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Riassunto Sociologia digitale (Lupton), Sintesi del corso di Sociologia Dei Media

Edizione italiana a cura di Santoro e Timeto Riassunto degli 8 capitoli

Tipologia: Sintesi del corso

2022/2023

Caricato il 01/02/2023

Elisabetta.Beritelli
Elisabetta.Beritelli 🇮🇹

4.5

(298)

154 documenti

Anteprima parziale del testo

Scarica Riassunto Sociologia digitale (Lupton) e più Sintesi del corso in PDF di Sociologia Dei Media solo su Docsity! RIASSUNTO LIBRO D. Lupton, Sociologia digitale. MODULO B – Storia e sociologia dei media digitali Introduzione all’edizione italiana “La sociologia digitale è una subdisciplina della sociologia focalizzata sulla comprensione dell’uso dei media digitali in quanto parte integrante della vita quotidiana, e sui modi in cui queste varie tecnologie contribuiscono alle regolarità del comportamento umano, delle relazioni sociali e delle concezioni del sé”. I sociologi non sono rimasti insensibili all’avvento del mondo digitale e da tempo si interessano a internet, alle comunità online, alla realtà virtuale, al cyberspazio, al digital divide ecc. Le etichette proposte e variamente accolte per identificare questi filoni di ricerca emergenti sono state molteplici: “cybersociologia”, “sociologia di internet”, “sociologia dei nuovi media”, “sociologia dei new media”, “sociologia dei media digitali” e così via. La sociologia digitale si distinguerebbe da queste specializzazioni per una maggiore ampiezza di interessi, non solo dedicandosi allo studio di internet o della cyber cultura, ma più in generale focalizzandosi sul ruolo che i media e i dispositivi digitali creati e diffusi nel nuovo millennio, in tutta la loro straordinaria varietà di struttura e funzione nonché di prodotti e usi, hanno avuto, stanno avendo e prevedibilmente avranno nel modo in cui gli umani si relazionano tra di loro e con gli oggetti digitali stessi, in una parola, sul loro mondo tecnosociale. Per dirla più chiaramente, la sociologia digitale è molto più di una sociologia dei media digitali: essa è un modo di concepire e praticare la sociologia che prende sul serio ciò che i media e più in generale i dispositivi digitali “fanno” al mondo che la sociologia studia, cioè al mondo sociale, e alla stessa sociologia in quanto disciplina specificamente congegnata per il suo studio metodico e consapevole, riflessivo. Premessa Viviamo in una società digitale. Le nuove tecnologie digitali hanno influenzato profondamente la vita quotidiana, le relazioni sociali, lo Stato, il commercio, l’economia, la produzione e la circolazione delle conoscenze. Oggi, i movimenti nello spazio, le abitudini di acquisto, le comunicazioni online sono controllati passo dopo passo dalle tecnologie digitali. Ci stiamo trasformando in soggetti digitali, che ci piaccia o no, che lo scegliamo o meno. Nel contesto della sociologia, la sociologia digitale offre gli strumenti per indagare, analizzare e comprendere l’impatto, lo sviluppo e l’uso di queste tecnologie e i modi in cui si incorporano nei mondi sociali, nelle istituzioni, nella costituzione del sé e del corpo. CAPITOLO 1. Introduzione. La vita è digitale Per molti di noi essere connessi a Internet durante il giorno è ormai una necessità. I dispositivi sempre connessi sono diventati ubiqui, e gli smartphone e i tablet sono sufficientemente maneggevoli da consentirci di portarli sempre con noi. Alcuni dispositivi, noti come wereables, sono veri e propri computer indossabili giorno e notte con i quali possiamo monitorare funzioni organiche e attività fisiche. Da piattaforme e dispositivi digitali abbiamo accesso a notizie, musica, televisione e film. Avviamo e manteniamo, almeno in parte, relazioni personali e professionali e legami di comunità grazie all’uso di social media come Linkedin, Facebook e Twitter. Digitalizziamo foto e video amatoriali, e se vogliamo possiamo mostrarli al mondo intero usando piattaforme come Instagram, Flickr e YouTube. E’ facile trovare informazioni in rete usando motori di ricerca come Google, Yahoo! o Bing. La piattaforma online collaborativa e open access Wikipedia è diventata la fonte più citata al mondo. Quasi tutte le attività lavorative impiegano qualche tecnologia digitale (che si tratti anche soltanto di un sito a scopi promozionali o di un telefono cellulare per comunicare con colleghi e clienti). Anche i curricula scolastici e le più recenti teorie dell’apprendimento insistono sull’importanza delle tecnologie digitali e sulla formazione degli studenti al loro uso. I sistemi di posizionamento globale (GPS) ci aiutano a muoverci e a posizionarci nello spazio. Insomma, viviamo ormai in una società digitale. Anche se il mutamento è stato graduale, i cambiamenti più significativi sono legati in particolare all’introduzione dei dispositivi e delle piattaforme dell’ultimo decennio. I computer per uso personale hanno iniziato a diffondersi intorno alla metà degli anni ottanta. Il World Wide Web è stato inventato nel 1989, ma è divenuto accessibile al pubblico solo nel 1994. A partire dal 2001, un grosso impatto a livello sociale hanno avuto il lancio di numerosi dispositivi e la creazione di importanti piattaforme. Wikipedia e iTunes iniziano ad essere attive nel 2001, Linkedin nel 2003, Facebook nel 2004, Reddit, Flickr e YouTube l’anno successivo, Twitter nel 2006. Gli smartphone sono lanciati sul mercato nel 2007, lo stesso anno della comparsa di Tumblr, mentre Spotify nasce nel 2008. Instagram e i tablet arrivano nel 2010, Pinterest e Google+ nel 2011. Sia il software sia l’hardware dei nuovi dispositivi non soltanto supportano, ma contribuiscono attivamente alla costruzione della nostra dimensione identitaria e corporea e della vita sociale, relazionale e istituzionale. Gli antropologi Daniel Miller e Heather Horst ritengono che le tecnologie digitali, come altri artefatti della cultura materiale, “stanno diventando una parte costitutiva del nostro essere umani”. E in contrasto con chi sostiene che il digitale ci renderebbe in qualche modo meno umani e autentici, affermano invece che “non solo siamo altrettanto umani nel mondo digitale, ma il digitale offre all’antropologia diverse nuove opportunità per capire cosa ci rende umani”. Siamo arrivati al punto in cui le tecnologie digitali sono talmente ubique e pervasive da essere diventate invisibili. C’è chi sostiene di riuscire ancora a vivere facendo quasi completamente a meno del digitale, e rifiutandosi di usare dispositivi digitali non avverte un gran cambiamento nei modi di lavorare, socializzare, muoversi nello spazio, vivere in famiglia o intrattenere relazioni intime. Tuttavia, il punto di vista di queste persone dimostra soltanto quanto la digitalizzazione sia oggi non un fenomeno invasivo, ma un dato di fatto. Anche quelli che rifuggono gli smartphone, le fotocamere digitali o le piattaforme dei social media, si ritrovano inevitabilmente a interagire con chi ne fa uso. E può anche succedere che immagini digitali o file audio che li riguardano siano caricati o circolino online grazie a queste tecnologie senza che ne siano a conoscenza o abbiano dato il consenso. I nostri movimenti nello spazio pubblico e le nostre interazioni di routine con le istituzioni e le organizzazioni politiche o commerciali sono adesso mediati digitalmente in modi di cui non sempre siamo pienamente consapevoli. La produzione, la configurazione, il monitoraggio e la gestione dello spazio urbano, per esempio, sono un prodotto delle tecnologie digitali. Le telecamere a circuito chiuso che seguono i movimenti delle persone nello spazio pubblico, i semafori e i trasporti, la pianificazione e lo sviluppo di nuovi edifici e la gestione degli ordini, dalla produzione ai pagamenti, di buona parte delle merci, così come i servizi, sono tutti digitalizzati. In un’epoca in cui i dispositivi digitali mobili e indossabili sono sempre più diffusi, la registrazione digitale delle immagini e dei suoni fatta dalle persone che interagiscono nello spazio pubblico e privato, insieme alle tecnologie di sorveglianza usate a scopi commerciali o per la sicurezza, che sono oggi costitutive dello spazio pubblico e delle transazioni quotidiane, dimostra che stiamo diventando soggetti sempre più digitali, che ci piaccia o no, che lo scegliamo o meno. I dati digitali legati alle nostre interazioni di routine con le tecnologie collegate in rete, incluse le interrogazioni ai motori di ricerca, le telefonate, le esperienze di shopping, le operazioni degli enti statali e delle banche, sono automaticamente raccolti e archiviati, e producono giganteschi dataset che oggi definiamo “big data”. I big data includono anche i contenuti generati dagli utenti (User-Generated Contents, UGC) e le informazioni intenzionalmente caricate sulle piattaforme dei social media dagli utenti: i tweet, gli status update, i post da blog e i commenti, le foto, i video e così via. Le piattaforme dei social media registrano e monitorano un numero crescente di aspetti legati a questi nuovi atti comunicativi: non solo ciò che si dice, ma i profili di chi lo dice e dell’audience, le reazioni altrui ai contenuti, quanti like, commenti, visualizzazioni, tempo di permanenza su una pagina o retweet generano, il momento del giorno in cui è avvenuta l’interazione, la collocazione geografica degli utenti, i termini chiave usati per cercare un contenuto o i modi in cui un contenuto è condiviso sulle diverse piattaforme. Il valore dei big data suscita un’attenzione crescente da parte delle imprese commerciali, e non soltanto. La loro esistenza solleva diverse questioni sul loro impiego e sulle implicazioni di tutto questo per la privacy, la sicurezza, la politica, la sorveglianza, l’economia e lo sviluppo globale. Quanto apprendiamo sul mondo è digitalmente mediato. Pensiamo ai modi in cui adesso sono raccolte e presentate le notizie su quello che accade a livello locale e globale. Molti si servono ancora dei resoconti giornalistici per sapere quello che succede nel mondo, ma ormai si può accedere alle notizie nei modi più svariati, da quelli tradizionali (stampa, televisione, notiziari radiofonici) alle nuove forme digitali: i feed di Twitter, i resoconti di Storify, le versioni online dei quotidiani, i blog di attualità in diretta aggiornati in tempo reale. Al momento, Twitter è il mezzo più aggiornato per le ultime notizie, e molti giornalisti usano i tweet come fonte per costruire le loro storie, e inoltre si servono delle competenze degli informatici per attingere ai dati digitali open source usati sia come fonte che per le loro visualizzazioni (talvolta si definisce questo fenomeno data journalism). Peraltro, l’abilità dei non professionisti nel riportare o nel raccogliere notizie si è ampliata notevolmente con l’avvento delle tecnologie digitali. I giornalisti partecipativi fanno riprese e foto, twittano, scrivono post sui blog o su Facebook a proposito degli avvenimenti, e tutto è a disposizione di chi vuole leggere o commentare, inclusi i giornalisti professionisti. I canali d’informazione tradizionali, soprattutto le versioni a stampa dei quotidiani, hanno dovuto fare i conti con le sfide dei nuovi media digitali e cercare per il giornalismo fonti di guadagno alternative. Le tecnologie digitali sono usate sempre di più anche come tecnologie della sorveglianza su cittadini spesso ignari (libro p. 4). Studiare la società digitale significa focalizzarsi su aspetti che sono sempre stati fondamentali per i sociologi: il sé, l’identità, la corporeità, i rapporti di potere e le diseguaglianze sociali, le reti, le strutture, le istituzioni e le teorie sociali. In un contesto in cui i computer sono diventati portatili, hanno dimensioni più ridotte e si connettono alla rete praticamente dappertutto. Ora più che mai siamo intimamente “inter-corporati” con le nostre tecnologie digitali: non soltanto computer/utenti incorporati, ma umani digitalizzati. “sociologia dei social media”, “sociologia della cybercultura”. Con l’uso sempre maggiore delle tecnologie digitali, gli studiosi hanno iniziato a servirsi dell’acronimo TIC (Tecnologie dell’Informazione e della Comunicazione), o del termine “cybertecnologie” per definirle. Adesso, termini come “digitale”, “Web 2.0” e “rete” hanno ormai ampiamente rimpiazzato la parola “cyber”, sia nel contesto accademico che nell’uso comune. Sia gli studiosi sia i media mainstream usano “digitale” in riferimento ai contenuti resi in formato digitale e alle tecnologie, ai dispositivi e ai media che usano questo formato, e a questo cambiamento terminologico più generale si ricollega anche l’uso della locuzione “sociologia digitale” al posto di quelle usate in precedenza. Qualcosa di analogo avviene anche in quei settori specifici di discipline esistenti che studiano le tecnologie digitali, come le Digital Humanities, le culture digitali, l’antropologia digitale e la geografia digitale. In genere, tranne in pochi casi legati soprattutto all’interesse per la diffusione delle tecnologie informatiche nella cultura popolare, i sociologi hanno studiato questi argomenti meno e più sporadicamente rispetto ai colleghi di media e comunicazione o di studi culturali. Negli Stati Uniti, Farrell e Petersen, osservando quello che definiscono come “sociologo riluttante” rispetto allo studio della rete, si dicono sorpresi per questa mancanza d’interesse, soprattutto perché i sociologi sono sempre stati in prima linea nell’adottare e sperimentare nuovi metodi e nuove fonti di dati per la ricerca sociale. Sebbene ogni tanto anche negli USA siano apparsi studi a sostegno della sociologia dei media digitali, sembra quasi che la sociologia statunitense abbia generalmente perso interesse per la ricerca sulla comunicazione e sui media quando, intorno alla metà del secolo scorso, questa è diventata piuttosto di competenza delle scuole di giornalismo, spostando il proprio fuoco sulla psicologia sociale dei processi di persuasione. Di conseguenza, nonostante la fortuna della sociologia della cultura negli Stati Uniti, per molto tempo i sociologi americani hanno quasi evitato lo studio dei mezzi di comunicazione di massa. Nel Regno Unito, il campo interdisciplinare degli studi culturali emerso negli anni settanta, spesso insieme agli studi sui media, ha dominato la ricerca e la teoria sui mass media e di conseguenza anche sulle tecnologie informatiche. Gli studiosi di studi culturali si sono occupati soprattutto di “cybercultura” piuttosto che, più banalmente, di “società dell’informazione” o “sociologia delle tecnologie informatiche”, termini più usati in ambito sociologico. L’interesse per l’aspetto “cyber” manifestato dagli studi culturali pone l’accento sulla dimensione avveniristica e fantascientifica di queste tecnologie, mentre parlare semplicemente di “tecnologie informatiche” riporta l’attenzione sui loro usi pratici e materialmente radicati per l’accesso all’informazione. Per molto tempo, mentre gli studi culturali si occupavano di cybercultura e altri aspetti dei media e della cultura popolare, i sociologi inglesi hanno continuato a studiare questioni come il lavoro, il crimine o le classi sociali. Gli studi culturali mostravano un maggiore interesse per la cultura popolare nei suoi diversi aspetti, la sociologia della cultura guardava piuttosto alle limitazioni poste dalle strutture sociali come la classe, il genere e l’etnia. Tra i due campi si creavano pochi punti di contatto. Ecco perché, per esempio, a curare l’importante e nutrito volume The Cybercultures Reader sono stati i britannici David Bell, esponente della geografia critica, e Barbara Kennedy, studiosa di cinema, media e studi culturali. In Australia, la tradizione degli studi culturali britannici è altrettanto forte, e gli studi culturali australiani restano tendenzialmente ben distinti sia dagli studi di media e comunicazione, sia dalla sociologia, hanno una loro associazione e fanno conferenze annuali, e tra gli studiosi di queste discipline non si instaurano molti scambi. Gli studi di media e comunicazione in Australia hanno seguito la tradizione statunitense, invece sulla sociologia e gli studi culturali ha influito maggiormente la tradizione britannica. Anche qui il grosso della ricerca sulle tecnologie digitali è stato pubblicato da studiosi di media e comunicazione o di studi culturali, e su riviste specifiche di questi settori piuttosto che di area sociologica. Ma la situazione sta rapidamente cambiando: negli ultimi anni, la sociologia ha iniziato a mostrare un interesse crescente per la società digitale, e l’espressione “sociologia digitale” è usata sempre più spesso. Il primo articolo nel quale si adopera tale definizione è stato pubblicato su una rivista americana da un sociologo americano. In esso, Wynn mostra i diversi usi delle tecnologie digitali sia per la ricerca (per esempio i dispositivi digitali per la ricerca etnografica) sia per la didattica. Ma la sociologia digitale propriamente detta ha origine, in effetti, nel contesto britannico. Una caratteristica della ricerca sociologica è la riflessività, anche rispetto alla propria pratica. I sociologi vedono il mondo con una sensibilità particolare, propria dell’immaginazione sociologica, espressione che si deve a uno dei teorici più influenti in questo campo, l’americano C. Wright Mills, ed è usata di solito per caratterizzare l’approccio distintamente sociologico allo studio dei fenomeni. La sensibilità sociologica adotta un approccio critico non solo rispetto alle altre discipline, ma anche verso se stessa. Rifacendosi all’espressione di un altro classico della sociologia, Pierre Bourdieu, Holmwood usa il termine “habitus sociologico” per dire che la sociologia è un insieme di pratiche e attitudini sociologiche disciplinate che spesso conducono a un capovolgimento e a un’apertura interdisciplinare dei suoi assunti. Per Savage, questa radicata tendenza della sociologia all’autocritica e alla domanda sui propri sviluppi futuri è una peculiarità sociologica, che raramente si riscontra in altri ambiti accademici. In particolare, la sociologia digitale come settore della sociologia nei suoi sviluppi più recenti, soprattutto in Gran Bretagna, si caratterizza non soltanto per l’interesse verso le nuove tecnologie apparse all’inizio del nuovo secolo, ma anche per l’adozione di un approccio teorico e metodologico che include questa tendenza all’autoriflessività. La sociologia digitale non si occupa soltanto di studiare e teorizzare i modi in cui le persone usano le tecnologie digitali, o dei dati digitali che questi usi generano, ma ha implicazioni più ampie che sollevano domande sulla pratica e sulla ricerca sociologiche, occupandosi anche di studiare come gli stessi sociologi usino i social media e altri media digitali per il loro lavoro. Sia i sociologi che scrivono di media digitali sia quelli che studiano questioni in qualche modo correlate, come il futuro della disciplina, tendono a condividere analoghe preoccupazioni e approcci teorici, interrogandosi su quali metodi impiegare e come elaborarli, sull’importanza delle questioni della misurazione e del valore nelle società contemporanee, sull’emergere dell’economia della conoscenza e sulle nuove formazioni politiche e i rapporti di potere oggi osservabili. Anche se molti di questi sociologi non si definirebbero propriamente sociologi digitali, il loro lavoro ha dato un importante contributo all’emergere di questo specifico campo di studi nel contesto della sociologia. E’ utile ribadire che la ricerca sul digitale è di necessità multidisciplinare. La stessa sociologia, come ogni altra disciplina, è un’entità permeabile e dinamica. La sociologia digitale, branca della sociologia, comprende quattro aspetti che ne riassumono le caratteristiche:  gli usi professionali del digitale: l’adozione di strumenti digitali per la pratica sociologica, la costruzione di reti e profili online, la promozione e la condivisione della ricerca e l’uso didattico di questi strumenti;  l’analisi degli usi del digitale: come l’uso delle tecnologie digitali configura la soggettività, la corporeità e le relazioni sociali, e qual è il ruolo dei media digitali nella creazione e nel mantenimento delle istituzioni e delle strutture sociali;  l’analisi dei dati digitali: l’impiego dei dati digitali per la ricerca, sia qualitativa che quantitativa;  la sociologia digitale critica: la riflessione sui modi in cui le tecnologie digitali informano la teoria sociologica e culturale. Gli usi professionali del digitale La figura del sociologo e la sua attività lavorativa sono state profondamente influenzate dal digitale. Le nuove tecnologie hanno modificato diversi aspetti della ricerca e della didattica, e la professione del sociologo, come quella di altre figure del mondo accademico, si lega agli usi di questi strumenti. In generale, i sociologi sono stati lenti a usare i social media o anche altre tecnologie digitali per la loro attività professionale. Ma qualcosa sta lentamente cambiando, perché sempre più sociologi e studiosi di altri campi si rendono conto delle potenzialità che questi strumenti hanno per la costruzione di reti sociali sia dentro il mondo accademico sia fuori, per la disseminazione e la promozione della ricerca, e per venire a conoscenza dei lavori altrui. Alcuni sociologi sono dell’idea che usare i social media e le piattaforme per la pubblicazione open access sia fondamentale per pubblicizzare l’attività professionale, e per facilitare l’interessamento e l’accesso del pubblico coinvolto ai risultati della ricerca. L’uso di strumenti digitali per la professione, tuttavia, oltre a offrire nuove opportunità, presenta anche dei rischi, e i sociologi hanno iniziato a comprendere questi diversi aspetti e a scriverne da una prospettiva sociologica. L’analisi degli usi del digitale Anche se i sociologi hanno generalmente prestato scarsa attenzione alle tecnologie informatiche privilegiando altre questioni, con l’introduzione dei personal computer e l’avvento di internet il corpus della letteratura sociologica ha iniziato a includere studi sulle pratiche legate agli usi di queste tecnologie. Più recentemente, la diffusione delle tecnologie digitali, il loro ingresso in tutti gli aspetti della vita quotidiana e il loro impiego per la creazione e il mantenimento delle reti sociali hanno destato fra i sociologi l’interesse a studiare la presentazione del sé attraverso queste tecnologie, il loro radicamento in abitudini e attività quotidiane, i modi in cui le persone le usano per conoscere il mondo, le differenze d’uso e accesso, l’impiego a scopi di sorveglianza e le implicazioni per il concetto di privacy. Anche se il fenomeno dei big data, in particolare gli aspetti etici e politici di questi grandi dataset digitali, ha destato un crescente interesse scientifico. Considerata la popolarità dei social media, i sociologi hanno cercato soprattutto quali fossero i modi migliori per osservare e analizzare il comportamento delle persone in questi ambienti mediali. Per le ricerche in quest’ambito, i sociologi hanno adottato sia metodi qualitativi (interviste, focus group, ricerche etnografiche), sia quantitativi (per esempio indagini campionarie). Evidenti sono le sovrapposizioni tra questo tipo di ricerca e l’antropologia digitale, le culture digitali, gli Internet Studies e la geografia digitale. Le questioni più strettamente legate all’analisi sociologica, tuttavia, riguardano i rapporti di potere e i modi in cui questi influenzano o creano relazioni sociali, soggettività individuali o collettive, svantaggi o privilegi sociali ed economici. L’analisi dei dati digitali Un altro aspetto della sociologia digitale è l’uso di grandi dataset digitali per la ricerca sociale. Per indicare questo genere di ricerca online, o e-research, si usano espressioni come “ricerca sociale digitale”, “webometria”, “scienze sociali del web”, “scienze sociali computazionali”. Questo settore si occupa specificamente della raccolta e dell’analisi dei dati, e degli strumenti per analizzarli. L’approccio adottato dagli studiosi in questo campo è molto simile a quello dell’informatica, e riguarda la scelta degli strumenti più efficaci per archiviare e analizzare i dati digitali. Si tende a privilegiare l’uso di dati ottenuti “naturalmente” oppure generati indirettamente, ovvero quelli già raccolti sulle diverse piattaforme in rete (per esempio, i post di Facebook o Twitter, le immagini di Instagram, i dati provenienti dalle interrogazioni ai motori di ricerca, gli sms o i dati geolocalizzati). Fra chi adotta questo approccio ai dati digitali, alcuni si interessano anche alla raccolta e allo studio di dati quali immagini, file video o audio utili all’analisi qualitativa. Nonostante simili approcci siano ampiamente usati in campi come la scienza e la tecnologia dell’informazione e negli studi sulla comunicazione, finora il loro impiego da parte dei sociologi è stato limitato, forse perché sono pochi i sociologi che hanno acquisito un’effettiva competenza per accedere a questi grandi dataset ed essere in grado di analizzarli. La sociologia digitale critica Nella letteratura sociologica più recente le questioni nodali ricorrenti riguardano i modi in cui la disciplina della sociologia è in grado di confrontarsi coi nuovi media digitali, i dati che questi producono e gli attori coinvolti nella raccolta, interpretazione e analisi degli stessi. Si tratta di temi e questioni che arrivano fino al cuore di un dibattito che riguarda il significato e la pratica della sociologia come disciplina. Alcuni sociologi si sono chiesti quanto influiscano le tecnologie digitali sul loro modo di lavorare e sulla presentazione dell’identità professionale del sociologo, e hanno elaborato una critica non solo della società digitale nel suo complesso, ma del loro stesso posizionamento in quanto soggetti sempre più digitalizzati, domandandosi come la sociologia possa accogliere le sfide offerte dalle nuove forme di conoscenza prodotte dalle nuove tecnologie. Nel contesto della sociologia digitale è emersa anche una riflessione che riconosce come i metodi e gli strumenti usati per condurre la ricerca siano essi stessi costitutivi della vita sociale e della società, e qualcuno ha iniziato a domandarsi come le tecnologie e i dati digitali possano contribuire all’adozione di metodi innovativi e più creativi per la ricerca sociologica e la didattica. CAPITOLO 2. Teorizzare la società digitale L’economia globale dell’informazione e le nuove forme di potere Nella teoria sociale contemporanea le società sono state rappresentate sempre più come reti, in cui l’informazione circola e si diffonde. L’emergere di nuove modalità di sviluppo delle reti sociali attraverso le tecnologie online, come le piattaforme di social media, ha indotto diversi sociologi e altri studiosi del sociale a occuparsi di come queste tecnologie modellino e rimodellino l’esistenza. Un importante studioso della sociologia delle reti digitali è Manuel Castells. Il suo concetto di “società in rete”, elaborato in numerosi libri e articoli, pone le reti a fondamento della struttura delle società e delle relazioni di potere contemporanee. In quella che Castells definisce “età dell’informazione”, i processi industriali tradizionali sono stati sostituiti dalle comunicazioni elettroniche facilitate dalle nuove tecnologie dell’informazione. Il potere è ora multidimensionale, e risiede nelle reti della finanza globale, in quelle politiche, militari-securitarie, di produzione delle informazioni, nelle reti criminali e in quelle multimediali. Tutte queste reti contribuiscono a definire regole e norme sociali. Castells sostiene che l’informazione digitale è divenuta la chiave della produttività economica. Le tecnologie dell’informazione basata sulla conoscenza (knowledge-based) producono molto più sapere e informazione, e contribuiscono a una nuova economia informazionale globalmente estesa e altamente interconnessa, basata su pratiche e tecnologie digitali e in rete. Castells ritiene che tecnologie digitali come i social media abbiano avuto un ruolo fondamentale nella creazione di una nuova struttura sociale, dell’economia globale e di una nuova cultura virtuale. Il suo lavoro ha aperto la strada alla comprensione dell’importanza di queste tecnologie per le formazioni sociali contemporanee. Numerosi altri sociologi che si sono interessati agli aspetti che caratterizzano queste nuove modalità di conoscenza del mondo, le nuove modalità dell’informazione, e i nuovi usi commerciali dei dati digitali, sostengono che le tecnologie digitali hanno mutato le modalità di produzione e distribuzione del valore e il concetto stesso di merce. Secondo loro, la stessa nozione di conoscenza è cambiata attraverso questi processi. A sostegno della loro posizione, molti citano gli scritti di Nigel Thrift sull’economia dell’informazione e su quello che egli definisce “capitalismo della conoscenza”. Thrift afferma che il sistema economico capitalista si rivolge in misura sempre maggiore all’informazione come fonte di profitto, grazie a innovazioni e invenzioni capaci di riconfigurare spazio e tempo. riguardano la produzione e l’uso. Nonostante la retorica della continua efficienza operativa così comunemente usata quando si parla di internet e computazione ubiqua, la manutenzione di questa operatività è “disordinata” e imprevedibile, e comporta spesso compromessi pratici, negoziazioni e interventi dell’ultimo minuto per far sì che il sistema continui a funzionare. Fattori geografici, economici, sociali, politici e culturali, incluse condizioni di base come una fornitura stabile di energia elettrica e l’accesso a una rete di computer, si combinano per potenziare oppure indebolire il funzionamento delle tecnologie digitali. Ci rendiamo veramente conto della materialità dell’hardware quando per esempio dobbiamo disfarci di dispositivi non più aggiornati, e ci troviamo di fronte al problema dei “rifiuti digitali” (detti “e-rifiuti” [e-waste]), che spesso contengono sostanze tossiche. Il ricambio veloce delle tecnologie digitali, la tendenza a una rapida obsolescenza dei dispositivi, e il fatto che nei paesi ricchi le persone tendano a cambiarli più velocemente dopo poco tempo perché sempre in cerca dell’ultima novità, producono continuamente una gran mole di rifiuti digitali. La maggior parte dei dispositivi dismessi finisce nelle discariche, e solo una piccola parte viene riciclata o riutilizzata, in genere dispositivi mandati dai paesi ricchi verso i paesi poveri, dove avviene il recupero di parti e componenti. Questi dispositivi, al momento dell’acquisto così desiderati e promettenti, quando passano di moda sono gettati via, diventando l’ennesima forma di spazzatura: sporchi, antiestetici, e potenzialmente contaminanti. Anche l’elettricità che fa funzionare le tecnologie digitali e le unità di stoccaggio dei dati ha degli effetti sull’ambiente, dannosi per gli uomini e gli altri esseri viventi, causati, tra le altre cose, dal fumo e dalle particelle rilasciati dagli impianti a carbone. “Il digitale è il regime delle energie: l’energia umana e l’energia che serve alle macchine”. La materialità degli oggetti digitali emerge anche da quei discorsi relativi a come e a dove i dati digitali andrebbero archiviati, dal momento che a questo scopo sono necessarie strutture fisiche sempre più grandi (i server). Nonostante la metafora della “nuvola”, i dati digitali non galleggiano nell’etere, ma devono essere contenuti nell’hardware. D’altronde, i dati digitali sono difficilissimi da cancellare o rimuovere, e possono rivelarsi un materiale molto resistente. Allo stesso tempo, però, se rimangono inutilizzati per troppo tempo, diventano facilmente obsoleti e dunque inutili, qualora le tecnologie attuali non siano più in grado di accedervi e di conseguenza usarli. Si può dire, pertanto, che i dati digitali “decadono” se lasciati inutilizzati troppo a lungo, col rischio di dimenticarli e perderli se non si trasferiscono in nuovi formati. La memoria digitale è volatile, perché le tecnologie usate per archiviare e accedere ai dati è in continuo cambiamento. Materiali analogici tradotti in formato digitale ai fini della loro archiviazione, e distrutti nell’originale, rischiano di perdersi per sempre se il formato digitale non è più utilizzabile. Il prosumismo, il neoliberismo e il soggetto che condivide in rete Come detto finora, nell'economia globale dell'informazione si è prodotta una sorta di vitalità digitale in cui le informazioni e i dati hanno acquisito valore in sé. Le pratiche prosumistiche sono un contributo determinante a questa economia, perché forniscono continuamente flussi di informazioni sui gusti, le abitudini e le opinioni di chi fa uso delle tecnologie digitali, che possono essere usati per fare il marketing targetizzato, per la pubblicità o ad altri scopi promozionali. Sui social media, molti si divertono a creare contenuti come scrivere commenti o tenere un blog, aprire fansite, fare mashup o creare infografiche, attività che possono anche assumere la forma di un lavoro creativo. L'opportunità che gli altri hanno di venire a conoscenza di questi contenuti e dimostrare il loro apprezzamento può essere una motivazione forte al prosumismo. Alcuni studiosi di società digitale si sono occupati delle più ampie implicazioni politiche dell'uso e dell'impatto di queste tecnologie. Molti hanno evidenziato come queste tecnologie siano funzionali a una gestione politica di stampo neoliberistico. Il neoliberismo è un orientamento politico che si è diffuso nei paesi sviluppati e che poggia su assunti quali l'esistenza di un attore umano atomizzato ritenuto responsabile delle opportunità e degli esiti della sua vita, il potere dell'economia di mercato, l'importanza della concorrenza per il raggiungimento di risultati migliori per tutti, e il ridimensionamento del ruolo dello Stato e dei servizi pubblici per le persone più svantaggiate. Il soggetto ideale, secondo i principi del neoliberismo, è capace di autoregolarsi e assumersi la responsabilità del suo destino. L’autoriflessività dei singoli è auspicata e incoraggiata, e la vita è considerata un progetto che richiede un investimento di tipo imprenditoriale in termini di tempo ed energia. Il neoliberismo conferma molte teorie sociologiche sulle tecnologie digitali, tra cui quelle riguardanti i modi in cui le funzioni di sorveglianza e monitoraggio consentite da queste tecnologie possono essere usate per promuovere l'iniziativa privata o comportamenti competitivi a discapito degli interventi e della regolamentazione statali. Il prosumismo può anche essere teorizzato a partire dalle osservazioni di Foucault sulle pratiche di costituzione del sé che definiscono gli attori umani, cioè le attività che riguardano la cura e il miglioramento di se stessi. Attraverso queste tecnologie le persone imparano a conoscere l'ambiente che le circonda e le altre persone con cui condividono la loro esistenza. In effetti, c'è chi sostiene che social media come Instagram o Facebook incoraggino la produzione e circolazione di una conoscenza molto più intima, su chi e tra chi ne fa parte, di quanto non fosse possibile in precedenza. Grazie agli aggiornamenti di stato e alle immagini, queste tecnologie permettono ad amici e familiari, che magari non vivono in luoghi vicini o che si incontrano raramente, di stare regolarmente in contatto nel tempo e nello spazio, perché allestiscono un resoconto in ordine cronologico dei vari aspetti della vita che la persona desidera condividere con amici e follower: nella terminologia di Facebook, una "timeline" è una combinazione di parole, foto o video che presentano la personalità di un utente. Tuttavia, l'uso regolare e continuativo di queste tecnologie richiede un certo tipo di lavoro [work] - il lavoro sociale [social labour] - per adeguarsi alle richieste di questi media e delle persone con cui s'interagisce. Anche quanto ha scritto Foucault sulla confessione nella sua Storia della sessualità è stato usato per comprendere i modi in cui le persone impostano e costruiscono se stesse sui social media allo scopo di una presentazione etica di sé. A causa dell'economia morale che governa il funzionamento di molti social media, i loro utenti sono spinti a confessare o rivelare aspetti della loro vita privata ad altri osservatori che possono scegliere se commentare o altrimenti dimostrare il loro apprezzamento o la loro disapprovazione dando il like o condividendone i contenuti. Quando rivelano aspetti intimi della loro vita o rispondono alle reazioni degli altri, gli utenti si trovano a riflettere su se stessi e a cercare di migliorarsi, e partecipano alla valutazione delle pratiche e delle azioni altrui. Si può dire, dunque, che un simile uso dei social media abbia una funzione etica e sociale che concorre non solo alla costituzione del sé, ma anche alla riproduzione delle norme sociali e delle aspettative cui è previsto che le persone si conformino. Chi ha studiato la partecipazione sui social media nel contesto dell'economia globale della conoscenza sostiene che gli imprenditori e le industrie del digitale riescono a vendere meglio quando sfruttano l'entusiasmo dei gruppi di consumatori, automatizzando la diffusione di massa del "passaparola" e usando algoritmi per creare proposte di acquisto sulla base di scelte già fatte. Le merci non sono più soltanto gli oggetti venduti, ma le informazioni sugli oggetti e sui consumatori, così come le comunità che si creano intorno alle pratiche di consumo, che generano esse stesse valore producendo informazioni e idee innovative ed esperienze significative per i consumatori coinvolti. Teorici dell'ambito degli studi culturali come Henry Jenkins e i suoi collaboratori studiano i cosiddetti "spreadable media” cioè quei media prodotti digitalmente che circolano o si "diffondono" [spread], appunto, su più piattaforme, siti, e contesti culturali, in modo caotico e non sempre facilmente controllabile. Essi sostengono che, in questo passaggio dalla distribuzione alla circolazione, le scelte degli utenti sulla condivisione dei contenuti digitali stanno rimodellando il panorama mediale. Chi produce contenuti lo fa stando attento a invogliare altri utenti a condividerli con i propri amici o i follower sui social media, e per far questo è importante che il contenuto sia in qualche modo significativo per chi lo ridistribuisce e contribuisce, da parte sua, partecipando attivamente e compiendo precise scelte. Il termine "spreadable" indica quegli aspetti del contenuto mediale che lo rendono più o meno facile da condividere e diffondere, e che includono le caratteristiche tecniche, le strutture economiche, le proprietà del contenuto in sé, i dispositivi di social networking e il software che ne facilitano la circolazione. Pur essendo collegato, questo termine si distingue dalle definizioni di sticky content e destination viewing, cioè un contenuto ancorato a un preciso sito sul quale i produttori del contenuto stesso cercano di attrarre il pubblico. Un contenuto "sticky" diventa "spreadable" quando passa da una posizione statica su un singolo medium o sito ad altre destinazioni nel panorama culturale. Il soggetto che condivide è un elemento fondamentale degli spreadable media. Il soggetto che condivide mira a far ri-circolare contenuti per affermare la propria identità e la propria partecipazione sui social network e all'interno delle comunità online, nella convinzione che questa pratica possa avere un'influenza sulle proprie reti e contribuire alla conversazione collettiva. Nel "capitalismo della comunicazione", le imprese e le industrie nel settore dei media cercano sempre di monetizzare la condivisione e la circolazione dei contenuti - cioè di essere "virali" di modo che i vantaggi economici ricadano però sempre su di loro ma non su chi crea i contenuti. L'industria dei media ha imparato presto a cooptare gli sforzi creativi dei fan impegnati nelle attività prosumistiche, per esempio come strategia per vendere loro più prodotti. I fan sono stati manipolati al punto da diventare essi stessi venditori dei prodotti mediali, perché le loro pratiche prosumistiche aiutano a pubblicizzarli e creano metadati. Quest’ambivalenza, che fa delle piattaforme di social media allo stesso tempo luoghi della partecipazione democratica e, in modo meno esplicito, luoghi del profitto e della limitazione della libertà, è molto comune. I detrattori credono che queste tecnologie siano una delle tante facce di una vasta rete di sistemi di monitoraggio, misurazione e regolamentazione della popolazione e dei suoi sottogruppi rivolti ai comportamenti individuali piuttosto che ai processi sociali. Per esempio, i social media sono considerati spesso luoghi per la promozione della creatività e della libertà individuale sulla base delle opportunità che offrono al prosumismo. Ma resta il fatto che questa creatività e libertà di espressione hanno luogo entro confini ben definiti. Alcuni studiosi si servono dell'economia politica per mettere in evidenza la mancanza di accesso di molti alle tecnologie, la discriminazione e lo sfruttamento che caratterizzano diverse relazioni digitali ma anche la produzione materiale delle tecnologie stesse. La riflessione marxista informa molte di queste critiche alle tecnologie digitali: un esempio prototipico sono i lavori di Fuchs e dei suoi collaboratori, che hanno scritto sullo sfruttamento dei prosumer in siti come Facebook, ma anche sulle cattive condizioni dei lavoratori salariati occupati nell'industria dell'hardware o negli imperi della rete. Da queste analisi si evince che molte piattaforme che incoraggiano le pratiche prosumistiche monetizzano allo stesso tempo queste attività secondo le modalità del capitalismo tradizionale e che, contrariamente all'idealizzazione del soggetto che condivide come individuo creativo che resiste ai discorsi dominanti, l'industria ha iniziato a servirsi di quest'idea per i propri obiettivi. I rapporti di potere asimmetrici e le forme di sfruttamento esistenti anche in altri spazi sociali, e che la rete riproduce tali e quali, invitano a problematizzare la convinzione corrente riguardo alla presunta natura "democratica" di internet. Gli interessi delle multinazionali che hanno dato vita agli strumenti e alle piattaforme del Web 2.0 per mezzo dei quali sono incoraggiate la creazione e la condivisione di contenuti, sono spesso diversi da quelli dei creatori di questi stessi contenuti, che perseguono l'ideale della partecipazione democratica e supportano l'etica della condivisione come dono. L’”economia morale" che governa la creazione e la condivisione dei contenuti online contrasta con l'economia capitalistica del profitto: chi produce e condivide contenuti è impegnato in una forma di lavoro non pagato che, per chi lo fa, ha un valore affettivo e morale, ma il cui plusvalore, tuttavia, avvantaggia altri soggetti. I termini di servizio delle piattaforme esplicitano sempre più chiaramente che i contenuti forniti dai prosumer non sono di loro proprietà, ma appartengono agli sviluppatori delle piattaforme. Gli sforzi creativi delle persone sono dunque sfruttati dalle industrie dei media e del settore informatico, ma non sempre le persone ne sono consapevoli, soprattutto quando non leggono attentamente termini e condizioni delle piattaforme che usano, o se le piattaforme si mantengono sul vago circa l'uso dei dati caricati dagli utenti.  L'importanza dell'archivio Gli aspetti che riguardano la produzione e l'archiviazione dei dati digitali sono importantissimi per capire come siano considerati dati sociali di tipo nuovo. La rete è un archivio vivente: produce, immagazzina, distribuisce e trasmette dati. Gli archivi online sono diventati complessi e autoreferenziali. Gli archivi digitali rendono cercabili e distribuibili i dati digitali, aspetti entrambi essenziali per il loro valore manifesto. Dato che l'attuale economia globale dell'informazione dipende da questi processi, emerge una serie di interrogativi legati alla politica della conoscenza contenuta in questi archivi, alla politica della proprietà e del controllo di questi dati e alla politica che coinvolge gli esseri umani, cioè ai rischi che l'esistenza di questi archivi comporta per la privacy e l'identità dei soggetti. Beer e Burrows identificano quattro componenti costitutive degli archivi di dati digitali nel contesto della cultura popolare contemporanea. Queste includono i profili, cioè le informazioni che gli utenti forniscono di sé per svolgere attività online; i collegamenti e gli incroci fra i dati, o le connessioni che avvengono fra dispositivi, siti e piattaforme, ognuno contenente dati ottenuti con metodi diversi. Includono anche i metadati o le pratiche di tagging. Infine, il gioco (l'uso comune dei media digitali ha una dimensione ludica che produce anch'essa dei dati). Beer e Burrows continuano delineando un quadro che rappresenta quattro tipi intrecciati e sovrapposti di archivi di dati propri della cultura popolare, in cui tali dati vengono conservati, e li classificano in base ai contenuti. Il primo riguarda i dati delle transazioni, cioè quelli prodotti nel corso dell'ampio spettro di attività quotidiane che gli utenti svolgono online, sia dai loro dispositivi sia servendosi di apparati digitali istituzionali più grandi. Si tratta dei dati prodotti durante operazioni online come per esempio l'online banking, gli acquisti, le ricerche, i programmi di fidelizzazione della clientela, la prenotazione di biglietti, o varie interazioni con enti statali. Tra questi rientrano per esempio gli archivi di Amazon, Spotify e iTunes, che contengono sia le diverse forme di consumo culturale sia i dati che gli utenti generano (cosa preferiscono) come parte dei loro consumi. A seguire, Beer e Burrows parlano dell'archivio del quotidiano, che raccoglie i dati digitali sulle attività quotidiane delle persone, sulle loro relazioni sociali, i like, gli amici e i follower in piattaforme come Twitter, Facebook, Tumblr, YouTube, Flickr e Instagram. Il terzo tipo di archivio digitale identificato da Beer e Burrows si compone di opinioni e commenti, tipicamente quelli espressi su forum online come siti di informazione, blog/micro-blog o siti che sollecitano direttamente le opinioni o le valutazioni degli utenti su beni, prodotti, servizi o personaggi famosi, come Patient Opinion, Amazon e TripAdvisor e diversi altri siti dedicati ai fan di personaggi famosi o ai seguaci di squadre sportive. Infine ci sono gli archivi di crowdsourcing (tra questi ricordiamo Wikipedia, Kickstarter, PatientsLikeMe e Quora), creati dagli utenti che forniscono dati per produrre nuove forme di conoscenza mettendo a loro volta insieme dati provenienti da fonti diverse o per raccogliere fondi per nuove attività imprenditoriali. Esistono anche molti altri archivi di dati digitali non legati alla cultura popolare, come quelli generati dagli enti statali, dalle istituzioni educative, dai servizi sanitari, dagli organismi di sicurezza e dalle multinazionali. Molte sono le organizzazioni che stanno iniziando a rendersi conto del valore della digitalizzazione e dell'archiviazione dei dati. I dati demografici, per esempio, sono archiviati dall'organismo statale deputato a raccoglierli. Le istituzioni educative mettono insieme un numero sempre crescente di dataset digitali per monitorare e seguire i progressi degli studenti e creare dei osservare e denunciare gli abusi compiuti da chi detiene il potere. La definizione di sorveglianza sinoptica, il contrario di quella panoptica, è usata per descrivere le forme di osservazione, sociali e non, che riguardano i molti che osservano i pochi. È quanto accade per esempio nelle culture del fandom, quando i personaggi famosi postano sui social media contenuti che sono visti e seguiti da numerosi altri utenti. Oppure quando singole persone non famose caricano su social media come YouTube del materiale che diventa "virale" o è in grado di totalizzare molte visualizzazioni e molti follower. Volendo esser più precisi, esiste un'ulteriore definizione di vigilanza, ovvero la "sorveglianza sociale", usata per descrivere il reciproco osservarsi proprio dei social media. La sorveglianza sociale potrebbe esser vista come una specie di vigilanza partecipata, che implica l'azione volontaria del guardare e del farsi guardare dagli altri. La vigilanza partecipata è una caratteristica essenziale dell'accesso alle piattaforme dei social media, nel momento in cui alle persone viene chiesto il consenso alla raccolta dei dati quale precondizione dell'uso dei siti stessi, o dell'utilizzo di altre tecnologie come quelle dei programmi-fedeltà, in questo caso sancita da "termini e condizioni" o dalle “opzioni di privacy" dei siti, nonché dagli accordi sull'accettazione dei cookies. Ma questo tipo di sorveglianza ha luogo anche quando le persone sono impegnate in attività di automonitoraggio del corpo o delle abitudini quotidiane, o si geolocalizzano comunicando ad altri la loro posizione. Un'altra forma di vigilanza, detta sovraveglianza [uberveillance], può essere anch'essa partecipata, o può essere usata per misure di sorveglianza imposte, non esplicitate o coercitive che mettono a rischio il diritto alla privacy delle persone. Questo termine è stato coniato per definire, nello specifico, l'uso delle tecnologie di tracciamento che si possono incorporare o indossare, come i wearable usati per monitorare dati biometrici, o tecnologie mediche quali pacemaker, ginocchia prostetiche che assistono i pazienti nella fase postoperatoria tramite l'analisi continua dei dati o strumenti che monitorano i pazienti affetti da demenza. Questi dispositivi sono in grado di seguire attività e movimenti delle persone in tempo reale, e chi li usa è spesso inconsapevole del fatto che i segnali digitali che emettono rendono possibile la geolocalizzazione o che si possono anche usare questi dati a scopi di sorveglianza. Teorizzare la corporeità digitale In una prospettiva sociomateriale, i modi in cui gli attori non umani interagiscono con gli attori umani sono molto importanti per comprendere la vita sociale, la soggettività e la corporeità. Questo significa allontanarsi dal piano discorsivo, che per un certo periodo ha dominato la teoria sociale e culturale, e rivolgersi alle dimensioni materiali delle relazioni sociali e dell'esperienza umana. In questo senso, anche la sociologia del corpo, attorno cui ruotava l'interesse degli studiosi alla fine del secolo scorso, ha dimostrato una maggiore consapevolezza dei processi umani incorporati e inter-corporati, considerando la loro dimensione materiale e le loro interazioni con altri corpi umani e non umani. In antropologia e negli studi culturali, lo studio delle culture materiali e del consumo aiuta a capire i modi in cui i media digitali sono "appropriati" e "addomesticati" nelle pratiche e nelle routine quotidiane. Chi studia la cultura materiale si focalizza sui modi in cui gli artefatti materiali, quando sono fabbricati e poi usati nel quotidiano, si caricano di significati sociali, culturali e personali, e ritiene che studiare questi temi sia centrale per capire sia come certe culture si affermano e sono riprodotte, sia il significato che certi oggetti assumono in specifici contesti culturali. A questo approccio appartengono diversi esponenti dell'antropologia digitale. Nel campo degli studi sui media e degli studi culturali ormai da diversi decenni si analizzano i modi in cui le persone si relazionano ai media, e fra questi ai dispositivi digitali, e ne fanno uso nelle loro routine quotidiane sia a casa che al lavoro. Il concetto di appropriazione riguarda l'incorporazione degli oggetti nelle pratiche abituali, mentre quello di addomesticamento si riferisce ai modi in cui gli oggetti vengono in qualche modo modificati in queste pratiche. Questo filone di ricerca ha il merito di sottolineare la partecipazione attiva degli individui nell'incontro coi media, andando oltre le riflessioni sul prosumismo, in quanto sostiene che tutte le forme di consumo implicano qualche forma di lavoro attivo da parte dell'utente che incorpora un oggetto nelle sue routine quotidiane, e si sofferma sulle dimensioni potenzianti o limitanti degli usi e sui modi in cui gli oggetti modellano e disciplinano chi li usa e questi riconfigurino, a loro volta, gli oggetti. In quest'ottica, per consumo si intendono tutte quelle interazioni che hanno luogo fra corpi umani e oggetti in specifici contesti e spazi. Le persone "consumano" gli oggetti incorporandoli e addomesticandoli, portandoli dentro i loro mondi quotidiani, fondendoli coi loro corpi e con le loro identità e caricandoli di significati legati al proprio vissuto. E’ cosi che gli oggetti si trasformano in "territori del sé", segnati dagli usi individuali, e dunque ricchi di storia personale. Quest'idea dei territori del sé presuppone che corpi e identità non siano contenuti nel guscio materiale di un singolo corpo, ma si estendano oltre nello spazio, e si connettano e interconnettano con altri corpi e altri oggetti. Questi processi sono inevitabilmente di natura relazionale, perché implicano interazioni incorporate e risposte affettive sia consce che inconsce. I vent'anni che vanno dai primi anni ottanta circa ai primissimi anni duemila sono stati l'epoca del "cyber" per la teoria e la ricerca, in ambito sociale, culturale e politico. Durante questa cyberepoca, ricorrenti erano non solo i riferimenti al cyborg, ma anche, per esempio, al cyberspazio, al cyberfemminismo, alle cyberculture, al cybercrimine, al cyberrazzismo, al cyberpostcolonialismo, al cyberpunk, al cyberqueer e al cyberbullismo. Il cyberspazio era dipinto come una rete virtuale - e non fisica - in cui gli utenti interagivano usando le tecnologie informatiche. Inizialmente, il termine si riferiva a un'esperienza disincarnata, quella vissuta dal proprio avatar digitale che si spostava in un altro mondo completamente separato e totalmente diverso da quello materiale. Anche la definizione di "realtà virtuale" era riferita a un'esperienza differente da quella della realtà materiale, e non era considerata davvero reale. Nonostante la popolarità di cui hanno goduto alla fine del secolo scorso, questi termini sembrano adesso aver perso terreno, e hanno ormai un'«aria piuttosto antiquata». Al giorno d'oggi, parlare di cyberspazio sembra quasi errato, sorpassato e approssimativo, perché il termine è troppo legato all'immaginario della fantascienza e inadatto a comprendere gli aspetti comuni e ordinari delle tecnologie digitali. Anche termini come "postumano" e "transumano" circolavano spesso nei primi scritti sulle tecnoculture, e continuano a essere ancora molto usati nei testi sulle relazioni fra umani e tecnologie, anche se in effetti non contemplano l'incorporazione di routine delle nuove tecnologie digitali nella vita quotidiana. Sentirsi umani significa per molte persone usare regolarmente le tecnologie digitali. Termini più recenti pongono l'accento sulle caratteristiche tecniche o sulle capacità di queste tecnologie, piuttosto che immaginarle come qualcosa che apre a un mondo alternativo separato da un'esperienza più "reale". Tuttavia, non è il caso di disfarsi del tutto delle cyberteorie, e anzi ha un senso e un valore recuperare queste teorie considerando come oggi le nuove tecnologie siano così perfettamente incorporate e addomesticate nella vita quotidiana. I fondamentali testi sul cyborg della teorica femminista della tecnoscienza Donna Haraway sono ancora importanti per definire l'ontologia e la politica degli incontri umano-digitale. Il suo saggio Un manifesto per cyborg è uno dei testi più influenti nel campo degli studi sulla cybercultura. In questo lavoro, Haraway sostiene che ci sono due tipi di cyborg che operano su due diversi piani ontologici. Uno è il cyborg materiale, che prende corpo nelle maglie del complesso militare-industriale e dell’intrattenimento. Quando Haraway scriveva, negli anni Ottanta, questo era il cyborg dei film di fantascienza, il guerriero umano- macchinico, o il corpo medicalizzato che è normalizzato dalle tecnologie e fonte di guadagno per le compagnie di prodotti medici e farmaceutici. Questo tipo di cyborg continua a esistere, ed è diventato sempre più digitalizzato dopo l'avvento dei dispositivi mobili e indossabili. Il secondo tipo di cyborg che Haraway identifica, e anche quello che offre un contributo sostanziale alla teoria delle tecnoculture, è il cyborg inteso in senso metaforico e ontologico. Il cyborg è una figurazione che sfida preconcetti e binarismi, politicamente dirompente, progressiva e opposizionale nella sua ibridità e liminalità. È questo il cyborg che Haraway fa proprio, e che usa a supporto della sua teoria sul rapporto fra umani e non umani. Haraway adotta una prospettiva fortemente situata e sociomateriale sugli attori umani che interagiscono con altri attori, viventi (come gli animali) e non viventi. La sua concezione del cyborg esprime l'idea più generale che non esistono corpi o esseri che siano stabili o naturalmente dati. Siamo, semmai, corpi e soggetti multipli, in base al contesto in cui ci troviamo e agli altri corpi ed entità non umane con cui interagiamo. Il cyborg materiale è solo uno dei possibili assemblaggi configurabili. Per Haraway, quindi, il cyborg rappresenta l'assemblaggio attore-rete sia letteralmente sia metaforicamente (in effetti Haraway riconosce l'influenza di Latour sullo sviluppo del proprio pensiero). In un articolo pubblicato nel 2012, Haraway afferma di non considerare più i cyborg come ibridi macchina-organismo «o ibridi tout-court», ma come «entità implose, "cose" dense di natura materialsemiotica - articolati giochi di fili [string figures] che creano particolari relazionamenti ontologicamente eterogenei, storicamente situati, materialmente ricchi, viralmente proliferanti». Il riferimento harawaiano ai "giochi di fili" rimanda al gioco del "ripiglino" [cat's cradle game], in cui si manipolano dei fili per realizzare figure sempre più complicate man mano che vengono condivise dalle mani di una persona alle mani di un'altra. Haraway adopera questa metafora nei suoi lavori più recenti per sottolineare gli intrecci, i pattern complessi, i nodi, le tessiture e le associazioni della tecnoscienza e degli assemblaggi corporei che configura. Negli scritti che adottano un approccio sociomateriale si usa spesso la metafora del groviglio (entanglement). Come quella del ripiglino, la metafora del groviglio enfatizza l'inestricabile intreccio di relazioni fra soggetti umani e oggetti materiali, dando rilievo, più ancora della metafora di Haraway, alla confusione, alla caoticità accidentale, al disordine. Se la metafora del ripiglino rimanda a qualcosa di ancora fortemente ordinato e regolato, i grovigli possono essere del tutto spontanei e improvvisi, dunque non prevedibili per forma e conseguenze. Diversamente anche dalla metafora della "nuvola", che tende a rappresentare le tecnologie digitali come omogenee, stabili e pure, la metafora del groviglio riconosce l'eterogeneità e l'instabilità delle interazioni fra agenti tecnologici e attori umani.  CAPITOLO 3. Ripensare la ricerca nell'era digitale I metodi digitali per la ricerca sociale Prima di scendere nel dettaglio sui metodi della ricerca sociale digitale, è importante contestualizzare i dibattiti sulla relazione fra le pratiche della ricerca e l'orientamento futuro della disciplina. Uno dei punti più discussi da coloro che si occupano di sociologia digitale è che i sociologi dovrebbero, nel complesso, sviluppare nuovi modi di "fare sociologia" adatti all'epoca digitale in cui viviamo, una condizione necessaria perché la disciplina possa mantenere la propria preminenza conoscitiva nel campo della ricerca sociale. Questo non significa che i metodi della ricerca "vecchio stile" debbano essere messi da parte a vantaggio di quelli che impiegano i nuovi approcci digitali. I sociologi dovrebbero sia prendere in considerazione i diversi approcci che si possono adottare per fare ricerca sociale digitale, sia continuare a chiedersi come tali approcci danno forma ai dati che producono e ai modi in cui consentono di interpretarli. Si tratta di dibattiti che affrontano anche la più ampia questione della natura stessa della disciplina, incluso il futuro della ricerca e della teoria sociologiche nell'era digitale. Esistono diversi modi di fare ricerca sulla società digitale. In passato, i sociologi e altri studiosi si sono serviti di metodi quantitativi e qualitativi per investigare gli usi delle tecnologie digitali. I metodi quantitativi includevano indagini campionarie per conoscere quali tecnologie le persone usassero e perché, e differenziavano fra gruppi sociali. Gli approcci qualitativi impiegavano interviste individuali o focus group utili a promuovere una discussione più dettagliata, mentre le tecniche etnografiche coinvolgevano anche il ricercatore nell'osservazione sulle interazioni fra persone e tecnologie, spesso in luoghi geograficamente definiti. Questi approcci collaudati della ricerca sociale restano ancora validi per investigare la natura della società digitale e le sue implicazioni per l'identità, la corporeità, la vita quotidiana, l'appartenenza a un gruppo, le istituzioni e le diseguaglianze sociali, tutte questioni tradizionalmente importanti per i sociologi e altri studiosi del sociale. Esistono molti modi diversi in cui i dispositivi digitali e le piattaforme possono essere usati per la ricerca sociale, sia per la produzione che per la registrazione dei dati. Anche i più tradizionali metodi della ricerca sono stati digitalizzati: adesso, le indagini campionarie sono completamente computerizzate e i dati automaticamente immessi in un database, e anche quelle svolte in formato cartaceo sono in seguito digitalizzate, e i dati caricati su programmi utili ad analizzarli. Le indagini campionarie online sono sempre più usate sia nelle ricerche accademiche sia in quelle commerciali, dato che riescono ad attrarre un gran numero di persone da intervistare a costi contenuti, oltre che ad arrivare a soggetti che potrebbe essere difficile raggiungere altrimenti. Anche i metodi qualitativi possono servirsi di strumenti online e dispositivi digitali. Le interviste individuali sono ormai condotte usando registratori digitali, e i dati che si ottengono vengono analizzati al computer. Esistono software specializzati non solo nell'analisi e nella codifica delle trascrizioni di interviste, ma anche delle immagini, per esempio dei materiali video. Mezzi come le videoconferenze, Skype, le chatroom, i gruppi di discussione in rete e le piattaforme dei social media possono tutti essere usati per fare interviste o focus group. Si possono raccogliere note sul campo attraverso dispositivi mobili come i tablet, i programmi per annotazioni o le funzioni di registrazione vocale degli smartphone. Le fotocamere digitali, i registratori vocali e i dispositivi di geolocalizzazione si possono usare per fare ricerca etnografica e come strumenti per la raccolta dei dati fatta dagli stessi partecipanti alla ricerca. Diversamente da quelle forme della ricerca sociale che richiedono un intervento del ricercatore nella raccolta dei dati che si vogliono analizzare sugli intervistati, l'enorme mole dei dati digitali è generata indirettamente, nel corso di tutte quelle attività quotidiane che producono dati digitali sulle attività degli utenti, come gli spostamenti nello spazio pubblico, le telefonate, le e-mail inviate, la navigazione online, l'uso dei motori di ricerca, le diverse interazioni coi servizi statali, gli acquisti di merci online o l'uso di programmi-fedeltà; a queste possiamo aggiungere le pratiche più deliberatamente legate ai contenuti prodotti, come bloggare, scrivere aggiornamenti di stato o caricare immagini, dare like, twittare e ritwittare o commentare sui social media. Queste grandi quantità di dati digitali generati dalle pratiche online, aggregati e quantificabili, sono variamente definite come dati transazionali, tracce digitali, dati di scarto o big data. Una definizione più scientifica usata dai sociologi del digitale è quella di "oggetti composti di dati digitali". Rogers ritiene sia utile distinguere in questo caso tra oggetti "digitalizzati" e "originariamente digitali”. I primi si riferiscono a tutto quel materiale che già esisteva in forma analogica e che è stato digitalizzato in un secondo tempo («migrato sul web», per dirla con Rogers): tra questi sono inclusi immagini, film, registrazioni audio, documenti, libri o artefatti scannerizzati, ri-registrati oppure fotografati per creare nuove versioni digitali da caricare online, come nel caso delle collezioni museali accessibili in rete o degli archivi storici. Chi lavora nel campo delle Digital Humanities ha dedicato moltissimo tempo a digitalizzare questo tipo di materiale. Gli oggetti originariamente digitali, invece, sono prodotti del web e fanno parte delle sue operazioni finalizzate a scopi specifici (sono «nati nel web»). Questi oggetti attraggono i sociologi perché sembrano offrire una veridicità e una validità che non appartiene, invece, ai dati generati dai ricercatori, e perché offrono una sorta di finestra sulle pratiche sociali e sulle identità che emergono quando le persone non sono consapevoli di essere campionate, intervistate o altrimenti indagate a proposito delle loro opinioni. I modi per accedere a questi archivi digitali e le competenze per analizzare i dati in essi contenuti sono questioni metodologiche chiave per i ricercatori che vogliono s'intersecano reciprocamente. Per quanto riguarda l'uso delle tecnologie digitali e dei dati digitali nella ricerca, è già interessante in sé la domanda di ricerca relativa a come gli oggetti composti di dati digitali vengono identificati, formattati e analizzati usando le varie tecniche a disposizione dei ricercatori, sociologi e non. Per quel che riguarda la sociologia digitale, il dibattito verte non solo su "come fare ricerca", ma sulla vera natura della conoscenza e dell’informazione generate online. Quando formati e categorie sono già dati dagli strumenti di analisi dei dati digitali, questi formati e queste categorie possono diventare essi stessi oggetto di ricerca. Come hanno scritto gli esperti di Software Studies, il software che struttura il funzionamento degli oggetti digitali possiede una sua politica. Questi oggetti (inclusi l'hardware e il software) non sono sempre prevedibili, gestibili e ordinati, ma hanno un effetto strutturante e modellante su quali dati poter raccogliere, quali considerare importanti e quali conservare per l'analisi. Cosi, per esempio, i motori di ricerca possiedono quella che Rogers definisce una "autorità algoritmica", perché agiscono come "macchine socioepistemologiche" che esercitano un potere sulle fonti considerate importanti o rilevanti. In questa prospettiva, i risultati che si ottengono dalle interrogazioni dei motori di ricerca non contengono soltanto "informazioni", ma anche dati sociali indicativi di precisi rapporti di potere. Queste interrogazioni possono portare alla luce come certi temi, eventi, organizzazioni e individui diventino rilevanti nel dibattito pubblico, come certe cose acquistino preminenza su altre e come le relazioni sociali e i rapporti di potere si creino e mantengano. L'oggetto composto di dati digitali visto come assemblaggio oggetto di ricerca può anche diventare il primo obiettivo dell'analisi sociologica. Langlois ed Elmer affermano che questo oggetto digitale presenta tre caratteristiche distinte. Come oggetto mediale esso possiede un livello semantico (che deriva dal contenuto, come le immagini o i testi postati sulle piattaforme). Come oggetto in rete, si connette ad altri oggetti mediali e alle loro reti. Infine, come oggetto fatico, stabilisce precise forme di presenza e relazione fra gli utenti, indicandone le preferenze, i gusti e le opinioni (per esempio attraverso l'uso del tasto "like" su Facebook, il contenuto delle bacheche su Pinterest, o le scelte dei link condivisi su Twitter). Tutte e tre queste componenti dell'oggetto digitale contribuiscono a configurare il suo significato, e tutte e tre possono essere oggetto di analisi per gli studiosi interessati ai loro effetti sul piano sociale. Fare ricerca sociale digitale in modo creativo I metodi digitali della ricerca possono combinare vari tipi di dati derivati da fonti diverse, sovrapponendoli o giustapponendoli per una conoscenza più approfondita. I dispositivi dotati di sensori e gli strumenti di visualizzazione, per esempio, possono essere usati insieme ad altri strumenti per ricavare dati qualitativi, come le interviste e le osservazioni etnografiche, al fine di ottenere rappresentazioni più complesse della vita sociale. La ricerca etnografica, soprattutto se condotta dagli antropologi, ha contribuito in modo significativo a studiare i diversi usi delle tecnologie digitali in base alla collocazione geografica, e tuttavia l'ubiquità e la diffusione dei nuovi dispositivi digitali pone una sfida a queste forme tradizionali della ricerca etnografica. Data la distribuzione di internet su diversi dispositivi, piattaforme e strumenti, e la complessa relazione tra mondi “online” e “offline”, immaginare di fare ricerca sul campo come osservatori partecipanti all’interno di un “campo” delimitato è diventato problematico. Il campo etnografico del digitale è un luogo di ricerca caotico e mutevole, dove le diverse tecnologie e i diversi attori umani coinvolti s’intrecciano e collaborano. Internet non è una cosa soltanto, ma molte, usate in varie combinazioni, da diverse persone, per scopi diversi e in contesti culturali e geografici ben precisi. Gli antropologi digitali hanno iniziato a gestire questa complessità, e sono ora in grado di fornire delle prospettive utili anche ad altri ricercatori: per esempio, Sarah Pink ha elaborato il concetto di "luogo etnografico", che non riguarda, solo ed esclusivamente uno spazio materiale, una collocazione precisa, ma piuttosto un insieme di oggetti, persone e luoghi interrelati che gli scopi del ricercatore combinano insieme. Se si adotta questo approccio, i luoghi (digitali) della ricerca etnografica diventano i modi in cui la tecnologia digitale è usata in un insieme simile, che include le attività online e offline (distinzione che sfuma facilmente) e le interazioni tra questi contesti. In questo approccio rientra la consapevolezza che il luogo della ricerca non è statico, ma dinamico e in costante cambiamento. Chiaramente, gli etnografi sono consapevoli di contribuire essi stessi alla configurazione di questo luogo etnografico, nel momento in cui seguono i post e gli aggiornamenti degli utenti sui social media, dando talvolta il loro contributo in prima persona, oltre a registrarli o archiviarli. Per la ricerca sociologica è importante anche la messa a punto di strumenti per l'analisi delle immagini digitali e di tecniche di visualizzazione digitale. La sociologia visuale adopera le immagini per rappresentare o documentare ma anche per interpretare varie questioni e problematiche sociali. Questa branca della sociologia, che tradizionalmente usa fotografie e video ma anche opere d'arte, si presta molto alle tecnologie di visualizzazione digitale, di cui studia le implicazioni e di cui si serve con ottimi risultati per analizzare la società contemporanea. Le nuove tecnologie visuali legate al digitale agiscono in modi diversi e sono parte integrante della vita, delle istituzioni e delle relazioni sociali, sulle quali esercitano effetti profondi, partecipando alla gestione e alla creazione di uno spazio sociale personale e includendo o facilitando connessioni tra persone, spazi e oggetti. Le tecnologie dei media digitali creano nuove forme di visualità e identificano nuovi destinatari per queste produzioni online, che spaziano da una dimensione estremamente intima a una decisamente pubblica. I dispositivi mobili e indossabili come gli smartphone e i tablet, o le piattaforme come Flickr, YouTube, Facebook e Twitter, consentono una documentazione continua per immagini della vita delle persone, e la condivisione di questo materiale a un pubblico globale. Le tecnologie di mappatura e locative (i "geomedia") come Google Earth, o i giochi digitali, usano sofisticate tecniche di imaging, mentre i programmi per il montaggio consentono di creare e manipolare una gran varietà di immagini. Questi dispositivi, che «creano nuove epistemologie dello spazio, del luogo e dell’informazione», offrono svariate opportunità ai sociologi per l'osservazione etnografica e partecipante grazie a un ricco repertorio di immagini disponibili. Come dice Les Back, il loro uso richiede non tanto una sociologia "di" ma una sociologia "con". I dispositivi di tracciamento e mappatura sono stati usati anche all'interno di operazioni artistiche per la creazione di nuove cartografie urbane. Nel progetto Amsterdam Real-Time, che ha avuto luogo nel 2002, 60 volontari dotati di dispositivi con GPS sono andati in giro per la città per una settimana. I dati, che mappavano i loro movimenti individuali insieme a quelli degli altri volontari coinvolti sono stati usati per creare una visualizzazione cartografica della loro esperienza dello spazio di Amsterdam, e hanno prodotto una mappa diversa della città, creata dall'esperienza quotidiana dello spazio urbano. I dispositivi di geolocalizzazione consentono, anche attraverso forme di espressione artistica o di invenzione, di visualizzare le pratiche quotidiane e gli usi dello spazio legati alle routine e alle relazioni di tutti i giorni, costruendo dei "ritratti personali" degli spazi, come per esempio delle città. La pratica dell’etno mining combina i dati digitali quantitativi con una ricerca etnografica situata e approfondita che serve a fornire il contesto socioculturale a questi dati. Questo approccio deriva dall'impiego, nel campo dell'interazione uomo-computer, di tecnologie dotate di sensori in grado di seguire automaticamente i movimenti delle persone oggetto di ricerca, e in seguito gli antropologi se ne sono serviti per fare ricerche etnografiche basate sui dati digitali ottenuti attraverso i sensori o tecnologie simili. In una serie di progetti sull'impiego del tempo trascorso al computer, condotti da alcuni antropologi per conto della Intel, il tempo speso dai partecipanti sui dispositivi digitali in loro possesso e i dati geolocativi ottenuti dai loro telefoni cellulari sono stati monitorati e visualizzati usando degli strumenti di visualizzazione digitale. Le visualizzazioni sono state poi mostrate ai partecipanti allo studio, che hanno collaborato con i ricercatori per interpretare quello che i dati dimostravano riguardo alle loro abitudini d'uso dei dispositivi. In un altro studio di etno-mining, i partecipanti, in quattro case diverse, e i loro computer portatili sono stati dotati di dispositivi per la geolocalizzazione, e su ogni computer è stato installato un programma funzionale a monitorare i movimenti di tastiera e mouse, l'uso delle applicazioni e i consumi di energia. Le interviste e l'osservazione del comportamento dei partecipanti nelle loro case ha consentito di raccogliere una serie di dati qualitativi riguardanti, in entrambi i casi, il luogo della casa in cui le persone passavano più tempo quando usavano il computer portatile. I dati quantitativi raccolti sono stati elaborati usando un algoritmo sviluppato grazie alle osservazioni etnografiche dei ricercatori sulle interviste ai partecipanti, e ricavati dalle interviste stesse, mentre i dati generati dai sensori e dalle tecnologie di registrazione automatica hanno contribuito ad arricchire quelli etnografici. I ricercatori hanno quindi elaborato delle mappe per immagini che mostravano i movimenti abituali dei partecipanti nelle loro case in relazione all'uso dei portatili, e hanno poi nuovamente usato queste visualizzazioni per un confronto ulteriore con i partecipanti. Negli scritti di Back sulla sociologia viva egli sottolinea l'importanza, per il ricercatore, di andare in giro e documentare non solo quello che le persone raccontano sulle loro esperienze e sui loro pensieri, ma anche la dimensione materiale degli spazi vissuti, e le sensazioni ed emozioni che si producono in questi ambienti e attraverso queste esperienze. Nel progetto Live Sociology, egli ha formato un gruppo di sociologi all'uso delle tecnologie digitali utili a raccogliere, analizzare e archiviare i dati, e a fare ricerca sociale etnografica. Questo processo ha visto coinvolti come dei veri e propri collaboratori anche i partecipanti alla ricerca, con l'intento di promuovere quanti più punti di vista sociologici differenti. Ai partecipanti è stato chiesto di andare in giro muniti di fotocamere digitali e registratori audio per fare alcuni esperimenti d'ascolto nel contesto locale. Uno dei progetti di Back si chiama Every Minute of Every Day, un esperimento di etnografia in tempo reale che si è servito sia di tecnologie digitali per registrare suoni e immagini, sia di testi per documentare la relazione delle comunità locali con le case di cura esistenti a livello locale. I residenti hanno collaborato alla ricerca, usando queste tecnologie per creare personalmente i loro dati come contributo al progetto. Lavorando insieme, gli artisti, i designer e i sociologi possono escogitare modi creativi per fare ricerca sociale sugli usi delle tecnologie digitali, o per servirsi dei dispositivi digitali in altre ricerche sulla vita sociale. Un esempio insieme divertente e coinvolgente è rappresentato dalla ricerca condotta da un gruppo, composto anche da designer, che ha usato una serie di "sonde domestiche" - questo il nome dato agli oggetti utilizzati - per esplorare i possibili nuovi ruoli della tecnologia nelle abitazioni. Ai partecipanti sono stati forniti dei kit contenenti le seguenti "sonde": • un "registratore di sogni" (ovvero un blocco note digitale riassemblato per permettere ai partecipanti di registrare i dettagli di un sogno nitido in un tempo di dieci secondi); • "un bicchiere per ascoltare" (cioè un bicchiere vero e proprio dotato di istruzioni d'uso, che i partecipanti potevano usare per amplificare certi suoni interessanti che notavano in casa, e poi scriverli sul bicchiere); • "un taccuino da bagno" (ovvero un quadernetto di circa venti pagine, ognuna con una breve notizia che i partecipanti avrebbero dovuto commentare per iscritto); • una fotocamera usa e getta con una lista di istruzioni per scattare fotografie in casa; • della carta millimetrata, per disegnare le piantine delle abitazioni; • una "mappa degli amici e della famiglia" (cioè un foglio su cui ai partecipanti era chiesto di creare una mappa dei legami sociali più stretti); • vari fogli dove scrivere le regole della casa; • un foglio grande di carta fotografica con istruzioni in cui si chiedeva ai partecipanti di posizionare una serie di oggetti domestici e fare poi un collage delle loro sagome; • un apparecchio stenopeico per catturare l'immagine di una "vista interessante" della casa; • un blocco note telefonico con diverse domande già stampate cui ai partecipanti era richiesto di rispondere sia a parole che con disegni; • un quaderno per raccogliere i commenti degli ospiti in visita. Ai partecipanti è stato chiesto di tenere questi oggetti in casa per un po', e di usarli quando e come ne avessero voglia. Dopo circa un mese, i ricercatori sono tornati nelle abitazioni e hanno raccolto le sonde, usando le risposte dei partecipanti per sviluppare nuovi prototipi di oggetti domestici e ripensare diversamente l'uso della tecnologia nelle case. Il punto di questa ricerca, a detta dei ricercatori, non è stato tanto quello di usare un metodo standard che portasse alla scoperta di una serie di risultati sulle pratiche esistenti, quanto di stimolare i partecipanti e gli stessi designer a trovare soluzioni creative e inaspettate. Pur riguardando le tecnologie (e precisamente la progettazione di nuove tecnologie) e impiegando diversi tipi di dispositivi e oggetti tecnologici, questo progetto non riguardava esclusivamente le tecnologie digitali. Ciò nonostante, approcci innovativi di questo genere si adattano bene per fare sociologia viva e studiare anche le tecnologie dei media digitali. I ricercatori di questo progetto consigliano, per esempio, di usare le sonde per avviare una conversazione e ravvivare così i metodi più tradizionali, come i questionari o le interviste. Un altro esempio delle potenzialità di un simile approccio è uno studio in cui uno dei designer coinvolti nel progetto sopra illustrato, William Gaver, ha collaborato col sociologo Mike Michael, usando ancora una volta le tecnologie digitali nelle abitazioni private, come "dispositivi soglia" progettati per "osservare" la composizione dello spazio domestico allo scopo di studiare il concetto di casa e i confini tra questa e lo spazio esterno. Tra i dispositivi, una "finestra video" mostrava vedute esterne alla casa, che non sarebbe mai stato possibile vedere attraverso finestre reali, servendosi di una videocamera digitale e di uno schermo a muro su cui scorrevano le immagini riprese. L'uso di queste tecnologie era parte di uno studio più ampio riguardante le complesse relazioni fra la casa e l'ambiente natural- culturale di riferimento e, più nello specifico, i modi in cui le tecnologie mediano il rapporto col mondo esterno e configurano lo spazio domestico. L'uso degli oggetti composti di dati originariamente digitali Gli esempi riportati in precedenza rappresentano effettivamente modi diversi per ottenere dati per la ricerca sociale usando le nuove tecnologie. Le tecnologie digitali, mentre funzionano, di per sé producono e archiviano già una serie di dati. In quanto dispositivi “che osservano e seguono attività e azioni” e quindi “monitorano il soggetto che agisce”, esse producono dati originariamente digitali, che si trovano spesso già puliti, ordinati e formulati in funzione degli enti e delle imprese che li raccolgono e li usano per scopi diversi. Tuttavia, questi dati possono anche essere, in parte, riconvertiti e reimpiegati in vari modi per fare studi accademici, ricerche di mercato, think-tank politici o per altre ragioni commerciali. In questo caso, si parla spesso di "raccolta", mining (estrazione) o scraping (raschiamento) dei dati in rete. Figure professionali provenienti da ambiti diversi, o spinte da varie motivazioni politiche, possono accedere ai big data attraverso gli strumenti di analisi dei dati digitali disponibili più o meno gratuitamente, e utili ai loro scopi. Le imprese commerciali fanno molto spesso text mining o analisi del sentiment [sentiment analysis] in particolare sui contenuti dei social media, o su segmenti di frasi usate dagli utenti nei loro commenti, avvalendosi di strumenti come per esempio il software per l'analisi del linguaggio naturale. Questi tipi di programmi sono in grado di analizzare struttura e contenuto delle parole estratte da testi postati sui social media e di metterle in relazione fra loro o, più semplicemente, quantificarne la ricorrenza. Esistono diversi strumenti open source che consentono a chiunque di fare ricerca sociale in maniera interamente gratuita usando i dati digitali. In tutti i casi, si tratta di strumenti che si servono di qualche forma di web scraping. Una volta "raschiati" i dati, gli strumenti danno la possibilità di questa tendenza crescente alla "chiusura proprietaria" dei dati pone dei limiti allo scraping che possono farne i ricercatori. Quante volte un utente visita un sito è un'informazione spesso protetta, ormai, da precisi "termini e condizioni”. Piattaforme come Twitter e Facebook hanno stabilito delle regole che limitano l'uso delle loro interfacce di programmazione (API) per cui può darsi sia operante un sistema a due livelli, in cui alcuni dati restano gratuitamente accessibili a tutti, mentre altri più dettagliati si possono ottenere solo a pagamento. Manovich, di conseguenza, ritiene possibile distinguere tre categorie di attori - l'espressione che egli usa è «classi di dati» - a proposito dei dati digitali. La prima comprende chi crea i dati, deliberatamente o per caso (cioè chiunque usi o sia monitorato dalle tecnologie digitali). La seconda categoria include le persone o le organizzazioni che possiedono i mezzi per archiviare questi dati (un gruppo molto più ristretto). La terza, ancora più esigua, è composta da quegli individui o da quelle organizzazioni che sono in grado di accedere ai dati di questi archivi per analizzarli. I dati gratuitamente ottenibili attraverso le API delle piattaforme costituiscono solo una minima parte di tutti i dati raccolti e conservati dalle piattaforme stesse, cosa che pone alcuni interrogativi sulla rappresentatività dei dati disponibili per l'analisi. La questione della rappresentatività dei dati è stata sollevata da chi nota che spesso i ricercatori scelgono di usare semplicemente i dati facilmente accessibili, piuttosto che porsi il problema della rappresentatività del campione. Gli utenti di Twitter o Facebook, per esempio, appartengono a gruppi sociali precisi, e non sono per nulla rappresentativi dell'opinione pubblica. La rappresentatività è problematica anche in altre situazioni di raccolta dei dati attraverso gli strumenti online, come le indagini campionarie, che possono attrarre persone che non rappresentano affatto la popolazione nel suo complesso. Per esempio, in occasione della Great British Class Survey condotta da un gruppo di sociologi insieme alla BBC, nonostante un elevato numero di persone abbia completato il questionario online, il profilo medio degli intervistati è risultato quello dello spettatore tipico dell'emittente televisiva: istruito, economicamente benestante, e occupato in attività professionali. I ricercatori hanno quindi dovuto servirsi di un secondo questionario, usando procedure standard di campionamento, e somministrare anche questionari in presenza affidandosi a una compagnia specializzata, in modo da avere dati provenienti da gruppi sociali più diversificati. Oltre alle difficoltà che incontrano i sociologi che vogliano fare analisi dei social media, Bruns nota che un ulteriore problema è l'enorme quantità di dati digitali a disposizione dei ricercatori, che devono fare continuamente delle scelte per selezionare quali analizzare. Infatti, è materialmente impossibile analizzare tutti i dati riguardanti un preciso argomento o tutti i dati provenienti da una certa piattaforma. Anche i problemi tecnici legati alla capacità di archiviazione dei dati sono determinanti per le decisioni prese dai ricercatori interessati al materiale online. Bruns mette inoltre in guardia i ricercatori accademici dall'affidarsi ciecamente agli strumenti di analisi dei dati open source o a pagamento senza prima averne testato la validità e l'affidabilità. È difficilissimo anche replicare i risultati ottenuti da altri ricercatori, perché gli strumenti e i dataset usati cambiano spesso, e non sempre le piattaforme offrono libero accesso ai loro dataset per la ricerca. Le pratiche della ricerca sociale che usano i dati originariamente digitali sollevano anche altre questioni di carattere più generale. A qualsiasi stadio della loro produzione e analisi i dati digitali sono soggetti - come ogni altro tipo di dati, qualitativi e quantitativi - a inesattezze, pregiudizi, distorsioni, errori. Nonostante un'aura di oggettività e neutralità scientifica circondi i dati digitali - in quanto generati dalle tecnologie informatiche, spesso in quantità enormi - anche i dati digitali, come qualsiasi altro, sono tuttavia il prodotto di decisioni umane. Il contenuto dei materiali online cambia continuamente, viene rivisto o addirittura completamente rimosso dalla rete. La maggior parte dei big data analizzati fornisce solo informazioni molto parziali, spesso prive di riferimenti contestuali, come il genere, l'età, l'etnia, la collocazione geografica, la classe sociale o il livello d'istruzione di chi li produce. Un ulteriore ostacolo alla comprensione della validità dei dati è il fatto che alcuni prendono anche in giro il sistema, o fanno circolare apposta delle bufale, postando per esempio informazioni false o immagini ritoccate spacciate per vere. Le persone che producono questi dati li manipolano così per i loro scopi, scegliendo per esempio di postare certe immagini piuttosto che altre, o condividendo e ritwittando contenuti attentamente selezionati per fornire una precisa immagine di sé agli amici e ai follower sui social network. I risultati dei trending topics (TT) di Twitter o delle interrogazioni ai motori di ricerca possono essere facilmente manipolati da chi vuole trarne vantaggi economici o politici, e così anche dati digitali come i "like", i "condividi" e i "follower" (per esempio acquistandoli o servendosi di bot). Nonostante la validità dei big data, molti critici hanno evidenziato che, pur includendo molti dati digitali, i dataset così grandi hanno un potere esplicativo limitato. Per quanto nel complesso forniscano cifre e prove di collegamenti e connessioni tra variabili differenti, al di là di questo non vanno particolarmente a fondo. I big data spiegano poco del contesto in cui sono stati prodotti. Il senso dei dati può perdersi o essere frainteso perché nel materiale digitalizzato non sempre rientrano altri indicatori di senso, come il contesto sociale e culturale da cui originano i testi e i modi in cui le parole e i testi sono a questi collegati. Per esempio, l'analisi del sentiment nei dati prodotti sui social media passa dagli algoritmi per l'elaborazione del linguaggio naturale, che però sono generati da codici informatici, e non interpretati da esseri umani, col rischio che simili analisi perdano facilmente di vista le sfumature e le ambiguità dei significati. Le parole e altri elementi dei testi culturali sono ridotti a dati computazionali, ma senza una conoscenza dettagliata del contesto non è sempre facile giudicare il tono del contenuto di un commento postato sui social media, per esempio se sia serio oppure ironico. Una certa cautela è emersa anche in relazione alla crescente digitalizzazione dei documenti. Gooding definisce gli archivi digitali come una potenziale “discarica virtuale della nostra eredità culturale”, e parla delle diverse preoccupazioni che sono emerse in ambito umanistico riguardo alla digitalizzazione dei documenti. Una è che la quantificazione delle informazioni finirà per prevalere sulle più approfondite analisi tradizionali legate all’interpretazione dei materiali culturali, che richiedono una lettura e un esame più accurato dei testi. Un’altra è che esistono ancora poche pubblicazioni sull’uso di grossi archivi digitali di materiali culturali per studi non di tipo quantitativo. E inoltre, la digitalizzazione massiccia di questi materiali potrebbe essere di scarsa qualità rispetto a quella di collezioni digitali più piccole messe insieme grazie a un intervento umano determinante per rispettare standard di qualità più elevati. Le operazioni di digitalizzazione su larga scala, che nella maggior parte dei casi usano tecniche di scannerizzazione automatizzate, possono risultare in metadati spesso di scarsa qualità, e dar luogo a errori nel processo di digitalizzazione nel corso dei quali si perdono informazioni importanti. Il valore di tali dati ai fini della ricerca potrebbe essere dunque compromesso. Le critiche riguardano anche i risvolti etici legati all'uso per la ricerca dei dati provenienti da comunità e forum online. Per esempio, ci si domanda se tali ambiti debbano essere considerati spazi pubblici o privati, e se i ricercatori debbano rendere visibile la propria posizione alle comunità di cui studiano le interazioni. C’è chi ritiene che le informazioni anche personali postate dagli utenti su siti e piattaforme pubblici non costituiscano dati privati o confidenziali, e debbano essere accessibili agli studiosi, che gli utenti siano o meno consapevoli dell'uso che si fa dei loro contenuti. C'è invece chi pensa che i ricercatori siano tenuti a informare le persone nel momento in cui si usano i dati che queste producono, soprattutto se si tratta di contenuti di natura personale. L’uso e la commercializzazione dei big data da parte delle grandi compagnie del digitale e degli enti statali ha sollevato diverse questioni relative alla consapevolezza che le persone hanno dei modi in cui i loro dati vengono usati, e se anche loro debbano aver accesso ai dati che producono. In virtù di una lunga tradizione della ricerca sociale, i sociologi sono abituati a prestare attenzione agli aspetti etici e politici riguardanti la selezione e la classificazione nella produzione e nell'uso dei dati. Spetta ai sociologi e ad altri esperti del settore, dunque, continuare a sfidare le verità acquisite dei big data o dei dati sociali digitali. I sociologi e altri studiosi della società e della cultura hanno il compito di arricchire le prospettive esistenti ponendo l'accento sulla natura contingente e manipolabile dei dati digitali, e sui loro scopi ed effetti politici. I dati non significano nulla senza il lavoro di interpretazione e contestualizzazione, e questi studiosi hanno le competenze per fare precisamente questo. In ragione di questi limiti, i big data dovrebbero essere usati solo in minima parte per l'analisi dei comportamenti sociali. Ed ecco perché gli approcci innovativi considerati prima indicano modi intelligenti e creativi di incorporare le tecnologie digitali nella ricerca sociologica. La riflessività critica La sociologia digitale può contribuire a rivitalizzare in molti modi la "sociologia morta". Le tecnologie digitali come strumenti metodologici e come oggetto di ricerca offrono nuovi modi divertenti, creativi e innovativi per fare ricerche sociologiche, e l'opportunità di ravvivare la sociologia e altre forme di ricerca sociale introducendo nuovi tipi di dati e di modi per coinvolgere i soggetti partecipanti a collaborare attivamente ai progetti di ricerca. I sociologi apportano diversi contributi importanti alla ricerca sociale digitale; sono in grado di studiare gli usi delle tecnologie digitali sia in estensione sia in profondità, e sanno anche situare questi usi nei contesti sociali, culturali e politici di riferimento, interrogando criticamente anche il proprio stesso posizionamento in quanto ricercatori e la natura dei metodi impiegati. Tutti questi aspetti contribuiscono a una sociologia potenzialmente ricca e vitale in cui i sociologi, riflettendo sulla posizione che occupano, situano i loro approcci all'interno di una prospettiva teorica che riconosce come le pratiche della ricerca sociale documentano e insieme creano la vita sociale. La ricerca sociologica può comprendere diversi livelli di analisi, ognuno dei quali adotta una prospettiva in qualche modo diversa sull'epistemologia e l'ontologia dei dispositivi digitali, del software e dei dati. Possiamo usare alcune funzioni come Google Ngram, Google Trends, Google Search come funzioni di ricerca [search] in modo completamente automatico, come farebbe qualsiasi altro utente di media digitali, oppure considerarli come strumenti della ricerca [research] utili a esplorare e mettere in luce convenzioni sociali e culturali, discorsi e norme. Allo stesso tempo, da una posizione riflessiva, la sociologia digitale non può fare a meno di considerare questi arnesi come strumenti davvero poco "affilati", e capire che, ogni volta che li usa, si affida alla validità e all'attendibilità dei dati che essi producono. Infine, è opportuno che un'analisi critica degli strumenti digitali comprenda una riflessione su come questi strumenti ci posizionano in quanto ricercatori, e sulle loro implicazioni per la ricerca sociale in senso più ampio.  CAPITOLO 4. Una sociologia critica dei big data Negli ultimi anni si è molto discusso, e con toni entusiastici, delle opportunità per la ricerca sociale, le attività commerciali e il governo efficiente dischiuse dagli smisurati dataset digitali - i cosiddetti big data - raccolti ora grazie alle attività online degli individui. Se n'è diffusamente parlato nei media mainstream, in scienza dei dati, nel mondo degli affari e dello sviluppo globale, nel campo della vigilanza e sicurezza, in politica, in sanità, nel settore educativo e in agricoltura. Grazie alla loro superiore precisione e alle grandi capacità predittive, i big data prometterebbero di aumentare l'efficienza e la sicurezza, di favorire la crescita e di agevolare la gestione delle risorse. Dal canto loro, le tecnologie digitali si dimostrerebbero in grado di raccogliere, estrarre, immagazzinare e analizzare dati meglio di altre forme di conoscenza e consentirebbero pertanto di scavare nel comportamento umano in modi prima impensabili. Sennonché, da un punto di vista sociologico critico, c'è molto altro da dire sui big data in quanto prodotti socioculturali. Il fenomeno dei big data Esistono dati generati o immagazzinati in modi digitali da quando esistono i computer. Quello che la definizione di "big data" sta a indicare è lo straordinario incremento del numero di tali dati cui stiamo assistendo in questi anni, dati generati dalle interazioni degli utenti con i nuovi media digitali, costituiti dai contenuti di questi media o prodotti dalle tecnologie di sorveglianza, come le telecamere a circuito chiuso, i chip RFID, i monitor del traffico e i sensori posti a controllo dell’ambiente naturale. Non solo se ne generano di nuovi senza sosta; sono anche estremamente dettagliati e in grado di identificare molte delle attività degli utenti dei media con grande precisione. I dispositivi mobili come gli smartphone raccolgono dati sui destinatari delle chiamate, i siti web e le piattaforme che i loro utilizzatori frequentano e i termini di ricerca che digitano e, grazie ai ricevitori GPS, le bussole, i giroscopi e gli accelerometri in essi incorporati, anche sui luoghi in cui si trovano e i movimenti fisici che compiono. Questi dati sono ritenuti più "grandi" (big, appunto) di quelli in altri formati in considerazione del loro volume in continua crescita, dello stato di costante generazione, della varietà dei luoghi in cui sono prodotti, dei tipi di ricerche e comparazioni cui si prestano, e della possibilità di combinarli tra loro per creare nuovi e più dettagliati dataset. E queste loro caratteristiche, si sostiene, richiederebbero nuovi strumenti di stoccaggio e nuovi modi di procedere alla loro elaborazione e analisi. La locuzione “big data" compare di giorno in giorno più spesso nei media mainstream, nei rapporti delle agenzie dello Stato e nei blog delle attività commerciali. Con il progressivo accumularsi dei dati in possesso di singoli individui, imprese e agenzie pubbliche e il chiarirsi del loro indubbio valore, è fiorita intorno ai big data una retorica stupefacente. È dato per certo che quanti più se ne raccolgono e analizzano, tanto meglio è. È l'approccio proposto per esempio nel primo volume sulle opportunità aperte dai big data destinato a un pubblico non specializzato: Big Data. Una rivoluzione che trasformerà il nostro modo di vivere. L'enfasi di questo titolo illustra bene la posizione degli autori: i big data sarebbero un fenomeno di dirompente novità. Anche Big Data for Dummies [I big data per principianti] si propone di introdurre il lettore inesperto ai possibili usi e alle potenzialità dei big data. In base a un rapporto in qualche misura più approfondito del Public Administration Select Committee della Camera dei Comuni inglese, i dataset digitali conterrebbero «conoscenze inutilizzate e destinate altrimenti ad andare sprecate che potrebbero essere proficuamente sfruttate per dare potere ai cittadini, migliorare i servizi pubblici e sostenere il buon funzionamento del sistema economico e della società in generale». Anche le autorità federali statunitensi hanno favorito il libero accesso ai dati digitali con diverse iniziative. Per esempio, il sito web Data.gov raccoglie in un'unica piattaforma i dati accumulati dalle agenzie dello Stato mettendoli a disposizione del pubblico. Le attività e scelte compiute online dagli utenti vengono convertite in preziosi beni informazionali che sono o venduti a terzi o utilizzati dalle stesse imprese che li hanno raccolti per i propri obiettivi. Una nuova e fiorente industria è impegnata da qualche tempo nell'esplorazione - o persino nello scraping - del web alla ricerca di informazioni, ed è emersa la professione del “broker di dati", che consiste nell'accedere ai dati e rivenderli per denaro. Nel dinamismo digitale che ne è risultato, informazioni e dati hanno acquistato valore in loro stessi contribuendo alla nascita dell'economia della conoscenza digitale. Come pare abbia osservato un addetto al marketing: «Dal punto di vista commerciale, questa nuova classe di dati è una miniera d'oro. È sufficiente pensare a quel che si può fare con la tracciabilità attimo per attimo dei movimenti del corpo, delle reazioni fisiche agli stimoli esterni (come gli annunci pubblicitari!), del peso e dei cambiamenti dell'organismo, o ancora della localizzazione geografica». Secondo il direttore della nuova rivista di scienza dei dati "Big Data", un'assunzione condivisa nel dibattito pubblico è che «sia possibile individuare le decisioni migliori procedendo a calcoli». Gli autori di un rapporto del McKinsey Global Institute, il centro studi di una grande società di consulenza globale, hanno dichiarato che i big data «diventeranno una base cruciale della competizione, il motore di forti aumenti di produttività, di ondate di grandi innovazioni e di generosi surplus del consumatore. pazienti assistiti dai medici di base e di quelli curati negli ospedali, e aggregarle in un unico grande dataset. L'idea era di utilizzare i dati di questo nuovo archivio digitale non solo per condurre ricerche sui servizi sanitari, ma anche per scopi commerciali: vendere queste informazioni alle assicurazioni sanitarie o ad altre imprese private. Nell'ambito dell'istruzione scolastica cresce l'interesse per l’aggregazione di più dataset digitali da cui trarre profili degli studenti sempre più dettagliati. Utilizzando l'”analisi dell'apprendimento” è possibile creare per ciascuno studente un "profilo di apprendimento" in grado di identificare i suoi punti di forza e le sue debolezze e le soluzioni da adottare affinché i suoi risultati migliorino. L'analisi predittiva consente, dati più gruppi di studenti (distinti per genere, età, condizioni socioeconomiche ed etnia o razza), di identificare caratteristiche dei risultati scolastici da utilizzare a loro volta per migliorare il processo di apprendimento. In alcuni paesi si sta iniziando a fare lo stesso anche per l'istruzione superiore. Alcune università americane, per esempio, utilizzano l'analisi predittiva aggregando i dati sui voti degli studenti, il loro numero di ore di iscrizione per semestre, il loro impegno lavorativo all'esterno dell'università, il livello di sostegno finanziario garantito loro dalle famiglie e altri fattori ancora per cercare di stabilire quali tra i nuovi diplomati abbiano più probabilità di incontrare problemi una volta iscritti. Le agenzie di vigilanza e sorveglianza si servono di big data per identificare le minacce alla sicurezza, costruire modelli comportamentali, definire i tipi di reato, individuare i sospetti e i potenziali terroristi, e formulare, nell'ambito della cosiddetta "vigilanza predittiva", previsioni su chi potrebbe commettere atti criminali o attacchi terroristici e dove. L'American Federal Bureau of Investigation (FBI) raccoglie nei suoi dataset digitali informazioni sul giorno, l'ora, il tipo e il luogo degli ultimi reati, incrocia questi dati con quelli sui crimini passati, e individua per via algoritmica i "punti caldi" su cui concentrare la sorveglianza o mobilitare altre risorse di vigilanza. Anche le agenzie di sicurezza e sostegno al rispetto della legge cercano di identificare i gruppi o gli individui sospetti da sottoporre a controlli, indagini ulteriori, perquisizioni o custodia cautelare.  Come i documenti resi pubblici da Edward Snowden hanno dimostrato, gli Stati Uniti e gli altri paesi anglosassoni procedono da tempo a estese attività di sorveglianza dei propri cittadini accedendo ai dati digitali raccolti dalle imprese commerciali. Data l'ampiezza di queste attività di raccolta di dati per scopi di sorveglianza, non può sorprendere che I'NSA stia costruendo un proprio centro di stoccaggio dati di enormi dimensioni.  Gli assemblaggi di dati e l'autorità algoritmica In genere, nella scienza dell'informazione e nella scienza dei dati, si vedono nei dati i materiali grezzi dell'informazione e negli algoritmi gli agenti neutrali dell'elaborazione di questi materiali. Essi costituirebbero, cioè, la base a priori, scientificamente prodotta, con cui sviluppare  l'”informazione”: solo una volta strutturati o ordinati entro una particolare cornice (o trasformati da "grezzi" in analizzati), i dati diventerebbero informazione, la quale sarebbe a sua volta la base su cui costruire il "sapere", di cui potrebbero finalmente far parte anche significati, credenze culturali e giudizi di valore. I sociologi e gli altri studiosi interessati ai media e alla comunicazione hanno sviluppato una prospettiva diversa sul fenomeno dei big data e sugli algoritmi utilizzati per raccoglierli, classificarli ed elaborarli. A loro avviso, i big data non sono oggettivi, esaurienti e neutrali come vogliono le loro rappresentazioni mainstream. La loro produzione e il loro utilizzo sono considerati al contrario come processi politici, sociali e culturali. Secondo questa prospettiva, i numeri sono dispositivi sociotecnici inseparabili dalle pratiche che aspirano a quantificare i materiali che essi stessi misurano.  Sono "agenti di senso", utilizzati per scopi retorici o discorsivi specifici: «Le dinamiche interne ai numeri sono profondamente incastonate nel reale e costitutive di esso - fungono da lubrificante per il suo verificarsi». In altre parole, i numeri giocano un ruolo nella stessa costituzione dei fenomeni, dando loro origine, contribuendo a produrli e riempiendoli di senso. Per quanto li si consideri spesso tali, in particolare rispetto alle fonti  qualitative della conoscenza, i numeri non sono neutrali e oggettivi. Al contrario, sono inestricabilmente legati a quanto è considerato prezioso, utilizzati tanto per produrre quanto per misurare il valore, o anche simboli di ciò che è innanzitutto giudicato meritevole di essere quantificato. Gli oggetti composti di dati digitali che le tecnologie informatiche trasformano in numeri sono sia prodotti di dispositivi sociotecnici sia dispositivi sociotecnici essi stessi, essendo anch'essi dotati di capacità di azione e potere. Non esistono "dati grezzi" o "crudi”, nella terminologia di Levi-Strauss. Stando anzi al memorabile titolo di un libro sull'argomento, la definizione di "dati grezzi" è in realtà un ossimoro. Esistono al contrario convenzioni e pratiche di ricerca, registrazione, archiviazione e categorizzazione dei dati regolate da specifiche credenze, giudizi, valori e assunzioni culturali, i quali "plasmano" o "cuociono" i dati fin dall'inizio, cosicché non accade mai che essi si trovino in uno stato "grezzo" o "crudo". Più che essere elementi dell'informazione pre-esistenti, i dati digitali sono co-prodotti o co-creati da chi sviluppa i software e i dispositivi che li generano e archiviano, dai programmatori che costruiscono gli algoritmi dei software e dagli utilizzatori di queste tecnologie. Gli individui e le istituzioni che archiviano i dati incidono considerevolmente sul modo in cui questi dati sono ordinati e classificati, e di conseguenza anche sui modi in cui i loro potenziali utenti vi accederanno e li recupereranno. Ciascun passo del processo di generazione dei dati digitali comporta decisioni, giudizi, interpretazioni e azioni di esseri umani. Alcuni fenomeni sono selezionati  per essere raccolti come "dati" e altri no; alcuni dei dati raccolti sono considerati rilevanti e da analizzare, e altri ignorati; alcuni vengono presentati al pubblico e altri condannati all'invisibilità. Insieme alle loro soluzioni, sono prodotti per via algoritmica anche i problemi e le pratiche. Una volta che i dati siano stati generati, servono interpretazioni sul modo appropriato di classificarli, sul loro significato o sul modo migliore di  rappresentarli. Anche queste interpretazioni sono basate su decisioni soggettive. Pur essendo il risultato di azioni e decisioni umane, gli algoritmi che danno forma ai modi in cui i dati digitali sono raccolti e classificati posseggono anche una propria forza agente. Non si limitano a descrivere dati; formulano anche previsioni  e contribuiscono a configurare nuovi dati. I motori di ricerca, per esempio, posseggono quella che Rogers ha chiamato “autorità algoritmica" e agiscono come “macchine socioepistemologiche": stabiliscono quali fonti siano considerate importanti e rilevanti. Sono in larga misura gli algoritmi a decidere il ranking delle voci nei motori di ricerca e a garantire che alcune abbiano la precedenza su altre. E per questo che i risultati delle interrogazioni ai motori di ricerca sono considerati non semplicemente "informazioni", bensì dati sociali indicativi di rapporti di potere. Il sistema Google's Page Rank incide in modo determinante su quali pagine web appaiano in risposta a un certo termine di ricerca e sono pertanto visualizzate più spesso, e questa frequenza incide a sua volta sugli algoritmi che stabiliscono l'ordinamento delle pagine. Alcuni hanno sostenuto che i big data hanno messo in discussione gli stessi concetti tradizionali di sapere. Nell'economia globale della conoscenza digitale, il sapere quantificabile, suddivisibile in parti e ricercabile con l'aiuto delle tecnologie online, è considerato superiore ad altre forme del sapere. Al tempo stesso, le informazioni sono ormai illimitate e più difficili da circoscrivere. La logica alla base del potere predittivo e analitico dei big data vuole che, essendo impossibile stabilire in anticipo quali dati possano diventare cruciali, tutte le informazioni su chiunque siano considerate importanti. Di qui la necessità di generare e immagazzinare dati senza sosta. L'attività di data mining è di conseguenza tanto onnicomprensiva quanto speculativa. Ma i discorsi e le pratiche dei big data hanno generato anche nuovi modi di concettualizzare gli individui e i loro comportamenti. È stato sostenuto in effetti che, definiti dai dati che noi e gli altri raccogliamo su noi stessi, i nostri "sé informazionali" rappresenterebbero gli esseri umani come archivi di dati: "umani digitalizzati" o "macchine generatrici di dati". Secondo altri osservatori, la centralità dei big data avrebbe oggi l'effetto non solo di trasformare le persone in dati, ma anche di incoraggiarle a considerarsi come assemblaggi di dati prima che in ogni altro modo: “Stiamo diventando dati [...] Ne segue che abbiamo anche bisogno di riuscire a interpretare noi stessi come tali”. Non solo siamo presentati in questi discorsi come oggetti generatori di dati; in virtù dei dati commercialmente di valore che in quanto consumatori generiamo, siamo al tempo stesso anche merci. È oggi consueto dire, in relazione all'economia dei dati digitali, che «sei tu il prodotto». Gli stessi algoritmi sono costitutivi di nuovi tipi di sé: creano "identità algoritmiche". I dati digitali raccolti sulle popolazioni costituiscono uno strumento sui generis con cui costruire tipi specifici di assemblaggi di individui o popolazioni attingendo a più fonti. Gli algoritmi combinano tra loro più frammenti di questi dati. I dati digitali sono tratti dalle azioni e interazioni degli individui, e al contempo plasmano queste azioni e interazioni, o attraverso agenzie esterne che utilizzano i numeri per influire o agire sugli individui, o attraverso gli stessi individui che utilizzano i dati per modificare di conseguenza il proprio comportamento. Tra dati e comportamenti si stabilisce un circuito continuo. Grazie ai database digitali, gli individui e i gruppi sociali o le popolazioni sono trasformati in più aggregati manipolabili e modificabili in diversi modi a seconda degli aspetti oggetto di attenzione o di ricerca. I comportamenti e le disposizioni sono interpretati e valutati utilizzando dispositivi di misurazione, algoritmi complessi e le opportunità di visualizzazione offerte da queste tecnologie, cosicché si ottengono su individui, gruppi o popolazioni dettagli minuti. Poiché sono in grado di integrare un'ampia varietà di informazioni dettagliate tratte da diverse fonti, le misurazioni desunte dai database digitali rendono visibili aspetti degli individui e dei gruppi non altrimenti percepibili. Le organizzazioni utilizzano gli algoritmi per attribuire agli utenti tipi di identità (impiegando categorie come il genere, la razza, la posizione geografica, il livello di reddito e così via), e nel fare ciò ridefiniscono il significato di queste categorie. Non solo, l'analisi dei big data sta acquisendo un ruolo sempre più importante anche nell'identificazione  di certi comportamenti, attività o risultati come appropriati o "normali" e altri come lontani dalla norma. In conseguenza del potere retorico loro attribuito, i big data sono cioè considerati come arbitri in diritto di distinguere le pratiche e i comportamenti accettabili da quelli inaccettabili: in effetti, di dare forma alle definizioni  di "normalità". L'autorità algoritmica ha dunque anche qui conseguenze politiche ed economiche. I big data digitali hanno iniziato a modellare e definire i concetti di "pericoloso", "sicuro", "malsano", "rischioso", "al di sotto delle aspettative", "produttivo" e così via, producendo e riproducendo così nuove forme di valore. Attraverso gli assemblaggi di questi dati, e più precisamente mettendo a confronto gli individui con grandi quantità di dati aggregati, si definiscono le stesse norme. Se nel corso di questo processo di "normalizzazione" alcune persone o gruppi sociali sono identificati come "problemi", la soluzione è spesso individuata in dispositivi o tecnologie anch'essi digitali. Per esempio, per i pazienti che non hanno accesso a servizi sanitari, la soluzione consiste spesso nella fornitura di dispositivi digitali di automonitoraggio e cura di sé; agli studenti il cui rendimento risulti al di sotto delle loro possibilità sono raccomandati pacchetti digitali per l'apprendimento; e gli individui considerati una minaccia per la società sono obbligati a indossare un dispositivo RFID in grado di tenere traccia dei loro spostamenti. Gli algoritmi sono sempre più rilevanti anche per la produzione delle conoscenze e l'accesso a esse. Un significativo elemento introdotto da Google è la personalizzazione dell'esperienza della navigazione in internet, diversa infatti da utente a utente, ora che i risultati delle ricerche e i link dipendono dalla memorizzazione e manipolazione algoritmica delle queries da essi condotte in precedenza. Ne segue che «il motore di ricerca e l'utente diventano coautori» o, in altre parole, che “è l'utente stesso a produrre i risultati”. O si potrebbe anche dire che, poiché il motore di ricerca utilizza i propri algoritmi per determinare le risposte più appropriate a ciascun individuo alla luce della storia delle sue ricerche precedenti, uno stesso termine di ricerca può dare risultati diversi da utente a utente. Il potere che l'algoritmo esercita attraverso queste tecnologie consiste dunque in questo: che le precedenti interazioni con Google limitano i tipi di informazioni cui gli utenti possono accedere nelle loro ricerche nel web. E’ stato inoltre sostenuto che, in conseguenza dell'analisi predittiva, gli utilizzatori delle tecnologie digitali possono finire con il vivere in una "bolla dei filtri"  [filter bubble] o una "camera dell'eco" [echo chamber]. Se Amazon raccomanda continuamente ai propri clienti determinati libri alla luce delle loro rispettive ricerche passate o dei loro acquisti abituali, se il motore di ricerca di Google personalizza i risultati delle queries, se Facebook e Twitter indirizzano ai loro utenti le loro comunicazioni di direct marketing o suggeriscono loro possibili amici o follower alla luce di nuovo delle ricerche, dei like, dei commenti o dei gruppi di follower o amici precedenti, allora essi non faranno altro che avvalorare le vecchie opinioni, preferenze e prospettive dei loro utenti senza mai metterle in discussione. La funzione di completamento automatico di Google, che suggerisce la formulazione dei termini di ricerca prima che l’utente abbia finito di digitarli, dipende da algoritmi predittivi basati tanto sulle ricerche passate di tale utente quanto degli altri. Perciò utenti e software costituiscono insieme un assemblaggio digitale per la creazione e ricreazione di contenuti: per la co-produzione e la co-selezione dei contenuti rilevanti. Nel presentare l'autorità algoritmica come una sorta di "potere morbido" [soft power] all'opera nel contesto della biopolitica o del biopotere - la politica e i rapporti di potere che riguardano la regolazione, il monitoraggio e la gestione delle popolazioni di esseri umani -, Cheney-Lippold adotta una prospettiva foucaultiana. Nella formulazione dell'approccio della sorveglianza partecipata,  questa posizione teorica insiste sulla natura indiretta e volontaria della condiscendenza alle direttive disciplinari dell’autorità algoritmica. Sono disponibili diverse opzioni, e gli utenti sono invitati a scegliere tra queste nell’esercizio di un “confezionamento su misura delle condizioni di possibilità (esistenziali)”. Il soggetto digitale è reso intellegibile tramite le diverse forme di dati digitali prodotte su di lui utilizzando algoritmi, al pari delle condizioni di possibilità rese disponibili. Si tratta senza dubbio di una forma di potere, ma che prefigura e invita alla scelta (per quanto strutturando le opzioni generabili) sulla base delle azioni, credenze e preferenze precedenti e previste dell’utente. È bene sottolineare tuttavia che le identità algoritmiche non sono sempre legate soltanto a un biopotere morbido, bensì anche a forme di potere coercitive ed escludenti (un "biopotere duro"), come accade quando l'analisi predittiva è utilizzata per identificare e mantenere sotto controllo i potenziali criminali e terroristi, o per negare a certe categorie di individui l'accesso a servizi sociali e schemi assicurativi. Simili strategie sono caratteristiche di un approccio ban-optico alla sorveglianza, dato che consistono nell’individuare i gruppi o gli individui da considerare per qualche ragione un pericolo o una minaccia e nel cercare di controllarli, contenerli o escluderli da certi specifici spazi o sostegni sociali. Quando a strutturare i concetti di identità sono l'impenetrabile logica e il potere morbido degli algoritmi, è difficile ricorrere alle forme tradizionali di resistenza al biopotere. Le "scatole nere" costituite dai software e i protocolli di codifica che organizzano e ordinano le tecnologie digitali sono inesplorabili per gli utenti. Non sappiamo come gli algoritmi operino in quanto strumenti di sorveglianza delle nostre attività nel web o dei nostri movimenti nello spazio. Di fronte abbiamo soltanto i risultati dei calcoli algoritmici: certe scelte ci sono negate e altre offerte. È una forma di potere che è dunque difficile da riconoscere o contrastare. Possiamo essere in disaccordo con il modo in cui gli algoritmi definiscono l'identità, ma le opportunità per mettere in discussione o cambiare quelle definizioni sono poche, specie in un contesto nel quale la programmazione e la manipolazione dei dati sono considerate politicamente neutrali, autorevoli e sempre accurate. prima ancora che un utente pensi di fare una ricerca, Google Now prova a predire cosa gli occorra sapere e lo informa di conseguenza. Può per esempio utilizzare l'informazione secondo cui l'utente sta forse per prendere un aereo per inviargli automaticamente un messaggio sul possibile rinvio della partenza del volo, il clima nel luogo di destinazione e i migliori hotel in cui pernottare. E la stessa applicazione può anche (se cosi autorizzata dall'utente) informare amici e familiari sul luogo in cui si trova. Tuttavia, agli occhi di diversi osservatori dei media mainstream, le funzioni predittive di Google Now sono semplicemente "raccapriccianti”: monitorando e registrando dati sulle interazioni del suo utilizzatore e le sue voci in agenda, Google sembra sapere troppo su di lui. Cosi, il titolo di un post per la versione online di "Forbes" ha iperbolicamente definito le scoperte di questa applicazione «terrificanti, da brivido e agghiaccianti». La hybris dei big data e i dati deteriorati La locuzione "hybris dei big data" è stata proposta come definizione dell'«assunzione implicita secondo cui i big data dovrebbero sostituire, più che semplicemente integrare, i metodi tradizionali di raccolta e analisi dei dati». I big data ci assicurerebbero niente di meno di una nuova e superiore forma di conoscenza. Il problema però è che, secondo osservatori più critici, i big data avrebbero dei limiti, e solleverebbero problemi etici. È stato per esempio sostenuto che, se è vero che costituiscono insiemi di dati di dimensioni senza precedenti, resta poco chiara la loro utilità. Alcuni sociologi e ricercatori sociali di altro tipo hanno manifestato il timore di non possedere le competenze o risorse necessarie a lavorare con dataset digitali di enormi dimensioni. Ma anche gli analisti di dati di professione giudicano difficile e complicato procedere all'analisi di dataset così ampi e in continua crescita con gli strumenti analitici disponibili, non progettati in origine per l'esame di simili quantità di informazioni. La supposta precisione e la sistematicità dei grandi dataset sono qualità che conquistano e che spiegano in parte il potere e la risonanza culturale di questi dati, e tuttavia sono miraggi. Per quanto ampi, questi dataset non sono necessariamente "puliti", validi o affidabili. Con dataset enormi, il problema dei "dati sporchi", ossia incompleti o scorretti, diventa anzi più grave. Ma un dataset è inutile se non viene "pulito" o convertito in forme utilizzabili. Il punto è che garantire la "pulizia" e utilizzabilità dei big data e coinvolgere esperti davvero in grado di manipolarli può rivelarsi molto costoso. Oltre ad analizzare le metafore dei dati "grezzi" e "trattati" o "crudi" e "cotti", Boellstorff introduce anche, attingendo ancora all'opera dell'antropologo Claude Lévi-Strauss, il concetto di dati "putridi". È una metafora che allude alla possibilità che i dati digitali si trasformino in modi non voluti o immaginati dai loro creatori, ma che prende atto inoltre della materialità di questi dati e del rischio che il loro immagazzinamento possa determinarne il deterioramento o la distruzione. Il concetto di dati "putridi" richiama l'attenzione sull'impurità dei dati digitali, contraddicendo perciò le idee dominanti secondo cui sarebbero puliti, obiettivi e puri. La produzione, il trasferimento e lo stoccaggio di questi dati non avvengono in modi intrinsecamente sicuri. Le connessioni tra link non sono sempre senza intoppi e fluide. Se la metafora della "rete" o di "internet” (inter-rete) tende a suggerire l'idea di un collegamento o intreccio di fili o cordicelle, quelle di "interruzioni di rete" o "siti bloccati" dimostrano che questi collegamenti o intrecci possono smettere di funzionare, ingarbugliarsi e perciò diventare inservibili. La rete può "interrompersi" in diversi punti o perché un sito scompare, non viene aggiornato o è censurato dalle autorità, o perché i link non funzionano. Anche le assunzioni relative alla raccolta e all'interpretazione dei big data hanno bisogno di essere sottoposte ad analisi critiche. Come osserva Baym, «ora che i dati passano per autoevidenti e i big data sembrano poter mantenere la promessa della verità, ricordare che alcuni dati non sono visti e alcuni fenomeni non sono misurabili è più che mai essenziale». Le decisioni che si prendono in merito ai big data - quali siano importanti, come i fenomeni debbano essere concettualizzati perché li si possa tradurre in dati ecc. - servono a oscurare le ambiguità, le contraddizioni e i conflitti. Un esempio dei modi in cui i dati digitali possono essere corrotti è offerto dai siti Google Flu Trends e Google Dengue Trends. Google ha creato Flu Trends nel 2008 per dimostrare che è possibile utilizzare i suoi termini di ricerca per monitorare lo scoppio di malattie infettive come l'influenza. Il sito Dengue Trends è stato creato nel 2011 con un intento simile. Entrambi i siti utilizzano il numero delle ricerche quotidiane collegate a queste malattie per stimare il numero delle persone contagiate in un certo periodo e così fornire informazioni sull'eventuale scoppio di un'epidemia (le sue prime manifestazioni e il momento di picco) in teoria prima ancora che i centri di igiene e salute pubblica siano riusciti ad averne consapevolezza. Tuttavia, confrontando i propri dati con quelli ufficiali forniti dal US Center for Desease Control and Prevention (il Centro per il controllo e la prevenzione delle malattie americano), gli analisti di Google hanno scoperto che negli Stati Uniti, nei mesi interessati dall'epidemia invernale del 2012-2013, le loro previsioni avevano significativamente sovrastimato l'incidenza della malattia. In base all'ipotesi da essi stessi suggerita, all'origine di questa mancanza di precisione vi sarebbe stata la maggiore attenzione per l'argomento mostrata in quel periodo dai media, la quale avrebbe determinato a sua volta un aumento delle ricerche sull'influenza condotte su Google tra le persone in ansia, forse, per l'epidemia e desiderose perciò di saperne di più, ma che non avevano in realtà contratto il virus. I loro algoritmi dovettero dunque essere corretti perché tenessero conto di queste possibili impennate. È stato tuttavia sostenuto che Google Flu Trends resta significativamente impreciso nelle sue stime sull'influenza e non più utile dei modelli previsionali tradizionali. Non solo. È stato sottolineato che anche l'algoritmo di Google Search incide sui dati relativi all'epidemia influenzale che quest'ultimo produce in Google Flu Trends - anzi, è fatto in effetti per questo. Gli algoritmi del motore di ricerca di Google sono stati costruiti perché questo fornisca velocemente informazioni agli utenti. I risultati delle ricerche di un certo utente sono basati sulle sue ricerche precedenti e sulle ricerche degli altri. Se molte persone utilizzano un termine di ricerca particolare nel periodo in cui un certo utente decide di fare una ricerca con lo stesso termine, la rilevanza relativa di determinate ricerche risulterà ancora maggiore. Ciò vale naturalmente anche per le ricerche su termini come "influenza", "epidemia influenzale" ecc. (e in effetti ogni altro), che dunque non possono essere considerati indicatori validi del diffondersi di una malattia. Detto in altre parole, «il comportamento di ricerca non è determinato solo esogenamente, ma anche alimentato endogenamente dal provider». È un chiaro esempio del potere algoritmico dei software del tipo dei motori di ricerca e del ruolo che essi svolgono nella produzione della conoscenza. Alcuni ricercatori sociali si sono soffermati anche sulla superficialità dei big data, sostenendo che il crescente ricorso a questi dati nell'interpretazione dei comportamenti e delle identità sociali serve a escludere dal quadro le molte complessità, contraddizioni e interconnessioni dei fenomeni, con il risultato che se ne perde il significato stesso. Nonostante la loro reputazione di vie d'accesso a un sapere superiore, i big data non consentono grandi intuizioni sul perché la gente agisce come agisce. Talvolta si contrappongono loro i dati cosiddetti small (piccoli), deep (profondi), thick (densi) o wide (a largo raggio); quattro definizioni che vanno intese come una risposta al "grande" dei big data, e il cui obiettivo è ribadire che la sovrabbondanza di dati non è sempre un bene. Per small data si intendono in genere le informazioni personalizzate che gli individui raccolgono su se stessi e il loro ambiente per scopi personali; sono deep data le informazioni dettagliate, approfondite spesso ricavate da fonti qualitative anziché quantitative; la definizione di  wide data è stata utilizzata per descrivere diverse forme di raccolta dei dati e il loro uso congiunto; e infine l'espressione thick data serve a sottolineare la contestualità dei dati, l'impossibilità di interpretarli correttamente se non in riferimento ai contesti in cui sono stati generati e impiegati.  L'etica dei big data I big data hanno anche molte importanti implicazioni etiche e politiche. Per descrivere i risultati ottenuti da imprese e agenzie dello stato tramite l'utilizzo di big data si ricorre oggi talvolta alle definizioni di  good e bad data (dati "buoni" e "cattivi”). Sono "good" i dati che assicurano vantaggi alle imprese commerciali e alle agenzie pubbliche, contribuiscono alla realizzazione di ricerche importanti (relative a temi medici, per esempio) e consentono di evitare che certi provvedimenti per la difesa e la sicurezza nazionale nuocciano ai consumatori e ai cittadini o violino la loro privacy o le loro libertà civili (i dati che lo facessero sarebbero definiti "bad"). I dibattiti sui "diluvi" o gli "tsunami" di dati - o meno drammaticamente sulla natura dinamica e interrelata dei dati digitali e sulla loro tendenza alla moltiplicazione - alimentano le preoccupazioni per la privacy e la sicurezza dei dati. Stando a certe stime, l'introduzione dei metodi di sorveglianza digitale avrebbe portato a più di venti i modi in cui negli Stati Uniti si raccolgono informazioni sui singoli cittadini, il doppio rispetto a quindici anni fa. I broker di dati vendono informazioni private - l'indirizzo di casa dei funzionari di polizia, se una certa persona sia stata vittima di stupro, se un'altra soffra di qualche malattia genetica, abbia un cancro o l'Hiv/Aids ecc. - traendole da dababase raccolti da altri soggetti. Per quanto molti dataset digitali eliminino le informazioni personali - nomi e indirizzi per esempio -, l'incrocio di più di questi insiemi relativi alle stesse persone può finire con il restituire a tutte la loro identità. Molti sviluppatori di app conservano i loro dati su una  computing cloud, ma non tutti gli individui rimuovono i propri identificatori dai dati che caricano. Diverse società sviluppatrici di tecnologie di automonitoraggio stanno ora vendendo i loro dispositivi e i relativi dati sia ai datori di lavoro nell'ambito di "programmi di benessere" sul posto di lavoro, sia alle assicurazioni sanitarie interessate a identificare i modelli di comportamento dei loro clienti in fatto di salute. Alcune assicurazioni offrono ai loro assicurati la tecnologia necessaria a caricare su piattaforme create dalle stesse compagnie dati relativi alla loro salute e alle cure ricevute. I dati biometrici raccolti dalle persone che si automonitorano sono considerati dalle imprese private e dalle agenzie dello Stato uno strumento con cui controllare gli individui e ridurre i costi per le cure mediche. Le assicurazioni sanitarie e i datori di lavoro americani hanno già iniziato a utilizzare i dispositivi di automonitoraggio e siti che sollecitano gli utenti a comunicare dati sulla propria salute come strumenti per "incentivare" clienti e dipendenti ad assumere comportamenti considerati sani. Questi strumenti interrogano assicurati e lavoratori sulle loro condizioni di salute, il loro stato civile (se siano separati o divorziati), le loro condizioni economiche, il grado di tensione sul posto di lavoro e la natura dei rapporti con i colleghi. Chi si rifiuta di partecipare a questi programmi può vedersi imporre dalla compagnia assicurativa il pagamento di un pesante sovrapprezzo. Resta da capire quale sarà un domani il legame tra i dati relativi alla salute degli utenti e le politiche adottate dalle loro assicurazioni sanitarie su queste piattaforme, e cosa accadrà se in futuro le assicurazioni sanitarie acquisiranno il controllo dei dati di queste app di automonitoraggio acquistando gli stessi software. Fino a pochissimo tempo fa, gli utilizzatori di applicazioni per dispositivi mobili consideravano private le informazioni conservate su di esse: non capivano che gli sviluppatori di questi software utilizzano spesso le informazioni ottenute per i loro scopi, anche vendendole a terzi. I creatori di applicazioni e piattaforme non si preoccupano sempre di proteggere i dati, spesso molto personali, che questi strumenti raccolgono, neppure quando si tratta di dati relativi alle pratiche sessuali, ai partner e alle funzioni riproduttive dei loro utenti. Per esempio, un recente studio sulla tutela della privacy garantita dalle app per cellulare relative alla salute e alla forma fisica ha scoperto che molte non se n'erano curate affatto, poche avevano fatto in modo di criptare i dati raccolti, e molte altre avevano inviato le informazioni ottenute a terzi senza informare gli utenti. Le informazioni segrete rivelate dai documenti fatti filtrare da Edward Snowden hanno dimostrato una volta di più che i dati privati conservati nei database delle imprese commerciali e dello Stato sono decisamente meno sicuri di quanto molti pensino. La privacy dei database di proprietà delle agenzie statali è stata oggetto di numerose violazioni e si discute ancora con preoccupazione su chi abbia diritto di accedere a questi dati. Le iniziative nazionali volte a raccogliere in database giganti tutte le cartelle cliniche dei pazienti sono state per esempio oggetto di conflitti. E secondo Garrety e i suoi colleghi non può essere che così, considerato che esse sfidano i principi sociali, morali e medico-legali che governano la compilazione, la proprietà e l'uso di questi documenti e la responsabilità della loro custodia. I tentativi dei policy-maker di fare passare simili iniziative a dispetto di queste assunzioni e significati alimentano l'ostilità degli stakeholder chiave e le loro resistenze, ma sono d'intralcio alla digitalizzazione di questi documenti anche i frequenti conflitti tra i vari gruppi coinvolti, ciascuno guidato dai propri interessi e priorità. L'iniziativa "care.data" dell'HNS è diventata il bersaglio di innumerevoli commenti negativi non appena è emerso che i dati raccolti sarebbero stati venduti a imprese commerciali. I contestatori hanno iniziato a chiedersi se non fosse stato in effetti questo il motivo principale per costruire il database, e fino a che punto sarebbero stati allora garantiti la sicurezza e l'anonimato dei dati, e hanno denunciato la mancanza di informazioni ai pazienti riguardo al loro diritto di uscire dal sistema e la complessità delle procedure per farlo. Una ricerca realizzata dalla Wellcome Trust basata anche su interviste ai cittadini riguardo all'uso dei loro dati personali ha scoperto che molti di questi erano dell'idea che condividere informazioni nel contesto della sanità pubblica sarebbe probabilmente andato a vantaggio dei pazienti (consentendo a tutti i medici di accedere allo stesso insieme di cartelle), ma anche che la natura sensibile e spesso assolutamente personale di quelle informazioni avrebbe richiesto una loro forte protezione. Secondo molti degli intervistati, sarebbe stato un errore condividerle con soggetti esterni al NHS, e più che mai cederle ad assicurazioni sanitarie private, datori di lavoro e case farmaceutiche. Che gli utenti abbiano perso il controllo dei propri dati è oggi un tema affrontato tanto nei più popolari forum online quanto nei servizi della stampa su questi argomenti. Per esempio, alcune delle persone che hanno scelto di automonitorarsi utilizzando dispositivi digitali hanno iniziato a chiedere come i loro dati vengano impiegati e a rivendicare la possibilità di utilizzarli e manipolarli per i propri scopi. Pur limitandosi a quelli gestiti dalle agenzie pubbliche, anche il movimento per gli open data insiste sull'accesso aperto ai grandi database. Tuttavia, molti grandi dataset, e in particolar modo quelli raccolti dalle imprese dell'e-commerce - le più consapevoli del valore economico dei dati in loro possesso -, stanno diventando al contrario sempre più inaccessibili. Anche gli stati stanno iniziando a prendere in considerazione i vantaggi economici della privatizzazione dei dati che raccolgono sui loro cittadini, passando dalla modalità di pubblicazione open access alla soluzione dell'utilizzo a pagamento. Lo stato inglese, per esempio, ha venduto, nell'ambito della privatizzazione della Royal Mail, l'elenco dei codici postali e degli indirizzi dei cittadini, una scelta che il Public Administration Committee della Camera dei Comuni, tenace sostenitore dell'accesso aperto ai dati pubblici, ha aspramente criticato. Le informazioni controllate dalla Royal Mail sarebbero dovute restare un bene pubblico nazionale, come del resto tutti i dati raccolti da enti pubblici. E infine, i big data possono avere effetti diretti sulla libertà delle persone e sui diritti dei cittadini. Crawford e Schultz, per esempio, ritengono che l'analisi predittiva possa causare quelli che essi definiscono «danni predittivi alla privacy». Le analisi dei big data si basano spesso su metadati anziché sul contenuto dei dati, e tutte le volte in cui lo fanno sfuggono di fatto alle leggi a tutela della privacy oggi in vigore. I danni predittivi alla privacy possono consistere, per esempio, in pregiudizi o discriminazioni a danno di individui o gruppi identificati con l'analisi predittiva dei big data e l'incrocio di più dataset. Le persone sono di rado consapevoli della possibilità che i loro metadati vengano interpretati ricorrendo a più dataset in precedenza separati: non sanno che attraverso questi incroci è possibile scoprire la loro identità, le loro abitudini e preferenze e persino le loro condizioni di salute, e produrre informazioni sul loro conto potenzialmente rilevanti per il loro destino lavorativo e/o l'accesso a sussidi pubblici o alla sicurezza sociale. Suscita inoltre preoccupazione la possibilità che i big data siano utilizzati per costruire profili razziali o di altro questa definizione. Essa tenderebbe infatti ad avallare un approccio semplicistico a quelle differenze. Per esempio, secondo Halford e Savage, induce chi la utilizza a separare "il sociale" dal "tecnologico". Il punto è che, per capire la disuguaglianza sociale e il diverso accesso alle tecnologie digitali, è necessario al contrario riconoscere il loro intrecciarsi e la loro natura dinamica. La prima agisce per costituire il secondo e viceversa, ma ciò avviene in un processo fluido e instabile. Halford e Savage propongono dunque di sostituire al concetto di digital divide quello di "disuguaglianza sociale digitale", che insiste infatti sull'interconnessione tra i due fenomeni - lo svantaggio sociale e l'esclusione dalle tecnologie digitali. Non solo. Halford e Savage ritengono scorretto anche vedere nell'accesso e nell'uso di queste tecnologie l'esito di un processo unidirezionale (dallo svantaggio sociale all'esclusione); il rapporto tra fattori sociali strutturali e fruizione delle tecnologie andrebbe piuttosto concepito nei termini di una causazione reciproca o "co-costituzione" come essi scrivono. Alludendo a un singolo "divario digitale" si oscurano inoltre i molti lati dell'accesso alle tecnologie informatiche e del loro utilizzo. Percepire un reddito sufficiente ad acquistare i dispositivi desiderati e connettersi al web, o vivere in una regione in cui l'accesso a internet è possibile e agevole sono chiaramente due fattori rilevanti dal punto di vista della fruizione delle tecnologie digitali. Un fattore in qualche misura meno ovvio è cosa di preciso si faccia quando l'accesso non costituisce in principio un problema. Sono state individuate dunque quattro dimensioni delle barriere d'accesso alle tecnologie digitali:  • la mancanza di esperienza informatica anche di livello elementare, in conseguenza dello scarso interesse per internet, dell'ansia che l'utilizzo delle tecnologie digitali può provocare, e del senso di estraneità suscitato dal loro design; • l'impossibilità di accedere alle tecnologie o perché non si posseggono dispositivi digitali, o perché si è privi di una connessione a internet; • l'incompetenza dovuta alla poca pratica o alla mancanza di dimestichezza con le tecnologie più nuove; • la mancanza di occasioni di uso per vincoli di tempo o in conseguenza di rivalità nell'accesso alle apparecchiature a casa o sul lavoro. In ogni caso, risultano divari di competenze e pratiche anche a parità di grado di accesso alle tecnologie e di interesse per la loro fruizione. Le persone di reddito basso e meno istruite utilizzano le tecnologie digitali in modi diversi rispetto alle persone benestanti e più colte. Solo queste ultime, infatti, sono in grado di sfruttare queste tecnologie per accrescere il proprio capitale culturale ed economico e salire nella scala sociale, ossia, in poche parole, per mantenere il loro vantaggio. Come più ricerche hanno dimostrato, gli individui di bassa istruzione, benché possano, nel tempo libero, restare online più a lungo delle persone con livelli di istruzione più elevati, lo fanno comunque a loro modo, per esempio dedicandosi alle interazioni sociali o al gioco più che alla propria formazione culturale, alla ricerca di informazioni o alla soluzione di problemi di lavoro, in breve più che alle cosiddette "attività che accrescono il capitale". Le tecnologie digitali non sono oggetti neutrali: sono investite di significati connessi ad aspetti come il genere, la classe sociale, la razza o etnia, e l'età. Può essere difficile opporsi o avere la meglio su questi significati persino per le persone per le quali farlo è un obiettivo politico esplicito. Lo mostra bene lo studio di Dunbar-Hester su un gruppo di attivisti dei media, di base a Filadelfia, il cui obiettivo era allargare l'accesso alle tecnologie della comunicazione e accrescere le competenze necessarie a utilizzarle, o anche "demistificare" le tecnologie mediali intraprendendo attività pedagogiche relative alla radio e alle tecnologie wi-fi di comunità a beneficio dei gruppi tradizionalmente esclusi. Come tuttavia Dunbar-Hester osserva, sebbene in genere aperte al cambiamento, le identità sociali non sono infinitamente fluide. Le strutturano gli stessi incontri con le tecnologie, nelle loro dimensioni discorsive e materiali. Gli attivisti dei media del suo studio scoprirono cioè che, nonostante tutti i loro sforzi a sostegno delle persone tradizionalmente escluse dall'uso delle tecnologie digitali e in generale della comunicazione (delle persone cioè che non si conformavano all’identità sociale del maschio bianco), gli stereotipi di genere e razziali connessi a queste tecnologie sono duri a morire. Vi sono persone che semplicemente negano, alle tecnologie digitali, un qualche rilievo per la loro esistenza. È cosi in particolare per i più anziani, i quali accennano spesso al loro scarso interesse per l'uso di questi strumenti. Pochi studi in profondità hanno cercato di verificare cosa questo disinteresse nasconda. Esiste tuttavia uno studio finlandese incentrato sull'esame delle spiegazioni del rifiuto di utilizzare internet redatte da un gruppo di persone di sessant'anni e oltre. Essi avrebbero visto nel computer uno strumento o arnese certamente raffinato, ma inutile nel contesto delle loro vite quotidiane, incapace di offrire loro qualcosa di meglio rispetto ad altri strumenti più familiari, come le mani, le penne, le matite o il loro stesso cervello. L'idea che il computer possa dare accesso a un mondo virtuale in cui interagire con altri o procurarsi informazioni era loro estranea. Essi tendevano anche a rappresentare i computer e internet come strumenti nocivi, capaci di causare dipendenze e di indurre a privarsi di altri tipi di esperienze, o anche, talvolta, come un pericolo, una minaccia ad aspetti importanti dell'esistenza, come la disponibilità di tempo, la sicurezza, la vita semplice, le competenze tradizionali e i contatti umani faccia a faccia. Le rappresentazioni popolari degli utenti di internet nei paesi sviluppati tendono a dipingere i giovani come "nativi digitali", utilizzatori delle tecnologie digitali e in particolare di cellulari e social network - appassionati, instancabili e competenti. Questa rappresentazione tace tuttavia della consistente quota di giovani che non utilizzano queste tecnologie tanto intensamente. Uno studio sui giovani adulti statunitensi di 18-23 anni ha scoperto che, nel 2013, tendevano a utilizzare poco i social media i giovani con responsabilità di cura (nei confronti di figli o altri membri della famiglia), in condizioni di insicurezza economica, precarietà lavorativa o con percorsi di istruzione interrotti, dipendenti dall'aiuto economico delle famiglie, o concentrati sulla ricerca o la conservazione di un posto di lavoro anziché sulla coltivazione di una carriera. Alcuni di questi non-utenti non avevano a disposizione alcun computer. Tuttavia, a quanto pare, essi condividevano spesso queste condizioni di vita con altri membri della famiglia, i quali è possibile abbiano limitato le loro opportunità di fruire di social media. Diversi partecipanti allo studio dubitavano inoltre della propria capacità di utilizzare un computer, erano socialmente isolati e con pochi amici, o avevano rapporti difficili con la famiglia. Gli autori della ricerca ne hanno concluso che, tra i giovani adulti, il mancato utilizzo dei social media può essere sia una conseguenza sia una causa dello svantaggio e dell'isolamento sociale. Anche le affordance di certe piattaforme e le caratteristiche di determinati utenti incidono notevolmente sulle ragioni e sulle modalità con cui il resto della popolazione le utilizza. Via via che i più anziani passano a social media come Facebook, i più giovani (e in particolare i figli o nipoti di questi stessi anziani) tendono ad allontanarsene. Facebook ha rivelato, nel novembre del 2013, che il numero di adolescenti frequentatori quotidiani del sito era in calo. In effetti, i giovani stavano proprio allora iniziando a utilizzare, in alternativa ai social media mainstream, app di messaggistica per telefoni mobili come WhatsApp, Pinger e WeChat. Poiché consentono di interagire soltanto con chi si desidera e condividere immagini in fori non pubblici costituiti esclusivamente dai destinatari prescelti, queste applicazioni garantiscono agli utenti una privacy maggiore. Ma i giovani apprezzano anche che i messaggi e le immagini condivise non restino archiviate nel web per sempre, come accade invece per quelli pubblicati su altri social media. Anche la materialità del design di software e hardware è spesso trascurata nell'analisi delle disuguaglianze sociali digitali, benché si tratti, se non altro per le persone disabili, di un aspetto di indubbio rilievo. La quota di queste persone che utilizzano tecnologie digitali è inferiore a quella delle persone che non soffrono di disabilità in base a inchieste campionarie sia inglesi sia statunitensi. In che misura questo divario dipenda dalla disabilità o invece dalle condizioni di svantaggio economico in cui le persone disabili rischiano di trovarsi più spesso delle altre non è tuttavia chiaro. Tra gli aspetti positivi, va ricordato che le persone con disabilità che utilizzano di fatto tecnologie digitali riferiscono spesso di avere recuperato, grazie a queste tecnologie, la possibilità di comunicare, esprimere se stesse e intrattenere rapporti sociali. In Ginsburg è citato il caso di un'americana affetta da autismo che era incapace di comunicare verbalmente, ma che riusciva a mostrare il suo modo di vedere il mondo e a dare espressione al proprio vissuto utilizzando YouTube con grande efficacia. Lo studio ha inoltre rilevato che le persone con disabilità frequentavano spesso e con soddisfazione il mondo virtuale di Second Life, di cui esse si sarebbero servite soprattutto per interagire con altri e alleviare così l'isolamento sociale in cui avrebbero altrimenti vissuto. Ginsburg registrava anche, nel 2012, il moltiplicarsi delle iniziative di sostegno alle persone con handicap disponibili online: network di attivisti, blog sull'esperienza della disabilità, e gruppi per persone disabili nei social media. Come ricordano Ellis e Goggin, Twitter ha un notevole successo tra le persone con problemi di vista perché le tecnologie audio che offre agli utenti consentono di trasformare i tweet in messaggi vocali. Alcuni smartphone e tablet sono dotati di tecnologie grazie alle quali risultano di facile uso anche per i ciechi o ipovedenti e per le persone con problemi di mobilità. E infine, secondo Ellis e Goggin, giocherebbero oggi un ruolo importante anche i gruppi di sostegno (spesso su Facebook), Second Life, YouTube e i blog personali (anche audio e video). Queste piattaforme consentirebbero infatti alle persone con disabilità di presentarsi in modi alternativi a quelli stigmatizzanti e limitanti proposti in altri contesti della cultura popolare. Sennonché, dal lato delle cose negative, va osservato che il design di certi dispositivi può al contrario ridurre la loro fruibilità per le persone disabili. Sono per esempio di difficile uso per queste persone molte piattaforme di social media, e in questo senso sono un'altra causa, per loro, di esclusione sociale. Al pari delle caratteristiche degli altri contesti fisici con cui gli individui con handicap hanno a che fare, il design delle tecnologie digitali può in effetti configurare la disabilità, nella sua indifferenza alla questione delle possibilità di accesso per un numero elevato di utenti caratterizzati da un'ampia gamma di peculiarità fisiche. Aspetti di genere delle tecnologie Sugli aspetti di genere delle tecnologie digitali e della loro fruizione esiste ormai una letteratura assai ampia, una parte della quale - di tipo critico - elaborata nel corso degli anni ottanta e novanta del secolo passato da studiose sostenitrici di un approccio "cyberfemminista". Dobbiamo a Donna Haraway la costruzione di un approccio femminista alle tecnologie informatiche che sia riconosce la differenza e diversità sia interpreta il rapporto esseri umani-computer assegnando un ruolo anche agli agenti materiali. Il suo concetto di cyborg pone al centro dell'attenzione il corpo e le sue permutazioni, differenze e ambivalenze - le sue configurazioni performative - in quanto oggetto di critica e azione politica. Haraway difende, cioè, una concezione del soggetto/corpo per la quale esso è inevitabilmente diviso e contraddittorio e condizione perciò di ambivalenze e ambiguità, una concezione che l'autrice ha presentato come preziosa tanto per la critica femminista quanto per quella tecnoscientifica. In sostanza, ciò che Haraway intendeva sostenere con la metafora del cyborg è che i corpi umani non sono essenze, non possono essere facilmente categorizzati come una cosa o l'altra entro una definizione binaria, una tesi che è la sintesi di una teoria femminista e marxista della tecnoscienza tradotta in una politica femminista di stampo socialista. Le cyberfemministe che si sono ispirate al lavoro di Haraway supponevano che il futuro avrebbe portato con sé un mondo mediato dalle tecnologie nel quale il genere (insieme ad altri attributi legati al corpo) avrebbe smesso di vincolare la scelta e l'azione. Come molti altri studiosi dei cyborg e delle cyberculture, alcune femministe hanno concepito, cioè, il cyberspazio come uno spazio virtuale di libertà e superamento del corpo, identità di genere comprese. Colpite dall'anonimato di cui si gode in internet, dove nessuno può identificare il nostro genere, età, razza, o alcun altro tratto fisico rivelatore della nostra identità, alcune cyberfemministe hanno salutato con entusiasmo l'opportunità di impegnarsi nell'uso delle tecnologie informatiche al riparo dalle assunzioni di genere sulle loro capacità. Utilizzare il computer è stato considerato un modo per riprendersi la tecnologia dagli uomini. Nel corso degli anni novanta del secolo scorso, si è per esempio molto parlato di un futuro utopistico nel quale poter dimenticare, entrando nella realtà virtuale del cyberspazio o nelle comunità di gioco online, il wetware del corpo in carne e ossa. Alcune donne scelsero persino di utilizzare nomi maschili nell'impegnarsi in quelle attività proprio nel tentativo di sperimentare identità di genere diverse. Un modo per comprendere l'interazione tra genere e utilizzo delle tecnologie consiste nel mettere in luce la natura performativa e vincolante dell'uno e dell'altro, nonché dei loro inestricabili significati. Il genere e le tecnologie digitali «sono sia discorsi sia apparati che potenziano/limitano il nostro agire online. Ciascun apparato è un'articolazione del mezzo-corpo». In quanto tale, l'agire di un utente delle tecnologie digitali è plasmato sia dal design e dal significato del dispositivo utilizzato, sia dall'agire degli altri utenti insieme ai significati da essi attribuiti alle tecnologie. Queste ultime riproducono le norme di genere (e le norme e gli stereotipi relativi all'età, alla razza e all'etnia) e le rafforzano. Dunque, come alcune cyberfemministe hanno sostenuto, pratiche come utilizzare nomi maschili nel connettersi a internet non fanno altro che rafforzare l'idea che il cyberspazio sia un luogo del privilegio e delle prerogative maschili, ed è per questo che tali pratiche non sono riuscite a mettere in discussione i rapporti di potere e le disuguaglianze esistenti. Queste studiose cioè hanno richiamato l'attenzione sulla natura maschile dei discorsi sul cyberspazio, nel tentativo di trovare nuove e alternative strade di riflessione. Una di queste, per esempio, è consistita nella realizzazione di opere d'arte che re-immaginassero le cyberculture in modi palesemente femminilizzati e sessualizzati per sottolineare la natura carnale di queste tecnologie. Il cyborg reimmaginato dalle cyberfemministe che hanno scelto questa strada si presentava perciò come una figura carica di connotazioni intensamente sessuali, traboccante di piacere erotico per la trasgressione dei confini del corpo, la fluidità di questo e la fusione emotiva e sensuale dell’organismo umano con la tecnologia. Come molte studiose femministe hanno affermato, le norme relative al genere incidono senz’altro sui modi in cui le donne e gli uomini utilizzano le tecnologie digitali, per esempio influenzando le loro preferenze per le une o le altre. Ma vale anche il contrario: anche il design delle tecnologie sostiene le assunzioni e le norme di genere. Il rapporto tra internet e l'industria militare da un lato e dall'altro i discorsi sui cyberpunk, il cyberspazio e gli hacker cosi comuni negli anni ottanta e novanta dello scorso secolo facevano del cyber-mondo invariabilmente un universo maschile. Al tempo delle prime tecnologie informatiche, le operazioni di codifica, programmazione e costruzione dei dispositivi passavano per pratiche maschili più che femminili, per le quali sarebbero state indispensabili competenze tecniche e matematiche "esoteriche". Mentre ai ragazzi si insegnano le competenze tecniche propedeutiche all'elettronica, le ragazze sono spesso ancora escluse da questo percorso di studi: è dunque a età precoci che ha origine la differenza di genere in competenze e sicurezza di sé nell'uso delle tecnologie digitali. Da quando i computer sono diventati un bene commerciabile, molti studi hanno provato a dimostrare che le donne sono in genere meno portate per l'informatica degli uomini, più tecnofobiche e meno competenti e sicure di sé nell'uso del computer. L'utente/esperto archetipico è da tempo un giovane di sesso maschile, di classe media e bianco (ma di tanto in tanto anche asiatico) che parla inglese. Anche gli hacker sono immaginati in genere come di sesso maschile, bianchi, molto intelligenti e superesperti, benché anche mossi - è vero - da intenti malvagi o criminali. Ma è maschio e di pelle bianca anche il prototipo del nerd o geek (secchione informatico): di nuovo estremamente intelligente e preparato, benché fisicamente poco attraente, impacciato in società e senza amici. Poiché sono di fatto insistentemente negativi, questi ultimi archetipi possono finire con il dissuadere altri dal collocarsi tra gli esperti o mortificare persino l’aspirazione ad acquisire le competenze necessarie. In effetti, non sono solo le donne a essere collocate, in queste rappresentazioni, agli guardarle da più punti di vista. Questa ricerca sul campo è stata tuttavia realizzata prima dell'avvento del Web 2.0. La successiva straordinaria diffusione dei media digitali e la nascita dei social media hanno spinto gli studiosi dei mezzi di comunicazione a «”ripensare” l'etnografia e la pratica etnografica» e a riconoscere la loro diversità. Nel tentativo di conoscere nel profondo le dimensioni culturali e sociali dei modi in cui gli individui utilizzano le tecnologie online, gli antropologi del digitale hanno sviluppato nuove maniere di affrontare la ricerca etnografica. Per esempio, Postill e Pink hanno studiato i modi in cui certi gruppi militanti di Barcellona utilizzavano i social media trasferendosi per un certo periodo in questa città e sottoponendo questi gruppi a un'osservazione prolungata. Essi hanno analizzato il contenuto dei testi da loro postati e/o condivisi su Facebook, Twitter, i blog e YouTube, intervistato alcuni dei loro membri, partecipato a eventi, e cercato siti di informazione online con qualche rapporto con le attività e gli interessi dei gruppi studiati. Come osservano gli stessi ricercatori, il "campo" dello studio o della ricerca sui social media è costituito non solo da più piattaforme del web, ma anche da diversi contesti offline. Per conoscere le attività dei gruppi militanti di Barcellona, essi hanno dovuto cioè non soltanto analizzare ciò che quei gruppi facevano e producevano online, ma anche avere con loro interazioni faccia a faccia. Al di fuori del mondo anglosassone, vi sono profonde differenze tra i contesti culturali in cui le persone hanno (o no) a che fare con le tecnologie digitali e con le regole da seguire nell'utilizzarle. Diversi fattori contribuiscono a strutturare la fruizione del digitale all'interno e tra gruppi sociali: l'offerta di infrastrutture, i livelli di istruzione dei vari gruppi, le idee diverse da cultura a cultura sugli individui in diritto di accedere alle tecnologie, e molti altri. Goggin e McLelland hanno illustrato questo punto mettendo a confronto le esperienze di due adolescenti appartenenti a contesti culturali profondamente diversi: una ragazza di Tokyo e una ragazza dei territori occupati palestinesi. Al tempo della ricerca, la prima era in grado di utilizzare con disinvoltura diversi dispositivi digitali, aveva anni di esperienza, respirava una cultura che aveva accolto le tecnologie digitali da diversi decenni e aveva accesso a tutti gli ultimi dispositivi. La seconda non sapeva scrivere neppure nella sua lingua e stava cercando di connettersi a internet per la prima volta. Benché disponesse delle tecnologie, non possedeva le nozioni di base necessarie a farne uso. Perciò "internet" non è un fenomeno universale uguale in tutte le regioni e culture: ha storie e configurazioni diverse nei diversi paesi. Né sono soltanto le assunzioni e credenze relative alla sua fruizione a cambiare da un contesto culturale all'altro; variano anche da luogo a luogo le infrastrutture materiali a disposizione degli utenti: la velocità di download, il tipo di connessione disponibile (a banda larga o no), l'offerta di energia elettrica e l'affidabilità della fornitura, il costo dei pacchetti di software e dei dispositivi, le norme dello Stato sull'accesso dei cittadini a internet e così via. In diversi paesi asiatici, per esempio, i personal computer hanno fatto la loro prima comparsa nelle case (delle famiglie di classe media) anziché sul luogo di lavoro, e di conseguenza li si è considerati, almeno nei primi tempi, principalmente come strumenti al servizio della famiglia più che del mondo produttivo, utili in particolare ad assistere i giovani nel loro percorso di studi e a connettersi a internet. Si possono trovare illustrazioni delle differenze culturali e storiche tra i modi di utilizzare le tecnologie digitali nelle varie regioni del mondo in numerosi studi. In Goggin e McLelland, per esempio, si osserva tra l'altro che se i paesi anglosassoni erano nel primo decennio di questo secolo in vantaggio sul Giappone dal punto di vista della diffusione dei personal computer, in Giappone si era imposto con anni di anticipo l'uso di cellulari di produzione nazionale in grado di connettersi a internet. Anche in Corea del Sud i telefoni con l'accesso a internet si sono diffusi, insieme alla banda larga, molto prima che negli Stati Uniti e in altri paesi occidentali, un successo reso possibile dalla forte densità della popolazione e dalla favorevole topografia del territorio. Bell e Dourish osservano allo stesso modo che Singapore ha potuto spiccare per diffusione delle tecnologie informatiche perché è una piccola nazione insulare essenzialmente urbana, abitata da una popolazione relativamente ricca e con un elevato livello di alfabetizzazione tecnologica, e governata da autorità politiche fortemente regolatrici della vita quotidiana dei cittadini. Come ha scoperto la survey di Google Our Mobile Planet sulla diffusione degli smartphone nel mondo, nel 2013 i singaporiani e i sudcoreani erano in questo in vetta alla classifica insieme agli abitanti degli Emirati Arabi Uniti e dell'Arabia Saudita. E tuttavia a Singapore e in Corea del Sud la trasformazione rispettivamente in "intelligent island” o "smart nation" tecnologicamente connesse è stata accompagnata da un crescente controllo, disciplinamento e sorveglianza dello Stato sull'accesso e l'utilizzo di internet da parte dei cittadini, anche tramite la regolamentazione e la censura dei siti web. Dobbiamo agli studi di antropologia digitale anche la descrizione dei processi in virtù dei quali certi dispositivi e piattaforme digitali possono caricarsi di significati che resistono a quelli voluti dagli sviluppatori o li modificano. Bell racconta per esempio che in certe comunità cinesi si offrono agli antenati defunti copie in carta di dispositivi digitali come gli iPhone e gli iPad, in segno d'amore, pietà o rispetto. Simboli certamente di ricchezza e della cultura occidentale, queste copie assolvono tuttavia anche un compito più spirituale: rappresentano dispositivi messi a disposizione dei defunti perché possano comunicare tra loro come facevano nel mondo dei vivi. In altre parole, smartphone e tablet assumono in questo contesto una forma simbolica che i loro sviluppatori non avevano assolutamente né progettato né immaginato. Con Dourish, Bell ha preso in esame anche il design di un cellulare destinato ai musulmani che consente di localizzare la Mecca, leggere il Corano o ascoltarne la lettura, sentire in diretta le chiamate alla preghiera dalla Mecca e ricevere un avviso per i momenti della preghiera. Trasformato, grazie a queste funzioni, in un ausilio alla pratica della fede, questo dispositivo ha anche, chiaramente, un significato spirituale. Christie e Verran si sono occupati, dal canto loro, dei modi in cui le comunità aborigene Yolngu utilizzano le tecnologie digitali nell'archiviazione di elementi della loro cultura, proponendo, a definizione di questi modi, la locuzione di "vite digitali postcoloniali", ossia "vite digitali" resistenti alle spinte colonizzatrici che mirano a separare i popoli dal luogo. Riconoscendo che i database digitali che costituiscono gli archivi riproducono le pratiche ordinatrici e classificatorie proprie dell'Occidente, che queste mal si adattano alle idee di conservazione dei manufatti, delle storie e delle tradizioni della loro cultura, e che anzi impediscono di interagire con questi manufatti e tradizioni, i ricercatori Yolngu collaboratori di Christie e Verran hanno sostenuto che il metodo culturalmente appropriato per le loro comunità avrebbe piuttosto richiesto una strutturazione fluida dei dati. Essi hanno dunque optato per una classificazione basata esclusivamente sulla distinzione tra tipi di file - di testo, audio, video, e di immagini. Come si vede, queste ricerche antropologiche vanno ben al di là, con le scoperte cui conducono, dei concetti di digital divide o di disuguaglianze sociali digitali. Non solo riconoscono che le tecnologie digitali sono ovviamente impregnate delle assunzioni culturali della tradizione occidentale, ma anche che possono caricarsi di significati alternativi o resistenti, culturalmente appropriati alle persone che le utilizzano e insieme pregnanti. La discriminazione digitale È importante riconoscere che, nel consentire la messa a punto di inedite forme di partecipazione democratica e offrire nuove occasioni di libertà di espressione, i social media e altri siti web possono al tempo stesso anche rendere possibili discriminazioni gravi o aiutare a zittire certe minoranze sociali. L'"apertura" di internet e il moltiplicarsi, grazie allo sviluppo dei social media, delle possibilità di comunicazione si traducono cioè in nuove opportunità di aggressione, discriminazione ed emarginazione di gruppi già svantaggiati. Secondo alcuni studi, è persino possibile che a offrire l'opportunità di attaccare questi gruppi nei forum dei social sia la crescente visibilità che questi stessi gruppi, altrimenti emarginati, si sono conquistati proprio facendo uso anch'essi sempre più spesso di queste piattaforme. Che il sessismo, il razzismo, l'omofobia e altre forme di discriminazione e incitamento all'odio trovino posto nel web è fin troppo evidente. Nei forum offerti dai siti online, si formulano, ripropongono e sottoscrivono affermazioni stigmatizzanti e discriminanti che mirano a dividere la collettività sociale anziché ad affratellarla o pacificarla. Ed è indubbio che a essere bersagli di questi discorsi d'odio, trolling, flame, minacce di aggressioni fisiche e altre forme di persecuzione online sono molto più spesso le minoranze svantaggiate che il gruppo sociale dominante - il gruppo dei maschi bianchi, abili e di classe media, residenti nel nord culturale. Sono per esempio frequenti sui siti online gli insulti e le minacce di aggressione razzisti e misogeni. Dal punto di vista dei gruppi sostenitori di queste posizioni, i social media sono infatti uno dei possibili strumenti con cui fare proseliti e incitare all’odio. Per esempio, attraggono spesso utenti razzisti i forum online dei siti di informazione, tanto che i gestori di alcuni, spaventati dall'odio manifestato sotto pseudonimo da certi lettori, non consentono più commenti anonimi e pubblicano quelli firmati solo dopo averli vagliati con l'aiuto di bot alla ricerca dei possibili epiteti razzisti e delle possibili espressioni oscene. Ma ve ne sono altri che, scoraggiati dal tempo e dalle risorse necessari a moderare il linguaggio degli utenti, hanno semplicemente chiuso lo spazio dei commenti. Certi siti creati da suprematisti bianchi o segregazionisti propongono, tra altri materiali, storielle razziste. I gruppi Facebook come "Kill a Jew Day” (Il giorno Ammazza un ebreo) e "I Hate Homosexuals" (Odio gli omosessuali) e i siti web neonazisti offrono o hanno offerto al pubblico uno spazio in cui dare espressione a questo tipo di idee e istigare alla violenza nei confronti dei rispettivi bersagli. Diversi siti di propaganda razzisti sono "mascherati", ossia pubblicati da individui o gruppi che nascondono o confondono le proprie tracce, o fingono di avere propositi diversi da quelli effettivi nel tentativo di attrarre visitatori e apparire legittimi. Per esempio, il sito intitolato Martin Luther King: A True Historical Examination (Martin Luther King: Un'analisi storica aderente ai fatti) si presenta come un tributo a Luther King, ma contiene materiali e link che puntano a screditare in realtà il leader nero. In conseguenza anche del loro mascheramento, questi siti compaiono spesso ai primi posti dei risultati di ricerca per le voci principali del loro titolo, un effetto che tende ovviamente a funzionare da conferma della loro pretesa autenticità e attendibilità. Le tesi e attività razziste trovano spazio spesso anche nel cosiddetto deep, invisible o dark web (web sommerso o oscuro). Diversamente dal surface web (web emerso o visibile), che è quella parte della rete cui tutti possono accedere utilizzando i comuni motori di ricerca e browser, il  deep web straordinariamente più grande del surface web, è costituito da reti criptate o private e perciò nascoste o difficili da raggiungere a meno di non utilizzare browser speciali. È per questo che lo si utilizza anche per scopi illeciti o malevoli, per esempio commerciare in droghe o armi, ingaggiare assassini, diffondere materiali pedopornografici o video snuff (filmati amatoriali dell'omicidio di persone), o appunto incitare a comportamenti razzisti o al terrorismo. Anche certe forme di vigilantismo e di umiliazione sono apertamente razziste, per esempio quelle realizzate attraverso il sito web 419eater.com, che incoraggia gli utenti a tentare di "adescare e truffare" persone provenienti preferibilmente da paesi non occidentali, specie neri africani. Alcune di queste persone sono state indotte per esempio a rispondere a e-mail ingannevoli o a partecipare ad attività inutilmente lunghe o umilianti, come posare per una fotografia assumendo posizioni degradanti o portando inconsapevolmente cartelli dal contenuto mortificante, o farsi fare tatuaggi scelti dal truffatore nell'aspettativa di ricevere denaro. Veicolano contenuti razzisti, sessisti o in altro modo discriminanti e stigmatizzanti anche diverse applicazioni per cellulare, molte delle quali lo fanno proponendo per esempio liste di aneddoti razzisti o giochi basati su stereotipi. Tra «le dieci app per smartphone più razziste mai create» compaiono un gioco sviluppato in Norvegia, intitolato Mariachi Hero Grande, in cui un messicano vestito di un poncho poco pulito cerca di schiacciare quanti più scarafaggi possibile mentre spara a bottiglie di tequila; l'app francese Juif ou pas juif (Ebreo o non ebreo) che si propone di elencare il maggior numero di personaggi ebrei di fama; e Illegal Immigration (Immigrazione illegale), un presunto gioco sull'immigrazione negli Stati Uniti che invita i giocatori a distinguere i "fatti" veri da quelli falsi, ma riproponendo in realtà pregiudizi. In seguito alle proteste degli utenti, Google ha bandito dal suo store online tutte le app che invitano i giocatori a dare a una propria foto i tratti somatici di un gruppo etnico o razziale diverso dal proprio, per esempio - volendosi “trasformare in orientale” - occhi a mandorla, baffi alla Fu Manchu e un incarnato giallo. Queste app convertono infatti il viso di un bianco in quello di un nero, un nativo americano, una vittima di Auschwitz ecc. sfruttando stereotipi. Anche le donne sono spesso vittime in internet di chiare discriminazioni e manifestazioni di odio. Tra le più attive nel web in qualità di militanti femministe, blogger, giornaliste o docenti sono moltissime quelle che sono state oggetto di commenti gravemente misogeni, molestie sessuali, stalking e minacce di violenza anche estremamente esplicite e aggressive. Ma le donne sono bersaglio di attacchi e insulti in misura straordinariamente maggiore degli uomini anche in qualità di semplici utenti. Un caso ben noto è poi quello della studentessa inglese Caroline Criado-Perez, capofila di una campagna a favore della commemorazione di donne, anziché soltanto di uomini, sulle banconote del paese. Intorno alla metà del 2013, le furono lanciate su Twitter molte minacce di stupro, aggressione e morte, tanto che alla fine, in risposta alle molte petizioni ricevute, questo social decise di mettere a disposizione degli utenti un tasto per la segnalazione dei messaggi insultanti o violenti. Anche la funzione di completamento automatico di Google ha importanti implicazioni politiche ed etiche. Lo ha dimostrato per esempio una campagna pubblicitaria promossa dall'UN Women, l'ente delle Nazioni Unite per l'uguaglianza di genere e l'empowerment femminile, costruita sulla denuncia dei modi discriminatori nei confronti delle donne in cui questa funzione completa le voci di ricerca su Google. Digitato «Le donne dovrebbero», «Le donne non dovrebbero» o «Le donne hanno bisogno di», Google completava automaticamente la stringa di ricerca - mostravano i video di questa campagna - con parole come «essere disciplinate», «non avere diritti» ecc. Questi suggerimenti di completamento sono un riflesso dei termini di ricerca digitati più spesso dagli altri utenti e pertanto dei pregiudizi nei confronti delle donne, di certe comunità religiose (o gruppi etnici o razziali) e degli omosessuali che persistono tra gli utenti di lingua inglese. Si potrebbe anche sostenere che, data questa funzione di completamento, ogni volta che i termini di ricerca da essa suggeriti sono accolti, le idee cui questi e quella danno espressione ne escono rafforzate e la discriminazione perpetuata. Perciò gli algoritmi alla base di questa funzione non si limitano a servirsi dei dati di ricerca; sono anche attori della costruzione e riproduzione degli atteggiamenti sociali. Oggi si tende a minimizzare la gravità delle minacce e persecuzioni razziste, misogene, omofobe o di altro tipo; neppure la legge le affronta in modo adeguato. Sennonché, esse possono avere conseguenze emotive rilevanti sulle loro vittime, dissuadere le minoranze prese di mira dal partecipare ad attività pubbliche online e persino impedire loro, dove la partecipazione a queste attività è remunerata, di guadagnare qualcosa.  CAPITOLO 6. La politica digitale e l'impegno pubblico digitale dei cittadini Sui media digitali e sui social media in particolare in quanto strumenti dell'attivismo sociale e della protesta politica esiste oggi una letteratura piuttosto ricca e tuttora in crescita, e lo stesso si può dire del movimento per gli open data e della subveglianza in quanto esempi di produzione e utilizzo di dati digitali per scopi politici da parte dei cittadini.  La politica della sorveglianza digitale L’osservazione (o vigilanza), praticabile attraverso le tecnologie digitali, può essere orizzontale o verticale, palese o nascosta, benevola o repressiva, e limitativa o viceversa creatrice di libertà personali. È ormai consapevolezza di molti che il nostro è un mondo post-panoptico, ossia un mondo in cui il modello panoptico di sorveglianza è integrato o sostituito da nuovi rapporti di potere e nuovi tipi di osservazione e monitoraggio. scientifiche di studiosi e scienziati, indicando inoltre di ciascuna quante volte e dove sia stata citata. In effetti, con i normali motori di ricerca è possibile accedere a svariati dati personali - foto, video, profili e commenti - di moltissimi individui. E non è tutto. Non solo infatti si condividono dati personali. È possibile ora anche utilizzare questi dati per formulare previsioni sulle azioni, gli interessi, le preferenze e persino le condizioni di salute di altri: è sufficiente aggregare i cosiddetti small data di molte persone e sottoporre i big data così ottenuti ad analisi predittive. In conseguenza della vigilanza algoritmica e della produzione di identità algoritmiche, si finisce col diventare, sui social media che si frequentano e sui siti visitati da utenti classificati come "simili a sé", come configurazioni di altri. Sottrarsi a questi assemblaggi di dati costruiti su di noi è a dir poco difficile se non impossibile. Come dimostrano diverse ricerche, le persone coltivano idee contrastanti e talvolta persino paradossali sulla privacy nelle società digitali - i discorsi su questo argomento sono attraversati da un'acuta tensione. Per esempio, finché serve a scopi di sicurezza o a promuovere il benessere sociale ed economico della collettività, molti apprezzano la dataveglianza. E perché preoccuparsi del monitoraggio cui si è sottoposti online - sono soliti chiedersi altri - se non si ha nulla da nascondere. E tuttavia, l'onnipresenza e la pervasività della sorveglianza digitale suscitano anche ansie e malessere. È ormai consapevolezza di molti che vi sono limiti a quel che si può fare a protezione della privacy, se non altro per quel che concerne il nostro controllo sull'accesso ai nostri dati personali e il cosiddetto "diritto all'oblio". Secondo alcuni osservatori, dovremmo in effetti rivedere le nostre nozioni di privacy ora che ci troviamo nell'era del digitale. Rosenzweig per esempio ha definito "vecchie" quelle di cui ancora ci serviamo, e totalmente inadatte a un mondo di dataveglianza pervasiva. A suo avviso, per tutelare adeguatamente diritti e libertà, dovremmo procedere, per ogni programma di dataveglianza proposto, a una valutazione dei mezzi da utilizzare, dei fini cercati e delle conseguenze previste, considerati ciascuno separatamente dagli altri. Un'indagine campionaria condotta dal Pew Research Center nel 2013 ha scoperto che la maggioranza degli americani attribuiva ancora, allora, un valore alla propria privacy, ma che al tempo stesso aspirava anche a un grado di protezione dalla criminalità e dal terrorismo che era possibile garantire solo violando la segretezza dei suoi dati. E tuttavia, a quanto sembra, gli americani utenti delle tecnologie digitali avevano consapevolezza, nella maggioranza dei casi, di dover scegliere tra la protezione dei dati personali dallo sguardo di altri o dal loro sfruttamento commerciale e i vantaggi di cui è possibile godere utilizzando le piattaforme la cui condizione d'uso è la raccolta di quei dati. Ma Rainie e Madden hanno anche scoperto, con la ricerca del 2013, che gli intervistati consideravano le possibili violazioni dei loro dati più o meno gravi a seconda del contesto di raccolta: l'accesso di altri al contenuto delle loro email li avrebbe inquietati più del tracciamento delle loro ricerche su internet, e avrebbero riconosciuto le violazioni della loro privacy perpetrate su o da social media più di quanto fossero consapevoli delle attività di sorveglianza esercitate da agenzie dello Stato. La ricerca basata su interviste qualitative realizzata nel 2013 da Wellcome Trust ha preso in esame, dal canto suo, gli atteggiamenti del pubblico inglese nei confronti dei dati personali e dei collegamenti tra dati, e ha scoperto che molti intervistati erano tutt'altro che ostili all'utilizzo di big data in riferimento a un'ampia varietà di obiettivi: la sicurezza nazionale, la prevenzione dei crimini e la conduzione delle indagini, l'ammodernamento dei servizi, il perfezionamento dei meccanismi di allocazione e la pianificazione, l'identificazione delle tendenze sociali e demografiche, l'individuazione delle pratiche disoneste, la pronta diffusione delle informazioni sanitarie più importanti in caso di emergenza, e la veloce comparazione dei prezzi consentita dallo shopping online e da altre transazioni digitali. Tuttavia, l'utilizzo di questi dati li avrebbe anche preoccupati, e per più di una ragione: per il rischio che andassero persi o fossero rubati, hackerati, fatti trapelare o condivisi senza il loro consenso, per le violazioni della privacy che le attività di sorveglianza comportano, a causa della commercializzazione e pubblicità indesiderata di prodotti, per le difficoltà che si incontrano nel cercare di correggere i dati inesatti, e perché è possibile utilizzare le informazioni online anche per discriminare. Gli intervistati di status socioeconomico basso tendevano più degli altri a sentirsi incapaci di evitare le possibili violazioni dei loro dati personali, di riconoscere i furti e di reagire alle discriminazioni perpetrate a loro danno utilizzando i loro dati. L'attivismo digitale L'impiego dei social media e di altre tecnologie digitali nelle lotte sociali è stato analizzato da ricercatori di un'ampia varietà di discipline sociali, dalla sociologia, all'antropologia, alle scienze dei media e della comunicazione, agli studi culturali. Manuel Castells è uno degli studiosi dell'argomento più noti. Uno dei suoi numerosi contributi sulle società in rete è dedicato precisamente all'esame dei vantaggi che l'uso dei social network assicurerebbe oggi a movimenti sociali e attivisti. È convinzione di Castells che queste forme più nuove di reti digitali lancino una sfida temibile ai poteri stabiliti e che lo facciano costituendo un nuovo tipo di spazio pubblico: lo spazio reticolare che si costituisce come ibrido tra quello digitale e quello urbano. Ciascuna delle discipline sociali che se ne sono occupate si è concentrata tuttavia su aspetti diversi di questo fenomeno. Gli esperti in studi culturali e scienza dei media e della comunicazione hanno studiato in particolare temi come l'utilizzo dei media digitali nella lotta politica e l'elaborazione di contenuti politici da parte dei frequentatori di forum online, insieme ad altre forme di partecipazione al confronto pubblico, mentre gli studiosi dell'attivismo hanno concentrato l'attenzione soprattutto sull'utilizzo di blog e di social media come Twitter, YouTube e Facebook nelle proteste delle primavere arabe e nelle iniziative del movimento Occupy Wall Street, tutte battaglie del 2011. In effetti, Tufekci e Freelon sostengono che le tecnologie dei media digitali giocano oggi un ruolo così importante nell'attivismo politico che «non ha più senso chiedersi se [...] contino qualcosa; piuttosto, possiamo e dobbiamo cercare di capire come lo facciano e soprattutto attraverso quali meccanismi». Anche l'organizzazione WikiLeaks e gli hacker attivisti di Anonymous sono stati oggetto di una certa attenzione, la prima per la divulgazione tramite internet di documenti dello Stato in principio riservati, i secondi per le iniziative di hackeraggio con le quali hanno cercato di sfidare il potere dello Stato. Diversi antropologi del digitale hanno esplorato i modi in cui certi gruppi emarginati hanno utilizzato i social media e altri strumenti digitali nelle loro battaglie per la giustizia e il riconoscimento. John Postill, per esempio, ha scritto di diverse battaglie sociali combattute su internet in Malesia e in Spagna. Esistono studi anche sull'utilizzo delle piattaforme online nelle lotte femministe e in diverse campagne di sensibilizzazione sulla condizione femminile, e tutti confermano la notevole efficacia dei media digitali sia come strumento di mobilitazione, sia come canale di espressione a disposizione delle donne precedentemente in silenzio, incluse quelle appartenenti a minoranze etniche o razziali, di particolari orientamenti sessuali o residenti nel Sud del mondo. Un esempio relativamente recente di attivismo femminista digitale proveniente dall'Australia è la campagna Destroy the Joint (Spezza le gambe). Le femministe australiane hanno utilizzato Twitter e Facebook per controbattere ai commenti pronunciati nel 2013 da Alan Jones, un noto conduttore radiofonico di orientamento conservatore, nel corso del suo programma, e cioè che le leader e politiche donne come la stessa Prima ministra di allora, Julia Gillard, null'altro avrebbero fatto se non "spezzare le gambe", ossia nuocere al paese. Adottato l'hashtag #destroythejoint, le attiviste femministe si sono subito servite di Twitter per denunciare il sessismo delle considerazioni di Jones, ironizzando spesso sui molti modi in cui esse stesse avrebbero progettato di "spezzare le gambe”. La loro campagna ha trovato molti sostenitori e si è guadagnata molti retweet. E tuttavia a Jones non è bastato: intervenendo a una cerimonia politica, egli ha di nuovo attaccato Gillard definendola una bugiarda. I suoi commenti non sono passati inosservati neppure questa volta: le attiviste dei social media li hanno denunciati, e i pubblicitari, spaventati dalla pubblicità negativa operata dalla campagna Destroy the Joint, hanno smesso di finanziare il programma di Jones. Alla fine Jones non ha potuto fare altro che scusarsi pubblicamente. Molte persone disabili hanno trovato sostegno in comunità online. Ma anche altri gruppi socialmente emarginati hanno visto in internet una fonte di aiuto e uno strumento di lotta. Le persone che si considerano queer o transessuali hanno utilizzato le tecnologie digitali con questi obiettivi, trovando talvolta in internet il solo spazio in cui dare espressione alla propria identità sessuale senza paura. Le attiviste lesbiche e gli attivisti gay, bisessuali e transgender hanno spesso utilizzato i mezzi di informazione digitali per trovare sostegno in altri, sfidare le norme e gli stereotipi eterosessuali e combattere le discriminazioni. Attraverso queste attività, una "comunità queer" online ha sviluppato tanti gruppi politici quante reti di sostegno. Molti siti Tumblr, per esempio, sono dedicati all'esaltazione ed espressione delle identità queer e al coinvolgimento di altri utenti queer (siti come Radically queer, I Knew I Was Queer When..; Queer Resistance, e What I Love about Being Queer), e molti altri alle identità gay, lesbica, transessuale e transgender. Anche le persone che si identificano nella loro grassezza si sono affidate all'attivismo online nelle loro battaglie contro lo stigma che le colpisce. Tengono blog sull'orgoglio obeso, militano e si scambiano informazioni utilizzando le pagine di Facebook, Tumblr e i feed di Twitter, e postano immagini nelle quali i corpi grassi appaiono normali, sani e attraenti. Il sito per la gestione e condivisione di immagini Pinterest presenta molte pagine create da sostenitori dell'accettazione dell'obesità e attivisti extra large, con foto e video che danno dei grassi una rappresentazione positiva: foto di personaggi famosi obesi ma affascinanti, immagini d'epoca di corpi enormi e al tempo stesso attraenti, ritratti erotici di individui formosi, opere d'arte sul tema, manifesti e gadget (adesivi e t-shirt) per l'accettazione della grassezza, e fotografie di persone comuni che desiderano mostrare l'amore e la fiducia che nutrono nei confronti del proprio fisico. Si è parlato di "grassosfera" per descrivere questa rete virtuale. Moltissimi siti digitali diffondono e condividono informazioni sulla salute e sostengono le persone colpite da specifiche malattie o disturbi. Alcuni dei membri di questi gruppi e organizzazioni online si impegnano anche sul piano politico con l'obiettivo di contrastare gli stigmi che colpiscono certi tipi di malati, vedere l'accesso alle cure sanitarie esteso ai gruppi ancora esclusi, modificare aspetti della politica sanitaria, o sfidare l'ortodossia medica. Gli attivisti che si occupano di disabilità hanno iniziato a utilizzare i social media per richiamare l'attenzione su questioni come la riduzione dei servizi pubblici. Un esempio proveniente dalla Gran Bretagna è la campagna del 2012  We Are Spartacus (Siamo tutti Spartaco). Organizzata intorno a un hashtag di Twitter, questa battaglia ha preso avvio dai tweet di un piccolo numero di attivisti decisi a divulgare un rapporto sulla riforma dei sussidi economici destinati ai disabili progettata dal governo inglese. Anche il rapporto doveva molto alle attività online: grazie ai social media, avevano infatti potuto prendere parte alla sua stesura gli stessi malati e disabili, descrivendo il proprio vissuto e l'impatto che i tagli progettati avrebbero avuto sulle loro esistenze. In poche ore We Are Spartacus ha ottenuto l'appoggio, traendone grande forza, dell'attore, scrittore e regista Stephen Fry, che ha milioni di follower, di alcuni politici autorevoli, che hanno a loro volta twittato sul rapporto, e di altri noti personaggi pubblici inglesi. Alla fine, quando è stato chiaro che il tema era diventato un TT, anche i mezzi di comunicazione mainstream hanno ripreso la questione e la pressione sui politici coinvolti è aumentata ancora.  Open data contro protezione dei dati È una tesi avanzata da molti che se è plausibile vedere nei dati digitali di individui e organizzazioni beni di proprietà dotati di un qualche valore, allora lo è anche supporre che questi dati possano essere merci da vendere e acquistare, e perciò anche da proteggere e conservare in modi che ne impediscano l'uso altrui se non autorizzato. Tuttavia, al fronte di chi sostiene che individui e organizzazioni dovrebbero dunque proteggere il loro diritto a controllare i propri dati, se ne oppone un secondo per il quale dovremmo al contrario vedere nei dati digitali un bene pubblico e perciò da condividere. Vi è persino chi ha parlato di una nuova forma di filantropia - la "filantropia dei dati"-, invitando individui e imprese a "donare" i propri dati a beneficio di tutti. Ha per esempio caldeggiato questo tipo di donazione il progetto delle Nazioni Unite Global Pulse. Che gli oggetti composti di dati digitali siano oggi giudicati preziosi è indubbio, considerato che si parla spesso di "risorse informazionali" degli individui e ci si interroga persino su ciò che sarebbe corretto farne dopo la morte del loro possessore. Una proposta di alcuni osservatori difensori di questo valore è per esempio che tutti gli utenti digitali si dotino di un deposito cloud personale in cui conservare i dati prodotti dalle proprie interazioni e dal quale recuperare eventualmente quelli che essi intendono utilizzare, scambiare o vendere, ma è stato anche sostenuto che in un futuro non lontano la maggioranza di noi impedirà alle piattaforme delle imprese di procedere al mining dei propri dati personali attivando l'impostazione "do not track" (non tracciare) offerta dai browser. È opinione di alcuni esperti, in effetti, che il complesso degli utenti non sia ancora sufficientemente consapevole del valore dei propri metadati e neppure di cosa e quanto si possa scoprire online di ciascuno di noi e dei modi in cui i dati così raccolti possono essere utilizzati. Si sta iniziando anche a fare pressione sugli sviluppatori di piattaforme e siti web affinché rilascino i dati che conservano nei loro archivi, in modo che gli individui che li hanno prodotti possano utilizzarli per i loro scopi, soprattutto non commerciali. Sottratto agli sviluppatori delle piattaforme e alle loro operazioni di monetizzazione, l'assemblaggio di dati si trasforma in un prodotto a disposizione degli stessi utenti digitali. O anche: se è vero che «ognuno di noi è i suoi dati», allora è bene che ciascuno ne sia anche riconosciuto proprietario e in diritto di disporne. Non si tratta comunque di una valorizzazione obbediente soltanto a imperativi economici; la ispira inoltre la consapevolezza che è possibile utilizzare questi dati anche per migliorare le proprie esistenze; se ne discute in effetti in una grande varietà di forum e in riferimento a molti aspetti della vita delle persone, per esempio la salute, il lavoro e l'istruzione. Raccogliendo i cosiddetti small data - i dati accumulati per esempio da chi utilizza dispositivi per l'automonitoraggio o è impegnato in progetti di scienza o giornalismo partecipativi - si contribuisce alla produzione di "big data fatti in casa" utilizzabili per ricerche più ampie o la realizzazione di obiettivi politici o anche personali più ambiziosi. Si tratta per esempio, come dice il suo stesso sito, di uno degli intenti del movimento Quantified Self, produrre dati su se stessi che servano alla realizzazione dei propri obiettivi, ma siano anche aggregabili con i dati di altri e utilizzabili per nuove e più ampie scoperte sul comportamento umano. E si possono aiutare i cittadini a servirsi di big data nella conduzione delle proprie ricerche anche mettendo a loro disposizione fonti aperte di dati. Sono stati messi a punto anche i primi strumenti digitali con cui contrastare la dataveglianza. Per alcuni esempi si può pensare ai programmi in grado di rivelare all'utente come le sue attività online siano monitorate e chi stia cercando di accedere ai suoi dati personali; ai browser e ai motori di ricerca che non tracciano le interrogazioni degli utenti e pertanto alternativi a quelli offerti dagli imperi di internet; o ancora ai servizi online che criptano i messaggi e ai telefoni che non identificano la localizzazione di chi li utilizza. Stanno avendo un notevole successo anche le estensioni per il blocco dei popup pubblicitari, che impediscono agli annunci di comparire sugli schermi e ai pubblicitari di raccogliere dati sui possessori dei dispositivi. Esistono programmi in grado di fornire agli utenti un’istantanea delle informazioni che essi stanno condividendo sui social media e sui servizi online come Google, o che li informano sull'adeguatezza delle loro impostazioni a tutela della privacy e avvisano quando i siti che essi frequentano modificano le loro politiche in merito. Ma oggi è possibile anche scoprire, grazie a certi altri strumenti, quali imprese possano accedere a informazioni come i movimenti delle nostre carte di credito, i nostri numeri di telefono e il nostro indirizzo, e chiedere la rimozione del nostro profilo o di altre informazioni sul nostro conto dai siti che hanno raccolto questi quelle riconosciute nei paesi democratici. O si può pensare, per un altro esempio di limitazione della libertà di espressione sui social media, alla decisione presa nel marzo del 2014 dall'allora Primo ministro turco Recep Erdogan: contrastare l'opposizione interna e difendere il proprio potere anche limitando l'accesso a Twitter sul territorio del paese. Twitter era stato infatti utilizzato dai dissidenti, insieme ad altri social media, per diffondere documenti riservati e registrazioni di intercettazioni, prove, secondo questi oppositori, della corruzione dei politici più vicini al Primo ministro. Oltre che censurare i social media, nella repressione della protesta e del dissenso, gli stessi regimi politici autoritari possono utilizzare internet in quanto strumento di vigilanza e controllo. Per esempio, alcuni paesi hanno utilizzato i dati rintracciabili nei social media per identificare e poi arrestare attivisti e leader politici, sfruttando dunque le funzioni comunicative e di rete delle tecnologie online contro la libertà di parola e il cambiamento politico, anziché a loro sostegno. La Siria lo ha fatto a danno degli attivisti pro democrazia della primavera araba. Secondo i loro critici, i portavoce dell'attivismo digitale commetterebbero inoltre l'errore di supporlo immancabilmente produttivo e positivo. La retorica dell'apertura e della partecipazione fiorita su queste assunzioni non verrebbe mai messa in discussione. Con lo stesso acritico entusiasmo, insisterebbero poi sulla vitalità e innovatività dell'attivismo digitale rispetto alle forme tradizionali di mobilitazione politica, ed esalterebbero le forme di auto-organizzazione non verticistiche o orizzontali, condannando invece le gerarchie (l’utopismo digitale e il determinismo tecnologico sarebbero qui palesi). Essi tenderebbero inoltre a presentare i media tradizionali come obsoleti e incapaci di sostenere i movimenti politici, o persino come "morti" e corrotti, laddove i media digitali sarebbero per definizione innovativi e rivoluzionari. Qualche critico ha anche scritto che, nel descrivere l'attivismo digitale, tanto i media popolari quanto certi accademici romanticizzano l'attivismo. Fuchs si chiede se eventi come le primavere arabe e le proteste di Occupy Wall Street si sarebbero verificati se le tecnologie digitali non fossero esistite, e la sua risposta è che sì, avrebbero avuto luogo comunque, utilizzando media e forme di organizzazione diverse. È stato inoltre sostenuto, in polemica con i portavoce dell'attivismo digitale, che il prosumismo non vanta sempre lo stesso grado di rilevanza politica ed economica: talvolta ha poche implicazioni in questo senso e talvolta molte. Caricare sui social media contenuti dettagliati che esortano al cambiamento politico o utilizzare le reti digitali per partecipare alle iniziative di lotta e invitare ad aderire ai gruppi dissidenti è cosa diversa dal condividere semplicemente i contributi di altri o dare un like. Tenuto conto del crescente sfruttamento commerciale del prosumismo, è indubbiamente vero che alcune forme di partecipazione digitale sono rivoluzionarie e avverse agli attuali rapporti di forza. Ma altre sono interne al sistema istituzionale dominante e ne consolidano il potere: per esempio quelle che hanno luogo sotto l'egida delle economicamente potentissime Google, Apple e Amazon e delle altre grandi imprese del digitale. Come ha sostenuto Jenkins, l'obiettivo tipico delle aziende del Web 2.0 è «imbrigliare, mercificare e controllare la voglia dei cittadini di forme di partecipazione significative». Alcuni dei siti creati per la divulgazione di idee politiche alternative o per il sostegno a gruppi emarginati sono diventati strumenti di imprese commerciali. Alcuni osservatori hanno messo in discussione persino gli ideali di una cittadinanza tutta in grado di raccogliere e utilizzare dati digitali e di scrivere programmi. In questi ideali potremmo infatti riconoscere un'ennesima sollecitazione neoliberista per i cittadini ad agire in modo responsabile, un'ingiunzione a prendere parte al lavoro di programmazione e di raccolta e analisi dei dati mossa per ragioni politiche o nell'interesse delle imprese commerciali. Ma si può inoltre sostenere che questi ideali utopistici tendono anche a ignorare sia l'innegabile confusione, imprecisione, parzialità e incompletezza dei dati digitali con i quali i cittadini sono incoraggiati a confrontarsi, sia il fatto che scrivere programmi e raccogliere e analizzare dati sono attività che è spesso complesso tanto insegnare quanto imparare. Persino i programmatori professionisti fanno fatica a stare al passo con il continuo rinnovarsi dei linguaggi di programmazione, degli ambienti di programmazione e dei sistemi operativi, e ignorano inoltre in larga misura le conseguenze sociali ed economiche del loro lavoro. Non solo. Secondo le prospettive critiche in discussione qui, non è in se stesso liberatorio o politicamente progressivo neppure "aprire" i dataset: la natura e gli esiti di questo processo dipenderebbero infatti dalle condizioni in cui esso si svolge, dalla qualità dei dati diffusi e dagli usi progettati. Nella sua analisi dell'iniziativa Open Government Data dell'amministrazione pubblica britannica, Bates ha scoperto che hanno cercato di influire sul rilascio di questi dati potenti gruppi di interesse politici e che l'operazione nel suo complesso era al servizio di certi interessi commerciali più che della cittadinanza. Le iniziative per gli open data sarebbero in sostanza il terreno di importanti battaglie politiche e sociali nelle quali le comunità locali pro "apertura" rischierebbero spesso di rivelarsi cooptate e sfruttate da gruppi di élite. Il progetto di "rilasciare dati" si dimostrerebbe cioè molto più complesso e politicamente contestabile di quanto alcuni suoi difensori siano disposti a riconoscere. In alcuni ambienti si è anche osservato con preoccupazione che, considerato l'accumularsi dei dati e di altre informazioni, la gente ha oggi a che fare con un eccesso o un sovraccarico di elementi informativi. Nell'era dell'espressione delle proprie opinioni e del giornalismo partecipativo tipici del prosumismo del Web 2.0, gli utenti dei media digitali si trovano di fronte a una miriade di rappresentazioni degli eventi e di versioni della realtà, cosicché il loro primo bisogno è trovare un modo per dare un ordine a queste opinioni e rappresentazioni e afferrarne il senso. Esposti a un numero eccessivo di tipi di dati, essi incontrerebbero difficoltà nel distinguere quelli importanti, di valore e accurati da quelli irrilevanti o imprecisi. Stenterebbero sia le imprese interessate a scoprire il valore commerciale dei big data, sia le persone comuni, anche se le prime, disponendo di grandi archivi digitali, potrebbero contare, nel cercare di analizzare e interpretare i dati, su un accesso più facile a questi dati e su quantità di risorse molto maggiori. Nel richiamare l'attenzione sui rapporti di potere all'origine del diverso accesso ai dati digitali, boyd e Crawford hanno distinto tra i "ricchi di big data" e i “poveri di big data". Andrejevic ha accolto e rafforzato questa distinzione segnalando la coesistenza di due "diverse culture dell'informazione", una basata su fonti tradizionali come la propria e altrui esperienza, i mezzi di comunicazione e informazione e i blog; l'altra, più nuova, consentita dallo stesso moltiplicarsi dei big data e basata sulla loro analisi informatica. Sennonché questa nuova cultura ha portato con sé, secondo Andrejevic, anche nuove forme di svantaggio sociale, economico e politico: soltanto chi dispone di un capitale culturale ed economico considerevole può infatti riuscire a sfruttare i big data a proprio favore. Ma ciò significa allora che vi sono limiti ai contributi che la gente in generale può dare alla nuova economia della conoscenza digitale, all'autorità che essa può acquisire e ai vantaggi che può procurarsi. Mentre la retorica degli entusiasti sostiene che il prosumismo digitale consente l'emergere di «nuovi gatekeeper dell'informazione e interpreti dei dati» - ossia di un pubblico pienamente competente -, l'idealtipo del cittadino digitale veramente attivo è in realtà il risultato di resistenti gerarchie di potere e conoscenza. Alcuni portavoce del movimento per gli open data stanno iniziando a riconoscere questi problemi e a incoraggiare gli utenti a sviluppare un approccio critico al fenomeno dei big data: una "scienza partecipativa critica" che vada al di là dell'idea degli scienziati cittadini come nodi dotati di sensori dell'Internet delle cose. Come ha scritto McQuillan, una scienza partecipativa critica assegna ai cittadini il compito di «esaminare e mettere in discussione ciò che rappresenta il loro mondo all'interno della macchina dei big data e di intervenire nell'interesse del futuro cui aspirano». A suo avviso, non appena la gente inizierà ad avere a che fare con i dati digitali, ne riconoscerà «la persistenza e resistenza materiale», i difetti e le imprecisioni (la loro "sporcizia"), le assunzioni e i giudizi che ne sono alla base, gli usi politici che ne vengono fatti e infine che, diversamente da quel che spesso si dice, le informazioni e le "verità" in cui consistono non sono immancabilmente oggettive e certe. E soprattutto riuscirà a capire quali dati siano i più utili per i propri scopi, come ha fatto tra altri - dice McQuillan - il Counter Cartographies Collective, che ha cercato di "sovvertire" [to queer] i grandi dataset digitali utilizzandoli per obiettivi diversi da quelli voluti dai loro produttori e archiviatori. Il lato negativo dell'impegno pubblico digitale dei cittadini La partecipazione dei cittadini alla produzione di conoscenza può mettere in grave pericolo la privacy e libertà degli altri. La subveglianza e la sorveglianza sinoptica sono oggi aspetti costituivi delle attività digitali di moltissime persone. I dispositivi informatici mobili e indossabili consentono agli utenti di monitorare e raccogliere dati visivi e audio su un'infinita varietà di cose ovunque essi si trovino - a casa o in spazi pubblici - e senza soluzioni di continuità, fornendo inoltre costantemente informazioni geolocalizzate. Le persone che li utilizzano possono osservarsi reciprocamente senza sosta e registrare e condividere le proprie osservazioni con moltissime altre - migliaia ma talvolta anche milioni - attraverso i social media. Chiunque si muova in uno spazio collettivo viene preso nel campo del pubblicamente visibile, in una nuova configurazione dello spazio, della visualità e della censura sociale e persino legale. Essendo disseminate e taggate dalle piattaforme dei media digitali, le registrazioni che ne risultano sollevano interrogativi etici. A iniziare dal video amatoriale che mostra Rodney King violentemente percosso da alcuni agenti della polizia di Los Angeles nel 1992, l'idea che attivisti e cittadini giornalisti possano fare foto o video e diffonderli nell'interesse della trasparenza e responsabilizzazione delle istituzioni pubbliche ha acquistato sempre più forza. Di fatto, nell'era dell'onnipresenza delle tecnologie digitali e dei dispositivi mobili, le opportunità di fare da testimoni civili sono aumentate esponenzialmente. Oggi è estremamente facile scattare fotografie e girare video con il proprio dispositivo e caricarli immediatamente sui social media per condividerli e farli circolare. Il comportamento dei rappresentanti delle istituzioni - di poliziotti o vigilanti, per esempio - rischia ora di finire sotto il rigoroso esame di una subveglianza pervasiva. Il problema è che, se da un lato questa sorveglianza consentita dai media digitali può rafforzare i costumi sociali e contribuire a identificare i reati, dall'altro può anche diventare strumento di molestie, manipolazioni, stalking, voyeurismo, attacchi di gruppo, punizioni illegittime ed esclusione sociale. Utilizzare i media digitali in questi modi significa compiere atti di pubblica umiliazione, ossia esporre gli individui e i gruppi che si suppone abbiano violato i confini della moralità o della legalità alla condanna e al biasimo. Ma di qui è facile scadere nel vigilantismo, in certi casi persino in mancanza di chiare prove che l'individuo o il gruppo preso di mira sia colpevole di fronte alla legge o a qualche criterio morale. Per un primo esempio si può pensare a quanto accadde subito dopo l'attentato della maratona di Boston nell'aprile del 2013. Con grande dolore della famiglia, finì tra i sospetti anche Sunil Tripathi, uno studente universitario che risultava scomparso da più di un mese. Uno dei membri del sito di social bookmarking Reddit che collaborava al vaglio di foto nel tentativo di identificare gli attentatori a partire dalle immagini sfocate delle telecamere di sorveglianza, pubblicate online, aveva deciso infatti che Tripathi potesse essere uno di loro. I giornalisti e altri utenti avevano immediatamente divulgato la notizia della supposta identificazione su altri social media tra cui Twitter, e in pochissimo tempo Tripathi era diventato per tutti un attentatore. Gli infuriati utenti di Reddit avevano allora defacciato la  pagina Facebook della famiglia, Help Us Find Sunil Tripathi, che dovette essere eliminata. Qualche tempo dopo si scoprì che Tripathi era morto (probabilmente suicida) prima dell'attentato di Boston e l'FBI identificò i veri colpevoli. In passato i mezzi di informazione esercitavano il loro potere disciplinare "nominando e umiliando" ovvero mettendo alla berlina le persone chiamate in giudizio per qualche reato o note per qualche altro misfatto, ma ora che molti quotidiani dispongono di un proprio sito web, è possibile che finiscano online, siano fatti circolare da altri media e restino in forma digitale per l'eternità anche i nomi di colpevoli di reati, infrazioni ed errori minori. Dopo che su un network digitale sia apparso il nome di qualcuno connesso a un comportamento illecito o antisociale per un certo numero di volte, recidere questa associazione è impossibile. Interrogato un qualche motore di ricerca, il nome di quella persona comparirà immancabilmente associato all'episodio che aveva originariamente attirato l'attenzione dei social media, anche se questo episodio è ormai vecchio di molti anni e l'associazione allora operata si basava su un errore. Anche i passi falsi sociali di secondaria importanza hanno finito con l'apparire gravi in conseguenza dei dileggi e delle umiliazioni fatti circolare dai social media. Per esempio, sono state spesso "criminalizzate" in questo modo persone che avevano pronunciato insulti razzisti o urinato in spazi pubblici; la rilevanza che la condivisione online della loro riprovazione ha dato a queste azioni ha finito talvolta con il giustificare persino l'arresto dei loro autori. Chi su Twitter è scoperto colpevole di qualche comportamento illecito o scorretto è sottoposto a una "tempesta di fuoco" di critiche e manifestazioni di disprezzo. Un docente americano, Geoffrey Miller, ha incautamente offeso gli studenti obesi accusandoli, con un tweet, di debolezza della volontà. Il suo messaggio è stato ritwittato molte volte accompagnato spesso da un commento negativo, e Miller è diventato su internet il professor fat-shaming, o che umilia i grassi. Tra gli innumerevoli esempi rientra anche la campagna Destroy the Joint contro il presentatore radiofonico Alan Jones. Come dimostra il caso di Sunil Tripathi, i social media non solo diffondono talvolta "notizie" sbagliate; in certi casi contribuiscono persino alla produzione di scorrette "notizie dell'ultim'ora". I giornalisti che lavorano per i grandi mezzi d'informazione tendono a prendere molto sul serio le notizie che compaiono sui social media e a riproporre queste voci nei loro tweet e notiziari online. Un problema è che ciò che si fa per creare contenuti falsi allo scopo di confermare una fandonia o fare propaganda può intralciare la raccolta delle informazioni vere e le iniziative umanitarie. Per esempio, subito dopo l'attentato della maratona di Boston, su Twitter vennero creati migliaia di profili falsi da utilizzare per tweet calunniosi. Le voci e i contenuti mendaci si moltiplicarono: vennero forniti falsi numeri di conto corrente per le donazioni e diffusi contenuti menzogneri sulle vittime delle esplosioni, per esempio che erano morti anche bambini, dei quali apparvero persino le foto, naturalmente false. Girarono informazioni e voci infondate anche quando, alla fine del 2012, l’uragano Sandy colpì New York. Su Twitter e Facebook circolarono, ampiamente condivise, molte immagini o manipolate digitalmente, o tratte da prodotti di fiction come film e installazioni artistiche, o ancora relative a episodi autentici ma verificatisi, anziché a New York al passaggio dell'uragano Sandy, a New York in altri momenti o persino in altre città. Una di queste immagini, per esempio, mostrava la Statua della Libertà colpita da onde incredibili, ma era tratta in realtà dal film del 2004 L'alba del giorno dopo; le minacciosissime nuvole nere di una seconda foto risalivano a un anno prima, e lo squalo che secondo una terza si sarebbe aggirato nelle strade allagate della città era ovviamente il risultato di una manipolazione digitale. Tramite Twitter sono state propagate anche notizie sulla presunta morte di personaggi famosi, molti dei quali sono stati costretti a smentire l'evento pubblicamente. I tweet mendaci e le foto o i video contraffatti caricati sui social media possono servire a fare propaganda politica o a diffamare politici. Com'è noto, vi sono editor che manipolano le voci di Wikipedia per scherzo o per fini politici; il 1° aprile le burle aumentano. Sulle celebrità vengono confezionati anche falsi prodotti porno: si manipolano con Photoshop le foto di donne famose (soprattutto) in modo che appaiano in posizioni oscene e le immagini ottenute sono postate online. La tendenza dei giornalisti a ricorrere sempre più spesso ai social media e altre fonti digitali per cercare notizie e confezionare reportage ha suggerito ad alcuni studiosi la definizione di "giornalismo in rete" [network(ed) journalism], coniata sul modello del concetto di società in rete proposto da Castells. Tuttavia, la crescente dipendenza da fonti come Twitter, YouTube, Flickr e Instagram pone i giornalisti nella necessità di verificare rapidamente la validità e autenticità delle informazioni caricate su questi siti. Il giornalismo partecipativo o crowdsourced (collaborativo) e i resoconti dei testimoni oculari estendono straordinariamente il campo di ricerca delle informazioni a disposizione dei giornalisti, ma sono anche densi di digitali è continuamente connessa a internet, per cui non ci muoviamo più tra "online" e "offline". Invece di "entrare nel cyberspazio" da un luogo preciso e usare uno strumento che serve apposta a connetterci, usiamo semplicemente i dispositivi e controlliamo la posta e gli aggiornamenti sui social media ovunque ci troviamo. Le nuove tecnologie locative dimostrano che invece che condurci nel cyberspazio o nella realtà virtuale, i dispositivi digitali ci identificano piuttosto con il luogo e lo spazio materiale in cui fisicamente ci troviamo. Il software geolocativo che posiziona gli utenti e personalizza i contenuti cui possono avere accesso (in alcuni casi anche impedendolo) mette in crisi l'idea di un cyberspazio come luogo non-geografico e indefinito. È sempre più difficile interagire anonimamente o assumere una nuova identità online, perché internet adesso sa dove viviamo. Sa chi siamo, e molte altre cose su di noi e sui nostri amici e follower sui social network. La computazione ubiqua sposta i dispositivi digitali dalle scrivanie agli spazi pubblici, già popolati e abitati da attori eterogenei che possono agevolare o al contrario ostacolare la loro connettività. Non sono dunque solo i fattori culturali a influenzare le infrastrutture digitali, ma anche gli spazi sia pubblici sia privati in cui i dispositivi vengono utilizzati. Come le tecnologie, anche gli spazi sono configurazioni culturali, e le interazioni fra i due sono complesse, variabili e dinamiche. Quello che Miller e Horst definiscono «contesto digitale» è anche un contesto materiale, che comprende i luoghi, gli spazi e le persone che fanno parte dell'ambiente in cui le tecnologie digitali sono impiegate. Aggiungendosi alle affordance partecipative del Web 2.0, la capacità che i dispositivi "intelligenti" [smart] hanno di connettersi a internet sempre e (quasi) ovunque, e i microchip di cui si dotano per misurare i movimenti dei corpi e geolocalizzarli, rappresentano modalità nuove di monitorare e misurare i corpi e identificare gli spazi in cui essi passano. Kitchin e Dodge hanno elaborato il concetto di "spazio/codice" per definire la costituzione reciproca di codici informatici e spazialità. Secondo loro, nella società digitale gli spazi sono sempre più progettati e controllati dai programmi informatici. Qualsiasi spazio che dipenda dal software per funzionare nel modo in cui è stato progettato è definibile come spazio/codice. Kitchin e Dodge usano esempi come quello del supermercato contemporaneo, dove alla cassa i clienti usano scanner e casse digitali per poter procedere agli acquisti, operazioni dalle quali i supermercati ricavano dati sulle merci più vendute e su quelle di cui fare rifornimento. Le carte fedeltà che i clienti usano al momento dell'acquisto consentono ai proprietari dei supermercati di monitorare le abitudini di acquisto dei consumatori. Se il sistema va in crash, però, il supermercato smette di funzionare in quanto tale. I corpi umani - cassieri, scaffalisti, guidatori dei camion per il trasporto delle merci e clienti - interagiscono con i programmi informatici dando vita all'assemblaggio codificato (ovvero allo spazio/codice) del supermercato. Talvolta l'alternativa al concetto di realtà virtuale è stata quella di "realtà aumentata", che pone l'accento su come l'uso delle tecnologie digitali o del software serva ad ampliare (aumentare) la vita quotidiana. Non esiste un "secondo sé" online o in versione digitale: il sé che si configura nel digitale è già sempre contenuto nel sé originario. A questa idea si collega quella di "co-presenza aumentata", che riguarda la natura distribuita delle relazioni sociali e dei posizionamenti fisici nelle reti dei social media. Servendosi di aspetti come le coordinate di geolocalizzazione e le immagini degli spazi in cui si trovano, gli utenti dei social media vivono un nuovo senso del luogo che è un ibrido di co-presenza fisica e virtuale insieme. L'uso dei dispositivi digitali tende, in effetti, a confondere la percezione che gli utenti hanno dei confini spaziali. Combinando un oggetto materiale (un dispositivo come uno smartphone o un tablet) con l'informazione che transita tra questi oggetti e gli archivi come quelli di tipo digitale, e collegando spazi privati e pubblici (si può ad esempio usare un dispositivo a casa propria ma connettersi a persone che si trovano al di fuori dello spazio domestico), i media mobili occupano uno spazio liminare. Smartphone come l'iPhone contribuiscono a sfumare il confine fra materiale e immateriale perché sono oggetti che, pur sollecitando molto sensi come la vista e il tatto, funzionano sul piano immateriale. Non si riesce più a distinguere così chiaramente tra l'hardware e il software. In questi dispositivi, il tocco, la visione e gli oggetti immateriali della conoscenza (cioè gli oggetti composti di dati) formano un tutt'uno. Anche quando cerchiamo di connetterci con un dispositivo a una rete a banda larga nello spazio pubblico, e troviamo un segnale sufficientemente forte, stiamo mettendo insieme gli aspetti visibili e invisibili delle tecnologie digitali, e quando evitiamo di sconfinare nella connessione wireless di altri utenti portiamo alla luce tutta la «fisicità del virtuale». Nelle loro pratiche mediali locative, le persone possono abitare uno spazio fisico preciso e simultaneamente intrattenere relazioni con altre persone in altri spazi, stabilendo così, con le loro pratiche sociali, mobili, locative e fotografiche tutte allo stesso tempo, delle forme di co-presenza. Quando usiamo i dispositivi mobili, possiamo trovarci in un dato spazio circondati da altra gente («gli altri presenti»), ma possiamo anche «uscire» e relazionarci agli «altri assenti» fuori da quello spazio. Basta guardare le persone che usano i mezzi di trasporto per accorgersi di come i dispositivi digitali siano usati nello spazio pubblico per entrare nei mondi privati. Le ricerche più recenti hanno studiato le pratiche corporee abituali legate all'uso dei media digitali. Per esempio, Pink e Leder Mackley hanno usato la video-etnografia per indagare il significato assunto dai media digitali nelle routine percettive e affettive delle persone nella sfera domestica, e identificato come questi media abbiano contribuito a far sentire "a loro agio" i partecipanti nello spazio della casa, e a far sì che trovassero il tono giusto e la giusta atmosfera anche nei dintorni. I ricercatori sono andati in giro nelle case dei partecipanti alla ricerca usando le loro videocamere, e hanno registrato quanto questi raccontavano a proposito delle loro routine domestiche, prestando particolare attenzione a quelle legate all'uso e al risparmio di energia, come per esempio l'abitudine a spegnere le apparecchiature elettroniche o a collegarle a una presa per ricaricarle durante la notte. Questo studio mette insieme tre "prismi" analitici interrelati per osservare il comportamento legato ai media digitali: l'ambiente/luogo, il movimento/pratica e l'esperienza percettiva/sensoria del corpo. Sulla base della loro ricerca etnografica, Pink e Leder Mackley sostengono che le persone sono consce del fatto che la loro vita è saturata dai media, digitali e non, ma spesso questa consapevolezza è incorporata e affettiva piuttosto che facilmente esprimibile a parole (e questo si collega al concetto di spazio domestico "accogliente" in certi momenti della giornata). Queste dimensioni meno immediatamente evidenti, relative al modo in cui le persone si rapportano ai media, diventano visibili grazie all'osservazione etnografica, dato che i partecipanti non descrivono soltanto a parole cosa fanno, ma lo documentano nella pratica. Le persone si sentono "a loro agio" se ogni mattina vengono svegliate dalla sveglia all'ora giusta, se guardano la televisione al solito orario e poi la spengono prima di andare a dormire, oppure se come ultima cosa prima di addormentarsi controllano la posta e i messaggi sul cellulare. Le rappresentazioni dei corpi/sé online Quando usano i social media, le persone parlano e rappresentano visivamente il proprio corpo (e quello altrui) continuamente e fin nei minimi dettagli sulle reti e sulle piattaforme digitali oggi disponibili. Social media come YouTube, Tumblr, Pinterest, Instagram e Flickr ruotano attorno al caricamento, alla selezione e alla condivisione delle immagini, incluse molte immagini di corpi. Anche su Facebook e Twitter gli utenti hanno diverse possibilità di condividere immagini di questo tipo. Il corpo attira notevole attenzione digitale, soprattutto quello dei personaggi famosi, ma sempre di più anche quello delle persone comuni. I personaggi famosi di sesso femminile, in particolare, sono oggetto di un'attenzione digitale costante da parte di paparazzi e fan, e la forma e il fascino - ma anche il contrario - dei loro corpi sono oggetto di continui commenti su social media e siti web. La gran quantità di piattaforme e applicazioni dedicate all'anatomia umana, agli organi interni e al funzionamento del corpo hanno fatto sì che questo non sia più appannaggio esclusivo degli studenti di medicina o dei chirurghi, ma sia sotto gli occhi di tutti. Le tecnologie online consentono ormai a chiunque di accedere a visualizzazioni dettagliate dell'interno del corpo tramite un computer, perché queste immagini, anche se inizialmente pensate per gli studenti, i praticanti o altri lavoratori del settore medico, sono adesso a disposizione del grande pubblico. Se si cerca "anatomia umana", si trovano diverse applicazioni sia sull'Apple Store che su Google Play, e molti siti offrono immagini accurate del corpo umano. Il Visible Human Project si è servito delle tecnologie informatiche per rappresentare fin nei minimi dettagli la struttura anatomica di un cadavere maschile e femminile. Ogni corpo è stato sezionato trasversalmente dalla testa alla punta dei piedi, e le immagini delle sezioni, ottenute usando la risonanza magnetica, la tomografia assiale computerizzata (TAC) e le immagini anatomiche, sono state poi caricate su un sito e sono oggi visibili presso il National Museum of Health and Medicine di Washington, DC. Online è possibile imbattersi in immagini del corpo di ogni forma e dimensione: ci sono siti a sostegno delle persone che praticano forme di digiuno estremo o purificazione (i siti cosiddetti  pro- ana, cioè pro-anoressia, o thinspiration, che "ispirano alla magrezza") o che promuovono la chirurgia estetica, siti di attivisti a sostegno di una rappresentazione positiva della grassezza per contrastare il  fat-shaming, siti dedicati alle persone autolesioniste oppure ai culturisti, alle persone transgender o ai fanatici dei tatuaggi e del piercing, per non parlare dell'enorme quantità di siti dedicati alla pornografia e ai feticismi sessuali. E tutti mostrano immagini di corpi di ogni forma e dimensione impegnati nelle pratiche più diverse, e più o meno trasgressive. Esistono poi anche siti che rappresentano corpi che vengono sottoposti a diverse procedure di tipo medico (su YouTube si trovano molti video di operazioni chirurgiche, per esempio), che forniscono immagini e descrizioni dettagliate delle varie malattie che possono affliggere un corpo. I social media e gli altri media digitali hanno reso più facile condividere immagini e descrizioni delle molteplici forme della vita umana, fin dai primi stadi del suo sviluppo. Su internet si trovano immagini di embrioni, feti, e persino di ovuli al momento della fecondazione. I video di YouTube sul concepimento e sullo sviluppo dell'embrione, o siti come Human Embryo Project, che presentano immagini e descrizioni dettagliate di ogni stadio dello sviluppo del feto, permettono di osservare e imparare tutto anche sull'essere umano non ancora nato. È ormai una prassi diffusa fra i neogenitori postare con orgoglio le immagini delle ecografie dei loro futuri figli sui social network per annunciare una gravidanza. E chi ha fatto esperienza di un aborto spontaneo, della morte del feto o di un bambino nato morto si serve di siti commemorativi [memorialisation websites] oppure crea video con immagini delle ecografie, delle impronte delle mani o dei piedi dei bambini non nati o persino dei loro cadaveri, da postare su YouTube. Il risultato è che sui media digitali gli umani non nati hanno adesso più visibilità di quanta ne abbiano mai avuta in passato. Sul versante opposto, anche i defunti sembrano aver raggiunto una sorta di immortalità digitale. Come per la commemorazione dei bambini non nati, adesso anche una morte può essere annunciata e commemorata attraverso innumerevoli media online, che permettono di avere una vita ultraterrena digitale: per esempio, le pagine Facebook sono sempre più spesso impiegate per commemorare i defunti, perché le bacheche personali si possono usare per parlare di cosa prova chi resta, oppure si può creare un gruppo dedicato per scambiarsi ricordi e pensieri su chi ci ha lasciato. Esistono siti che forniscono «servizi per l'aldilà digitale», come recita lo slogan di uno di questi, Digital Beyond, per «pianificare la tua morte e il tuo aldilà digitale o commemorare i tuoi cari». Questi siti incoraggiano le persone in lutto a postare foto o storie sui defunti, oppure mettono a disposizione uno spazio dove poter archiviare i propri ricordi o altri documenti importanti in previsione della propria morte, lasciare o programmare l'invio di messaggi postumi, pianificare il funerale o anche il da farsi sui profili social in caso di decesso. I documenti importanti, le foto o altre informazioni che vengono digitalizzate per essere conservate e distribuite a quelli che restano, si definiscono "patrimonio digitale" o anche "risorse digitali". Alcuni servizi consentono di programmare l'invio di messaggi di testo, immagini o registrazioni audio e video fino a sessant'anni dopo la morte. La piattaforma LifeNaut permette di creare una mindlife, cioè un archivio personalizzato di immagini, una timeline dei momenti della propria vita, dei documenti e dei posti visitati, insieme a diverse altre informazioni personali, incluso anche un avatar che interagisce usando idee, modi di fare e atteggiamenti che ricalcano i propri. La stessa piattaforma offre anche un servizio di conservazione del DNA, e tutto questo a beneficio delle generazioni future. La crescente digitalizzazione degli esseri umani è al centro del progetto artistico collaborativo Autoscopia di Adam Nash, nel quale le immagini delle persone ricavate dalle ricerche online sono trasformate in nuovi ritratti ricombinanti della stessa persona (tutti possono provare l'esperimento usando il proprio nome o quello di chiunque altro). Questi ritratti digitali sono poi reimmessi in rete attraverso link twittati, e si autoalimentano, quindi, ricorsivamente, perché si aggiungono alle ultime versioni dei ritratti già esistenti. In questo progetto, i dati in sé (i dati delle immagini digitalizzate ricavati dal programma di Autoscopia attingendo a varie sezioni di internet) sono rimodulati a scopi artistici per formare un tipo di immagine differente, ottenuta dalla combinazione di molte altre. Questo progetto solleva interessanti questioni sui modi in cui le forme dei dati digitali possono essere configurate e riconfigurate (o, nelle parole di Nash, modulate e rimodulate), le cui implicazioni riguardano in senso più ampio il potere che i dati digitali hanno di configurare la corporeità. Una mappa digitalizzata, come quelle create dalla piattaforma Health Map, per esempio, che evidenzi la diffusione delle epidemie infettive in certi luoghi geografici, è una modulazione di diversi tipi di dati inseriti nella piattaforma, provenienti dai social media o dalle informazioni fornite dagli stessi utenti sul loro stato di salute. Queste visualizzazioni funzionano come frammenti virtuali di corpi, perché rappresentano vari segni o sensazioni corporei reinterpretati come sintomi e mappati in forma geolocalizzata. I corpi stessi sono rappresentati come tipi di malattie, in questo genere di mappature digitali, perché la loro dimensione incarnata è ridotta a una serie di sintomi. E attraverso queste tecnologie le malattie infettive sono reinterpretate come oggetti digitali, e costantemente rimodulate con l'immissione di nuovi dati, esattamente come i ritratti digitali del progetto Autoscopia che riconfigurano continuamente la "realtà" dell'aspetto di una persona. Le pratiche digitali producono forme sempre nuove e diverse di assemblaggi cyborg digitali. Quando entrano in relazione con le tecnologie digitali, i corpi e i sé delle persone si frammentano in base a come certi tipi di dati sui sé e i corpi vengono trasmessi lungo percorsi diversi ma poi ricomposti in nuove configurazioni. Con l'accumularsi di dati sui corpi, questi ultimi si estendono oltre la carne, negli archivi dei dati digitali. Gli assemblaggi di dati che ne risultano hanno un'esistenza separata, per quanto non slegata, dalla vita dei corpi in carne e ossa che rappresentano. Gli assemblaggi di dati diversi che le forme delle nostre interazioni digitali configurano si modificano e cambiano continuamente sulla base dei nuovi dati che si aggiungono. I doppi digitali [data doubles] forniscono informazioni agli utenti, i quali sono spinti di conseguenza a usare il corpo in un certo modo. I commenti positivi o i like a immagini o informazioni legate al proprio corpo, ricevuti da amici e follower sui social media, possono indurre gli utenti a continuare a performare la propria corporeità nella direzione che si è scelto di divulgare (che si tratti di un'acconciatura, di un certo modo di vestire, del trucco, di un regime di allenamento o di una dieta dimagrante). Se invece i feedback sono negativi o evasivi, gli utenti sono indotti a rappresentare altrimenti il proprio corpo o ad intraprendere pratiche corporee differenti. Il flusso delle informazioni, pertanto, non è unidirezionale né statico, ma è parte di un circolo continuo in cui si producono i dati relativi ai corpi e le risposte a questi dati. I doppi digitali concorrono all'assunzione di una consapevolezza riflessiva e di un maggiore autocontrollo sul proprio corpo, perché portano il corpo alla ribalta, e fanno dunque parte della realtà aumentata dell'assemblaggio cyborg digitale. I social media e l'autoformazione essere difficile distinguere che cosa crei una relazione affettiva. Come ha messo in rilievo uno studio basato su interviste a giovani australiani che usavano le tecnologie digitali per le loro raccolte musicali, “l’immaterialità” dei file digitali non incide necessariamente sul piacere di mettere insieme queste raccolte musicali e non cambia la funzione che queste hanno nel definire l'identità delle persone. Queste raccolte, nella forma materiale tradizionale (dischi, cassette, CD) o solo in quella digitale, possono avere un forte significato affettivo e biografico per i proprietari. Anzi, la possibilità di fare delle playlist dalle raccolte digitali e condividerle facilmente con altri online - una delle affordance delle applicazioni per fare raccolte musicali digitali - contribuisce spesso all'attribuzione di significati affettivi, simbolici, sociali e personali alla musica. Quando piattaforme come Facebook cambiano le opzioni di privacy all'improvviso o il modo in cui i dati personali sono mostrati e archiviati, capita che i membri la vivano come una violazione della privacy, perché informazioni che prima non erano in evidenza possono tutt'a un tratto essere messe in primo piano (com'è successo nel 2006, quando Facebook ha introdotto la "Sezione Notizie”). Le persone prima a loro agio con il modo in cui venivano gestiti i dati personali si trovano costrette ad affrontare questi cambiamenti che riorganizzano i confini tra pubblico e privato. Quanto più affidamento si fa su una particolare tecnologia, e più essa è inglobata nella vita quotidiana, nella soggettività e nella corporeità degli utenti, tanto più si avverte con essa un legame affettivo, e aumenta la sua potenziale ambivalenza. Una ricerca basata su una serie di interviste fatte a utenti dei social media ha rilevato diffuse violazioni della privacy su questi siti, specialmente da parte di persone che rivelano dettagli della vita privata degli intervistati, come riportato dagli stessi: per esempio, nel caso in cui il fidanzato di una persona intervistata ha condiviso con un amico di Facebook informazioni dettagliate sulla loro relazione usando post pubblici, o quando un confidente ha divulgato informazioni sensibili sulla situazione economica dell'intervistato con un gruppo di amici in comune, o alcuni amici hanno usato la pagina Facebook dell'intervistato per spettegolare sulle esperienze passate che questi avrebbe fatto volentieri a meno di rendere pubbliche. Queste violazioni della privacy sono state causa di angoscia, rabbia o shock per coloro che le hanno vissute, specialmente quando si è trattato di violazioni subite da amici o ex partner che ne hanno tradito la fiducia.  Automonitoraggio e quantificazione del sé Il concetto di vigilanza digitale autoimposta diventa evidente soprattutto nei discorsi e nelle pratiche di autotracciamento, lifelogging e quantificazione del sé. Questi concetti si riferiscono alla pratica della raccolta costante di dati poi conservati e analizzati per produrre statistiche e altri dati (come immagini) legati alle proprie funzioni corporee e abitudini quotidiane. C'è chi raccoglie dati solo su uno, due aspetti della propria vita, e per un periodo di tempo circoscritto, c'è chi invece li raccoglie in relazione a centinaia di aspetti diversi e per lunghi periodi. Le persone che usano il digitale e altre tecnologie per imparare di più su di sé e sul proprio corpo si autorappresentano spesso come body-hackers o self-experimenters. Chi è intento in questo tipo di pratiche di solito condivide sui social media i dati che raccoglie su di sé, ma c'è anche chi preferisce tenerli per sé e condividerli solo col personale medico, i badanti o gli intimi. Come non è una pratica nuova tenere un diario, così non lo è tenere traccia e fare un'analisi di alcuni aspetti di sé e del proprio corpo. Le persone hanno registrato le loro abitudini e le metriche legate alla salute per secoli al fine di riflettere su di sé e migliorarsi. Certamente nuova, invece, è l'espressione "sé quantificato" e il movimento a essa collegato, che ha un sito dedicato con lo stesso nome e si riunisce regolarmente per incontri e conferenze, così come le attuali modalità di autotracciamento che si servono delle tecnologie digitali messe a punto in anni più recenti. Molte di queste tecnologie di autosorveglianza si possono indossare o portare sempre con sé: con gli smartphone si possono scattare velocemente e facilmente selfie o foto del cibo che si mangia e dei luoghi visitati, oppure annotare e dettare commenti sulle esperienze giornaliere, e poi caricare il tutto sui social media. Alcuni lifeloggers portano tutto il giorno al collo delle piccole fotocamere indossabili che scattano automaticamente centinaia di foto. Si sta diffondendo una serie di "oggetti intelligenti" - come spazzolini, auricolari, scarpe, abiti, oggetti d'arredamento e gioielli - dotati di sensori e microprocessori in grado di monitorare e misurare vari aspetti del sé e del corpo. Quantità e tipi di dispositivi indossabili sono in notevole aumento. I dispositivi medici permettono alle persone con patologie croniche di automonitorarsi da casa, e spesso mandare i dati via wireless al personale sanitario o ai badanti. Questi, come alcuni dispositivi per il fitness, permettono anche alle persone di controllare le proprie funzioni vitali, come l'esercizio fisico, la pressione, il battito cardiaco, il peso, la glicemia, l'attività cerebrale e la funzionalità polmonare. Alcuni dispositivi riescono a mettere insieme dati provenienti da fonti diverse: per esempio il braccialetto digitale per il lifelogging SmartBand SWR10 di Sony, disegnato per essere indossato giorno e notte, si connette via wireless allo smartphone e anche all'applicazione Lifelog, consentendo agli utenti di accedere ad altre applicazioni e piattaforme come Facebook, e al loro telefono di tenere nota dei luoghi visitati, della musica ascoltata, delle relazioni che intrattengono e dei giochi che fanno, come pure di dati biometrici relativi, per esempio, al sonno e ad altre attività fisiche. Questo braccialetto notifica inoltre all'utente le chiamate e i messaggi in entrata tramite una vibrazione, e si connette a una fotocamera dimodoché chi lo usa possa anche tenere una traccia visuale delle attività che svolge nel quotidiano. I dispositivi indossabili sono usati anche da chi gioca ai videogames o fa attività sportiva. Le attuali tecnologie collegate ai giochi digitali incorporano spesso dei sensori che monitorano il corpo dei giocatori. Esistono delle cuffie digitali per giocare che registrano i segnali elettrici emessi dal cervello di chi le indossa. La console Wii di Nintendo è esplicitamente orientata a promuovere il fitness e l'attività sportiva: i programmi Wii Fit, che possono avvertire e registrare i movimenti corporei consentono di tenere nota, misurare e calcolare attività fisiche e caratteristiche corporee come il peso, l'indice di massa corporea, la postura, gli indicatori della forma fisica e l'equilibrio. La versione Wii Fit Plus permette di creare dei programmi di allenamento su misura e calcolare la loro intensità e le calorie bruciate, come pure “l'età Wii Fit". Considerate le sue caratteristiche, è manifesto che questa tecnologia ha un ruolo determinante nell'influenzare i concetti di salute, peso ideale e forma fisica, fornendo anche consigli per migliorare o normalizzare questi aspetti della corporeità. Le espressioni "sé quantificato" e "quantificazione del sé", apparse per la prima volta con la nascita dell'organizzazione Quantified Self e del suo sito, si sono ormai diffuse ampiamente nella cultura popolare a indicare tutte le pratiche legate all'autotracciamento in senso più generale. Il concetto di pratiche del sé riemerge nuovamente nei discorsi sull'autoquantificazione digitale e sul lifelogging. Produrre dati dettagliati su se stessi usando i dispositivi digitali è considerato indubbiamente un bene per l'etica del miglioramento del sé. Alla base della raccolta di dati attraverso i dispositivi di autotracciamento c'è l'idea che conoscere se stessi possa servire a esercitare un maggior controllo sul proprio destino, presupponendo che i dati e la conoscenza che essi veicolano aiutino a stare meglio, ottimizzare il sonno, controllare gli sbalzi d'umore, gestire le patologie, diminuire lo stress, aumentare la produttività sul lavoro, avere relazioni qualitativamente migliori e via dicendo. I dati raccolti dai dispositivi digitali usati per l'autotracciamento appaiono come una fonte di verità, tanto quanto le percezioni corporee apparivano inaffidabili, inesatte e imprecise perché mediate dall'esperienza umana invece che obiettivamente date. In queste rappresentazioni, la tecnologia e i dati che essa produce sembrano fornire una comprensione privilegiata del funzionamento del corpo umano, in modi che le percezioni dei singoli individui, di tipo aptico (fisico) e immediato, non permettono di fare. La valorizzazione dei dati evidente nei discorsi sul sé quantificato è essa stessa parte di un discorso  data- utopico più ampio, che riguarda soprattutto i benefici dei big data digitali. Diversamente dai grandi dataset digitali, apparentemente anonimi e meccanicamente assemblati, i dati prodotti dai quantified selfers sono spesso visti nella loro componente umana e idiosincratica, forgiati dalle decisioni personali e dagli obiettivi individuali di chi li registra. I quantified selfers sono impegnati a produrre i loro assemblaggi personali di dati per il loro progetto di costituzione identitaria, e fa parte di questo progetto anche avere il controllo su questi dati e su come e quanto condividerli con altri, cosa che l'economia dei big data al momento non consente loro di fare. Queste persone che cercano di agire per migliorare la propria vita e il suo potenziale hanno prontamente assunto il ruolo del cittadino responsabile e intraprendente promosso dalla governamentalità neoliberale. Anthony Elliott sostiene che stiamo vivendo in un'epoca di reinvenzione del sé e del corpo: l'idea e le pratiche legate alla reinvenzione del sé sono al centro della vita sia privata sia collettiva, e generalmente considerate obiettivi importanti. Reinventarsi significa trasformarsi per crescere sul piano personale, realizzarsi, avere successo sul lavoro, godere di buona salute o sentirsi bene. Secondo Elliott, questo rientra nel “nuovo individualismo” caratteristico dei paesi sviluppati, che richiede di focalizzarsi sul sé invece che sui gruppi sociali, sulle organizzazioni o sulle comunità. La riflessività e l'autocritica sono incoraggiate come parte di questo nuovo individualismo, e viste come modalità di miglioramento del sé attraverso discorsi e pratiche terapeutiche. Le pratiche di autotracciamento contribuiscono a questa retorica della reinvenzione, e, ponendo l'attenzione sul sé, si adattano bene sia alle idee di lavoro su di sé e di automiglioramento, proprie del paradigma della reinvenzione, sia al nuovo individualismo. Cuciture nel cyborg Bell e Dourish descrivono le mitologie e la confusione che circondano le tecnologie della computazione ubiqua. I miti sono le storie culturali, i valori e i significati usati per dare senso a queste tecnologie e per rappresentarle: in genere tendono a porre l'accento sulla novità, sulla evidente differenza rispetto a quello che c'era prima e sulla capacità di risolvere i problemi che le nuove tecnologie digitali hanno. La confusione pone invece una sfida ai miti che presentano queste tecnologie come infallibili e offre una soluzione perfetta a tale problema: la "realtà delle cose" nel loro uso quotidiano. Quando funzionano come ci aspettiamo, le tecnologie ci sembrano fare inestricabilmente parte dei nostri corpi e dei nostri sé. Ma è inevitabile che in alcuni momenti ci rendiamo conto di dipendere dalle tecnologie, o le troviamo fastidiose o difficili da usare, o viene meno il nostro interesse nei loro confronti. Le tecnologie si guastano, sbagliano o non funzionano come previsto; o magari le infrastrutture o le norme statali non le supportano adeguatamente; gli utenti finiscono per averle a noia o sono i corpi a ribellarsi e ad accusare i sintomi di un uso eccessivo. Esistono forme di resistenza, individuali o di gruppo, all'uso delle tecnologie, e forme di contestazione del loro significato e valore. Freund parla di «habitus tecnologico» per descrivere il «controllo interiorizzato» e i tipi di consapevolezza richiesti alle persone per vivere e operare negli ambienti tecnologici, come quelli che oggi caratterizzano le società occidentali. L'insieme uomo/macchina, sostiene Freund, non è privo di cuciture: esistono invece delle disgiunzioni - quelle che definisce «cuciture nel cyborg» - dove il corpo incarnato e la macchina combaciano non senza intoppi, e può anche darsi un senso di disagio, tensione o impotenza. L'uso di queste tecnologie, per esempio, può interferire con i ritmi del sonno, l'aumento del tempo lavorativo e del tempo degli spostamenti, e la diminuzione del tempo libero, ed essere causa di malessere, stress e affaticamento. Il corpo inizia così ad avvertirci che questi oggetti esercitano un'influenza materiale sulla nostra corporeità vissuta: l'abuso di questi dispositivi causa stanchezza agli occhi, dolori alle mani, al collo o alla schiena, o mal di testa. Le persone si sentono sopraffatte dall'eccesso di dati cui accedono con i dispositivi digitali e dall'ansia di dover restare sempre al passo con gli aggiornamenti dei social network. Già circolano i risultati di alcune ricerche relative a piattaforme come Facebook che evidenziano come gli utenti riconoscano la loro dipendenza dai social media per mantenere le reti sociali e allo stesso tempo non sopportino questa assuefazione e il tempo che sottrae loro, avendo persino paura di diventarne "dipendenti". C'è chi si sente anche "invaso" dal sovraccarico di dati che l'appartenenza ai social network produce, e dalla difficoltà che avverte a spegnere i dispositivi mobili e rimanere offline per un po'. Gli sviluppatori lavorano di continuo sui modi per innestare le tecnologie digitali nel corpo e nella vita quotidiana delle persone, per renderle sempre meno invadenti e sempre più costitutive dei corpi/sé. Come dice il direttore e responsabile tecnico del progetto Google Glass (un dispositivo indossabile che funziona come un paio di occhiali), «avvicinare la tecnologia e la computazione al corpo può migliorare la comunicazione e l'attenzione - e permettere alla tecnologia di togliersi di mezzo ancora di più. Egli sta dicendo che rendere questi dispositivi più piccoli e più facilmente indossabili può farli scomparire ancora di più sullo sfondo ed evitare che monopolizzino l'attenzione degli utenti (come accade invece con gli smartphone e i tablet oggi). Nonostante gli sforzi, però, chi indossa i Google Glass attira sempre l'attenzione degli altri, e spesso in modo negativo, o perché si tratta di un dispositivo troppo vistoso, poco elegante e di forma sgradevole, o perché chi lo indossa è visto come un nerd pieno di soldi che non ha rispetto per la privacy altrui. Più di una volta chi ha indossato questi occhiali in pubblico è stato aggredito, in alcuni casi gli sono stati tolti gli occhiali di dosso e gli è stato chiesto di lasciare il luogo nel quale li stava usando. Il design di questi dispositivi, quindi, provoca delle reazioni di tipo emotivo non solo in chi li usa ma anche in chi li vede usare. C'è chi pensa che i dispositivi indossabili per l'autotracciamento non siano sufficientemente belli, non abbastanza impermeabili, o poco maneggevoli e troppo pesanti, o scomodi da indossare, oppure pensa che si possano distruggere in lavatrice nel caso in cui ci si dimentichi di rimuoverli dai vestiti. Una designer pensa che se queste tecnologie rimangono troppo visibili, «imbullonarle» ai corpi avrà come risultato solo quello di «distrarci, intralciarci e alla lunga allontanarci dagli altri, finendo per svilire la nostra esperienza». Per questo, crede si debba prestare maggiore attenzione al design di questi oggetti così da integrarli meglio nel «tessuto delle nostre vite», e suggerisce alcune vie, per esempio migliorarli esteticamente, come fossero gioielli (spille, girocolli, braccialetti, anelli), incorporarli in abiti di tendenza, spostarli ai bordi, e renderli significativi, magari usando il colore e la vibrazione invece dei numeri per mostrare i dati sui display. Anche il lavoro fisico e quello creativo sono parte integrante della materialità delle azioni integrate uomo/tecnologia. Il lavoro intellettuale e creativo - tendenzialmente non pagato - proprio del prosumismo, è svolto perché rientra negli ideali del soggetto che condivide in rete e della democrazia partecipativa. I prosumer non sono pagati, ma gli sviluppatori delle piattaforme su cui i contenuti sono caricati approfittano, spesso in lungo e in largo, dei dati prodotti. Se il prosumismo è fondamentalmente lavoro non pagato, i lavoratori pagati che fanno a gara per accaparrarsi il lavoro freelance su piattaforme online come Amazon Mechanical Turk o Freelance.com hanno guadagni davvero irrisori, vivono in una condizione di precariato e non usufruiscono dei benefici previsti in molti altri luoghi di lavoro. L'economia digitale della conoscenza comporta anche lavoro materiale. Serve una gran quantità di forza lavoro per produrre materialmente i dispositivi digitali: la Apple impiega mezzo milione di persone nelle sue fabbriche di due città della Cina. Si tratta di lavoratori sottopagati che vivono spesso in condizioni di miseria e sfruttamento. Molti dei lavoratori impiegati nella manifattura delle tecnologie digitali patiscono le conseguenze fisiche del lavoro manuale che svolgono. Le infrastrutture digitali come i server, i dischi fissi e i sistemi di archiviazione dei dati sono oggetti materiali collocati nello spazio geografico, e necessitano di manutenzione continua da parte di persone in carne e ossa. Per chi lavora nelle miniere che forniscono i minerali necessari alle fabbriche produttrici di tecnologie digitali, poi, spesso in condizioni non ottimali e a rischio di esposizione ad agenti chimici nocivi, la materialità del digitale è ovunque. Diversi giganti dell'industria del digitale sono stati accusati di ostacolare o impedire i tentativi dei lavoratori di aderire ad associazioni sindacali, di pagarli troppo
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