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La Politica nell'Età Contemporanea - Massimo Baioni & Fabio Conti, Sintesi del corso di Storia Contemporanea

Riassunto e rielaborazione per esame scritto da studente non frequentante

Tipologia: Sintesi del corso

2018/2019

In vendita dal 02/07/2019

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Scarica La Politica nell'Età Contemporanea - Massimo Baioni & Fabio Conti e più Sintesi del corso in PDF di Storia Contemporanea solo su Docsity! Bruschi Pietro 1 LA POLITICA NELL’ETÀ CONTEMPORANEA Nuovi indirizzi della ricerca storica MASSIMO BAIONI – FULVIO CONTI 1. La Nuova Storia Politica. LA STORIA CULTURALE DELLA POLITICA: La storia ha avuto un rinnovamento tramite nuove metodologie e tramite nuovi approcci a questioni che da sempre stavano al centro della storia politica (come le elezioni, i partiti, le biografie, le idee politiche, la guerra), oltre all’individuazione di nuovi ambiti di ricerca (come i media, le associazioni, l’opinione pubblica, il linguaggio della politica). Bisogna preoccuparsi di includere nel campo delle nostre ricerche ogni sorta di sentimento che agita gli individui e può muovere le collettività. La specificità della dimensione politica non va trattata come residuale o sovrastrutturale rispetto alla storia sociale o economica, ma rappresenta una realtà che fa di essa un oggetto di conoscenze storiche. L’attenzione andrebbe spostata dalla storia dei partiti a quella delle culture politiche, intese come l’insieme di rappresentazioni che unisce un gruppo sociale, approfondendo lo spazio geografico e sociale, i riti collettivi e il radicamento di simboli e valori condivisi (cementando un’identità di gruppo che sopravvive al nucleo di fondazione e si trasmette alle generazioni successive). IL RITORNO DELLA STORIA POLITICA IN ITALIA: Un apporto decisivo all’indagine della storia politica in Italia è arrivato dalla connessione interdisciplinare (scienze politiche, sociologia politica, sociologia della comunicazione, geografia, statistica). Allo studio tradizionale centrato sulla ricostruzione dei programmi politici, ideologie e quadri direttivi si è sostituito un interesse crescente per gli aspetti organizzativi, per le forme della comunicazione e della propaganda, per l’elaborazione di simboli e ritualità. Tramite una storia comparata è possibile ricercare i tratti identitari della politica italiana mettendo a confronto il periodo liberale, quello fascista e quello repubblicano. Un aspetto evidenziato dagli studi sul sistema politico è rappresentato dalle sorprendenti analogie morfologico strutturali tra l’età liberale e repubblicana (la feroce contrapposizione fra due schieramenti – che mancava dall’avvento del fascismo ai governi “patchwork” della Democrazia Cristiana; le tecniche di delegittimazione dell’avversario – vera e propria demonizzazione come minaccia per la sopravvivenza della democrazia; la seduzione politica e la democrazia dell’opinione – che entrano nella sfera privata dei politici per esaltarli o ridicolizzarli). LINGUAGGI DELLA NAZIONE, RELIGIONI POLITICHE, USO PUBBLICO DELLA MORTE: Grande interesse ha investito la storia del Risorgimento, rivisitato in qualità di radice del movimento patriottico. Quest’ultimo si è osservato come è stato di fatto “inventato” da intellettuali ed artisti ottocenteschi tramite simboli, immagini e figure preesistenti, i quali, ben conosciuti dalle tradizioni discorsive, erano capaci di veicolare messaggi etico-politici di grande rilevanza (basti pensare al “credo condiviso” che si viene a creare con l’uso pubblico della morte di patrioti o leader); veniva creato il “canone risorgimentale” tramite l’acuto uso di una pedagogia della memoria. Bruschi Pietro 2 2. Generazioni, movimenti giovanili e politica, LE GENERAZIONI “POLITICHE”: Ogni generazione presenta specifici problemi in ordine alle condizioni determinate in ogni periodo storico, ma le generazioni non sono classi sociali. L’interpretazione dei giovani quale “classe pericolosa” si scontra con l’estrazione sociale della quale i giovani fanno parte (la minoranza ha origini colte, mentre in massima parte si parla di figli della borghesia). I principi di alcuni movimenti giovanili che hanno lasciato traccia nella storia non possono essere interpretati come i valori di ogni giovane del periodo preso in considerazione, anche se spesso questi principi finiscono per assumere il valore di elementi connotativi di un’intera generazione. Alcune generazioni sono “cresciute”, altre sono rimaste disilluse, altre ancora hanno partecipato alla vita politica del paese in età adulta: l’esposizione e il riconoscimento di una generazione non necessariamente portano all’occupazione di posizioni di rilievo, così come il loro declino non sempre rappresenta un passaggio insignificante a livello politico e culturale. GIOVANI E RIVOLUZIONARI: Sia nella rivolta da cui sarebbero sorti gli Stati Uniti che nella Rivoluzione Francese e nella Francia Napoleonica, si ebbe un rinnovamento della classe dirigente; in esse era consistente il numero di giovani (Principio di Saint-Just: ogni generazione non deve sentirsi incatenata alle scelte di quella precedente). Al contrario, durante la Restaurazione, i sovrani diffidavano dei giovani, temendone le potenziali spinte rivoluzionarie: all’interno della classe dirigente si preferirono i rassicuranti “vecchi” volti della politica pre-rivoluzionaria. Fu così che i figli della borghesia iniziarono a sentire una forte distanza generazionale dal potere. I movimenti rivoluzionari del 1820-21 e del 1830, sia in Francia che in Italia, registrarono una forte presenza giovanile. Accanto al senso di emarginazione dalla possibilità di sentirsi partecipi alla vita politica, molti giovani iniziarono un percorso formativo attraverso il Romanticismo, che li portò a sposare la causa dell’indipendenza nazionale e dell’avversione nei confronti dei poteri chiusi, dando così la nascita a vere e proprie comunità organizzate. In particolare, per Giuseppe Mazzini la gioventù rappresentava una delle forze motrici della storia e, dopo i moti del ’31, volle scommettere sulla generazione nata col secolo (età massima di 40 anni per potersi iscrivere alla Giovine Italia), poiché gli uomini del passato apparivano insensibili ai fermenti innovatori e liberatori del romanticismo. DAI NATI “TROPPO TARDI” ALLA FASCINAZIONE DELLA MODERNITÀ: La partecipazione politica dei giovani parve declinare col termine delle imprese mazziniane e garibaldine: la classe dirigente che aveva fatto il Risorgimento non sollecitava alcuna partecipazione giovanile e non venivano richiese altre “missioni eroiche”. Molti giovani si sentirono nati troppo tardi e troppo presto per fare qualcosa. Sul finire del secolo alla fascinazione romantica, allo slancio spontaneo di un sacrificio senza calcoli, all’anticonformismo scapigliato, seguì un nuovo modello che vi si sovrappose e finì per imporsi nel corso del tempo: la virilità. Il sentimento non si basava più solamente sul diritto all’indipendenza nazionale, ma si trasformava in una pretesa di dominio sulle altre nazioni (soprattutto in Francia, Italia e Germania, dove il nazionalismo assumeva un crescente consenso tra i giovani). La chiamata alle armi divenne così un rito di passaggio – le fantasie di coraggiosi duelli corpo a corpo vennero disilluse da forme di guerra che lasciavano ben poco al coraggio e alla forza. DALLE PIAZZE ALLE TRINCEE: Il protagonismo giovanile è da ricercarsi in cinque importanti fattori: l’avvento della società di massa, le forme rinnovate del linguaggio (nuovi editoriali) e della ritualità politica pubblica (la protesta in piazza), la travolgente fascinazione della modernità possibile (il progresso scientifico e tecnologico), la fine della storia come fondamento culturale e civico, l’invecchiamento obiettivo delle classi dirigenti (giudicati incapaci di cogliere le novità dei tempi correnti) e la crisi della loro leadership (sistemi politici che mal si erano adattati alla società di massa). I dirigenti liberali, quelli della generazione di mezzo, posta tra l’epopea del risorgimento e l’impulso interventista, non coglievano l’importanza delle piazze piene di giovani, dell’eco degli organi di stampa e della crescita numerica dei nuclei politicizzati. La generazione del 1914 era pronta a tuffarsi nell’apocalisse della modernità, cioè in quella guerra vista come livellatrice sociale, e per la quale erano stati costruiti i miti dell’eroismo e del protagonismo del giovane virile. Bruschi Pietro 5 MAGHI, GURU E SPIN DOCTOR: “Maghi” è l’appellativo che venne affibbiato negli anni ‘50 ai professionisti di successo del settore della pubblicità quando le grandi agenzie americane cominciavano ad aprire in Italia le proprie filiali, introducendo parole come marketing, target e ricerca motivazionale. A fine secolo è invece entrato nell’uso chiamare “Guru” i professionisti più affermati nel campo della comunicazione commerciale e politica; “Spin doctor” allo stesso tempo è stato attribuito a chi, affiancando i vertici, indicava la strategia più adeguata per raggiungere obiettivi elettorali. Abbandonate le visioni lineari di tipo monodirezionale (dal leader verso i cittadini), la nuova comunicazione politica di matrice americana intende comprendere tutti gli attori coinvolti (partiti, politici, organizzazioni non elettive, media, pubblico, elettori). È il regno dei creativi e delle grandi risorse a sostegno dell’industria politica. DAGLI ANNI DI MILITANZA AL MARKETING POLITICO: Dopo il Sessantotto l’Italia assistette al coinvolgimento di migliaia di giovani nell’attività politica tramite la militanza nei nuovi movimenti e partiti di sinistra, focalizzati sull’attività di proselitismo. Si rafforzò l’ondata di ottimismo e di fiducia sulle capacità razionali del cittadino elettore e sul ruolo dei mass media, decretando la decadenza dello slogan in quanto elemento di propaganda irrazionale; l’esplosione delle TV commerciali negli anni Ottanta inaugurarono l’era degli spot elettorali. I partiti avevano sostanzialmente abbandonato gli orpelli ideologici e si presentavano sul mercato elettorale in modo fondamentalmente omogeneo: era l’offerta dello “stesso prodotto” ad aumentare la concorrenza e quindi la necessità della pubblicità. Fondamentali si rivelarono i sondaggi, che consentivano di conoscere problemi, aspirazioni e speranze dell’elettorato: il lancio del “prodotto-partito/leader/programma” veniva realizzato sulla base dei rilevamenti di opinione. VIDEOCRAZIA E SONDAGGI D’OPINIONE: A seguito della vittoria elettorale di Forza Italia nel 1994, ovvero di un partito il quale leader non aveva alcuna tradizione politica alle spalle ma che invece poteva contare su una grande impresa di comunicazione (Fininvest, poi Mediaset), si cominciò a parlare di “videocrazia” per indicare l’importanza ed il conseguente potere ricoperto da coloro che potevano occupare l’arena televisiva e vincerne (realmente o illusoriamente) gli scontri. Tuttavia la televisione, pur avendo il proprio importante peso, non è in grado da sola di far vincere un candidato (come dimostrato dal parziale fallimento delle competizioni elettorali successive al ’94): il suo nuovo ruolo, più che quello persuasivo, è quello di “agenda-setting”, ovvero il veicolamento dei temi su cui far convergere l’attenzione dell’opinione pubblica, rafforzandola e autoidendtificandola nelle scelte del partito. LE PROMESSE DI INTERNET: Le aspettative che si avevano nei confronti di Internet risiedevano nell’orizzontalità della Rete, che sarebbe dovuta essere bidirezionale ed interattiva, riducendo le gerarchie e ampliando la partecipazione dal basso, aumentando le possibilità d’accesso diretto all’informazione e la produzione/distribuzione di quest’ultima. Il nuovo mezzo si prometteva di traghettare il mondo verso la democrazia diretta. Il successo che ha riscosso in Italia l’idea di attuare una forma di democrazia diretta tramite la rete si è concretizzata nel Movimento 5 Stelle, partito fondato nel 2009 dal comico politicamente impegnato Beppe Grillo e dall’imprenditore del web Gianroberto Casaleggio. Questo successo ha tuttavia fatto emergere nuovi problemi, non risolvendo quelli più antichi, soprattutto in merito alla trasparenza dei processi decisionali. Sembrerebbe che i social, più che favorire la crescita della partecipazione attiva e riflessiva, stia promuovendo il conformismo. Internet, nonostante le potenzialità, si sta rivelando come un ulteriore strumento per mantenere gli atteggiamenti di pigrizia caratterizzanti di buona parte del corpo elettorale. Bruschi Pietro 6 4. VIOLENZA E POLITICA. IERI E OGGI: Chiunque abbia avuto occasione di riflettere sulla storia e sulla politica non può non essere consapevole dell’enorme ruolo che la violenza ha sempre svolto negli affari umani. La violenza politica nega e allo stesso tempo riafferma l’individuo, perché è compiuta in nome di principi collettivi ma uccide sempre persone in carne e ossa.; il risultato è la disumanizzazione della lotta politica (epurazioni a seguito della Rivoluzione francese, nella Russia bolscevica, nella Germania hitleriana e negli attacchi dell’ISIS all’Occidente). Con il crollo del muro di Berlino e la fine delle ideologie novecentesche, l’attenzione si sposta dal male inferto a quello sofferto, restituendo un volto alle vittime e conferendo loro una centralità inedita: il potere dei mass media di influenzare la percezione soggettiva tuttavia tende a concentrare tutta l’attenzione sugli effetti, riducendo l’interesse per le cause, finendo per focalizzare l’attenzione solo sui protagonisti passivi e non anche su quelli attivi. Questo approccio tende a ridurre l’analisi critica e a giustificare le logiche vendicative, in realtà controproducenti (uso politico dell’angoscia). UNA CATEGORIA STORICA DEBOLE: Il vero nodo della violenza politica è rappresentato dal fatto che uomini privi della giustificazione difensiva e dell’anonimato morale assicurato dalla divisa (violenza di stato) possano deliberatamente uccidere altri uomini in nome di un’idea di giustizia, per quanto distorta. Centrale è il problema della responsabilità individuale che le violenze collettive tendono a diluire. Le diverse realtà storiche (concezioni ideologiche, cultura, educazione, livello tecnologico, circostanze) della violenza politica hanno portato a ricezioni diverse nell’opinione internazionale: istituzionale non significa sempre legittima. Il prevalente atteggiamento di condanna verso la violenza politica riflette le difficoltà di una storiografia che stenta a decollare, soffocata dalle sfide dell’opinione pubblica. Il rapporto tra violenza e politica viene anche a configurarsi come un paradosso, perché in un certo senso la politica dovrebbe rappresentare il superamento dell’uso della violenza sulla base di norme stabilite e condivise. Il Novecento è in questo sento paradigmatico, essendo sia il secolo in cui la violenza raggiunge i livelli più alti (Guerre Mondiali; genocidi; tecnologia bellica) sia quello in cui massimi si rivelano gli sforzi compiuti per disciplinarla (1919 – Società delle Nazioni; 1948 – Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo). ALL’ORIGINE DI TUTTO, LA RIVOLUZIONE FRANCESE: Uno degli apogei della violenza politica è senza dubbio rappresentato dalle rivoluzioni, caratterizzate dal doppio volto: uno glorioso e seducente, l’altro violento e terrificante. A partire dalla presa della Bastiglia, la violenza si fa strumento di una diretta partecipazione popolare, facendo riflesso ad una nuova concezione dello Stato e della legittimazione del potere: esempi esplicativi sono la ghigliottina, una macchina in grado di uccidere in serie alleviando le sofferenze, la leva di massa, la quale fa di ogni cittadino un soldato, e la Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino del 1789, la quale sancisce il diritto di resistenza al potere repressivo dello Stato. RIVOLUZIONE E CONTRORIVOLUZIONE NEL “LUNGO OTTOCENTO”: Ad uscire vittorioso dal lungo processo di metabolizzazione del pensiero rivoluzionario (importante il concetto di guerra di classe come variante della guerra civile) è il modello di cittadinanza e di Stato Nazionale: nazione, nazionalità, nazionalismi sono concetti in un certo senso ambigui che sono stati usati non senza contraddizioni per giustificare tanto le lotte di liberazione nazionale quanto le oppressioni di altri popoli. La “invenzione della tradizione” per fare leva sul principio di nazionalità, sulla sua storia e sui suoi diritti, assieme alla costruzione del nemico (il darwinismo sociale ed il razzismo poi, ovvero la disumanizzazione del nemico, rappresenta l’estrema ma logica conseguenza del nazionalismo aggressivo che si traduce in imperialismo), è un passaggio decisivo per la legittimazione della violenza durante l’età contemporanea; l’unico vero antagonista ideologico e politico rimarrà il movimento operaio socialista, di ispirazione internazionalista. Bruschi Pietro 7 GUERRE TOTALI, RIVOLUZIONI, GUERRE CIVILI: A determinare il vero salto di qualità del rapporto tra violenza e politica è stata sicuramente la Grande Guerra; il processo di nazionalizzazione della guerra dà luogo a un conflitto che coinvolge l’intera società, equiparando militari e civili. I genocidi, tra i cui scopi c’è quello di mobilitare il consenso contro un nemico vero o presunto che sia, trovano il loro habitat naturale nell’ambito delle guerre totali, che intrattengono un rapporto stretto con le guerre civili, caratterizzate dall’ampio coinvolgimento dei civili dovuto alla difficoltà di distinguere gli amici dai nemici. BRUTALIZZAZIONE DELLA POLITICA: Il milite ignoto rappresenta il passaggio dell’eroismo individuale nazionale all’olocausto collettivo, è il segno più evidente della scossa della guerra. Le guerre civili costituiscono sempre un momento regressivo del processo di civilizzazione, perché presuppongono il sovvertimento di uno dei suoi capisaldi, cioè del monopolio legittimo della violenza. Per George Mosse la “brutalizzazione della politica” rappresenta il fenomeno secondo cui quella violenza che ha rappresentato l’orizzonte di vita quotidiano per milioni di soldati, invade e permea anche la politica: per numerosi soggetti e movimenti politici la violenza diviene una pratica legittima nel confronto-scontro con gli avversari e con le istituzioni pubbliche, fino a costituire un elemento decisivo nella loro affermazione sulla scena pubblica europea, basti pensare alle organizzazioni paramilitari. LA GRANDE CARNEFICINA: La Seconda guerra mondiale mantiene le caratteristiche di guerra civile, dispiegandone gli effetti su larga scala, invadendo anche la sfera psico-fisica dei civili (i bombardamenti); è una guerra di religione e a contrapporsi l’una contro l’altra sono due idee di Europa. In essa la guerra partigiana e la guerra di liberazione nazionale tendono a confondersi, ma in contesti in cui la presenza di più nazionalità si mescola a odi etnici e ideologici (come in Jugoslavia e in Ucraina) le rivendicazioni si sposano anche al collaborazionismo, dando luogo a terribili violenze. La vera svolta si ha con l’invasione tedesca dell’URSS nel 1941, che trasforma tutto in guerra del terrore senza limiti, con la tendenza a confondere sempre più sfera militare e sfera civile nelle rappresagli indiscriminate. GUERRA FREDDA E GUERRA CALDA: Ad insanguinare la seconda metà del Novecento contribuisce l’intreccio tra la decolonizzazione e le dinamiche polarizzatrici della Guerra fredda, portando il conflitto nel cosiddetto Terzo Mondo. La guerra d’Algeria rappresenta l’episodio paradigmatico della decolonizzazione: in esso si contrappongono gli schieramenti tramite guerriglie con inedite tecniche di controllo della popolazione, con la generalizzazione della tortura e dei campi di concentramento, di attentati, rastrellamenti e rappresaglie. In qualità di lotta di liberazione di un popolo oppresso, la guerra d’Algeria ha fornito il modello del terrorismo moderno. Altre espressioni della violenza per la liberazione durante la parte finale del secolo riguardano la guerra americana in Vietnam, il terrorismo dell’IRA in Irlanda e dell’ETA in Spagna, la dittatura in Grecia, gli anni di piombo in Italia. Riguardando minoranze assai ristrette, il fenomeno armato degli anni Settanta-Ottanta riassume in estrema sintesi le antinomie di tutta la militanza rivoluzionaria novecentesca, sospesa tra esaltazione e mortificazione della libertà. Ogni ipotesi sull’esistenza di una predisposizione individuale, etnica, religiosa, ideologica o politica alla violenza sembra trovare una secca smentita e con essa la tendenza a semplificare ciò che semplice non è mai, mettendo in crisi qualsiasi possibilità di prevenzione: per la diffusione della violenza, come si è visto, ci vogliono sempre un terreno favorevole alla costruzione del nemico e qualche evento scatenante. La violenza di massa offre paradossalmente una deresponsabilizzazione dei colpevoli, rischiando di far sparire la dimensione micro della violenza politica. Occorrerebbe tenere conto di come la dimensione macro incida su quella minore, senza mai dimenticare l’influenza che entrambe esercitano anche sui comportamenti politici legati all’interno dei contesti democratici, dove la violenza dopo lunghi periodi di inabissamento riemerge all’improvviso, come un fiume carsico. Bruschi Pietro 10 6. Musica e politica. La musica rappresenta un’arte asemantica molto plastica e instabile, capace di assumere diversi significati nel contesto sociale e riflettere le tensioni nella memoria delle nazioni. IL SIGNIFICATO CULTURALE DELLA PERFORMANCE MUSICALE: L’esplosione di senso offerta dalla musica è coinvolgente e particolare, ma potente proprio perché a volte è dimostrazione inaspettata, è ferma del mutamento invocato e atteso dalle minoranze attive. Il suo simbolismo, spesso vago e poco allusivo, diventa straordinariamente potente, in quanto testimonianza della politicizzazione che la performance ha realizzato; diversi generi musicali sono sempre stati il prodotto di differenti attività e di molteplici strati sociali, i quali hanno utilizzato la musica a sostegno della loro vita sociale. Ogni movimento politico nella sua ricerca di consenso cerca di individuare realtà artistiche e intellettuali affini a lui o ai ceti sociali di riferimento. MUSICA, SOCIALITÀ E IDEOLOGIA TRA SETTECENTO E OTTOCENTO: Con il tardo Illuminismo e il Romanticismo la musica perde definitivamente i caratteri di scienza e si vede riconosciuta la sua qualità d’arte. Durante il Settecento il fenomeno musicale investe a tutto tondo i termini del dibattito culturale e politico, dove la sfera musicale ha assunto una posizione centrale nel confronto tra diverse ideologie e diverse tesi politiche e sociali. La musica, i teatri, le sale da concerto costituiscono il luogo dove è possibile intervenire nella lotta culturale e politica, dove proporre modelli alternativi alla sociabilità delle èlite urbane. In maniera simile alla violenza, l’espressione canora semplice e reiterata in melodie popolari ha rappresentato uno strumento di lotta per l’affermazione di ideali antagonisti rispetto a quelli vigenti. IL NOVECENTO E LA SOCIETÀ DI MASSA, I NUOVI TERMINI DEL SIGNIFICATO CULTURALE DEL PRODOTTO MUSICALE: I grandi processi di cambiamento innescati dal primo conflitto mondiale hanno costretto la cultura europea a fare della musica uno strumento utile ad accompagnare tanto gli uomini nello scontro bellico, quanto le donne nella costruzione di nuovi rapporti sociali che la vedono ridefinire il ruolo di madre e di moglie. Il divismo emerge quale nuovo mezzo di controllo sociale e punto di coagulo di mode, condizionamenti dell’industria e dell’identità sociale. L’emigrazione ha giocato un ruolo molto importante di trasmissione culturale: elementi forti e facilmente riconoscibili hanno avuto la possibilità di contribuire allo sviluppo di diverse culture nazionali; inoltre il nesso tra musica e politica conferma e prova l’evoluzione nei rapporti sociali nel piano di sovrapposizione tra Stato e società (ad esempio la musica come punto di riferimento privilegiato nell’identificazione dei gusti propri di ogni generazione rispetto alla precedente). La forza e la centralità della musica ha guadagnato notevole importanza con la nascita della società di massa: l’industria musicale e i suoi addentellati nel cinema costituiscono il punto di riferimento evidente di un benessere diffuso, che esporta gli ideali politici del paese di riferimento in una veste sofisticata e allusiva (ad esempio la percezione che il mondo sovietico aveva di quello occidentale; oppure la fascinazione per l’arte musicale anglofona in Italia, la quale ha decretato una profonda crisi del folk e della musica liturgica). ALCUNE CONSIDERAZIONI DI METODO STORIOGRAFICO: Non è da sottovalutare l’impatto degli “emotional studies”, i quali hanno individuato puntuali campi di indagine in grado di fungere da confronto e stimolo tra ricerche umanistiche e scientifiche in senso stretto (la psicologia e le scienze della percezione). Inoltre il ruolo giocato nella musica nei processi di modernizzazione politica non è riservato all’Europa, ma ha segnato in maniera indelebile la storia contemporanea soprattutto nelle realtà post-coloniali. Bruschi Pietro 11 7. Sport e politica. La dimensione politica dello sport appare evidente fin dalla nascita del cricket nell’Inghilterra del XVIII secolo: uno sport che rispecchia alla perfezione la società che proprio allora entra nell’era della modernità liberale. Durante i secoli a venire gli inglesi inventarono quelli sport (rugby, hockey, football, tennis) che contribuiranno alla nazionalizzazione delle masse e alla costruzione delle identità nazionali. L’INVENZIONE DELLE TRADIZIONI NAZIONALI, IL PARADIGMA SUDAMERICANO: Alcuni storici pionieristici hanno messo in evidenza il nesso originario che lega l’affermazione di nuovi paesi sudamericani (come il Brasile e l’Argentina) allo sviluppo del fooball. La frequentazione del sistema educativo britannico da parte dell’oligarchia commerciante di Rio e San Paolo provocò la conversione di questi giovani all’ideologia sportiva e l’adozione di pratiche distintive in vigore in questo tipo di istituti. A partire dagli anni ottanta del XIX secolo essi si fecero vettori di una cultura anglosassone, più che di una identità inglese, lasciando campo libero a nuovi processi di appropriazione; il progetto di costruzione di una nazione, forte all’origine di una storia patriottica, si tradusse in uno stile di gioco virile (la “grinta”), nella precocità del processo di istituzionalizzazione dell’attività calcistica (1893), e nella necessità di definire la propria identità in opposizione ad un’altra (creazione della Copa America nel 1916). Fu tale la forza dei meccanismi di appropriazione nazionale e popolare che tutt’oggi non viene meno l’intervento del mondo politico, il quale si fa carico di assicurare l’immagine che le società latino-americane amano dare di sé stesse. IN EUROPA, SUI LEGAMI INTIMI CON LA POLITICA: Per lungo tempo riservato a un’élite, lo sport costituiva fin dagli anni Sessanta del XIX secolo un modello di riferimento per le classi medie in cerca di legittimazione (ruolo nella costituzione dell’identità operaia); poi alla fine dell’Ottocento divenne per molti una pratica e per la maggioranza uno spettacolo. Gli attori sociali che contribuirono allo sviluppo del calcio erano legati al mondo dell’industria e del commercio e, agli albori del processo di industrializzazione, apparvero come i profeti di un nuovo stile di vita: il gioco evocava idee di progresso, di modernità e di democrazia, e divenne un elemento discriminante tra i conservatori e i modernizzatori. Le élite politiche considerarono le forme di socializzazione associative che erano legate al calcio come un modo privilegiato di promuovere i loro progetti (opposizione tra i club “di sinistra” e “di destra”): il tifo per le squadre rinvigorì i localismi tradizionali, ma finì anche per stimolare le comunicazioni per la sinergia del campionato e delle competizioni in ambito nazionale. Il tifo è in sostanza un compromesso permanente tra un’identità sociale reale e un’identità politica immaginaria. STANDARD SPORTIVI E RESISTENZE POLITICO-CULTURALI: Molte società hanno utilizzato altri sport per cementare il sentimento nazionale e per esprimere una certa resistenza culturale: il revival del calcio gaelico in Irlanda, il baseball ed il football in America – concepiti come “anti-cricket”, il baseball in Giappone – arricchitosi dei valori del bushido, il calcio in Algeria – dove vigeva l’apartheid). ORGOGLIO E PRESTIGIO NAZIONALI: I sentimenti di orgoglio sportivo necessitano di esprimersi nella cornice internazionale, perché l’identità si definisce in opposizione con l’altro. Ogni paese cerca di creare un corpus storico al quale la comunità nazionale possa attingere: gli atti fondatori sono databili, gli eroi, che i cronisti trasformano in miti, sono celebri, e gli eventi sono raccontati. La vitalità del movimento sportivo si deve anche al radicamento identitario che esso coltiva, trasformando peripezia in ricordi comuni e gli atleti in eroi nazionali; lo sport non svolge solo il ruolo di collante tra connazionali, ma assicura anche un legame profondo tra gli uomini e le loro nazioni. L’impatto del fenomeno sportivo sulla coscienza nazionale suscita adesione spontanea e aggressività verso l’esterno. Secondo certi autori, l’ampliamento della circolazione di giocatori tra i continenti spiegherebbe lo smorzarsi del sentimento di attaccamento alle squadre. Bruschi Pietro 12 8. Sentimenti, emozioni e politica. La storia come disciplina e specchio delle trasformazioni della società, può e deve partire dalle emozioni e dai sentimenti per fornire chiavi di lettura originali degli eventi, delle relazioni e dei fenomeni. La vita emotiva si trasforma in uno specchio che rimanda le immagini di una società che esiste e cambia (mutamenti economici e sociali) anche attraverso le espressioni e gli usi dei sentimenti, individuali o collettivi. L’uso politico delle emozioni come efficace strumento di indottrinamento e vigilanza viene utilizzato nel corso dei secoli per costruire il modello del cittadino morigerato e rispettoso, perfettamente inserito nella “città ideale”. LA POLITICA DELLE EMOZIONI, LE EMOZIONI IN POLITICA: La capacità di governare parte con il controllo della sfera privata e dell’intimità individuale. L’educazione politica si rivela lo strumento principe per trovare un ponte tra ideologie e mentalità, attraverso la sorveglianza e il controllo: stimolare e sollecitare le emozioni per suscitare passione si rivela un ottimo mezzo per favorire l’adesione ad un sistema, ad un movimento, ad un partito; un’adesione non solo ideologica, ma anche politica. Nella definizione e nello sviluppo di una “pedagogia politica” (codice di valori, ideali e regole) che sappia tenere conto delle sensibilità private per condurle autonomamente a sentirsi parte di un gruppo omogeneo in cui riconoscersi e ritrovarsi, si può leggere una parte del processo di civilizzazione che conduce a profondi mutamenti culturali e sociali. L’USO POLITICO DEI SENTIMENTI: Dagli impulsi patriottici ottocenteschi ai movimenti politici del Novecento si possono esplicare i veicoli di consenso attorno a una politica che si serve di riti e simboli per fare proseliti e ottenere successi. Sono in particolari i fascismi a inserire l’uso politico delle emozioni nella collaudata macchina della propaganda e del consenso: l’antinomia paura/coraggio serve da corredo indispensabile a ogni retorica di propaganda belligerante. L’impegno nel creare una fitta rete di mezzi e strumenti capaci di convogliare l’adesione di vasti e diversi strati sociali, ancora disorientati rispetto alla nuova realtà in evoluzione, corrisponde ad una maggior capacità d’attrazione spontanea verso il partito. CULTURA CATTOLICA E CULTURA LAICA, IL CASO ITALIANO: La caduta del fascismo porta all’affermazione e allo sviluppo di due principali culture, quella cattolica e quella laica, di forte impronta comunista più che socialista. La base comune è costituita da una sorta di rigorismo che non presenta particolari caratteri distintivi: i comportamenti trasgressivi ascrivibili ad una condotta che non si conforma alle linee del partito, sono condannati da cattolici e comunisti con la medesima severità di accenti. Per i cattolici il peccato, espiabile nella confessione, ha come effetto la sospensione dei sacramenti e la condanna alla pena ultraterrena. L’equilibrio di emozioni e sentimenti, assieme alla formazione del carattere (il potere di dominare le emozioni), diventa un imperativo politico atto ad insinuarsi nella sfera privata del cittadino (esempi: l’espressione “buon cristiano” e la diffusione di veri e propri decaloghi contenenti regole e divieti precisi). Per i comunisti la trasgressione significa una deviazione dell’ideale politico e un tradimento della comunità, da scontare con l’estromissione dagli organi dirigenti. Il dovere del “bravo compagno” sta nel dimostrare un senso di responsabilità funzionale ai fini politici, grazie alla quale si realizza la fusione tra sfera pubblica e privata all’interno del partito-organizzazione. Il rigore comunista parte dalla volontà di incanalare le emozioni in un tracciato ben delineato. Il costume comunista consiste nell’autocritica, nell’affidabilità, nell’integrità morale, con la prospettiva di caratterizzare l’individuo con una “diversità” politica che poggia sulla condotta dei propri militanti (i valori assoluti in cui riconoscersi devono essere la serietà e la semplicità). LE PASSIONI NELLA SOCIETÀ MEDIATICA: L’importanza delle emozioni in politica assume un significato ancora oggi più incisivo nella società dei media: i confini tra spazio pubblico e privato sono talmente sovrapposti da far considerare naturale il mettere in piazza uno spettro molto ampio di questioni che vanno dalla politica all’etica, dai sentimenti al rapporto fra i generi, dalla famiglia alla salute. Lo strapotere dei media ha finito per trasformare la vita di tutti, compresi i rappresentanti politici (“politica spettacolo”, in continue commedie a puntate con l’omologazione dei comportamenti al modello televisivo, un modello rassicurante: l’individuo è diventato responsabile della notorietà della privatezza, quasi schiavo di una paura nuova come quella di diventare invisibile. La riservatezza e l’ossessione a nascondere i sentimenti, che avevano funzionato come pilastro della Prima Repubblica, diventano ora il tabù da far crollare, in una convergenza di intenti che non conosce distinzione fra i vari schieramenti.
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