’inverno, nell’aprile 1941 Hitler dovette muoversi in aiuto dell’alleato fascista, conquistando rapidamente sia la Grecia che la Jugoslavia. Questo, tuttavia, ritardò l’attacco tedesco sul fronte orientale, l’operazione Barbarossa, scattata contro l’Urss il 22 giugno. Si trattò di uno dei momenti-chiave del conflitto. La natura dell’aggressione era duplice: da un lato, il nazismo dichiarava finalmente guerra al suo nemico ideologico per eccellenza, il comunismo; dall’altro lato, per la Germania, la conquista dell’Urss era decisiva per completare il disegno di dominio sull’Europa. La mobilitazione fu enorme poiché il fronte, che correva dal Mar Nero al Mar Baltico, era di dimensioni smisurate; la violenza dello scontro fu terribile, tanto che le perdite umane furono da subito immani. I tedeschi avanzarono inesorabilmente fino a raggiungere le grandi città sovietiche, a Leningrado come a Mosca; tuttavia, il sopraggiungere del terribile inverno russo e l’accanita resistenza dell’Armata rossa riuscirono a frenare l’attacco nazista. In Estremo Oriente, nel frattempo, il Giappone, approfittando anche dei successi tedeschi, proseguì la sua avanzata, conquistando l’Indocina francese. Quindi, per rafforzare il controllo nel Sud-est asiatico e nel Pacifico, esso decise di aggredire gli Stati Uniti. L’attacco fu scagliato a sorpresa contro la base navale di Pearl Harbour, nelle isole Hawaii, il 7 dicembre 1941, causando l’ingresso in guerra anche degli americani; questi, fino ad allora, si erano ritagliati il ruolo di “arsenale delle democrazie”, fornendo armi e soldi soprattutto all’alleato inglese. Il legame privilegiato con l’Inghilterra era stato poi ribadito nell’incontro svoltosi nell’isola di Terranova dell’agosto 1941 tra Churchill e Roosevelt, dove i due statisti avevano sottoscritto la “Carta atlantica”, con cui ribadivano la comune volontà di difendere e diffondere gli ideali della democrazia e della libertà. L’attacco giapponese colse di sorpresa il gigante americano che, inevitabilmente, per alcuni mesi non fu in grado di contrastare l’avanzata nipponica. Così, il Paese del Sol Levante poté estendere il suo Impero anche ad altri territori, come le Filippine, l’Indonesia e tutto il Sud-est asiatico. La risposta delle forze antifasciste (1942-44) Il 1942 rappresentò il momento di maggiore estensione dell’Impero giapponese e del Reich tedesco; ma esso rappresentò anche l’anno in cui gli equilibri in campo iniziarono a rovesciarsi. I primi successi militari furono ottenuti proprio dagli Stati Uniti nel Pacifico, in particolare con la battaglia del Mar dei Coralli (maggio) e poi con quella successiva delle isole Midway (giugno). Inoltre, nell’Africa settentrionale gli inglesi riuscirono a sconfiggere le truppe nazifasciste nella battaglia di El Alamein, al confine tra Libia ed Egitto. L’evento permise agli Alleati (inglesi e americani) di organizzare un fronte unitario (sanzionato dalla conferenza di Casablanca del gennaio 1943 tra Churchill e Roosevelt), che, attraverso l’Italia, puntasse da Sud verso la Germania. Fu così che, nella primavera del 1943, gli Alleati sbarcarono in Sicilia e presero a risalire lo stivale, accelerando la (prima) caduta di Mussolini, avvenuta il successivo 25 luglio. Tuttavia, i fronti militari più importanti, che avrebbero stretto la Germania in una tenaglia micidiale, furono altri due. Ad Est l’evento decisivo fu la battaglia di Stalingrado, combattuta dal luglio 1942 al febbraio 1943 e vinta dai sovietici a prezzo di gravi perdite; si trattava della prima sconfitta militare subita dai tedeschi, i quali iniziarono una rovinosa ritirata che non si sarebbe più arrestata. Ad Ovest, invece, l’avvenimento risolutivo fu lo sbarco in Normandia, quando americani e inglesi, anch’essi a prezzo di terribile perdite, riuscirono a riconquistare la Francia, accelerando la marcia verso Berlino. Nel frattempo, dal 28 novembre al 1° dicembre del 1943 si era tenuta a Teheran, in Iran, il primo incontro tra Churchill, Roosevelt e Stalin, in cui si discusse di strategie militari, ma s’iniziò anche a trattare il tema dei futuri scenari postbellici. La vittoria dell’antifascismo (1945) Anche l’ultimo inverno di guerra, tra il 1944 e il 1945, vide un rallentamento delle operazioni belliche; ciò, tuttavia, non impedì ai sovietici di raggiungere il campo di concentramento di Auschwitz, in Polonia, e di liberarlo il 27 gennaio 1945. Dal 4 all’11 febbraio, a Yalta, in Crimea, i tre “Grandi” si videro per una seconda volta, impostando la successiva divisione del mondo in zone d’influenza. Il 12 aprile Roosevelt – rieletto nel 1944 per la quarta volta – morì. Pochi giorni dopo, il 25 aprile gli Alleati, con l’aiuto prezioso dei partigiani, liberarono l’Italia dal fascismo; Mussolini, catturato proprio da una banda di ribelli antifascisti, venne giustiziato. Quindi, tra l’8 e il 9 maggio l’Armata rossa liberò la Germania dal nazismo; Hitler, nelle stesse ore, pur di non cadere nelle mani degli acerrimi nemici, si suicidò nel suo bunker, insieme ad alcuni stretti collaboratori. La Seconda guerra mondiale, conclusa in Europa, proseguì tuttavia ancora alcuni mesi in Asia. Qui, infatti, il Giappone continuava a opporsi agli Stati Uniti in modo sempre più disperato, ad esempio attraverso gli attacchi suicidi dei kamikaze. A quel punto, per porre fine alla guerra, il nuovo Presidente americano Harry Truman prese la decisione estrema di sganciare su due città giapponesi la bomba atomica, un nuovo micidiale ordigno bellico. Hiroshima fu colpita il 6 agosto, mentre Nagasaki venne raggiunta tre giorni dopo. LA SHOA DALLA PERSECUZIONE ALL’ANNIENTAMENTO DEGLI EBREI Durante la Seconda guerra mondiale la politica antisemita perpetrata dai nazisti raggiunse un livello di barbarie e ferocia mai toccato in precedenza, in nessuna epoca storica. Già negli anni Trenta essi avevano avviato un programma di sistematica discriminazione, da realizzare attraverso apposite misure legislative; quindi, con il passare del tempo, il progetto nazista aveva compiuto un salto, attraverso l’inizio di una vera e propria persecuzione ai danni della minoranza ebraica, considerata una razza inferiore. Tuttavia, fu proprio nel clima terribile del conflitto che si precisò e si attuò il tentativo folle di fisicamente l’intero popolo eliminare ebraico. Il progetto, considerato uno dei cardini essenziali dell’ideologia nazista, si affacciò nel momento in cui i tedeschi iniziarono a occupare aree sempre più vaste del Vecchio continente; più in particolare, esso si concretizzò a partire dal 1941, l’anno nel quale i nazisti iniziarono a conquistare l’Europa orientale, dai Balcani all’Unione Sovietica. Di fronte alla necessità di governare territori molto vasti, abitati da popoli profondamente diversi, i nazisti accelerarono la costruzione del “nuovo ordine europeo”, dando vita a una complessa macchina burocratica, militare, industriale e politica. Per questo motivo essi assunsero decisioni sempre più drastiche, in forme sempre più sbrigative e brutali. Lo strumento principale del nazismo restava, come sempre, l’oppressione delle “razze” inferiori; a tale proposito il trattamento riservato alle popolazioni slave fu particolarmente cruento, segnato da crescenti deportazioni e dalla loro riduzione in condizioni di servitù. Nei confronti degli ebrei, tuttavia, si riuscì ad andare persino oltre: l’idea non fu più quella della sola persecuzione, bensì dello sterminio. LA SOLUZIONE FINALE Tra il 1941 e il 1942 iniziò così a muoversi la macchina del “genocidio”, cioè dell’annientamento dell’intero popolo ebraico per motivi innanzitutto di carattere biologico. In questo senso il nazismo rappresenta un unicum nella storia dell’umanità, per la sua specifica volontà di cancellare dalla faccia della terra gli ebrei in quanto tali. Molte atrocità sono state compiute nel corso della storia, in particolare nel XX secolo, anche veri e propri genocidi a danno di singoli popoli; ma, che si trattasse di armeni o ucraini, cambogiani o ruandesi, la motivazioni alla base di tali efferate violenze sono state prevalentemente di natura politica e/o sociale. Per i nazisti, invece, alcune “categorie” andavano eliminate semplicemente per la loro natura “inferiore”; la loro stessa esistenza, infatti, metteva a rischio la salute delle razze superiori. Ecco perché, accanto agli ebrei, i nazisti vollero eliminare anche i malati, i disabili, gli omosessuali e, in generale, tutti coloro che presentavano una “natura” diversa. La “soluzione finale”: questa fu l’espressione scelta dai nazisti per definire, all’inizio del conflitto, il piano di sterminio degli ebrei. Questi ultimi, invece, scelsero altri due termini: la “shoah”, cioè la “catastrofe”, e l’“olocausto”, vale a dire il “sacrificio”. I CAMPI DI CONCENTRAMENTO crescita altalenante del movimento partigiano, dapprima lenta, quindi più vigorosa. Gli inizi furono stentati, pieni di difficoltà e densi di incognite. A Boves, vicino a Cuneo, il 19 settembre si ebbe la prima rappresaglia nazista; per vendicare l’uccisione partigiana di un soldato tedesco, furono fucilati 23 civili e il paese fu dato alle fiamme. Analoghi episodi avvennero nelle città. A Roma, nel marzo 1944, in seguito all’attentato partigiano di Via Rasella i nazisti ordinarono una punizione esemplare, culminata nell’eccidio delle Fosse Ardeatine, dove morirono 335 persone tra soldati, prigionieri politici, ebrei, gente comune. Sul piano militare la primavera del 1944 portò lo sfondamento della linea Gustav e la risalita dello stivale da parte alleata, fino alla Liberazione di Roma a giugno. In questo clima si assistette a un aumento della violenza fascista nel Nord, con episodi sempre più cruenti di torture e uccisioni, e a una intensificazione della lotta partigiana, che ricevette linfa vitale dai grandi scioperi del marzo 1944, ancora più partecipati delle precedenti agitazioni del 1943. I tre volti della Resistenza Come ha scritto in modo efficace lo storico Claudio Pavone (Una guerra civile. Saggio storico sulla moralità della Resistenza, Torino, Bollati Boringhieri, 1991), la guerra partigiana fu insieme: guerra civile tra italiani; guerra di liberazione nazionale dai tedeschi; e guerra di classe, nel tentativo di liberarsi dallo sfruttamento capitalistico. A seconda della prevalente impostazione politica, ogni formazione partigiana propendeva per un’interpretazione della Resistenza più consona alle proprie idee. I cattolici ebbero un ruolo più defilato nella lotta armata ma non mancarono importanti eccezioni. Il partito più influente, perché col numero di partigiani più alto, fu il Pci, che nel marzo 1944 fu protagonista della cosiddetta “svolta di Salerno”. Con il ritorno di Palmiro Togliatti da Mosca, infatti, i comunisti mettevano da parte ogni disegno rivoluzionario per il dopoguerra, dichiarando la piena disponibilità a costruire la democrazia in Italia. Il Pci s’impegnava a rinviare al dopoguerra la soluzione della questione istituzionale e decideva l’ingresso nei governi di unità nazionale: dapprima nel II Governo Badoglio (marzo-giugno 1944), quindi nel Governo Bonomi, nato dopo la liberazione di Roma. La Liberazione Nell’autunno del 1944 l’offensiva degli angloamericani si bloccò nuovamente, questa volta lungo la linea Gotica, che tagliava in due l’Italia, percorrendo l’Appennino tosco- emiliano. L’ultima fase della guerra fu segnata da nuove agitazioni operaie e dall’azione di alcune repubbliche partigiane (dall’Ossola alle Langhe, da Torriglia a Montefiorino, dalla Romagna alla Carnia); per alcuni mesi intere zone furono così sottratte al controllo nazifascista. Tuttavia, furono i mesi in cui le atrocità dei nazisti in fuga e dei loro alleati fascisti si diffusero in modo dilagante, causando migliaia di morti tra i civili innocenti: ad esempio a Sant’Anna di Stazzema, in provincia di Lucca, dove il 12 agosto 1944 furono trucidate centinaia di persone (l’elenco ufficiale, ancora incompleto, conta 393 vittime); e a Marzabotto e in tutta l’area di Monte Sole, in provincia di Bologna, dove tra il 29 settembre e il 5 ottobre, una drammatica serie di attacchi e violenze causò 770 morti. Con la fine dell’inverno l’avanzata degli Alleati riprese con rinnovata forza, mentre i partigiani moltiplicavano gli attacchi nonostante le gravi perdite subite. Mussolini, sempre più affranto e isolato, cercò disperatamente di fuggire in Svizzera. Le ultime ore del dittatore furono drammatiche, con i partigiani ormai vicini alla sua cattura. Il 25 aprile migliaia di lavoratori, di Torino, Genova, Milano, portavano a compimento lo sciopero insurrezionale, proclamato per la spallata finale al regime sanguinario. Fu la Liberazione: le fabbriche furono occupate dai lavoratori, le prefetture dai partigiani. La Seconda guerra mondiale aveva termine in Italia. Mussolini venne catturato e fucilato nei pressi di Como. Il suo corpo, insieme a quello dell’amante Claretta Petacci e di altri gerarchi, fu portato a Milano, a Piazzale Loreto, luogo simbolo dell’antifascismo milanese, dove il 10 agosto 1944 erano stati giustiziati 15 partigiani e i loro cadaveri esposti al pubblico come monito per chiunque avesse scelto la guerriglia antifascista. Una sorte analoga toccò anche al duce. Appeso a testa in giù, egli fu lasciato per ore in balia della folla, che si accanì sui loro corpi. Le foibe Nei giorni successivi alla fine della guerra, lungo il confine orientale che divideva l’Italia dalla Jugoslavia, in particolare nelle regioni del Carso, dell’Istria e di Trieste, si verificò un ulteriore dramma, quello delle “foibe”. In tali cavità naturali, infatti, tipiche di quel territorio, nel maggio 1945 partigiani jugoslavi, prevalentemente comunisti, gettarono molti italiani, vittime di vere e proprie esecuzioni collettive in cui finirono per mescolarsi motivazioni sia di carattere politico che etnico. Alla fine, le stime più attendibili parlano complessivamente di circa cinquemila caduti, buona parte dei quali, però, morti nei campi di prigionia jugoslavi. In realtà, già durante la guerra si era avuto un episodio analogo. Nel settembre 1943, infatti, subito dopo l’armistizio, di fronte alle gravi difficoltà incontrate dal regime fascista, il movimento partigiano jugoslavo, particolarmente solido e combattivo, aveva intensificato la sua guerra di liberazione nazionale, procedendo al primo “infoibamento” di circa sei-settecento italiani. Questi pagarono con la vita la terribile occupazione fascista della regione, che aveva provocato in pochi mesi migliaia di casi di fucilazioni, deportazioni e torture a danno delle locali popolazioni slave. Si era trattato, dunque, soprattutto di una vendetta politica contro una vera e propria “bonifica etnica” introdotta precedentemente dai fascisti. Dall’ottobre 1943, tuttavia, i nazisti avevano ripreso il pieno controllo dell’area, capovolgendo nuovamente gli equilibri in campo, nel pieno di una delle guerre civili più cruente tra quelle combattute nei diversi contesti nazionali durante la Seconda guerra mondiale. Così, al termine della guerra, una nuova e ancora più drammatica ondata di violenza si abbatté sugli italiani “sconfitti”. Questa volta l’esito fu ancora più tragico, non solo per il numero più elevato di vittime, ma anche e soprattutto per le motivazioni del massacro: non più soltanto di carattere “politico” (la vendetta contro i fascisti, per i loro crimini di guerra), ma anche di carattere “etnico”, contro gli italiani in quanto tali. Così, tante vittime finirono per morire nonostante la loro innocenza. Quanto alla delicata questione territoriale, essa venne risolta dapprima con la divisione della regione in due zone d’occupazione; quindi con la firma del trattato di pace a Parigi, che assegnò l’Istria alla Jugoslavia (mentre Trieste sarebbe tornata definitivamente italiana solo nel 1954). L’effetto immediato fu l’ampio esodo di circa 250 mila giuliani e dalmati che, in pochi anni, lasciarono la loro terra per essere "distribuiti" nel territorio nazionale, tra grandi disagi e molta improvvisazione. Dopodiché, sul confine orientale e sulla questione delle foibe, calò per lungo tempo un velo di silenzio, conseguenza soprattutto della necessità di non turbare equilibri internazionali e nazionali già fragili e delicati. IL BLOCCO OCCIDENTALE Dall’alleanza antifascista alla guerra fredda Dopo la Seconda guerra mondiale l’alleanza tra le due principali potenze vincitrici, Stati Uniti e Unione Sovietica, costruita faticosamente nel corso del conflitto in nome della comune opposizione al nazifascismo, durò per un lasso di tempo molto breve. Nel giro di un paio di anni, infatti, nelle relazioni internazionali si affermò uno stato di tensione e di scontro permanente tra i due “blocchi”, quello occidentale e quello orientale, che è passato alla storia con la definizione di “guerra fredda”; tale termine fu coniato per la prima volta da un giornalista americano, Walter Lippman, per indicare la contrapposizione globale tra i due schieramenti divisi in modo profondo sul piano ideologico, politico, economico e sociale. Fortunatamente, considerando l’enorme potenziale distruttivo dei rispettivi armamenti atomici, capaci di cancellare in breve tempo il genere umano dalla faccia del pianeta, lo scontro non sfociò mai in una guerra aperta tra le due superpotenze; tuttavia, il cosiddetto “bipolarismo” condizionò per oltre quarant’anni in modo determinante non solo la politica internazionale, ma anche la vita all’interno dei singoli Stati, specie in quelli che si trovavano al confine delle rispettive zone d’influenza. L’Organizzazione delle Nazioni Unite In ogni caso, nei mesi in cui funzionò l’alleanza antifascista, furono raggiunti importanti risultati. Il traguardo più rilevante e ambizioso fu la nascita dell’Organizzazione delle Nazioni Unite (Onu), costituita durante la conferenza internazionale di San Francisco, svoltasi dall’aprile al giugno del 1945. L’Onu puntava a superare l’esperienza fallimentare della Società delle Nazioni, il cui carattere innovativo era stato svuotato sin dalle prime fasi dall’assenza degli Stati Uniti e della barriera frapposta dai paesi vincitori della Grande guerra nei confronti degli sconfitti; occorreva, dunque, mettere da parte qualsiasi volontà di vendetta e assicurare, almeno nel medio periodo, la partecipazione dell’intera comunità internazionale alla vita del nuovo organismo.  Ovviamente, andavano rispettati i nuovi equilibri usciti dalla guerra; per questo, mentre nell’Assemblea generale veniva di fatto riconosciuta la pari dignità a tutti i paesi, al vertice dell’Onu si posizionava il Consiglio di sicurezza, in cui i cinque membri permanenti (Usa e Urss, affiancati da Cina, Francia e Gran Bretagna) mantenevano un fondamentale diritto di veto, quale strumento che garantiva il loro primato. Nonostante una certa farraginosità dell’organismo e la sua frequente paralisi di fronte alle principali controversie durante l’epoca della guerra fredda, il valore politico dell’operazione era innegabile; ciò fu evidente, ad esempio, quando il 10 dicembre 1948 l’Assemblea generale approvò la “Dichiarazione universale dei diritti umani”, un documento di portata rivoluzionaria che sanciva i principi fondamentali della convivenza umana. La “questione tedesca” Alla fine della guerra emerse inevitabilmente la “questione tedesca”, vale a dire la sistemazione territoriale e giuridica del Paese responsabile, a causa del nazismo, dell’immane tragedia appena conclusa. La Germania era stata liberata a Ovest dagli Alleati angloamericani e a Est dall’Armata rossa, giunta per prima a Berlino. Proprio nei pressi della capitale tedesca, a Potsdam, tra luglio e agosto del 1945, una conferenza tra Gran Bretagna, Stati Uniti e Unione Sovietica stabilì, tra le altre cose, la suddivisione del Paese in quattro zone d’occupazione, invitando anche la Francia a partecipare all’iniziativa; lo stesso trattamento fu riservato a Berlino, pur’essa divisa in quattro zone. Tra il 1946 e il 1948, però, le zone occidentali gestite da Francia, Inghilterra e Usa vennero riunificate sotto un’unica amministrazione; era questo il primo effetto di quella “cortina di ferro” che iniziava a calare sull’Europa e sul mondo. D’altronde, la distanza tra i due modelli ideologici non poteva essere più ampia: il comunismo era potenza americana, appena quattro anni dopo il lancio delle bombe su Hiroshima e Nagasaki. Iniziava così l’epoca del cosiddetto “equilibrio del terrore”: entrambe le super-potenze detenevano ordigni micidiali, potenzialmente in grado di annientare il nemico; nello stesso tempo, però, il livellamento militare faceva scattare un meccanismo di reciproca “deterrenza”, per cui sia gli americani che i sovietici finivano di fatto per escludere l’impiego di tali armi, il cui utilizzo su larga scala avrebbe portato alla distruzione stessa del genere umano e del pianeta. La Repubblica Popolare Cinese Poche settimane dopo, il 1° ottobre 1949, al termine di una lunga e sanguinosa guerra civile tra comunisti e nazionalisti, nasceva la Repubblica Popolare Cinese, guidata da Mao Zedong. Gli sconfitti, capeggiati sempre da Chiang Kai-shek, si ritirarono nell’isola di Formosa, dove diedero vita alla Repubblica di Cina, che strinse un’alleanza militare con gli americani. L’avvento al potere dei comunisti nel Paese più popoloso del mondo rappresentò una novità rilevante, che allarmò grandemente gli Stati Uniti; per questo motivo, accantonando rapidamente il ricordo tragico della recente guerra, a partire dal trattato di San Francisco del 1951 il governo americano stabilì una sorta di protettorato sul Giappone e pianificò la rapida ripresa economica e militare del Paese del Sol Levante, che da allora divenne l’alleato più fedele e importante nell’Estremo Oriente. Nello stesso tempo gli Usa furono obiettivamente avvantaggiati dalla debole cooperazione che si venne a realizzare tra l’Urss e la Cina, contrariamente a quanto sancito dal trattato di amicizia siglato dai due Paesi nel febbraio 1950. Infatti, nonostante il richiamo alla comune ideologia comunista, le differenze tra i due Paesi erano evidenti: tanto sul piano economico, per la diversa centralità che Stalin e Mao attribuivano rispettivamente al sistema industriale e al mondo delle campagne; quanto a livello geopolitico, per le analoghe ambizioni di potere nel continente asiatico che entrambi i dittatori nutrivano. Comunque, almeno nella fase iniziale prevalse uno spirito di collaborazione, destinato tuttavia a declinare nel corso del tempo. LA GUERRA DI COREA Dal 1949, da un lato la definizione della “questione tedesca”, dall’altro la costituzione della Cina comunista, spostarono l’epicentro della guerra fredda dall’Europa all’Asia. In pochi mesi, infatti, l’Estremo Oriente divenne la zona più “calda” del pianeta, soprattutto a causa della crescita delle tensioni nella penisola coreana. Questa, infatti, dalla fine della Seconda guerra mondiale, era stata divisa in due parti: al Nord si era instaurato un regime comunista, che beneficiava degli aiuti sovietici; al Sud, invece, nella zona liberata dagli Stati Uniti, operava un governo filooccidentale. Il 25 giugno 1950 l’invasione dell’esercito del Nord diede avvio alla guerra di Corea, il primo conflitto a essere combattuto nell’epoca della guerra fredda; l’intervento americano, stabilito in applicazione della “teoria del contenimento”, fu immediato e decisivo nel frenare e respingere l’attacco. A differenza dell’Urss, che scelse di non esporsi direttamente onde evitare lo scontro diretto con gli Usa, la Cina optò per l’intervento militare, provocando un’ulteriore escalation bellica. Fortunatamente, la situazione andò appianandosi e il fronte militare si attestò lungo il 38° parallelo, dove tuttora resiste, a oltre sessant’anni di distanza dall’armistizio, firmato nel 1953. GLI EFFETTI DELLA GUERRA Il conflitto tra le due Coree rappresentò il momento di maggiore tensione nella fase iniziale della guerra fredda, producendo conseguenze rilevanti. Infatti, oltre a spostare l’attenzione sull’Asia e a conferire grande visibilità alla Cina comunista, lo scoppio delle ostilità provocò una nuova corsa agli armamenti su entrambi i fronti; tutte le principali potenze aumentarono in modo massiccio le spese militari per ampliare i propri arsenali e per dotarsi di ordigni sempre più micidiali. Non a caso, ad esempio, fu proprio in questi anni che anche la Gran Bretagna riuscì a munirsi della bomba atomica, affermandosi come la terza potenza nucleare dopo Stati Uniti e Unione Sovietica. IL MACCARTISMO Inoltre, all’interno dei singoli Stati, il conflitto allarmò molto le opinioni pubbliche nazionali, sempre più angosciate dall’idea dello scoppio imminente di una nuova guerra mondiale, ancora più distruttiva di quella appena conclusa. Così, una parte delle classi dirigenti, anche nelle democrazie occidentali, pensò di utilizzare a proprio vantaggio tali paure, alimentando un clima di “caccia alle streghe” nei confronti di tanti oppositori, in quanto considerati fiancheggiatori, se non veri e propri agenti del nemico. Se la “demonizzazione” dell’avversario era una prassi costante nei regimi stalinisti, nei sistemi democratici tale politica repressiva finì per produrre una grave ferita, mettendo in pericolo i diritti fondamentali di cittadinanza. Ciò avvenne in particolare negli Stati Uniti, dove nei primi anni Cinquanta operò un’apposita commissione parlamentare d’inchiesta, presieduta dal senatore repubblicano Joseph McCarthy, incaricata di vagliare l’orientamento politico di migliaia di cittadini, allo scopo di scovare e punire i “comunisti” che si annidavano nella società americana e, in particolare nel mondo dell’informazione e dell’arte. Ad esempio, a finire sotto accusa furono grandi personaggi della cultura anglosassone, come il regista Charlie Chaplin e lo scrittore Arthur Miller. La stagione del maccartismo rappresentò una fase buia nella storia degli Stati Uniti poiché la “crociata anticomunista”, condotta con metodi inquisitori, incompatibili con le regole della democrazia, finì semplicemente per restringere le libertà in un paese che poneva la libertà degli individui al centro del discorso pubblico. LA MORTE DI STALIN L’evento che, più di tutti, facilitò l’uscita dalla fase più tesa della guerra fredda fu la morte di Josef Stalin, avvenuta il 5 marzo 1953. La scomparsa del dittatore georgiano, che aveva contribuito in modo decisivo alla sconfitta del nazifascismo ma che, in maniera altrettanto decisa, aveva favorito la divisione del mondo in due blocchi irriducibilmente antagonisti, suscitò nel mondo occidentale la speranza di un mutamento nelle relazioni diplomatiche tra Est e Ovest; allo stesso tempo, vi era la consapevolezza che il percorso da intraprendere sarebbe stato piuttosto travagliato. Lo mostrò, ad esempio, la brusca reazione sovietica alla scelta di adesione della Repubblica Federale Tedesca alla Nato, avvenuta il 9 maggio 1955; appena cinque giorni dopo, infatti, l’Urss e le democrazie popolari, il cui legame si era già cementato sul piano commerciale nel 1949 con l’istituzione del “Comecon”, firmarono insieme il “Patto di Varsavia”, un’alleanza militare che voleva costituire il contraltare della Nato. Il “terribile” 1956: i crimini di Stalin e la repressione ungherese Nel mondo comunista la morte di Stalin rappresentò, ovviamente, un trauma emotivo e politico, soprattutto per la base degli attivisti e dei militanti. Il suo successore, Nikita Krusciov, si trovò a gestire una fase molto delicata, vale a dire il passaggio dal sistema di potere staliniano a un nuovo ordine, basato certamente sulla dura repressione verso qualsiasi forma di opposizione, ma privo di quegli eccessi e di quella crudeltà che aveva segnato indelebilmente lo stalinismo. Il momento cruciale della svolta, accuratamente preparato dal gruppo dirigente sovietico, si ebbe nel febbraio 1956, durante i lavori del XX congresso del Pcus, quando in un “Rapporto segreto” Krusciov denunciò i crimini di Stalin, rivelando ai delegati tutto l’orrore dei suoi misfatti. Il documento divenne di dominio pubblico grazie alla sua pubblicazione sulla stampa americana, che suscitò vasto clamore, specie nel movimento comunista internazionale, e anche tante sofferenze nella base. Le conseguenze non si fecero attendere, soprattutto in alcune “democrazie popolari”, dove la destalinizzazione fu vissuta come un’occasione per allentare i vincoli soffocanti con l’Urss. Già alcuni duri scioperi, avvenuti nella Germania orientale nell’estate del 1953 e in Polonia nel giugno del 1956, avevano mostrato la crescente volontà degli operai di riappropriarsi di un loro diritto fondamentale per poter rivendicare e ottenere migliori condizioni di vita. Ma gli avvenimenti più importanti e dirompenti si registrarono in Ungheria, dove nell’ottobre 1956 iniziò un ampio movimento di protesta, che sfociò in una vera e propria insurrezione popolare; questa vide come protagonisti non solo gli operai ma anche studenti e cittadini di diverse categorie, i quali reclamavano tutti insieme l’apertura di concreti spazi di democrazia e l’allentamento del legame di ferro con Mosca. In pochi giorni, tuttavia, il leader riformatore dei comunisti magiari, Imre Nagy, venne arrestato, per essere poi giustiziato qualche tempo dopo; soprattutto, a sedare la rivolta intervennero per la prima volta i carri armati sovietici, che riportarono subito l’ordine, al prezzo però di una vera e propria carneficina. In questo modo veniva soffocata sul nascere la speranza che il comunismo al potere oltrecortina potesse essere riformato dal suo interno. Se la morte di Stalin aveva avviato un primo parziale processo di distensione tra i due blocchi, la vicenda ungherese rivelò ancora una volta al mondo tutta la brutalità del sistema di potere sovietico. La "golden age” in Occidente Definizione e periodizzazione Il periodo successivo alla Seconda guerra mondiale, così tormentato sul piano politico e militare a causa della guerra fredda, fu caratterizzato sul piano economico da una crescita senza precedenti della produzione e dei consumi. Tale processo riguardò quasi esclusivamente il mondo occidentale, trainato dagli Stati Uniti, mentre l’Unione Sovietica e le democrazie popolari registrarono tassi di crescita ben più contenuti; in questo modo, il divario di ricchezza tra i due blocchi, per quanto ben mascherato dalla propaganda nonché dai consistenti investimenti sovietici in campo industriale, aumentò in modo significativo. Lo sviluppo economico fu talmente vigoroso che gli storici anglosassoni hanno coniato per quest’epoca la definizione di “età dell’oro”, in quanto caratterizzata dal netto incremento del benessere, individuale e collettivo; la storiografia francese, invece, utilizza l’espressione “les Trentes Glorioseus”, cioè i “trent’anni gloriosi”, che permette di fissare una periodizzazione precisa: infatti la congiuntura favorevole, avviata alla metà degli anni Quaranta, si protrasse per circa tre decenni, fino alla metà degli anni Settanta. Quanto alle aree che registrarono i dati economici più positivi, esse furono soprattutto due: l’Europa occidentale, che beneficiò tanto degli aiuti del Piano Marshall, quanto del nascente processo d’integrazione economica; e il Giappone, anch’esso sostenuto in modo formidabile dagli Stati Uniti, che fu protagonista di un vero e proprio “miracolo”, tenuto conto anche delle gravi distruzioni subite durante la Seconda guerra mondiale. Le premesse e le cause dello sviluppo economico Fu proprio sul finire della Seconda guerra mondiale che vennero poste le basi dell’“età dell’oro”. Questa volta, a differenza di quanto accaduto dopo la Grande Guerra, le potenze dell’Occidente, Stati Uniti in testa, decisero di intraprendere una strada diversa: non la punizione dei Paesi sconfitti, ma il rilancio immediato della collaborazione internazionale. Se a livello politico il processo sfociò nella nascita dell’Onu, a livello economico l’atto di fondazione del nuovo ordine capitalistico fu la conferenza di Bretton Woods, svoltasi nella località del New Hampshire nel luglio 1944. In quell’occasione le delegazioni americana e inglese (quest’ultima guidata da Keynes) raggiunsero un accordo decisivo per il rilancio economico del dopoguerra, basato su due principi. Innanzitutto, la stabilità monetaria: a tale proposito, si decise la sostituzione della sterlina con il dollaro quale valuta di riferimento negli scambi internazionali, l’unica a essere convertibile in oro. In secondo luogo, la cooperazione multilaterale: a tale riguardo, si stabilì la costituzione del Fondo monetario della Democrazia Cristiana, videro la partecipazione di tutte le principali forze antifasciste. Fu in questa fase eccezionale che, il 2 giugno 1946, il popolo italiano fu chiamato a risolvere, tramite referendum, la “questione istituzionale”: se mantenere, cioè, la Monarchia, con i Savoia, oppure istituire la Repubblica. Alla fine, s’impose la Repubblica, con uno scarto significativo di circa due milioni di voti, anche se nel Sud e in alcuni settori sociali e politici prevalse il voto monarchico. Contestualmente al referendum, che vide finalmente votare per la prima volta anche le donne, fu eletta l’Assemblea costituente, incaricata di redigere la Carta fondamentale della Repubblica italiana. La maggioranza relativa andò alla Dc, anche se la somma dei voti ottenuti da socialisti e comunisti era superiore. L’Assemblea lavorò alacremente per circa un anno e mezzo, fino al dicembre 1947, quando venne approvato il testo finale, entrato in vigore il 1° gennaio 1948. La Costituzione repubblicana era un testo molto avanzato sul piano giuridico, come mostrano i principi fondamentali sanciti nei primi 12 articoli. Nella prima parte, accanto ai doveri e ai diritti, civili e politici, dei cittadini, essa riconosceva anche importanti diritti sociali; nella seconda parte, invece, si disciplinava l’ordinamento della Repubblica parlamentare. Il centrismo Nel 1947 scoppiò anche in Italia la guerra fredda. Essendo stata liberata dagli Alleati, l’Italia rientrava nella sfera d’influenza americana; così, appena due mesi dopo l’enunciazione della dottrina Truman, nel mese di maggio si ruppe l’alleanza antifascista, con l’allontanamento dal governo del Pci e del Psi. L’epoca del “centrismo” durò oltre un decennio, fino alla fine degli anni cinquanta. L’Italia trovò una collocazione stabile nel mondo occidentale, ricevendo gli aiuti del Piano Marshall, fondamentali per la sua ripresa economica, e aderendo al Patto atlantico, l’ombrello militare con cui proteggersi dalle eventuali minacce provenienti da Est. Il prezzo pagato, tuttavia, fu alto: infatti, la presenza del Partito comunista più grande dell’Occidente, in un Paese posto, peraltro, al confine della “cortina di ferro”, inasprì ulteriormente lo scontro politico; così, in Italia la guerra fredda produsse una democrazia che gli storici hanno definito come “anomala”, “speciale”, “incompiuta”, poiché i delicati equilibri internazionali impedivano di fatto la fisiologica alternanza al potere tra maggioranza e opposizione. Ascesa e crisi del centrismo Le elezioni politiche del 18 aprile 1948, segnate da un conflitto particolarmente aspro tra le sinistre, unite nel Fronte democratico popolare, e la Dc, sostenuta in modo decisivo dagli Stati Uniti e dal Vaticano, furono vinte in modo netto dal partito cattolico; in questo modo, la formula centrista venne legittimata anche dal voto popolare. Nella prima legislatura (1948-53), nonostante il clima di scontro frontale tra i due blocchi e la rude repressione del conflitto sociale, imposta dal ministro degli Interni Mario Scelba, i Governi De Gasperi riuscirono a ottenere importanti risultati: ad esempio con la riforma agraria, varata nel 1950, che pose fine alla piaga del latifondo; quindi, con la partecipazione italiana alla Comunità economica del carbone e dell’acciaio (Ceca), istituita nel 1951; infine, con l’istituzione nel 1952 della Cassa del Mezzogiorno, con cui si cercò di risolvere l’annosa “questione meridionale”. Dagli anni Cinquanta l’economia italiana, pienamente inserita nel circolo virtuoso del capitalismo occidentale, iniziò a crescere in modo vistoso; tuttavia, alcuni delicati nodi sociali, primo fra tutti la persistente arretratezza del Sud, non furono sciolti, come mostrarono gli imponenti flussi migratori che, di lì a poco, iniziò a muoversi verso le regioni più ricche del Nord industriale. Nel 1953 il Paese tornò al voto con un nuova legge elettorale la quale prevedeva un premio di maggioranza per la coalizione vincente; in questo modo la Dc sperava di poter rafforzare il potere del governo rispetto al parlamento. Tuttavia, l’esito elettorale, non soddisfacente, e la morte di De Gasperi, avvenuta nel 1954, assestarono due forti colpi al sistema di potere della Dc (guidata dal nuovo leader Amintore Fanfani), non più in grado di governare da sola una situazione economica e sociale sempre più dinamica e complessa. Così, la seconda legislatura, durata fino al 1958, vide una lenta agonia del centrismo. Il miracolo economico e la nascita del centrosinistra Tra gli anni Cinquanta e Sessanta, nel pieno della Golden age, l’Italia visse una fase di straordinaria crescita economica, basata su un impetuoso sviluppo industriale. Fu l’epoca del cosiddetto “boom”, che in pochi anni trasformò il Paese in una potenza mondiale. Il Pil crebbe al ritmo di oltre sei punti percentuali all’anno, trainato soprattutto dai settori della metalmeccanica e della chimica, grazie in particolare a un incremento notevole delle esportazioni. Nello stesso tempo, però, il “miracolo italiano”, pur determinando un aumento rilevante della ricchezza nazionale, non fu sufficiente a superare alcuni gravi squilibri sociali, primo fra tutti il basso costo del lavoro; i salari dei lavoratori, infatti, rimasero tra i più bassi in Europa, mentre le nuove condizioni di lavoro, dominate dalle regole del taylorismo, finirono per peggiorare la salute degli operai. La crisi Tambroni Il miracolo economico, oltre che cambiare il volto della società, favorì importanti mutamenti politici. Infatti, dopo le elezioni del 1958 iniziò a consolidarsi il dialogo tra la Dc e il Psi, quest’ultimo sempre più distante dal Pci, soprattutto dopo i tragici fatti d’Ungheria. Eppure, la cosiddetta “apertura a sinistra” incontrava numerosi ostacoli sulla sua strada. Una dimostrazione evidente la si ebbe nel 1960 quando, pur di evitare la formazione di una embrionale coalizione di centrosinistra, si decise la costituzione di un governo monocolore della Dc, guidato da Fernando Tambroni, che in Parlamento ricevette il sostegno decisivo del Msi, il partito dell’estrema destra, nostalgico del fascismo. Tale evento, a soli quindici anni dalla Liberazione, produsse un’ampia mobilitazione antifascista in tante piazze, a partire da Genova dove, il 30 giugno, si registrarono forti scontri tra manifestanti e polizia. Pochi giorni dopo il governo scelse la strada della repressione violenta del movimento, causando dieci morti a Reggio Emilia, Palermo e Catania. A quel punto, però, la reazione politica generale costrinse Tambroni alle dimissioni. Al suo posto nacque il Governo Fanfani delle “convergenze parallele” – la formula fu coniata dal nuovo segretario della Dc Aldo Moro – che vide il Psi astenersi nel voto parlamentare di fiducia. Il centrosinistra Due anni dopo, nel 1962, nel pieno del miracolo economico, Dc e Psi raggiunsero l’intesa per il varo del primo governo di centrosinistra, ancora una volta affidato a Fanfani; il Psi assicurò l’appoggio “esterno”, cioè votò la fiducia ma rinunciò a incarichi ministeriali. Il programma di governo rappresentò una vera e propria accelerazione sul terreno delle cosiddette “riforme di struttura”: infatti, in pochi mesi si realizzò la riforma della scuola media, che venne unificata, e la nazionalizzazione delle industrie elettriche. L’anno seguente Dc e Psi raggiunsero l’intesa per il centrosinistra “organico”, con l’ingresso dei socialisti nel governo; nel dicembre 1963 il leader del Psi Pietro Nenni divenne il vice del nuovo Presidente del Consiglio, il leader della Dc Aldo Moro. Tale scelta, tuttavia, provocò una scissione nel Psi, con la nascita del Partito socialista italiano di unità proletaria (Psiup), avvenuta nel gennaio 1964. Da allora i problemi principali per il centrosinistra vennero dal peggioramento tanto della situazione economica, quanto del clima politico. Infatti, dopo anni di crescita vertiginosa, la produzione industriale rallentò e tra il 1963 e il 1964 si visse una prima battuta d’arresto che non agevolò la svolta politica. Inoltre, proprio durante quella stagione, nell’estate del 1964 si visse il primo episodio “oscuro” nella storia repubblicana, con il “caso Sifar”, di cui si venne a conoscenza solo tre anni dopo. Accadde infatti che, durante le consultazioni al Quirinale per la formazione del nuovo governo, il Presidente della Repubblica Antonio Segni ricevette anche il comandante dell’Arma dei carabinieri, Giovanni De Lorenzo, in precedenza a capo dei servizi segreti, incaricato di preparare un piano con cui progettare un’eventuale stretta autoritaria nel Paese, da realizzare attraverso l’arresto dei gruppi dirigenti dell’opposizione e il controllo di alcuni centri strategici del potere. Si trattò certamente di un passaggio critico nella storia del Paese, che rappresentò una pressione formidabile per raffreddare la spinta riformista del centrosinistra. Non a caso, infatti, dopo il 1964 i Governi Moro si limitarono a una gestione ordinaria della vita pubblica, senza più varare riforme particolarmente incisive. Il processo d’integrazione europea La crisi dell’Europa Alla metà del XX secolo l’Europa attraversava una fase di crisi profonda. Le potenze del “Vecchio continente”, dopo essere giunte a dominare il mondo alla fine dell’Ottocento, nella prima metà del Novecento erano state le principali responsabili di quella che, in sede storica, è stata definita la “guerra civile europea”, una sorta di nuova “guerra dei trent’anni” iniziata con l’attentato di Sarajevo nel 1914 e conclusa nel 1945 con la sconfitta del nazifascismo. La Gran Bretagna, sempre piuttosto distante dalle vicende continentali, aveva sì vinto il conflitto, ma ciò era potuto accadere soprattutto per l’intervento degli Stati Uniti; inoltre, nel dopoguerra, la perdita di importanti colonie accentuò una parabola discendente che allontanava il Paese dai fasti imperiali del XIX secolo. Un discorso analogo può esser fatto per la Francia, vittima per circa settant’anni delle aggressioni tedesche, ma anch’essa certamente responsabile dello sfascio europeo, soprattutto per la gestione scellerata del primo dopoguerra; così, anche il Paese transalpino aveva avviato una caduta senza precedenti, perdendo, una dopo l’altra, tutte le principali colonie, dall’Asia all’Africa. Quanto all’Italia, dopo la vittoria nella Grande guerra, essa era finita travolta dall’ambizione guerrafondaia del fascismo. Infine, la determinazione della Germania a espandersi, sperimentata una prima volta nel 1914 e poi replicata, in forme raccapriccianti, dal nazismo negli anni Trenta, era stata definitivamente bloccata soltanto grazie all’alleanza anomala tra Stati Uniti e Unione Sovietica, la quale infatti era naufragata in breve tempo all’indomani della Seconda guerra mondiale. Il manifesto di Ventotene Nel 1945, dunque, la situazione dell’Europa appariva disperata. Coperta dalle macerie del conflitto e presto attraversata dalla cortina di ferro, essa appariva destinata a recitare un ruolo sempre più secondario, se non marginale, sul palcoscenico internazionale. Oltre allo Stato nazionale, anche il secondo pilastro dell’epoca contemporanea fu un fenomeno per lungo tempo assente in queste aree, a causa di uno sfruttamento coloniale che favoriva soltanto le potenze imperialiste. Così, quando scoccò l’ora dell’indipendenza, la condizione economica delle ex colonie era molto debole e critica, poiché si reggeva prevalentemente sull’agricoltura, gestita peraltro con modalità ancora tradizionali. Tuttavia, proprio a partire dal dopoguerra, il mondo non industrializzato cominciò a giocare un ruolo sempre più autonomo e rilevante. Ciò fu dovuto non solo all’azione politica delle élite indipendentiste, che vollero così imitare quanto realizzato in Occidente all’epoca delle “rivoluzioni borghesi”; ma anche a cambiamenti strutturali economici e sociali, quali la crescita demografica e l’urbanizzazione, che si consolidarono a partire dagli anni Cinquanta. In Asia. Il primo conflitto arabo-israeliano Il continente nel quale si registrò il primo consistente processo di decolonizzazione fu l’Asia. Già nell’immediato dopoguerra, infatti, Francia e Inghilterra persero buona parte dei loro possedimenti, segno evidente della minore influenza delle potenze europee nello scacchiere internazionale. Ben presto, però, nella regione esplose la “questione palestinese”, a causa della volontà degli ebrei di tornare nella “Terra promessa” per edificare il proprio Stato, Israele; in breve tempo, da un lato le pressioni del sionismo, cioè del nazionalismo ebraico, sostenute soprattutto dagli Stati Uniti, dall’altro l’azione del nazionalismo arabo, che vide crescere il sostegno dell’Urss, portarono nel 1948 allo scoppio del primo conflitto tra arabi e ebrei. La guerra fu vinta da questi ultimi, i quali poterono dare vita finalmente al loro Stato nazionale; il prezzo più salato, invece, venne pagato dai profughi palestinesi, costretti ad abbandonare la propria terra e le proprie case. La crisi delle potenze coloniali europee: i casi di India e Indocina Nel resto del continente i casi più importanti di decolonizzazione riguardarono in particolare due aree. La più rilevante, anche per la grandezza del territorio e della popolazione, fu l’India, che ottenne l’indipendenza dalla Gran Bretagna nel 1947 grazie soprattutto al movimento guidato dal Mahatma Gandhi, basato sui principi rivoluzionari della “disobbedienza civile” e della “non violenza”. Tuttavia, l’egemonia induista nella regione portò subito alla separazione dei territori a maggioranza musulmana, dai quali nacque il Pakistan, e al conseguente spostamento di milioni di profughi. La sistemazione, comunque, era provvisoria, tanto che già nel 1948 scoppiò la prima guerra tra India e Pakistan per il controllo del Kashmir e degli altri territori contesi. Il secondo caso, invece, riguardò l’ampia regione dell’Indocina, dominio coloniale francese fino al 1954, quando la potenza europea venne sconfitta nella battaglia di Dien Bien Phu dai guerriglieri comunisti locali, i “Viet Minh”. La sistemazione successiva dell’area fu stabilita dagli accordi di Ginevra del 1954, che riconoscevano due Stati: il Vietnam del Nord, un regime comunista alleato dell’Urss e della Cina, e il Vietnam del Sud, filo-occidentale e dunque inserito nella sfera d’influenza americana. Ancora in Medio Oriente Tornando al Medio Oriente, la nascita di Israele ebbe l’effetto di rilanciare un diffuso sentimento nazionalista nel mondo arabo, accrescendo le tensioni con il mondo occidentale. Nel 1952, ad esempio, il governo persiano di Mossadeq decise la nazionalizzazione della locale industria petrolifera, suscitando però la brusca reazione di Gran Bretagna e Usa, che avevano forti interessi economici in Iran; le pressioni occidentali portarono così alla caduta del governo e al ritorno dall’esilio del monarca, lo Scià Reza Pahlavi, che garantì a inglesi e americani il ripristino delle precedenti condizioni economiche. Al contrario, nello stesso periodo, in un altro Stato strategico della regione, l’Egitto, si verificò un significativo cambio di regime, che questa volta avvenne a vantaggio dei nazionalisti arabi; infatti, un colpo di Stato condotto dai militari portò alla caduta della monarchia filo-occidentale di Farouk I e alla nascita di una Repubblica, presto dominata dalla figura di Gamal Abdel Nasser. Nell’autunno del 1956, proprio nei giorni drammatici della rivolta ungherese, l’Egitto si trovò al centro delle tensioni internazionali; infatti, dopo la decisione assunta da Nasser di nazionalizzare il canale di Suez, Francia e Gran Bretagna, insieme a Israele, decisero di intervenire militarmente per colpire il regime egiziano. La seconda guerra arabo-israeliana, tuttavia, si concluse con la sconfitta delle potenze occidentali, rappresentando un colpo pressoché definitivo per le ambizioni colonialiste dei due Paesi europei. Ormai, la logica della guerra fredda (con il corollario della palese marginalità dell’Europa) si era allargata anche nel Medio Oriente: qui, infatti, anche grazie al sostegno dell’Urss, si andò rinsaldando un’alleanza tra alcuni Stati arabi (in particolare Egitto, Iraq e Siria), impegnati a contrastare Israele, che godeva invece dell’appoggio pieno degli americani. Questi ultimi, peraltro, furono molto abili nel tessere una rete di alleanze con altri Paesi arabi – ad esempio con la monarchia tradizionalista dell’Arabia Saudita – per ostacolare la formazione di un unico fronte arabo, orientato contro Israele e l’Occidente. In Africa. La questione algerina In Africa il processo di decolonizzazione entrò nel vivo con qualche anno di ritardo rispetto all’Asia. Qui il caso più eclatante d’indipendenza nazionale riguardò l’Algeria, possedimento francese sin dal lontano 1830. Nel Paese maghrebino, a partire dal 1954 si combatté una dura guerra di liberazione, che non risparmiò la popolazione locale e che assunse i caratteri di una vera e propria guerra civile a causa dell’elevato numero di francesi che nel corso dei decenni si erano stabiliti nella colonia. Dopo la perdita francese della Tunisia, avvenuta nel 1956, il conflitto divenne particolarmente cruento, come mostrò la “battaglia di Algeri”, vinta nel 1957 dai francesi a prezzo di un lungo assedio alla capitale algerina e di violenti scontri. La guerra si concluse soltanto nel 1962. Nel frattempo, la Francia aveva vissuto un’importante svolta istituzionale, con la fine della Quarta Repubblica (parlamentare), nata dopo la Seconda guerra mondiale, e la nascita della Quinta repubblica (semipresidenziale), guidata dal generale ed eroe della Resistenza transalpina Charles De Gaulle. Fu proprio quest’ultimo, grazie alla sua autorevolezza e intraprendenza, a condurre i negoziati finali, culminati negli accordi di Evian, che riconobbero l’indipendenza algerina. Altri scenari di crisi Un altro scenario “caldo” in Africa fu il Congo, giunto all’indipendenza (dal Belgio) nel 1960, ma anch’esso a prezzo di un percorso particolarmente sanguinoso, che non si arrestò con la liberazione.  Nel gennaio 1961, infatti, ci fu il feroce assassinio di Patrice Lumumba, l’eroe della resistenza congolese e Primo Ministro della Repubblica Democratica, ucciso da militari ribelli con la complicità dei sevizi segreti belgi e americani. Il Kenya, invece, dove negli anni Cinquanta si era sviluppato il movimento rivoluzionario dei Mau Mau, duramente represso dagli inglesi, arrivò al traguardo dell’indipendenza nel 1963. Gli inglesi, inoltre, in alcuni territori dovettero gestire anche la delicata questione dell’apartheid, cioè della segregazione razziale operata dai coloni bianchi nei confronti della comunità nera locale. Significativo, a tale proposito, fu il caso della Rhodesia del Sud, che decise di sganciarsi dalla madrepatria nel 1965 per continuare la stessa politica discriminatoria già intrapresa e sviluppata da tempo nel vicino Sudafrica. Il cammino per l’indipendenza nazionale coinvolse anche altri Stati europei, come ad esempio il Portogallo, l’ultimo Stato a cedere, che perse le colonie dell’Angola e del Mozambico soltanto negli anni Settanta, dopo essere stato costretto a fronteggiare un lungo periodo di guerriglia. Per tanti altri Paesi africani, invece, il percorso si concluse fortunatamente in modo pacifico. Il colonialismo, ormai, era un vecchio arnese, inservibile e anacronistico. Il movimento dei “paesi non allineati” Un nuovo mondo Dalla metà del XX secolo le relazioni internazionali iniziarono ad articolarsi intorno a tre poli. Il “primo” mondo, quello capitalista, aveva come punto di riferimento gli Stati Uniti, la superpotenza che, con la Seconda guerra mondiale, aveva assunto in Occidente la definitiva leadership economica, politica e militare, unanimemente riconosciuta. Ad esso si contrapponeva il “secondo mondo”, quello comunista, guidato dall’Urss, a cui si era affiancata la Cina, una potenza sempre più centrale sul piano geopolitico, capace di tenere testa anche al gigante sovietico. Accanto ai due blocchi, tuttavia, si andò delineano un “terzo” mondo, composto da numerosi Stati, alcuni dei quali avevano dinanzi a sé un grande potenziale di sviluppo. Alcuni, come l’Egitto, avevano ottenuto la piena sovranità sul loro territorio già nel periodo compreso tra le due guerre mondiali; altri, come l’India e l’Indonesia, avevano raggiunto l’indipendenza soltanto in tempi più recenti, dopo la Seconda guerra mondiale. Tali Paesi, dotati di grandi ricchezze naturali e con popolazioni in continua crescita, si presentavano sullo scacchiere internazionale con l’ambizione di giocare un ruolo nuovo, diverso da quello succube vissuto nel passato e in grado di condizionare gli equilibri a livello globale. Essi non si riconoscevano nella divisione bipolare del pianeta, frutto di una storia che li aveva relegati in condizioni di subordinazione e sfruttamento. Il problema non era soltanto economico e politico, ma anche culturale: il principio dell’autodeterminazione dei popoli, affermatosi tra Ottocento e Novecento nel mondo occidentale, ma presto recepito anche dall’ideologia comunista, aveva un valore universale; per questo esso andava applicato a livello generale, riconoscendo piena legittimità e uguale dignità a tutti gli Stati nazionali, ciascuno dotato di una propria storia, di una cultura ricca e plurale, fatta di usi e costumi, lingue e confessioni religiose diverse, che spesso affondavano le radici in una lunga vicenda secolare. D’altronde, la presunta superiorità delle civiltà più “avanzate” aveva prodotto in pochi anni ben due guerre mondiali, che avevano riempito il mondo di macerie. Anche per questo occorreva voltare pagina. La conferenza di Bandung Nel nuovo scenario internazionale del dopoguerra, segnato non solo dal bipolarismo ma anche dall’emergere di nuove potenze, dal 18 al 24 aprile 1955 si tenne a Bandung, in Indonesia, la prima conferenza dei Paesi del Terzo Mondo, i quali decisero di incontrarsi per iniziare a discutere alcuni temi generali di politica internazionale al di fuori della logica rigidamente contrapposta della guerra fredda. All’incontro parteciparono 29 Paesi dell’Asia e dell’Africa, cioè dei due continenti che stavano vivendo in modo intenso e partecipato i processi di decolonizzazione. L’anticolonialismo, infatti, era il punto di partenza da cui partire per elaborare un programma comune fondato sulla convivenza pacifica dei popoli, a partire da quelli più poveri ed emarginati. Al “padrone di casa”, il leader indonesiano Sukarno, artefice dell’indipendenza del suo Paese dai Paesi Bassi, ottenuta nel 1949, si affiancarono altri importanti protagonisti,  quello geopolitico, come testimoniò il braccio di ferro sulla posizione da assumere nei confronti del regime jugoslavo di Tito (che si riavvicinò a Mosca) e della dittatura albanese di Enver Hoxha (più vicina a Pechino);  il piano ideologico, con accuse reciproche di “revisionismo”, che si rinfocolarono soprattutto dopo il lancio da parte di Mao nel 1966 del progetto di “Rivoluzione culturale”;  e persino il piano militare, tanto che nel 1969 si ebbero alcuni scontri armati lungo la frontiera. La guerra del Vietnam Sul versante opposto gli Stati Uniti, dopo aver sostenuto il regime del Vietnam del Sud, oggetto di continui attacchi da parte della guerriglia comunista dei vietcong, decisero l’intervento militare diretto nella regione. La decisione impegnativa venne presa dal Presidente democratico Lyndon Johnson, subentrato a Kennedy dopo il misterioso omicidio di questi, avvenuto a Dallas il 22 novembre 1963. I primi bombardamenti nell’area avvennero nel 1964. Quindi, dal 1965 furono inviate anche truppe di terra, costrette a combattere in un territorio impervio, specie nelle foreste tropicali che favorivano la guerriglia e penalizzavano l’esercito statunitense. In questo modo la guerra del Vietnam si trasformò progressivamente in un incubo per gli americani: innanzitutto, per i moltissimi soldati che persero la vita o vennero feriti nei combattimenti, poi per lo stesso governo, incapace di uscire dal pantano vietnamita e sempre più in difficoltà anche in patria, a causa della crescita veemente di un movimento giovanile che si opponeva alla guerra, molto diffuso nei campus universitari. Nel 1968 i democratici persero le elezioni e i repubblicani, guidati da Richard Nixon, tornarono al potere. Ormai, però, la situazione militare era compromessa, specie dopo l’offensiva del Têt, lanciata dai guerriglieri comunisti nel gennaio 1968. La guerra, così, si fece ancora più cruenta, con crimini terribili commessi anche ai danni della popolazione civile. Nei primi anni Settanta, finalmente, partirono i negoziati di pace, che portarono nel 1973 agli accordi di Parigi, in cui si stabilì il ritiro dei militari americani. La strada per la vittoria finale del Nord era spianata; essa giunse nel 1975, con la riunificazione del Vietnam sotto il regime comunista. IL SESSANTOTTO LA “STAGIONE DEI MOVIMENTI” Alla fine degli anni Sessanta in Occidente prese forma un vasto movimento “politico” che vide per la prima volta come protagonisti soprattutto i giovani studenti e i giovani operai. Il cosiddetto “movimento del Sessantotto” promosse una serie impressionante di lotte, ampie e articolate, che non si limitarono ad avanzare propositi di riforma, ma che si caricarono ben presto di un obiettivo più generale e radicale: la profonda trasformazione dei sistemi di potere, di qualsiasi potere, in nome di un’utopia antiautoritaria, egualitaria e libertaria. I caratteri peculiari del movimento, dunque, furono principalmente due: la dimensione internazionale, che coinvolse praticamente tutto il mondo occidentale, dalle Americhe all’Oceania, passando per l’Europa, ma che finì per coinvolgere anche aree del “secondo” e del “terzo” mondo; e il dato generazionale, il fatto cioè che ad animare le lotte fossero soprattutto le giovani generazioni. Alla fine, il movimento ottenne risultati significativi, in particolare a livello sociale e culturale, producendo importanti cambiamenti nel modo di lavorare e di consumare, di pensare e di vivere di milioni di persone. Sul piano interpretativo esistono tra gli storici due letture, solo apparentemente in contrasto. I MOVIMENTI NEGLI STATI UNITI E LA “PRIMAVERA DI PRAGA” Nello stesso periodo, inoltre, giunse a maturazione anche un altro movimento, quello a favore del riconoscimento dei diritti civili per gli afroamericani e, più in generale, per tutte le minoranze; durante questa lotta, entrata nel vivo proprio negli anni Sessanta, si distinse il pastore protestante Martin Luther King, leader del movimento, sostenitore del principio della “non violenza” e premio Nobel per la pace nel 1964, il quale tuttavia finì assassinato il 4 aprile 1968 in un motel di Memphis, vittima di una cospirazione mai del tutto chiarita. Poche settimane dopo, il 6 giugno, un altro omicidio misterioso colpì l’America: questa volta, a essere colpito a morte fu Robert Kennedy, fratello di JFK, candidato democratico per le elezioni presidenziali e tra i politici più impegnati proprio nella campagna per i diritti civili promossa da Martin Luther King. IL “SOCIALISMO DAL VOLTO UMANO” Il “vento” del ‘68 arrivò a spirare, seppure in modo ridotto, anche all’interno del blocco comunista, dove le possibilità di azione erano drasticamente ridotte. Nelle università polacche, ad esempio, nel ’68 si sviluppò un movimento studentesco dinamico e intraprendente. Gli eventi più importanti, tuttavia, si verificarono in Cecoslovacchia: qui, infatti, si visse la cosiddetta “primavera di Praga”, vale a dire una stagione di riforme, avviata all’inizio del ’68 e promossa dal leader comunista locale Alexander Dubcek, che puntava ad ampliare gli spazi di democrazia nel Paese, allargando la sfera dei diritti individuali e decentrando, in parte, il potere amministrativo. Tuttavia, dopo il varo di alcuni provvedimenti significativi (ad esempio in tema di libertà economiche e di stampa), ancora una volta l’esperimento venne brutalmente represso tramite un intervento “esterno”; infatti, come accaduto nel 1956 a Budapest, le truppe del Patto di Varsavia, guidate dai carri armati sovietici, arrivarono nell’agosto del 1968 a soffocare la speranza di dare vita a un “socialismo dal volto umano”. Ormai la fiducia (diffusa peraltro più nel mondo occidentale che nelle “democrazie popolari”) che alcune élite al potere, con l’eventuale consenso di settori dell’opinione pubblica, riuscissero a riformare dall’interno quel sistema brutale di potere, stava tramontando definitivamente, per lasciare il campo solo alla rassegnazione. IL “MAGGIO FRANCESE” Nell’Europa occidentale la fiammata rivoluzionaria più appariscente si registrò in Francia. Nel Paese transalpino la spinta maggiore venne dagli studenti universitari, che dall’inizio del 1968 alzarono il tiro della protesta, occupando scuole e atenei. La caratteristica principale del movimento francese fu il forte livello di scontro che si registrò tra i giovani e le forze dell’ordine, chiamate ad arginare i disordini. L’apice del conflitto si raggiunse nel mese di maggio (da cui la definizione di “maggio francese”), con epicentro a Parigi, dove nel quartiere Latino, sede della Sorbonne, comparvero anche le barricate, una modalità di ribellione ricorrente nella storia della città. Negli stessi giorni si assistette anche alla crescente saldatura tra il movimento degli studenti e quello degli operai, che continuava ad allargarsi nelle fabbriche, fino all’imponente sciopero generale del 13 maggio che bloccò l’intero Paese. Da allora, le trattative tra sindacati e imprese s’intensificarono, fino a raggiungere un’importante intesa – gli accordi di Granelle del 27 maggio – che miglioravano le condizioni economiche e normative dei lavoratori. Tuttavia, mentre il conflitto sociale si riduceva, la crisi continuò a protrarsi a livello politico-istituzionale, con il Presidente della Repubblica De Gaulle intenzionato a “cavalcare” la paura suscitata nell’opinione pubblica dalle lotte sociali. Nell’immediato, la ragione sembrò dalla sua parte, poiché egli ottenne un’importante vittoria elettorale; tuttavia, De Gaulle rappresentava ormai una figura del tempo passato, che strideva con le istanze di profondo cambiamento avanzate dai movimenti. Così, dopo la sconfitta nel referendum per la riforma costituzionale, avvenuta nell’aprile del 1969, egli decise di dimettersi, abbandonando definitivamente, all’età di quasi 80 anni, la scena politica. IL “LUNGO SESSANTOTTO” IN ITALIA Il caso italiano presentò evidenti analogie, ma anche differenze sostanziali, rispetto al “maggio francese”. Come nel Paese transalpino, anche nella penisola il movimentò partì dalle scuole e dalle università, tra gli studenti, come mostrarono le numerose occupazioni avviate già alla fine del 1967 in alcuni atenei, da Pisa a Trento, da Milano a Roma; a Torino fece particolarmente clamore l’occupazione di Palazzo Campana, sede delle facoltà umanistiche. E come in Francia, anche in Italia si ebbe un’efficace collaborazione tra il movimento studentesco e quello operaio, non priva di asprezze, ma cementata dalla parola d’ordine dell’“antiautoritarismo”, che favorì una crescita generale della mobilitazione. La differenza rilevante, invece, riguardò la durata delle proteste: se in Francia esse si concentrarono in poche settimane, in Italia il ’68 durò più a lungo, soprattutto per volontà degli operai delle grandi fabbriche, in gran parte emigrati dal Sud nelle grandi città del Nord, che vivevano una condizione salariale e normativa particolarmente difficile. La spinta operaia si mantenne molto elevata fino all’“autunno caldo” del 1969, quando una lotta sindacale senza precedenti portò alla firma di alcuni rinnovi contrattuali, che sancirono il più ingente spostamento di reddito e di potere a favore delle classi lavoratrici mai registrato nella storia italiana; inoltre, tale spinta proseguì ancora nei primi anni Settanta, con ulteriori miglioramenti conquistati sia per via contrattuale che legislativa. In questa fase il movimento sindacale si affermò come un vero e proprio “soggetto politico”, l’unico capace di confrontarsi con i temi della contestazione giovanile, riuscendo a strappare risultati rilevanti a livello economico e politico: negli anni della cosiddetta “supplenza sindacale”, tra il 1968 e il 1970, furono abolite le “gabbie salariali”, cioè le differenze di paga tra le diverse zone del Paese; fu varata un’importante riforma delle pensioni, che rappresentò il primo pilastro dello Stato sociale in Italia; e fu conquistato lo Statuto dei diritti dei lavoratori, grazie al quale “la Costituzione varcava finalmente i cancelli delle fabbriche”. La crisi economica degli anni Settanta La fine degli accordi di Bretton Woods In tale quadro, mentre il sistema di potere sovietico iniziava a “franare”, la stessa egemonia degli Stati Uniti cominciò a subire un progressivo appannamento. La prova più evidente si ebbe nell’agosto 1971, quando, di fronte ai costi eccessivi della guerra in Vietnam e alla sostanziale sconfitta delle truppe americane, il presidente Nixon prese la decisione di porre fine unilateralmente agli accordi di Bretton Woods, siglati nel lontano 1944. Tali accordi erano stati essenziali per la ricostruzione economica dopo la Seconda guerra mondiale, per la stabilità dei cambi valutari, per la crescita degli scambi commerciali e per la golden age occidentale. Decretando la fine della convertibilità del dollaro in oro e svalutando la moneta americana, si aprì una stagione di grande incertezza, segnata da notevoli oscillazioni nel mercato dei cambi e da una concorrenza più accesa che penalizzò i soggetti meno competitivi. In questo modo l’“età dell’oro” si avviava a chiudere la sua parabola. Due anni dopo, nel 1973, lo scoppio della crisi petrolifera complicò ulteriormente le prospettive di rilancio dell’orribile fenomeno dei “desaparecidos”, cioè dei circa 30 mila oppositori del regime che in quegli anni scomparvero nel nulla. Solo negli anni Ottanta la prassi dei golpe militari si sarebbe finalmente ridotta nell’America del Sud. Nel continente europeo: il consolidamento della democrazia Sul piano istituzionale, verso la fine del decennio alcune innovazioni permisero di accelerare il progetto comunitario. Innanzitutto, la prima elezione popolare del Parlamento europeo, avvenuta nel 1979, rafforzò la democrazia nella Comunità. L’Italia repubblicana: Nazione e crisi Luci e ombre degli anni Settanta Tra la fine degli anni Sessanta e i primi anni Ottanta l’Italia raggiunse traguardi impensabili fino a pochi anni prima, soprattutto a livello sociale, culturale e giuridico, specie per quanto riguarda i diritti dei propri cittadini, nei luoghi di lavoro e, più in generale, nella vita di tutti i giorni. Eppure, mentre il quadro economico tendeva a deteriorarsi sia sul piano internazionale che nazionale, provocando il progressivo appannamento del fordismo, la società civile e le istituzioni furono costrette a convivere con un clima di crescente violenza politica, sempre più cupo, che produsse un numero elevato di vittime innocenti. Furono i cosiddetti “anni di piombo”, una definizione tranchant con cui vengono ricordati ancora oggi gli anni Settanta, che ha finito tuttavia per oscurare i tanti avvenimenti positivi che si sono verificati in quel decennio. Lo stragismo “nero” Il 12 dicembre 1969, nel centro di Milano, a Piazza Fontana, una bomba scoppiò presso la filiale della Banca nazionale dell’agricoltura, facendo ben 17 morti e quasi un centinaio di feriti; si trattò del primo episodio della cosiddetta “strategia della tensione”, vale a dire il tentativo di creare il caos nelle istituzioni e il panico nell’opinione pubblica, operato da gruppi neofascisti e da settori deviati dello Stato (annidati nei servizi segreti, nel ministero dell’Interno e in quello della Difesa), con la complicità di oscuri ambienti internazionali e, più tardi, con la partecipazione attiva di pezzi della criminalità organizzata e della massoneria segreta, con l’obiettivo finale di agevolare una svolta autoritaria nel Paese. Nonostante il fallimento politico dell’iniziativa, lo stragismo “nero” continuò a colpire ancora negli anni successivi:  altre vittime innocenti si ebbero a Gioia Tauro, dove il 22 luglio 1970 una bomba fatta esplodere su un treno fece 6 morti;  a Peteano, vicino Gorizia, dove il 31 maggio 1972 vennero uccisi 3 carabinieri, attirati in un’imboscata;  ancora a Milano, presso la Questura, dove il 17 maggio 1973, nel corso di una manifestazione in ricordo del commissario Luigi Calabresi (assassinato esattamente un anno prima da un commando di terroristi di sinistra), un’altra bomba uccise 4 persone;  infine nel 1974, dapprima a Brescia, in Piazza della Loggia, dove il 28 maggio, durante una manifestazione sindacale antifascista, un potente ordigno ammazzò 8 persone;  e quindi sul treno Italicus, il 4 agosto, quando l’ennesima bomba, fatta esplodere la stazione di San Benedetto Val di Sambro (Bologna), causò 12 vittime La crisi economica Nei primi anni Settanta, mentre perdurava l’offensiva stragista, l’Italia dovette affrontare anche una difficile congiuntura economica, che aumentò le tensioni sociali e indebolì il mondo della politica. Già la fine degli accordi di Bretton Woods, nel 1971, aveva reso più fragile il sistema creditizio italiano, più esposto alle fluttuazioni dei mercati valutari, con ricadute evidenti sul terreno della produzione industriale. Questa, però, ricevette un colpo duro soprattutto con la crisi petrolifera del 1973, un vero e proprio shock che provocò, nello stesso tempo, una marcata recessione e un’impennata dei prezzi. La fine della “Prima Repubblica”. Il “compromesso storico” I grandi cambiamenti economici e sociali, avvenuti in un contesto di efferata violenza terroristica, determinarono effetti altrettanto rilevanti per il mondo della politica. Il centrosinistra, dopo circa dieci anni di governo, andò in crisi: dapprima, nel 1972, dopo le prime elezioni politiche anticipate della storia repubblicana, si formò il nuovo Governo Andreotti-Malagodi, in cui i liberali presero di nuovo il posto dei socialisti; quindi, dalla metà del decennio prese forma un nuovo disegno politico teso a risolvere il problema della fragilità delle istituzioni. L’idea del “compromesso storico” tra le principali forze politiche popolari – democristiani, socialisti e comunisti –  fu lanciata dal leader del Pci Enrico Berlinguer nel 1973, all’indomani del colpo di Stato di Augusto Pinochet in Cile, che aveva sostituito il governo democratico del socialista Salvador Allende con la dittatura militare. Onde evitare un pericolo simile anche in Italia, dove lo stragismo neofascista veniva sostenuto da forze “antisistema”, la proposta mirava a cementare un fronte unitario antifascista tra le forze che avevano sconfitto il fascismo durante la Resistenza e che avevano scritto insieme la Costituzione. Tale ipotesi, che tuttavia incontrava numerose resistenze in taluni ambienti sia internazionali che nazionali, prese consistenza dopo le nuove elezioni anticipate del 1976, quando il Pci raccolse i benefici dell’ondata di lotte sociali avviata nel ’68, aumentando notevolmente i consensi, a fronte di una sostanziale tenuta della Dc. Iniziò così l’epoca dei “governi di solidarietà nazionale”, presieduti da Giulio Andreotti, in carica tra il 1976 e il 1979 grazie al peso parlamentare dei comunisti. Dopo l’esito del primo referendum nel 1974 a favore del divorzio e dopo il varo del nuovo diritto di famiglia nel 1975, tali governi proseguirono il cammino delle riforme, ad esempio con la legge sull’aborto e con l’istituzione del Servizio sanitario nazionale, il secondo pilastro essenziale (accanto alle pensioni) dello Stato sociale. La crisi economica, tuttavia, non allentava la presa. Inoltre, contro l’alleanza tra Dc e sinistre, ben presto si scatenò l’offensiva del terrorismo, questa volta di matrice “rossa”, fino al tragico episodio del rapimento (16 marzo 1978) e dell’uccisione (9 maggio 1978) di Aldo Moro, il Presidente della Dc e l’uomo del dialogo con il Pci. IL CROLLO DEL COMUNISMO E LA FINE DELLA GUERRA FREDDA IL DECLINO DELL’UNIONE SOVIETICA LA GUERRA IN AFGHANISTAN Nel dicembre 1979 l’Unione Sovietica decise l’invasione dell’Afghanistan, Paese da sempre nelle mire dei russi in quanto collocato in una posizione strategica nel cuore dell’Asia, tra Medio Oriente, subcontinente indiano e Cina. In precedenza, nel 1973, un golpe aveva decretato la fine della monarchia e la nascita della Repubblica; appena cinque anni dopo, nel 1978, un nuovo colpo di Stato aveva portato al potere il locale partito comunista e il legame con l’Urss ne era uscito inevitabilmente rafforzato. Gli equilibri interni al nuovo regime, tuttavia, si erano rivelati particolarmente fragili; inoltre, le sorti del Paese erano rese ancora più incerte da un’intensa azione di guerriglia, organizzata da gruppi di combattenti islamici, i mujaheddin, finanziati dagli americani. Quando Breznev comprese il rischio d’implosione del regime comunista, diviso tra opposte fazioni, si decise l’occupazione del Paese da parte dell’Armata Rossa, avviata negli ultimi giorni del 1979. Da allora, però, l’Afghanistan divenne teatro di una guerra cruenta, combattuta tra sovietici e guerriglieri islamici, che provocò un numero molto elevato di vittime e milioni di profughi. Alla lunga, la conformazione del territorio favorì le azioni di guerriglia, tanto che per molti osservatori l’Afghanistan si trasformò ben presto nel “Vietnam” dei sovietici. Il conflitto durò dieci anni, accompagnando il declino dell’Urss, fino alla caduta finale; nel febbraio 1989 le truppe sovietiche si sarebbero ritirate, subendo di fatto una sconfitta pesante. LA REAZIONE DEL BLOCCO OCCIDENTALE E LA “SECONDA” GUERRA FREDDA LA “SECONDA” GUERRA FREDDA Sul piano internazionale, in particolare dopo l’intervento russo in Afghanistan, Reagan decise di replicare con durezza alle mosse sovietiche. Egli non si limitò a sostenere, con soldi e armi, i movimenti di guerriglia anticomunista, dall’Asia all’America centrale. Ma, più in generale, il presidente americano mise in campo un vasto programma di riarmo nucleare, come non si vedeva da tempo; così, il mondo tornò a vivere l’incubo di una guerra atomica, i cui effetti sarebbero stati disastrosi. Nel frattempo, anche la Thatcher scelse di mostrare i muscoli contro i nemici, riesumando la vecchia politica “imperiale”, abbandonata da tempo: il riferimento è alla guerra delle Falkland, combattuta contro l’Argentina nel 1982 per il controllo del piccolo arcipelago al largo della costa sudamericana. Alla fine gli inglesi, mossi da un rinnovato orgoglio patriottico, ebbero la meglio sugli avversari, accelerando la caduta della giunta militare argentina. IL CROLLO DELL’UNIONE SOVIETICA LA PERESTROIJKA DI GORBACEV E LA RIPRESA DEL DIALOGO TRA USA E URSS Le relazioni internazionali tornarono a normalizzarsi soltanto alla metà degli anni Ottanta, grazie a un cambiamento decisivo avvenuto al vertice dell’Unione Sovietica. Infatti, dopo la scomparsa di Breznev nel 1982, la fase successiva di transizione si chiuse nel 1985 con la salita al potere del nuovo segretario del Pcus Michail Gorbacev. Questi, in pochi mesi, avviò nel Paese un programma ambizioso di riforme, passato alla storia con il termine di perestroijka, condotto all’insegna di una maggiore trasparenza (glasnost). Nello stesso tempo, in politica estera, egli avviò una serie di importanti negoziati con gli Stati Uniti per avviare una revisione sostanziosa degli armamenti nucleari; così, dopo gli accordi di Reykjavik del 1986, le due superpotenze arrivarono alla firma del Trattato Inf sulla riduzione dei missili a medio raggio. Ovviamente, un intervento così radicale nella politica sovietica, sia interna che estera, Un primo significativo mutamento nell’ambito del Wto si è avuto nel dicembre 2001, quando anche la Cina è entrata a farne parte; ciò ha rappresentato una grande novità sul piano politico, permettendo nel contempo al Paese di realizzare in pochi anni una crescita economica impetuosa. Così, a partire dalle riforme economiche imposte da Deng Xiaoping negli anni Ottanta, la Cina ha dato vita a un modello assolutamente anomalo: quello, cioè, di una dittatura comunista, molto rigida sul piano politico, che tuttavia risulta pienamente inserita nel contesto capitalistico globale. Le crisi politiche Mentre l’economia cresceva a ritmo sostenuto, nel mondo le crisi politiche sembravano moltiplicarsi, con grande sorpresa di chi – dopo la fine del comunismo – aveva pronosticato l’inevitabile “fine della storia”. In realtà, la scomparsa dell’Urss non facilitò il processo di assestamento delle relazioni internazionali; anzi, nell’immediato, essa sembrò alimentare nuove tensioni. Un primo esempio si ebbe nel 1990, quando l’Iraq sunnita di Saddam Hussein, appena uscito dalla lunga guerra contro l’Iran sciita (1980-1988), decise di invadere il Kuwait per risolvere alcune questioni territoriali. Tuttavia, i forti interessi economici ed energetici presenti nell’area spinsero gli Stati Uniti di George Bush a intervenire nel 1991. Si trattò della (prima) “guerra del golfo” (Persico), che gli Usa vinsero facilmente grazie alla netta superiorità tecnologica- militare. Le guerre jugoslave Poco tempo dopo, in Europa, la caduta del comunismo – che aveva prodotto una transizione (insperatamente) pacifica nei Paesi dell’Est – provocò effetti laceranti nella zona occidentale della penisola balcanica, con epicentro nella Jugoslavia. Qui, dopo la morte di Tito nel 1980, si era aperta una delicata fase di transizione, che finì per risolversi in modo drammatico proprio dopo la scomparsa dell’Urss. Dal 1991, infatti, iniziò un processo di disgregazione del Paese, le cui radici storiche risalivano agli sviluppi della Grande Guerra. Se l’indipendenza della Slovenia si realizzò in breve tempo senza particolari traumi, dal 1992 si accese il conflitto tra serbi e croati, storicamente divisi da motivi culturali e religiosi. Iniziarono così le “guerre jugoslave”, destinate a seminare terrore e morte nel cuore del Vecchio continente dopo un lungo periodo di pace. Presto, ad aggravare la situazione, intervenne anche una dolorosa guerra civile in Bosnia, dove viveva un’ampia comunità musulmana. Il conflitto si chiuse soltanto nel 1995 con l’accordo di Dayton, che prevedeva la divisione in due della regione tra serbi e croati-bosniaci. Ma un’ulteriore appendice si ebbe con la guerra del Kossovo del 1996-1999, chiusa dai bombardamenti della Nato sulla Serbia, colpevole di una terribile repressione ai danni della locale comunità albanese. Dall’Africa all’Asia Negli stessi anni altri scenari di crisi si manifestarono in numerose regioni del pianeta. In Africa, ad esempio, nel 1994 si verificò in Ruanda un drammatico genocidio, alimentato dall’odio etnico tra hutu e tutsi, che alla fine vide soccombere questi ultimi; il massacro fu talmente violento che, in pochi mesi, le vittime arrivarono a sfiorare il milione di persone. Ma altre guerre e carneficine si registrarono un po’ ovunque, dal Congo alla Liberia, dal Darfur al Corno d’Africa. Alcuni processi conobbero anche un esito positivo: in Sudafrica, ad esempio, dopo la liberazione di Nelson Mandela, il leader storico del movimento anti-apartheid, l’odiosa forma di segregazione razziale venne finalmente cancellata con le libere elezioni del 1994, che videro una netta maggioranza a favore dell’Anc (African National Congress), il più importante partito della locale comunità nera. L’effetto più vistoso delle molteplici crisi politiche e umanitarie degli ultimi tre decenni è stato l’aumento esponenziale del numero dei profughi e le conseguenti migrazioni da parte di milioni di esseri umani, in viaggio verso le zone più ricche del pianeta alla ricerca di condizioni di vita dignitose. Così oggi, insieme ai problemi ambientali ed economici, il tema dell’immigrazione si è posto inevitabilmente al centro dell’agenda politica internazionale. Il terrorismo islamista Negli ultimi anni un tema di grande rilevanza ha riguardato la crescita del terrorismo islamista. Per quanto tale fenomeno interessi soprattutto i Paesi musulmani, divisi tra loro (e al loro interno) sia dal contrasto religioso tra sunniti e sciiti, sia da interessi economici e geopolitici, negli ultimi tempi esso ha iniziato a diffondersi anche nel mondo occidentale, dagli Stati Uniti all’Europa. Le responsabilità dell’Occidente sono fin troppo evidenti: fra tutte, continua a pesare in modo determinante la “questione palestinese”, la quale, anche dopo gli accordi di Camp David, non si è mai risolta. Da un lato le azioni terroristiche di numerose organizzazioni arabe rivolte soprattutto contro Israele, dall’altro le politiche di occupazione e le azioni militari promosse da Israele (ad esempio nella guerra del Libano del 1982), hanno generato un clima di costante allarme e di frequenti scontri armati, come mostrato dalla prima “Intifada” (rivolta) dei palestinesi nel 1987. Soltanto nei primi anni Novanta il conflitto sembrò trovare uno sbocco positivo: nell’estate del 1993, infatti, gli accordi di Oslo, siglati dal premier israeliano Yitzhak Rabin e dal capo dell’Olp (l’Organizzazione per la Liberazione della Palestina) Yasser Arafat, con la mediazione decisiva del nuovo presidente americano Bill Clinton, sancirono la pace tra i due schieramenti, in applicazione del principio dei “due Stati per due popoli”. Tuttavia, dopo appena due anni, l’assassinio di Rabin, avvenuto il 4 novembre 1995 da parte di un estremista della destra sionista, fece precipitare nuovamente la situazione. La “seconda Intifada”, scoppiata nel 2000, non avrebbe fatto altro che certificare la nuova situazione di emergenza nella regione. L’11 settembre Così, l’11 settembre 2001 avvenne un fatto eclatante, di quelli che segnano in modo indelebile l’immaginario collettivo e la storia di un’epoca. Infatti, durante quella drammatica giornata, quattro aerei di linea vennero dirottati contemporaneamente da terroristi islamici e scagliati contro le Torri gemelle a New York e verso il Pentagono a Washington (il quarto venne intercettato e abbattuto mentre si dirigeva verso altri obiettivi sensibili, probabilmente la Casa Bianca o il Congresso). Il regista dell’operazione venne individuato in Osama Bin Laden, membro di una potente famiglia saudita e leader del gruppo terroristico di “Al Qaeda”. La reazione americana non si fece attendere: già nell’ottobre 2001 il presidente repubblicano George W. Bush ordinò l’attacco militare all’Afghanistan, guidato dai Talebani, un gruppo fondamentalista di studenti islamici giunto al potere nel 1996 dopo una sanguinosa guerra civile, considerati dagli americani i protettori dei responsabili dell’11 settembre. Destituiti i talebani, nel 2003 l’ira americana si rivolse contro il vecchio nemico irakeno, quel Saddam Hussein accusato (senza prove) di collusione con i terroristi e detenzione di armi distruzione di massa; sconfitto il dittatore, questi venne in seguito arrestato e condannato a morte per impiccagione alla fine del 2006. La guerra in Afghanistan e la “seconda guerra del Golfo”, peraltro, inaugurarono la cosiddetta “dottrina Bush”, o “dottrina della guerra preventiva”, tesa appunto a eludere eventuali pericoli per gli americani, colpendo chiunque nel mondo fosse sospettato di cospirare contro gli Usa. A pagare, inizialmente, furono proprio quei Paesi che avevano sostenuto da subito gli Stati Uniti, come la Spagna e l’Inghilterra, rispettivamente con gli attentati di Madrid nel 2004 e Londra nel 2005. Più di recente, dopo le “primavere arabe” del 2010-2011, vale a dire un’ondata di proteste popolari finalizzate a innescare un processo di modernizzazione superando qualsiasi forma di radicalismo politico e religioso, l’intera regione compresa tra l’Africa del Nord e il Medio Oriente appare in fibrillazione. Dalla guerra civile in Siria, iniziata nel 2011 tra gruppi di guerriglieri e il regime di Assad (sostenuto in modo decisivo dalla Russia), al colpo di stato militare di Al- Sisi in Egitto, realizzato nel 2013 contro il governo dei Fratelli Musulmani; dalla parabola dell’Isis, il sedicente Stato islamico istituito nel 2014 dal nuovo “califfo” Al- Baghdadi, alla recente svolta islamista della Turchia di Tayyip Erdogan, la situazione resta esplosiva. In un mondo sempre più globale, le ripercussioni sull’Occidente non si sono fatte attendere, specialmente in Europa, dove, tra il 2015 e il 2017, una serie di sanguinosi attentati ha colpito numerose città (da Barcellona a Berlino, da Bruxelles a Londra, da Manchester a Nizza, da Parigi a Stoccolma), facendo centinaia di morti e seminando il terrore. In tale situazione complessa l’idea di un “nuovo ordine mondiale” appare una chimera.
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