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Riassunto storia contemporanea - Sabatucci Viadotto, Sbobinature di Storia

Riassunto completo manuale di storia contemporanea di Sabatucci Viadotto

Tipologia: Sbobinature

2021/2022
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Caricato il 17/11/2022

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Scarica Riassunto storia contemporanea - Sabatucci Viadotto e più Sbobinature in PDF di Storia solo su Docsity! Il mondo contemporaneo – Riassunto 1. Borghesia e classe operaia - Parole chiave: Progresso 1.1 I caratteri della borghesia Le rivoluzioni del ’48-’49 si erano concluse con un totale fallimento. Al clima generale di conservatorismo e alla sostanziale staticità delle strutture politiche faceva però riscontro un processo di profondo mutamento della società con protagonisti i ceti borghesi e, in maniera più lenta, le classi proletarie. Tra il 1850 e il 1870 la borghesia si fece portatrice e depositaria degli elementi di novità e trasformazione quali sviluppo economico e progresso scientifico. Le principali figure borghesi di quel periodo erano in ordine decrescente i magnati dell’industria e della finanza, i ceti emergenti la cui fortuna era legata allo sviluppo dell’industria e del commercio, poi la borghesia tradizionale composta coloro che esercitavano le professioni e coloro che occupavano i gradi medio-alti della burocrazia statale, ed infine gli impiegati, gli insegnanti, piccoli commercianti e piccoli professionisti. Lo stile di vita borghese presentava tratti essenziali riscontrabili nell’abbigliamento, nell’arredamento, con l’esigenza di tradurre il successo e la ricchezza in simboli visibili e tangibili; i valori fondamentali dell’etica borghese restavano quelli tradizionali di austerità e moderazione. La struttura familiare era patriarcale, basata sull’autorità del capofamiglia e sulla subordinazione della donna. L’obiettivo borghese era quello di difendere un’immagine di rispettabilità raggiunta seguendo i saldi principi morali del loro gruppo sociale; si diffuse quindi l’idea che la povertà fosse un difetto morale o quanto meno il frutto di colpe ataviche 1.2 La cultura del positivismo Tratto distintivo della borghesia era la certezza nel progresso generale dell’umanità, che poggiava su due pilastri: lo sviluppo economico e le conquiste della scienza. Si fondò una corrente intellettuale nuova, il Positivismo: era una sorta di mentalità diffusa, un metodo generale di ricerca e di interpretazione della realtà che considerava la conoscenza scientifica l’unica valida e applicava i metodi delle scienze naturali a tutti i campi dell’attività umana. Fu fondata da Auguste Comte, che tracciò i lineamenti di una “scienza della società”, seguito poi da Herbert Spencer che ne elaborò una interpretazione fondata sulla convinzione che mondo sociale e mondo biologico obbedissero a leggi analoghe. Un altro caposaldo del positivismo fu l’opera di Charles Darwin, “L’origine della specie” (1859) con la quale elaborò la teoria dell’evoluzione basata sulla selezione naturale (poteva essere anche visto come prevaricazione del più debole = Darwinismo sociale), in contrasto con le credenze religiose sulla creazione dell’uomo per opera di una divinità 1.3 Lo sviluppo dell’economia Tra il ’40 e il ’70 vi fu un periodo di forte espansione economica favorito dallo sviluppo delle ferrovie. Si parla di età del ferro e del carbone, con la macchina a vapore a fare da protagonista. Nell’Europa centro- orientale furono abrogate alcune vecchie leggi aprendo il varco alla liberalizzazione e al libero scambio. Quest’ultimo favorì la Gran Bretagna che poteva offrire i suoi prodotti a prezzi competitivi sui mercati stranieri, ma fu positivo anche per gli altri Paesi europei, favorendo al loro la modernizzazione dell’apparato produttivo. Vi fu inoltre uno sviluppo delle organizzazioni finanziarie (società per azioni, banche d’investimento che favorivano finanziamenti a lunga durata  es. banche miste tedesche che raccoglievano il risparmio e l’offerta di credito a breve termine e investivano a lungo termine nelle imprese industriali 1.4 La rivoluzione dei trasporti e delle comunicazioni In questo periodo si sviluppò l’idea di un mondo unito, le cui parte erano legate da rapporti di interdipendenza. La costruzione di linee ferroviarie, treni e navi a vapore fu un prodotto della rivoluzione industriale. Nel 1869 fu aperta la prima linea transcontinentale da New York a San Francisco, nel 1870 fu inaugurato il grande traforo delle Alpi, quello del “Frejus”; vi fu inoltre un potenziamento delle navi a vapore in termini di velocità e di capacità di carico; un’altra trasformazione ebbe luogo nel campo della comunicazione dei messaggi grazie alla diffusione del telegrafo, che potenziò anche il ruolo delle agenzie di stampa (settore giornalistico), veicoli sempre più indispensabili per l’acquisizione e la diffusione di notizie in tempi rapidissimi da tutto il mondo. 1 1.5 Dalle campagne alle città Intorno alla metà dell’‘800, in tutta l’Europa continentale erano i lavoratori della terra a costituire la grande maggioranza della popolazione attiva. Quasi dappertutto i lavoratori agricoli versavano in condizioni di notevole disagio, con redditi bassi, alimentazione povera e analfabetismo diffuso, e rappresentavano l’elemento statico della società. Tra il 1840 e il 1870 milioni di lavoratori lasciarono i loro paesi per andare a dissodare le terre vergini del Nord America, o si spostarono nelle città per trovare lavoro come manovali, muratori o operai di fabbrica. Inizia quindi il processo definito Urbanesimo, la moltiplicazione del numero delle città stimolato in gran parte dall’espansione del commercio europeo nel Mondo. In Gran Bretagna, dove Londra era la più grande metropoli con oltre 2 milioni e mezzo di abitanti, si svilupparono piccoli centri in passato ai margini della vita economica e sociale del Paese (Manchester, Liverpool, Glasgow, Birmingham); in Italia e Francia furono le città già preminenti durante l’ancien régime a registrare gli incrementi demografici più significativi; negli Stati Uniti si avviò la costruzione di grattacieli e l’espansione dei sobborghi periferici, dando vita a un nuovo modello di città (New York, Chicago). Punti di riferimento dell’età industriale erano le ferrovie, la Borsa, i grandi magazzini, il tribunale e i palazzi dei ministeri. Si sviluppò una netta separazione tra le periferie operaie, sovraffollate e malsane, e i quartieri residenziali borghesi. Per sopperire alle problematiche sociali quali la mortalità elevata, i problemi igienici e sanitari e la arretratezza dei servizi, vi fu l’intervento sempre più sistematico dei pubblici poteri per l’amministrazione della città, lo sviluppo di ampi apparati burocratici, la creazione di nuovi corpi di polizia, la formazione di nuovi quadri tecnici: fu quindi avviato un sistema organizzato e funzionale per disciplinare i processi di urbanizzazione. 1.6 Quattro esempi di rinnovamento urbano: Parigi, Londra, Vienna, Chicago La ristrutturazione di Parigi fu incaricata da Napoleone III al prefetto Georges-Eugène Haussmann che fece aprire i boulevard con lo scopo rendere più percorribile il centro cittadino e scoraggiare il ripetersi di sommosse urbane. L’espansione della città di Londra era nelle mani dell’iniziativa privata, ovvero dei proprietari terrieri che, attraverso un meccanismo di leasing, cedevano agli imprenditori edilizi diritti di superficie e usufrutto per periodi determinati, rimanendo però in possesso del terreno e garantendo un’omogeneità tra i complessi immobiliari A Vienna, tra il 1815 e il 1857, fu costruita la Ringstrasse, un’ampia strada circolare dove furono collocati i principali edifici pubblici e palazzi con abitazioni private Chicago fu una metropoli nata dal nulla. A seguito dell’incendio del 1871, fu ricostruita e divenne luogo di sperimentazione per la costruzione di grattacieli e centro avveniristico degli affari e una serie di efficienti infrastrutture urbane 1.7 La nascita del movimento operaio e la Prima internazionale La vita dell’operaio non era migliore di quella del lavoratore agricolo, i salari erano leggermente maggiori ma non si elevano sopra il livello di sussistenza. Il movimento operaio britannico si era concentrato sul rafforzamento delle Trade Unions che fu coronato nel 1868 con la costituzione del Trade Union Congress, nucleo del movimento operaio in Gran Bretagna; in Francia i pochi nuclei organizzati erano influenzati dalle teorie di Proudhon, fautore di un cooperativismo a sfondo anarchico; in Italia il proletariato di fabbrica era pressoché inesistente e quei pochi nuclei organizzati in società di mutuo soccorso erano influenzati da Mazzini, fautore della cooperazione e ostile alla lotta di classe e ad ogni forma di collettivismo; in Germania il movimento operaio trovò un leader autorevole, Ferdinand Lassalle, che basava le sue idee su una teoria dello sfruttamento capitalistico simile a quella marxista, ma che credeva nella possibilità di conquistare lo Stato borghese e trasformarlo attraverso il suffragio universale. Nel 1864 nacque la Prima Internazionale, organizzazione internazionale di coordinamento del movimento operaio che affermava l’autonomia del proletariato e la priorità della lotta contro lo sfruttamento. Ebbe gran significato simbolico, rappresentando un punto di riferimento ideale per i lavoratori di tutta Europa, ma non fu realmente capace di guidare l’attività delle organizzazioni operaie dei singoli paesi e il suo funzionamento fu compromesso dall’eterogeneità delle sue componenti: si contrapponevano i socialisti veri e propri da un lato (Marx), e i proudhoniani dall’altro (Bakunin). Secondo Bakunin, lo Stato era lo 2 nazionale che causerà il cosiddetto “revanscismo”, ossia il desiderio francese di riparare a questa umiliazione. 3.3 La comune di Parigi Le elezioni della nuova Assemblea nazionale si tennero nel febbraio 1871. L’Assemblea fu composta in maggioranza da moderati conservatori e a capo del governo venne nominato Adolph Thiers. Il popolo di Parigi, a seguito delle durissime condizioni imposte da Bismarck, protestò in massa e decise di difendere la città. Il governo ordinò la consegna delle armi, ma il comando della Guardia Nazionale rifiutò di obbedire e indisse le elezioni per il Consiglio della Comune. Il potere fu affidato ai gruppi di estrema sinistra, socialisti e anarchici e prese vita un esperimento radicale di democrazia diretta. L’esperienza della Comune rimase isolata dal resto del paese e non durò più di due mesi, il tempo necessario a Thiers per raccogliere un esercito abbastanza forte per riconquistare la capitale. Lo scontro diede vita alla cosiddetta “Settimana di Sangue”, nella quale il movimento rivoluzionario francese venne decimato e sconfitto. 3.4 L’Impero tedesco e la politica di Bismarck All’indomani della guerra franco-prussiana, si affermava sempre più l’ideologia della forza, della pura politica di potenza, fondata sullo sviluppo degli eserciti permanenti e degli armamenti di terra e di mare. Il nuovo Stato tedesco si presentava come la maggiore potenza continentale europea. Il Reich era diviso in 25 Stati con propri governi e parlamenti, la grande politica era di competenza del governo centrale, presieduto da un cancelliere responsabile di fronte all’imperatore: - Potere legislativo: parlamento composto da una Camera Elettiva (Reichstag) eletta a suffragio universale, e da un Consiglio federale (Bundesrat), composto dai rappresentati dei singoli Stati. - Potere esecutivo: nelle mani dell’imperatore e del cancelliere. Il blocco sociale dominante era costituito da una solida alleanza tra il mondo industriale e bancario e l’aristocrazia terriera e militare. Nel 1871 nacque il partito cattolico del centro, nel 1875 il partito socialdemocratico tedesco (Spd). Bismarck iniziò una politica duramente anticattolica (Kulturkampf = battaglia per la civiltà), emanando una serie di misure volte ad affermare il carattere laico dello Stato e a porre sotto sorveglianza l’attività del clero cattolico. La compattezza e l’orgoglio dei cattolici tedeschi causò un raddoppiamento della loro rappresentanza parlamentare e portò all’abbandono del Kulturkampf. Nel 1878 la socialdemocrazia venne costretta in condizione di semiclandestinità. Oltre alle misure repressive per soffocare lo sviluppo del movimento operaio, il Parlamento approvò alcune leggi di tutela delle classi lavoratrici (assicurazioni per gli infortuni sul lavoro, le malattie e la vecchiaia). Il varo della legislazione sociale non impedì la nascita di un forte movimento sindacale guidato dai socialdemocratici. L’affermazione socialdemocratica provocò, nel 1890, l’allontanamento dal governo dell’onnipotente cancelliere. Nel ventennio del potere di Bismarck, la Germania si alleò con l’Austria-Ungheria, la Russia e l’Italia. Fulcro del sistema bismarckiano fu il Patto dei Tre Imperatori (1873) tra Germania, Austria-Ungheria e Russia, a carattere difensivo. Questo aveva però un punto debole: la vecchia rivalità tra Austria e Russia nella penisola balcanica. Nel ’77 la Russia, protettrice dei popoli slavi, dichiarò guerra alla Turchia e la sconfisse. Austria-Ungheria e Gran Bretagna minacciarono di intervenire contro la Russia. Vi fu un congresso a Berlino, nel 1878, nel quale Bismarck ridisegnò gli equilibri della penisola balcanica scongiurando il pericolo di un conflitto. Nel 1881 fu rinnovato il Patto dei Tre Imperatori e l’anno successivo fu stipulata la Triplice Alleanza tra Germania, Italia e Austria. 3.5 La Repubblica in Francia Nel 1872, l’Assemblea nazionale decise l’introduzione del servizio militare obbligatorio. Alla fine degli anni ‘70 la Francia aveva già recuperato buona parte del suo prestigio internazionale. Più travagliato fu il processo di stabilizzazione politica. Nel 1875 fu varata la Costituzione della Terza Repubblica: - Potere legislativo: esercitato da una Camera, eletta a suffragio universale maschile e da un Senato, composto da membri in parte vitalizi ed in parte elettivi. 5 - Potere esecutivo: figura del Presidente della Repubblica, elemento di stabilità, eletto dalle Camere riunite. Nelle elezioni del ’76 i repubblicani francesi capovolsero la tendenza conservatrice e si assicurarono una solida maggioranza. La scena politica fu dominata dai repubblicani moderati, i cosiddetti “opportunisti”. Nel 1880 fu approvata un’amnistia per i comunardi incarcerati o deportati, nel 1984 il Senato divenne completamente elettivo e furono approvate tre leggi di notevole importanza: garanzia della libertà di associazione sindacale, ampliamento delle autonomie locali e introduzione del divorzio. Fu importante anche l’affermazione della laicità dello Stato, in particolare nel settore scolastico nel quale l’istruzione elementare fu resa obbligatoria e gratuita e posta sotto il controllo statale, mentre le università e gli istituti superiori gestiti dal clero furono privati del diritto di rilasciare titoli legali di studio. La mancanza di schieramenti politici compatti causò un’instabilità degli esecutivi e un accentramento della prassi di governo nelle mani del Parlamento; la corruzione diffusa nelle alte sfere del potere rappresentò un altro male della Terza Repubblica che affondava le sue radici nello stretto legame tra mondo politico e gli ambienti della speculazione finanziaria 3.6 Il liberalismo in Gran Bretagna La Gran Bretagna rimaneva, alla metà dell’‘800, la più progredita tra le grandi potenze europee. Il ventennio ’46-’66 segnò un ulteriore consolidamento del sistema parlamentare, cioè di quel sistema che subordinava la vita di un governo alla fiducia del Parlamento e faceva di quest'ultimo l'arbitro indiscusso della vita politica. il ruolo della corona era essenzialmente simbolico, di personificazione dell’identità nazionale (regno della regina Vittoria dal 1837 al 1901). In Gran Bretagna, tuttavia, molti poteri spettavano ancora alla Camera Alta (Camera dei Lord), alla quale si accedeva per diritto ereditario o per nomina regia. La Camera Elettiva (Camera dei Comuni), era espressione di uno strato ristretto della popolazione, circa il 15% dei maschi adulti. Nel 1865 William Gladstone, leader dei liberali, presentò un progetto di legge che prevedeva una limitata estensione del diritto di voto provocando, nel 1866, la caduta del governo liberale e il ritorno al potere dei conservatori. Benjamin Disraeli, leader dei conservatori, assunse l’iniziativa di una riforma elettorale avanzata, il “Reform Act”, varato nel 1867, che aumentava di quasi un milione la consistenza del corpo elettorale, allargando la base di consenso del suo partito tra i lavoratori dell’industria. A partire dal 1880 i liberali tornarono a dominare la scena politica promuovendo, nel 1884, una nuova riforma elettorale che allargava ulteriormente il diritto di voto estendendolo alla maggioranza dei lavoratori agricoli. In questa fase dovette anche occuparsi della “questione irlandese”. L’Irlanda, mossa da tendenze indipendentiste di marca nazionalista e dalla fedeltà al cattolicesimo, vide aggravarsi la propria situazione a causa della grave crisi che aveva colpito l’agricoltura europea. Gladstone rispose presentando in Parlamento un progetto che prevedeva la concessione di ampie autonomie all’isola (Home Rule), ma subì l’opposizione dello stesso partito liberale e la secessione degli unionisti, guidati da Joseph Chamberlain; questi ultimi favorirono la salita al potere nelle elezioni del 1886 dei conservatori, che cercarono di coniugare la politica imperialistica con una certa dose di riformismo sociale 3.7 La Russia tra arretratezza e modernizzazione Nella seconda metà dell’‘800 la Russia conservava il primato, tra le potenze europee, dell’arretratezza politica e civile. Era uno Stato autocratico e il 90 % della popolazione era occupato nell’agricoltura, mentre dominava incontrastata un’aristocrazia terriera assenteista. Un’eccezione era il livello elevato della vita intellettuale Nel 1855 salì al potere Alessandro II, che subito concesse un’amnistia ai detenuti politici e varò una serie di riforme volte alla modernizzazione nella burocrazia, nella scuola, nel sistema giudiziario e nell’esercito. La riforma più importante fu l’abolizione della servitù della gleba, emanata nel 1861, che permise ai servi di acquistare la libertà personale diventando piccoli proprietari. Tuttavia, molti signori furono accusati di aver travisato la volontà dello zar e questo fece affiorare il malcontento. Dopo il 1861 si diffuse tra le nuove generazioni un atteggiamento di rifiuto totale dell’ordine costituito (narodnicestvo  lo slogan era “andare al popolo”) e un programma basato sull’utopia di un socialismo agrario basato sul proletariato delle campagne e inserito nella tradizione comunitaria della società rurale russa. Nel 1881 Alessandro II fu ucciso da un attentatore anarchico. 4. Due nuove potenze: Stati Uniti e Giappone - Parola chiave: Modernizzazione 6 4.1 Gli Stati Uniti a metà dell’‘800 Alla metà dell’‘800, gli Stati Uniti d’America erano in crescente espansione grazie soprattutto all’ininterrotto flusso migratorio proveniente dall’Europa. La produzione agricola progrediva con ritmi elevati, soprattutto nel Vicino Ovest (Midwest), mentre la regione del Nord-Est conosceva un rapido sviluppo industriale. Negli USA coesistevano tre diverse società: 1. Gli Stati del Nord-Est, sede delle prime colonie britanniche e nucleo originario dell’Unione. Era la zona più progredita dove sorgevano i maggiori centri urbani (New York, Boston, Philadelphia), ed era influenzato dai valori del capitalismo imprenditoriale. Rappresentava quindi un ambiente in continua trasformazione 2. Gli Stati del Sud, raffiguranti una società agricola e tradizionalista, che basavano la propria economia sulle grandi piantagioni di cotone e di tabacco e canna da zucchero. La manodopera era composta da schiavi neri, controllati dal ceto dei grandi proprietari che dominava la vita politica e sociale, forniva i migliori ufficiali all’esercito federale e svolgeva una funzione sociale simile a quella di un’aristocrazia. Essi si ispiravano ad un’etica patriarcale e paternalistica. 3. Gli Stati dell’Ovest, popolati da liberi agricoltori e allevatori di bestiame. Si basavano su un'agricoltura mercantile che forniva derrate alimentari, carne e cereali, alle città del Nord-Est. Questi Stati erano legati all’etica e ai valori della frontiera: l’iniziativa individuale, l’indipendenza, l’uguaglianza delle opportunità. Negli anni ’40 e ’50 si intensificarono le relazioni tra il Nord-Est industriale e l’Ovest agricolo, mentre si acutizzò lo scontro tra Nord e Sud sulla questione della schiavitù. Con l’inizio degli anni ’50 vi furono contrasti tra le forze politiche tradizionali. I Democratici si identificarono sempre più con la causa dei grandi proprietari schiavisti, mentre l’ala progressista del partito whig diede vita nel 1854 al Partito Repubblicano, decisamente antischiavista e che accolse le posizioni della borghesia del Nord e dei coloni dell’Ovest. Nelle elezioni del 1860 il nuovo partito riuscì a portare alla presidenza un uomo dell’Ovest, Abraham Lincoln, che, pur essendo avversario della schiavitù, non era un abolizionista radicale. 4.2 La guerra civile americana Tra la fine del ’60 e gli inizi del ’61, dieci Stati del Sud decisero di staccarsi dall’Unione e costituirono una Confederazione indipendente. Ciò causò la guerra civile tra Unione e Confederazione, che ebbe inizio nel 1861. I confederati speravano in un intervento della Gran Bretagna a loro favore (principale importatrice del cotone) e facevano affidamento sulla migliore qualità delle forze armate, gli Stati del Nord confidavano invece nella schiacciante superiorità numerica e nel maggior potenziale economico. La guerra si concluse nell’aprile del 1865 con la resa dei confederati al generale Ulysses Grant. Questa guerra rappresentò la prima guerra totale dei nostri tempi. Nel 1863 la liberazione degli schiavi in tutti gli Stati del Sud fu decretata per consentirne l’arruolamento nell’esercito dell’unione. A seguito della guerra, il Sud fu sottoposto ad un regime di occupazione militare, che causò reazioni di rigetto (Ku Klux Klan) e determinò la riscossa del partito democratico negli Stati del Sud. 4.3 Gli Stati Uniti potenza mondiale Nel 1890 la conquista del West poteva considerarsi compiuta. Vittime principali della corsa all’Ovest furono le tribù dei pellerossa, confinati nelle riserve e ridotti ad un corpo marginale. Gli Stati Uniti sostennero la guerriglia dei repubblicani messicani contro il tentativo di Napoleone III di far nascere un impero del Messico offrendone la corona a un principe di casa d’Austria. Nel 1867 i francesi si ritirarono. La società americana attraversò una fase di sviluppo capitalistico. La crescita più imponente si verificò nei settori-guida come il siderurgico, il meccanico, l’elettrico e il petrolifero, dove dominavano le grandi concentrazioni industriali e finanziarie (corporations). Gli Stati Uniti avevano raggiunto il primato mondiale nel volume della produzione industriale. Nel 1882 il governo federale favorì l’immigrazione, necessaria per la manodopera, dando vita ad un immenso crogiolo (melting pot) di culture e tradizioni. Nel 1886 venne fondata l’American Federation of Labour, grande confederazione di sindacati. Gli Stati Uniti attuarono una politica espansionistica. La prima manifestazione di questa politica fu l’intervento a Cuba dove, dal 1895, era in corso una violenta rivolta contro i dominatori spagnoli. Gli Stati Uniti, utilizzando come pretesto l’affondamento di una nave da guerra americana nel porto dell’Avana nel 1898, mossero guerra contro la Spagna e la sconfissero nelle Antille e nel Pacifico. Cuba divenne una repubblica indipendente, ma sottoposta al controllo politico ed economico degli USA. La Spagna dovette 7 La politica britannica fu più rispettosa degli usi locali, quella francese risultò più oppressiva nel tentativo di una modernizzazione forzata. Gli effetti della colonizzazione sull’Africa più arcaica ed animista furono drammatici, distruggendo interi sistemi di vita, di riti e di credenze. Sul piano politico l’espansione coloniale favorì la formazione di nazionalismi locali a opera di nuovi dirigenti, formatisi nelle scuole europee; l’Europa si trovò così ad esportare quello che meno avrebbe desiderato: il bisogno di autogovernarsi e di decidere il proprio destino. 6. Governare l’Italia unita - Parola chiave: Accentramento/Decentramento 6.1 Demografia, economia e società Al momento dell’Unità gli italiani erano circa 22 milioni, di cui il 75% era analfabeta e solo il 10% era italofono. Intorno al 1860 l’Italia era uno dei paesi europei con il maggior numero di città e la popolazione urbana era pari al 20% del totale. La grande maggioranza degli italiani viveva nelle campagne e nei piccoli centri rurali; l’agricoltura occupava il 70% della popolazione attiva e contribuiva per il 58% al PIL del paese. Quella italiana era prevalentemente un’agricoltura povera: - Nella zona della Pianura Padana si erano sviluppate numerose aziende agricole moderne condotte con criteri capitalistici. Nel nord vi erano anche proprietà coltivate a cereali e piccole unità produttive in affitto a conduzione familiare. - Nell’Italia centrale dominava la mezzadria, basata sulla produzione necessaria per il mantenimento della famiglia e il pagamento del canone dovuto al padrone. - Nell’Italia meridionale la coltivazione prevalente era il latifondo e la popolazione si concentrava in pochi e grossi borghi rurali. La vita era caratterizzata da dipendenza personale nei rapporti tra proprietari e contadini. - Nelle zone alto collinari e montane si praticava un’agricoltura di pura sussistenza basata sull’autoconsumo. Le condizioni di vita in Italia erano caratterizzate da denutrizione e si raggiungevano a malapena i limiti della sussistenza fisica. Vi era un gran divario tra nord e sud del paese, ad esempio al nord esisteva una rete ferroviaria sviluppata e al sud le ferrovie erano quasi inesistenti. Questo problema nazionale verrà definito “questione meridionale”. 6.2 La classe politica e i primi provvedimenti legislativi A seguito della morte di Cavour, i suoi successori seguirono una politica rispettosa delle libertà costituzionali e insieme accentratrice, liberista in campo economico, laica in materia di rapporti tra Stato e Chiesa. Il nucleo centrale che governò il Paese nel primo quindicennio era costituito dai moderati piemontesi, lombardi, emiliani, toscani. Essi formavano un gruppo abbastanza omogeneo e nei primi parlamenti la maggioranza si collocava a destra (destra storica), ma più precisamente essa era un gruppo di centro moderato. All’opposizione vi era la vecchia sinistra piemontese, i patrioti mazziniani o garibaldini, che si appoggiavano su una base sociale formata dai gruppi borghesi delle città e dai gruppi operai e artigiani del nord. Le rivendicazioni democratiche risorgimentali della sinistra erano: il suffragio universale, il decentramento amministrativo e il completamento dell’Unità. Destra e sinistra erano espressione del Paese legale e non del Paese reale. Il diritto di voto era concesso ai cittadini maschi che avessero compiuto i 25 anni, sapessero leggere e scrivere e pagassero almeno 40 lire di imposte all’anno (circa il 2% della popolazione totale). La vita politica assumeva così un carattere oligarchico e personalistico, basato su singole personalità più che su programmi definiti. I leaders della destra erano disposti a riconoscere in teoria la validità di un sistema decentrato basato sull’autogoverno (self-government) delle comunità locali. Tuttavia, per salvaguardare l’Unità, si scelse un modello di Stato accentrato molto vicino a quello napoleonico, basato su una gerarchia di 10 funzionari dipendenti dal centro. Erano infatti state estese le leggi piemontesi alle province appena annesse, ma furono emanate anche leggi nuove: la legge Casati sull’istruzione (sistema scolastico nazionale e istruzione elementare obbligatoria) e la legge Rattazzi sull’ordinamento comunale e provinciale. 6.3 Le rivolte contro l’Unità e il brigantaggio Nel mezzogiorno si sviluppò una diffusa ostilità verso il nuovo ordine politico, che non aveva portato alcun mutamento radicale nella sfera dei rapporti sociali; si erano anzi aggiunte la nuova pesante fiscalità e la leva militare obbligatoria. Dall’estate del ’61 si erano formate bande di irregolari dove i contadini insorti si mescolavano agli ex militari borbonici, ai cospiratori legittimisti, ai banditi. Le bande assalivano i piccoli centri, massacrando i notabili e incendiando gli archivi comunali, per poi ritirarsi sulle montagne. Nel 1863 il parlamento approvò una legge che istituiva un regime di guerra nelle province in stato di brigantaggio. Nel 1865 le bande più importanti erano state isolate e distrutte. Le scelte di politica economia della destra accentuarono il divario tra le regioni del sud e quelle del centro- nord. 6.4 L’economia e la politica fiscale I governi della destra dovettero affrontare il problema dell’unificazione economica del Paese. Venne adottata un’unica moneta, la lira italiana, e fu creato un unico regime fiscale; la legislazione doganale liberista fu estesa dal Regno sardo a tutta l’Italia, penalizzando il Mezzogiorno, fino ad allora inserito in un sistema protezionistico. Il settore agricolo conobbe un significativo incremento di produttività, mentre il settore industriale fu penalizzato dall’accresciuta concorrenza internazionale; gli effetti negativi colpirono soprattutto i pochi nuclei industriali del Mezzogiorno. L’espansione dell’agricoltura degli anni ’60 e ’70 consentì un’accumulazione di capitali che rese possibile un ulteriore potenziamento delle infrastrutture. Responsabile dei bassi livelli del tenore di vita fu la durissima politica fiscale, legata alla necessità di coprire i costi dell’unificazione. Nel 1868 fu introdotta una tassa sul macinato che scatenò nel 1869 le prime agitazioni sociali su scala nazionale della storia dell’Italia unita, represse duramente. 6.5 La conquista del Veneto e la presa di Roma Il nodo più difficile era la questione di Roma, proclamata capitale del nuovo Stato, ma sede di un pontificato ostile all’Unità e difesa dalle truppe francesi. Nel 1862 Garibaldi raccolse in Sicilia qualche migliaio di volontari, varcò lo stretto di Messina, ma fu fermato sull’Aspromonte. Nel 1864 fu trovato un accordo con la Francia (Convenzione di settembre) in base al quale l’Italia si impegnava a garantire il rispetto dei confini dello Stato della Chiesa, ottenendo in cambio il ritiro delle truppe francesi dal Lazio. La capitale fu trasferita da Torino a Firenze. Nel 1867 vi fu una nuova iniziativa garibaldina repressa dalle truppe francesi presso Mentana. Nel 1866 il governo italiano accettò la proposta di alleanza militare con la Prussia, in contrasto con l’Impero asburgico. Dalla pace di Vienna del 1866, l’Italia ottenne il Veneto e i territori del Friuli fino a Udine, ma il Trentino e la Venezia-Giulia rimanevano sotto l’Austria a causa delle deludenti sconfitte da parte dell’Italia. Nel 1870, a seguito della vittoria della Prussia nella battaglia di Sedan contro la Francia, il governo italiano inviò un corpo di spedizione nel Lazio e riuscì, aprendo una breccia nelle mura presso Porta Pia, ad entrare in città, ottenendo l’annessione di Roma e del Lazio. Nel 1871 la capitale fu trasferita da Firenze a Roma. Con la legge delle Guarentigie l’Italia si impegnava a garantire al pontefice le condizioni per il libero svolgimento del suo magistero spirituale. Pio IX rimase tuttavia ostile al Regno d’Italia e nel 1874, attraverso la formula del non expedit, invitò i cittadini ad astenersi da ogni partecipazione alla vita politica dello Stato. 6.6 Il governo della sinistra Nel 1876 il governo passò dalla Destra (Governo Minghetti) alla Sinistra (Governo di Agostino Depretis). La nuova classe dirigente riuscì ad esprimere il desiderio di democratizzazione della vita politica diffuso in larga parte della società. Il programma si basava su pochi punti fondamentali: ampliamento del suffragio elettorale, maggiore sostegno all’istruzione elementare, sgravi fiscali soprattutto nel settore delle imposte indirette, decentramento amministrativo: - Riforma dell’istruzione elementare: legge Coppino del 1877 (prolungamento dell’obbligo della frequenza scolastica di 9 anni di età, di difficile attuazione) 11 - Nuova legge elettorale del 1882: diritto di voto ai cittadini che avessero compiuto il ventunesimo anno di età e avessero superato l’esame finale del corso elementare obbligatorio, o dimostrassero comunque di saper leggere e scrivere. Il requisito del censo venne portato a 20 lire di imposte annue pagate (7% della popolazione) Si sviluppò un processo di convergenza tra le forze moderate di entrambi gli schieramenti che prese il nome di “trasformismo”, con l’affievolirsi delle tradizionali distinzioni ideologiche tra destra e sinistra. Il modello si basava su un grande Centro che inglobava le opposizioni moderate ed emarginava le ali estreme. Il gruppo dei democratici più avanzati venne chiamato radicale. 6.7 La crisi agraria e la politica economica protezionista La sinistra allentò la dura politica fiscale, abolendo nel ’84 la tassa sul macinato. Aumentò la spesa pubblica e questa politica provocò un crescente deficit nel bilancio statale, senza però riuscire a superare le difficoltà economiche. Dall’Inchiesta agraria del 1877 del senatore Stefano Jacini emerse un quadro drammatico dello stato dell’agricoltura italiana, che venne aggravato nel 1881 a causa degli effetti della crisi dell’agricoltura europea: vi fu un abbassamento dei prezzi seguito da un calo della produzione e da un aumento della conflittualità delle campagne e dall’incremento dei flussi migratori verso i centri urbani e verso l’estero. Gli esponenti della sinistra, nonostante le loro convinzioni liberiste, vararono nel 1887 una nuova tariffa doganale che proteggeva dalla concorrenza straniera importanti settori dell’industria nazionale e, in campo agricolo, del settore dei cereali. Questa politica pose le basi di un nuovo blocco di potere economico fondato sull’alleanza tra l’industria protetta e i grandi proprietari terrieri. 6.8 La politica estera e il colonialismo Nel 1882 venne stipulato il Trattato della Triplice Alleanza con la Germania e l’Austria- Ungheria, con l’obiettivo di uscire da una situazione di isolamento diplomatico. La Triplice era un’alleanza di tipo difensivo, che impegnava gli Stati firmatari a garantirsi reciproca assistenza in caso di aggressione da parte di altre potenze. Nel 1882 venne acquistata la Baia di Assab e, tre anni dopo, venne occupata una striscia di territorio tra la baia e la città di Massaua, al confine con l’Etiopia. L’Italia cercò di avviare una penetrazione commerciale in Etiopia e, a seguito dello sterminio nei pressi di Dogali di militari italiani da parte di truppe abissine nel 1887, la camera inviò rinforzi per il consolidamento della presenza italiana sulla fascia costiera. 6.9 Socialisti e cattolici Fino all’inizio degli anni ’70, l’unica organizzazione operaia diffusa in tutto il paese fu quella delle società di mutuo soccorso, con scopi di solidarietà e di rifiuto della lotta di classe e dello sciopero. Nel 1881 nacque il Partito socialista rivoluzionario di Romagna; nel 1882 alcune associazioni operaie milanesi diedero vita ad un organismo rigidamente classista, il Partito operario italiano. Tra il 1887 e il 1893 sorsero le prime organizzazioni sindacali a carattere nazionale (federazioni di mestiere) e vennero fondate le prime Camere del Lavoro. L’unico teorico marxista in Italia era Antonio Labriola. Filippo Turati fu il principale protagonista della fondazione del Partito socialista italiano. Turati sosteneva: l’affermazione dell’autonomia del movimento operaio dalla democrazia borghese; il rifiuto dell’insurrezionalismo anarchico; la priorità delle lotte economiche; l’obiettivo finale della socializzazione dei mezzi di produzione. Nel1892 si riunirono a Genova i delegati di circa 300 tra società operaie, leghe contadine, circoli politici e la maggioranza dichiarò costituito il Partito dei lavoratori italiani, con il fine della gestione sociale dei mezzi di produzione e con il mezzo dell’azione del proletariato organizzato in partito. Nel 1893 assunse il nome di Partito socialista italiano. Dall’altro lato, i cattolici costituivano una forza eversiva nei confronti delle istituzioni unitarie, di cui non riconoscevano la legittimità. Nel 1874, fu fondata l’Opera dei Congressi, che dichiarava ostilità nei confronti del liberalismo laico della democrazia e del socialismo. Nel 1878, Papa Leone XIII iniziò ad impegnarsi sul terreno sociale, per il raccoglimento di una base di massa. 6.10 Crispi: rafforzamento dello Stato e tentazioni autoritarie Nel 1887 fu nominato Presidente del Consiglio Francesco Crispi, primo meridionale a salire alla presidenza del Consiglio. Egli si fece promotore di un’opera di riorganizzazione e di razionalizzazione dell’apparato statale, ma accentuò le spinte autoritarie e repressive. Nel 1888 fu approvata una legge che rendeva elettivi i sindaci dei comuni con più di 10 mila abitanti e nel 1889 fu varato un nuovo Codice penale (Codice 12 discussione sui problemi di interesse comune, sede dei dibattiti ideologici del movimento operaio europeo. Si svilupparono due opposti orientamenti: - Il revisionismo, di cui Eduard Bernstein era il maggiore esponente, secondo il quale i partiti operai dovevano accantonare gli aspetti più radicali e collaborare con le altre forze progressiste, valorizzando l’aspetto democratico-riformistico dell’azione socialista. Si favoriva una trasformazione graduale della società socialista - Le posizioni rivoluzionarie, mosse dal tentativo di bloccare le tentazioni legalitarie e parlamentaristiche recuperando l’originaria impostazione rivoluzionaria del marxismo. Alcuni esponenti importanti di questa posizione furono i creatori di una minoranza agguerrita di sinistra in Germania, Liebknecht e Rosa Luxemburg. Un’altra dissidenza si ebbe nella socialdemocrazia russa: Nikolaj Lenin proponeva un partito votato alla lotta, formato da militanti scelti e guidato da “rivoluzionari di professione”, con una direzione fortemente accentrata; le tesi di Lenin ottennero in un congresso della socialdemocrazia russa la maggioranza dei consensi e ciò causò la spaccatura del partito in due correnti: quella bolscevica di Lenin e quella menscevica. Una situazione analoga ebbe luogo in Francia e prese il nome di sindacalismo rivoluzionario: i dirigenti sindacali francesi, il cui interprete più autorevole era l’intellettuale Georges Sorel, sostenevano che il momento più importante dell’azione operaia fosse lo sciopero (“ginnastica rivoluzionaria”). Lo sciopero generale rappresentava un mito capace di trascinare gli operai alla lotta 7.6 I primi movimenti femministi La “questione femminile” iniziò ad emergere tra la fine dell’‘800 e gli inizi del ‘900. Per le donne, il lavoro extradomestico non era un’emancipazione, ma piuttosto una dura necessità. La manodopera femminile fu protagonista di episodi importanti nella lotta sindacale e ciò contribuì a consolidare i legami tra le donne, ad accrescere la consapevolezza dell’esistenza di un problema specifico, ossia quello della subalternità femminile. In GB il movimento Women’s Social and Political Union, fondato nel 1903 da Emmeline Pankhurst, si mosse per l’ottenimento del diritto al suffragio (da qui il nome di suffragette), trovando qualche lieve appoggio tra i parlamentari laburisti, che nella maggior parte dei casi guardavano con sospetto al voto delle donne perché questo avrebbe significato un vantaggio per i partiti di ispirazione cristiana. 7.7 La Chiesa e la società di massa La Chiesa di Roma e il mondo cattolico reagirono all’avanzata dell’industrialismo tentando di rilanciare la missione della Chiesa stessa, adeguandone le forme alle mutate condizioni storiche. La Chiesa era una struttura organizzativa capillare e collaudata che quindi riuscì ad inquadrare i lavoratori in organismi di massa. Leone XIII favorì il riavvicinamento tra i cattolici e le cassi dirigenti di quei paesi dove la tensione tra Stato e Chiesa era alta (tranne che in Italia), favorì la nascita di nuovi partiti cattolici in Belgio (1884) e in Austria (1887) e cercò di riqualificare il ruolo della Chiesa in materia di questione sociale. L’enciclica Rerum Novarum del 1891, dedicata ai problemi della condizione operaia, fu un esempio emblematico di questo sforzo: in essa si indicava come fondamentale il rispetto dei doveri spettanti alle parti sociali (lavoratori e imprenditori) e si incoraggiava la creazione di società operaie e artigiane ispirate ai principi cristiani. Negli ultimi anni dell’‘800 emerse, in Italia e in Francia, una tendenza politica definita “democrazia cristiana” che mirava a conciliare la dottrina cattolica con l’impegno sociale, la prassi e gli istituti della democrazia. In concomitanza sorse una corrente di riforma religiosa, il “modernismo”, che aspirava alla conciliazione dell’insegnamento della Chiesa col progresso filosofico e scientifico e con la civiltà moderna. Tuttavia, il nuovo pontefice Pio X proibì ai democratici cristiani ogni azione politica indipendente dalle gerarchie ecclesiastiche e scomunicò i modernisti. 7.8 Nazionalismo, razzismo e antisemitismo Dopo il 1870, il nazionalismo passò dall’essere un principio ispiratore di movimento di liberazione e legato all’idea di sovranità popolare, ad essere un pensiero principalmente di destra, sganciato dalle sue matrici illuministiche e democratiche e legato a quelle tradizionaliste fondate sui miti della terra e del sangue e collegate alle teorie razziste allora in voga. Il precursore di queste teorie era Arthur de Gobineau, che 15 proponeva argomentazioni pseudoscientifiche di origine positivistica, ma in realtà non faceva altro che elaborare antichi pregiudizi. In Francia il nazionalismo coniugava lo spirito del revanscismo con la polemica contro una classe dirigente repubblicano-moderata considerata mediocre e corrotta e incapace di tutelare gli interessi del paese. Il nazionalismo era rivolto contro i nemici interni, quali protestanti, immigrati ed ebrei (identificati con gli ambienti dell’affarismo e della speculazione bancaria). In Germania, l’antisemitismo si appoggiava su presupposti apertamente razzisti. Houston Stewart Chamberlain riprese da Gobineau il mito della razza ariana depositaria delle virtù più nobili e ne vedeva l’incarnazione più pura nel popolo tedesco. Vi era una mitizzazione del passato e del popolo (Volk), concepito come legame mistico con la terra d’origine. Queste teorie furono la base dei movimenti pangermanisti che auspicavano il ricongiungimento in un unico Stato di tutte le popolazioni tedesche. In Russia si sviluppò il panslavismo, basato su ideologie tradizionaliste e intrise di antisemitismo. L’antisemitismo era sancito da leggi discriminatorie e ufficialmente tollerato, come nel caso della pratica del pogrom, ossia di periodiche e impunite violenze contro i beni e le persone degli ebrei. Una reazione all’antisemitismo fu la nascita del Sionismo, movimento fondato a Basilea nel 1897 da Theodor Herzl, con l’obiettivo di restituire un’identità nazionale alle popolazioni israelite sparse per il mondo e di promuovere la costituzione di uno Stato ebraico in Palestina. 7.9 La crisi del positivismo e le nuove scienze Il positivismo restò per molti un metodo di ricerca e di conoscenza della realtà, ma si incrinò la fiducia nella sua capacità di offrire un’organica visione del mondo, legata all’idea di un progresso necessario e costante. L’oggetto principale dell’indagine condotta dalle nuove correnti irrazionalistiche e vitalistiche diventava la realtà psicologica. Il primo interprete della critica al positivismo fu Nietzsche, filosofo e letterato tedesco, che propose una concezione ciclica del tempo (eterno ritorno) mettendo in discussione il concetto di tempo come lo concepiva la civiltà occidentale. Propose l’idea del superuomo nato dalle ceneri della vecchia civiltà e capace di realizzare la propria individualità al di fuori della morale corrente. In Germania vi fu una ripresa della filosofia kantiana e idealistica, in una riflessione sui problemi della conoscenza storica proposta da Wilhelm Dilthey, fondatore dello storicismo moderno. In Italia, Benedetto Croce e Giovanni Gentile resero possibile un ritorno all’idealismo. Croce elaborò un complesso sistema filosofico per risolvere tutta la realtà nella dimensione storica; Gentile ridusse la realtà all’atto pensante del soggetto (attualismo). In Francia, Henri Bergson concepiva la realtà come creazione continua, mossa da uno “slancio vitale” e conoscibile nella sua pienezza solo attraverso l’intuizione, contrapponendo alla concezione del tempo “spazializzato” l’idea di un tempo “vissuto” interamente nella coscienza. Nei paesi anglosassoni si sviluppò la corrente del pragmatismo, i cui rappresentanti furono William James e John Dewey, basata sull’idea di un rapporto di reciproca verifica tra teoria e pratica e tra individuo e natura. L’idea di un “tempo” relativo rappresentò una sorta di filo comune. Sigmund Freud, fondatore della psicanalisi, teorizzò l’importanza dell’irrazionale e il concetto di una vita “inconscia” (Es) dominata da leggi diverse da quelle della vita cosciente (Io) Un altro tratto distintivo della cultura europea fu la riflessione sulla relatività (Albert Einstein) e sulla soggettività della conoscenza. Max Weber approfondì i problemi relativi al metodo delle scienze sociali. Questi nuovi orientamenti influenzarono anche il pensiero politico, dove si sviluppò la tendenza a penetrare oltre la facciata delle formule ideologiche per ricostruire i meccanismi reali e svelare i moventi autentici dell’agire politico. Una teoria importante fu la “teoria della classe politica” formulata da Gaetano Mosca, nella quale egli sosteneva che il potere effettivo fosse destinato a restare nelle mani di una ristretta minoranza di politici di professione. Questa teoria fu ripresa da Vilfredo Pareto (scontro di élite) e da Robert Michels (tendenza all’organizzazione dei partiti in oligarchie burocratiche. Queste analisi erano accomunate da un pessimismo sulla sorte degli ordinamenti democratici. 8. L’Europa e il mondo agli inizi del ‘900 - Parola chiave: Intellettuale 16 8.1 Le contraddizioni della belle époque Negli anni precedenti allo scoppio della I Guerra Mondiale si costruirono due rappresentazioni contrapposte, due spinte diverse e tra loro contradditorie: - La belle époque, età di progresso e di spensieratezza - La stagione del militarismo, dell’imperialismo e della logica di potenza Lo sviluppo del capitalismo finanziario, additato dai teorici marxisti come sicura premessa di guerra, era considerato da molti una garanzia di pace, visti i legami stretti che univano il mondo industriale e bancario al di là delle frontiere nazionali. La guerra fu il prodotto della combinazione di eventi casuali e di cause profonde, queste ultime da ricercare negli storici contrasti tra le grandi potenze e nella nuova configurazione del sistema di alleanze. 8.2 Nuove alleanze in Europa e nuovi equilibri mondiali Dopo il 1890, con l’uscita di scena del cancelliere tedesco Bismarck, mediatore dei rapporti tra le potenze, gli equilibri internazionali si ruppero e si formò un nuovo assetto bipolare fondate sulla contrapposizione tra due blocchi di potenze europee: la Triplice Alleanza (Germania, Italia e Impero austro-ungarico) e la Triplice Intesa (Francia, GB e Russia). Nel 1891 si giunse a un primo accordo franco-russo, trasformatosi poi nel 1894 in vera e propria alleanza militare la Germania non rinnovò l’alleanza con la Russia perché considerava improbabile un accordo tra Russia e Francia) La decisione del governo tedesco di costruire una potente flotta da guerra capace di contrastare la superiorità britannica nel Mare del Nord provocò un inasprimento dei rapporti tra Germania e GB. Ciò indusse i britannici a impegnarsi in una corsa agli armamenti navali. Nel frattempo, GB e Francia avevano avviato un processo di riavvicinamento che portò le due potenze a stipulare, nel 1904, l’Intesa cordiale per regolare i rispettivi interessi coloniali in Africa. Nel 1907 anche GB e Russia regolarono i loro contrasti in Asia con un accordo che regolava le rispettive sfere di competenza In Germania questa situazione, pur essendo stata causata dagli errori della classe dirigente tedesca, determinò una sorta di complesso di accerchiamento e causò una maggiore aggressività in politica estera, una spinta al riarmo, una inclinazione alla guerra preventiva, creando in questo modo un clima di sempre maggiore tensione internazionale. Inoltre, era diffuso il timore di possibili sfide esterne, portate del risveglio dei popoli dell’Estremo Oriente: Giappone, che si scontrò con la Russia nella sua politica imperialista, e Cina. Si iniziò a parlare di un “pericolo giallo”, espressione coniata dall’imperatore di Germania Guglielmo II. 8.3 I focolai di crisi Vi furono in questo periodo due punti di frizione: 1. L’assetto dei Balcani: nel 1908 vi fu una profonda trasformazione interna all’Impero ottomano (rivoluzione dei “Giovani turchi”, con l’intento di trasformare l’impero in una monarchia costituzionale). Il sultano Abdul Hamid fu costretto da un gruppo di ufficiali in marcia sulla capitale a concedere una Costituzione; il nuovo regime tentò una modernizzazione dello Stato, attuando però un ordinamento più accentrato di quello del vecchio regime e accentuando di conseguenza le spinte indipendentiste. L’Austria- Ungheria sfruttò l’occasione per annettere al proprio impero, nel 1908, la Bosnia-Erzegovina, provocando un inasprimento dei rapporti con la Serbia e con la Russia. L’Italia subì a malincuore l’iniziativa austriaca. Nel 1912, l’Italia occupò la Libia e sconfisse in guerra la Turchia, favorendo le mire degli Stati balcanici: i regni di Grecia, Serbia, Montenegro e Bulgaria si coalizzarono e attaccarono l’impero ottomano sconfiggendolo (prima guerra balcanica). Si formò il Principato di Albania. L’alleanza tra gli Stati balcanici si ruppe nel momento della spartizione dei territori e, nel 1913, la Bulgaria attaccò la Grecia e la Serbia, ma fu sconfitta, causa anche l’entrata di Romania e Turchia contro il suo attacco, e dovette restituire alla Turchia una parte della Tracia e cedere alla Romania una striscia di territorio sul Mar Nero (seconda guerra balcanica). Si trattò di due guerre sanguinose, che risultarono sfavorevoli per gli Imperi centrali, dal momento cui il loro alleato, l’Impero turco, era stato estromesso dall’Europa e la Serbia si era rafforzata. Le rivalità tra Stati minori del Sud-Est europeo si intrecciavano con il confronto tra i due blocchi delle grandi potenze. 17 L’espansionismo statunitense, dopo le conquiste di Filippine e Hawaii, si rivolse verso l’America centrale. Roosevelt, esponente dell’ala progressista del Partito Repubblicano, mostrò grande decisione nella difesa degli interessi americani durante gli anni della presidenza. Ciò è visibile nella vicenda del canale di Panama: nel 1903 il senato colombiano rifiutò di ratificare l’accordo secondo cui gli USA ottenevano l’autorizzazione a costruire un canale che tagliasse l’istmo di Panama, quindi gli USA organizzarono una sommossa a Panama, che divenne una repubblica indipendente sotto la tutela americana. Nel 1914 fu aperto il canale di Panama, che metteva in comunicazione su cui si esercitava la spinta espansionistica degli USA (Oceano Pacifico e mari del Centro America. In politica interna, Roosevelt prese provvedimenti nel campo della legislazione sociale e le prime energiche affermazioni del diritto di intervento dei pubblici poteri nel mondo economico, cercando di modificare il potere dei grandi trusts per andare incontro alle esigenze della piccola e media borghesia, senza però modificare la politica protezionistica ereditata dai suoi predecessori. Nel 1908 il Partito repubblicano si spaccò in un’ala progressista e una conservatrice, favorendo il successo del candidato democratico, Woodrow Wilson, che impostò la lotta contro i grandi monopoli sull’abbassamento delle tariffe protettive. Wilson portò uno stile nuovo, rispettoso delle norme della convivenza internazionale. 8.9 L’America Latina e la rivoluzione messicana I Paesi dell’America Latina, tra la fine dell’‘800 e gli inizi del ‘900, conobbero uno sviluppo economico notevole, basato sull’esportazione di materie prime e di prodotti agricoli verso l’Europa industrializzata. L’oligarchia terriera riuscì in questo modo a mantenere una posizione dominante nella vita sociale e politica. Gli Stati latino-americani erano retti da regimi parlamentari e repubblicani ispirati ai modelli del liberalismo ottocentesco, ma nella realtà della vita politica vi era una degenerazione in forme più o meno evidenti di dittatura personale. Negli anni precedenti alla I Guerra Mondiale, vi furono rivolgimenti politici in Argentina e Messico: in Argentina si trattò di un rivolgimento pacifico, originato dall’introduzione del suffragio universale (1912) e dalla ascesa al potere dell’Unione radicale, espressione delle classi medie di orientamento progressista; in Messico la spinta alla democratizzazione sfociò in una lotta rivoluzionaria scoppiata nel 1910 contro il regime semidittatoriale di Porfirio Dìaz. Promotori dell’insurrezione furono i gruppi liberal-progressisti guidati da Francisco Madero, affiancati da capi rivoluzionari come Emiliano Zapata e Pancho Villa. Nel 1911 Madero venne eletto presidente, ma si sviluppò un contrasto tra due componenti del fronte rivoluzionario, quella borghese- moderata e quella contadina. Nel 1913 Madero fu ucciso durante un colpo di Stato militare che portò al potere il generale Victoriano Huerta. La guerra civile si concluse nel 1921 con l’assunzione della presidenza da parte del progressista Álvaro Obregón e con il varo di una Costituzione democratica e laica. 9. L’Italia giolittiana - Parola chiave: Massoneria 9.1 La crisi di fine secolo In Italia, negli ultimi anni dell’‘800, si verificò una crisi politico-istituzionale che si concluse con l’affermazione delle forze progressiste, in un periodo di intenso sviluppo industriale. A seguito della caduta di Crispi, si delineò tra le forze conservatrici la tendenza a ricomporre un fronte comune contro le minacce portate all’ordine costituito dai “nemici delle istituzioni” (socialisti, repubblicani, clericali), tendenza proposta da Sidney Sonnino nell’articolo “Torniamo allo Statuto”. La tensione esplose nel 1898 a causa di un aumento del prezzo del pane e provocò una serie di agitazioni popolari, respinte in maniera durissima dal governo di Antonio di Rudiní. La repressione culminò a Milano nelle giornate tra il 6 e il 9 maggio, quando le truppe del generale Bava Beccaris fecero uso dell’artiglieria contro la folla inerme. Lo scontro si trasferì dalle piazze alle aule parlamentari. Il successore di Rudiní fu il generale piemontese Luigi Pelloux, che presentò un pacchetto di provvedimenti che limitavano gravemente il diritto di sciopero e le stesse libertà di stampa e associazione. Tuttavia, l’ostruzionismo della sinistra paralizzò l’azione del governo e portò, nel 1900, alle dimissioni di Pelloux; il Re Umberto I affidò il governo nelle mani del 20 senatore Giuseppe Saracco, mettendo fine alla politica repressiva che egli stesso (il Re) aveva sostenuto. Un mese dopo Umberto cadde vittima di un attentato per mano di un anarchico. 9.2 La svolta liberale Con il governo Saracco iniziò una fase di distensione favorita dall’andamento positivo dell’economia e dal re Vittorio Emanuele III. In seguito alle dimissioni del governo Saracco, il Re affidò il governo nelle mani del leader della sinistra liberale Giuseppe Zanardelli, che affidò il Ministero dell’Interno a Giovanni Giolitti, che sosteneva l’idea di uno Stato liberale a favore dello sviluppo delle organizzazioni operaie e contro la repressione indiscriminata. Le riforme del Ministero Zanardelli furono varie (limitazione del lavoro minorile e femminile, istituzione di un Consiglio superiore del lavoro, municipalizzazione dei servizi pubblici) e basate su una linea di neutralità nelle vertenze. In questo periodo si svilupparono le organizzazioni sindacali, tra cui Camere del Lavoro, Federazioni di mestiere e la Federazione italiana dei lavoratori della terra. Vi fu di conseguenza una brusca impennata degli scioperi che provocò una spinta al rialzo dei salari, resa possibile anche dal generale sviluppo economico del Paese. 9.3 Decollo dell’industria e questione meridionale Negli ultimi anni dell’‘800, l’Italia conobbe il suo primo autentico decollo industriale, reso possibile dalla costruzione di una rete ferroviaria che aveva favorito lo sviluppo del commercio, dalla scelta protezionistica del 1887 che aveva reso possibile la creazione di una moderna industria siderurgica e dal riordinamento del sistema bancario (dopo la crisi della Banca Romana) che permise la creazione di una struttura finanziaria efficiente. Fu fondamentale la costituzione nel 1894 di due nuovi istituti di credito, la Banca commerciale e il Credito italiano. I settori che fecero registrare i maggiori progressi furono la siderurgia, l’industria cotoniera nel tessile, l’industria dello zucchero nel settore agroalimentare, l’industria della gomma nel settore chimico (Pirelli), l’industria automobilistica nel settore meccanico (Fiat) e l’industria elettrica. L’aumento generalizzato delle retribuzioni consentì a vasti strati della popolazione di destinare una quota dei bilanci familiari alla casa, ai trasporti, all’istruzione, alle attività ricreative e all’acquisto di beni di consumo durevoli. Vi fu inoltre uno sviluppo dei servizi pubblici. Le condizioni abitative dei lavoratori urbani restavano tuttavia ancora precarie, anche se la diffusione dell’acqua corrente nelle case e il miglioramento delle reti fognarie permise un calo della mortalità da malattie infettive. Il divario che separava l’Italia dagli Stati più ricchi e industrializzati era tuttavia ancora ampio, l’analfabetismo era ancora molto elevato (37%), la quota di popolazione attiva impiegata nelle campagne era intorno al 55%, quota troppo alta per le capacità produttive dell’agricoltura italiana, che causò un incremento dell’emigrazione verso l’estero (circa 8 milioni di emigrati tra il 1900 e il 1914), che ebbe effetti positivi, allentando la pressione demografica e alleviando, attraverso le rimesse degli emigrati, il disagio delle zone più depresse, ma anche effetti negativi come l’impoverimento della forza-lavoro e di energie intellettuali nella comunità nazionale. Il divario tra Nord e Sud si andò accentuando per mezzo del progresso economico non distribuito uniformemente. La società meridionale presentava analfabetismo diffuso, disgregazione sociale, assenza di una classe dirigente moderna, subordinazione della piccola e media borghesia agli interessi della grande proprietà terriera, carattere clientelare e personalistico della lotta politica. Per denunciare questa situazione di squilibrio, nacque un movimento di opinione definito “meridionalismo”, composto da esponenti di diversi orientamenti politici, con l’idea condivisa della necessità di risolvere la questione meridionale per permettere all’Italia di procedere sulla via dello sviluppo economico e civile. 9.4 Giolitti e le riforme Dopo le dimissioni di Zanardelli nel 1903, Giolitti offrì un posto nella compagine governativa al socialista Filippo Turati, che rifiutò l’offerta e costrinse Giolitti a virare verso un ministero aperto alla destra. Nel 1904, il governo condusse le prime importanti “leggi speciali” per il Mezzogiorno, volte a incoraggiare la modernizzazione dell’agricoltura e lo sviluppo industriale; nel 1904-5 Giolitti elaborò il progetto della statalizzazione delle ferrovie, contrastato dai socialisti. Giolitti decise quindi di dimettersi e lasciò il governo nelle mani di Alessandro Fortis secondo la tattica di abbandonare il potere nei momenti difficili per riprenderlo in condizioni più favorevoli. Nel 1906 Giolitti tornò alla guida del governo e vi restò per tre anni e mezzo, realizzando la conversione della rendita (riduzione del tasso d’interesse versato dallo Stato ai 21 possessori di titoli del debito pubblico) per ridurre gli oneri gravanti sul bilancio statale. Nel 1909 Giolitti attuò una nuova ritirata strategica, salì al governo Sonnino e successivamente Luzzatti, che avviò una importante riforma scolastica, la Legge Daneo-Credaro che avocava allo Stato l’onere dell’istruzione elementare. Nel 1911 Giolitti tornò al governo e propose l’estensione del diritto di voto a tutti i cittadini maschi che avessero compiuto trent’anni e a tutti i maggiorenni che sapessero leggere e scrivere o avessero prestato servizio militare (1912). Nello stesso anno fu istituito l’Ina (Istituto nazionale assicurazioni), ente pubblico che deteneva il monopolio statale delle assicurazioni sulla vita. 9.5 Il giolittismo e i suoi critici Giolitti esercitò una “dittatura parlamentare” molto simile a quella di Depretis nelle forme. Tratti dell’azione giolittiana furono: il sostegno alle forze più moderne della società italiana (borghesia industriale e proletariato organizzato), il tentativo di condurre nel sistema liberale gruppi considerati nemici delle istituzioni, la tendenza all’interventismo statale per la correzione degli squilibri sociali. Il controllo delle Camere fu l’elemento fondamentale del sistema di Giolitti, reso possibile dalla perpetuazione dei sistemi trasformistici e quindi dalla limitazione degli aspetti nuovi e progressivi della sua stessa politica. I socialisti consideravano Giolitti la causa della corruzione all’interno dei movimenti, i liberali-conservatori lo accusavano di venire a patti con i nemici delle istituzioni, i meridionalisti, come Gaetano Salvemini, lo bollarono come “ministro della malavita” perché aveva favorito le oligarchie operaie del Nord attraverso la politica economica protezionista. Giolitti dovette fare i conti con una crescente impopolarità, che crebbe nel 1911, in coincidenza con la guerra di Libia. 9.6 La guerra di Libia e il tramonto del giolittismo Nel 1898 si attenuò la linea rigidamente filotedesca con la firma di un nuovo trattato di commercio con la Francia, che pose fine alla “guerra doganale” iniziata con il governo Depretis. Nel 1902 si divisero le sfere d’influenza in Africa settentrionale: l’Italia ottenne il riconoscimento delle sue aspirazioni sulla Libia, mentre la Francia si concentrava sul Marocco. Questa situazione creò motivi di contrasto in seno alla Triplice Alleanza. In questo periodo ebbe fortuna la teoria formulata da Enrico Corradini secondo la quale il contrasto fondamentale fosse quello tra paesi ricchi e paesi poveri, e portò all’affermarsi di un movimento nazionalista che si affermò nel 1910 nella struttura organizzativa denominata Associazione nazionalista italiana, composto principalmente da un gruppo imperialista e conservatore e che trovava alleati tra i gruppi cattolico- moderati. Nel 1911, il governo italiano inviò sulle coste libiche in contingente di 35 mila uomini, scontrandosi contro la reazione dell’Impero turco. L’Italia estese il teatro di guerra nel Mare Egeo e, nel 1912, i Turchi sconfitti acconsentirono a firmare la Pace di Losanna. La conquista italiana della Libia, dal punto di vista economico, si rivelò un pessimo affare a causa dei costi eccessivi della guerra e dalla scarsità di ricchezze naturali. Gli oppositori decisi a questa azione furono i socialisti, una parte dei repubblicani e dei radicali e intellettuali indipendenti, ma la maggioranza dell’opinione pubblica borghese si schierò a favore dell’impresa coloniale. La guerra di Libia scosse gli equilibri del sistema giolittiano e favorì il rafforzamento delle ali estreme, principalmente della destra liberale, dei clerico-conservatori e dei nazionalisti da una parte, e dei socialisti dall’altra. 9.7 Socialisti e cattolici Nel Congresso di Bologna del 1904, le correnti rivoluzionarie conquistarono la guida del partito socialista e indissero il primo sciopero generale nazionale della storia d’Italia, che costituì una prova di forza ma mostrò anche gravi limiti organizzativi nel coordinamento nazionale del movimento operaio. Nacque per questo motivo nel 1906 la Cgl (Confederazione generale del lavoro), che raccolse circa 250 mila iscritti. Nel 1910, anche gli industriali si organizzarono nella Confederazione dell’Industria (Confindustria). Nel frattempo, si accentuavano le fratture interne al Psi. Il fronte riformista prospettava la trasformazione del Psi in un “partito del lavoro” privo di connotazioni ideologiche nette e disponibile per una collaborazione di governo. Nel 1912, i rivoluzionari espulsero dal Psi i riformisti di destra, che diedero vita al Partito socialista riformista italiano. Tra i riformisti rimasti nel Psi vi era un giovane agitatore romagnolo, Benito Mussolini, direttore del quotidiano del partito, l’”Avanti!”, che portò nella propaganda socialista uno stile nuovo, basato sull’appello diretto alle masse e sul ricorso a formule agitatorie prese a prestito dal sindacalismo rivoluzionario. 22 - Il Partito socialista e la Cgl, in nome degli ideali internazionalistici. Solo Mussolini si schierò a favore della guerra, fu espulso dal Psi e fondò un nuovo quotidiano, “Il Popolo d’Italia”) I neutralisti erano in prevalenza, ma non erano omogenei, mentre il fronte interventista era unito dalla comune avversione per la dittatura giolittiana e vedeva la guerra come un modo per avviare un rinnovamento della politica italiana. Salandra e Sonnino, col solo avallo del Re, di accettare le proposte delle potenze dell’Intesa, firmando il Patto di Londra (26 aprile 1915): l’Italia, in caso di vittoria, avrebbe ottenuto il Trentino, il Sud Tirolo, la Venezia Giulia, Istria e parte della Dalmazia. Quando Giolitti si pronunciò per la continuazione delle trattative con l’Austria, Salandra, in minoranza, rassegnò le dimissioni, ma il Re le respinse. Il 20 maggio 1915 la Camera, per evitare di sconfessare il Governo, approvò la concessione dei pieni poteri al governo, e l’Italia dichiarò guerra all’Austria il 24 maggio 1915. I Socialisti coniarono la formula “né aderire né sabotare”. 10.5 I fronti di guerra (1915-16) Sul fronte italiano, le forze austriache si schierarono lungo il corso dell’Isonzo e sulle alture del Carso e, nel 1916, lanciarono un attacco, la Stafexpedition (spedizione punitiva), che fu faticosamente arrestato. Il governo Salandra, per il contraccolpo psicologico, fu costretto alle dimissioni e sostituito da un governo di coalizione nazionale presieduto da un conservatore, Paolo Boselli. Sul fronte francese, nel 1916, i tedeschi sferrarono un attacco contro la piazzaforte di Verdun. Nell’estate 1916 gli anglo-francesi lanciarono una controffensiva sul fiume Somme, lungo il quale, in sei mesi, le perditi arrivarono quasi ad un milione. Sul fronte orientale, nell’estate del ’15, i tedeschi costrinsero i russi ad abbandonare parte della Polonia e, in autunno, gli austriaci attaccarono la Serbia, che fu invasa ed eliminata dal conflitto. La Romania intervenne a fianco dell’Intesa, ma in ottobre fu sconfitta e subì la stessa sorte della Serbia. Gli Imperi centrali subivano le conseguenze del blocco navale attuato dai britannici nel Mare del Nord. 10.6 Guerra di trincea e nuove tecnologie La vera protagonista della guerra fu la trincea, sede permanente dei reparti di prima linea, che col tempo venne allargata, dotata di ripari, protetta da reticolati di filo spinato e da nidi di mitragliatrici. La vita nelle trincee logorò i combattenti e li gettò in uno stato di apatia e di torpore mentale. Gran parte dei soldati semplici vedeva la guerra come un flagello naturale, combattuta per un senso di solidarietà con i propri compagni di reparto e per la presenza di un apparato repressivo nel punire ogni forma di insubordinazione. Si svilupparono comunque forme di rifiuto individuali (renitenza alla leva, diserzione, autolesionismo) e, raramente, casi di ribellione collettiva. Il primo conflitto mondiale fu segnato dall’uso di strumenti bellici già sperimentati in precedenza, ma anche dall’invenzione di nuovi mezzi d’offesa, come le armi chimiche. La guerra accelerò la crescita di settori relativamente giovani, come quello automobilistico o come quello radiofonico; più lento fu lo sviluppo dell’aviazione: gli aerei (i fratelli Wright, nel 1903, avevano fatto volare il primo) erano usati per la ricognizione e per qualche azione di bombardamento. Fece il suo esordio anche il carro armato, impiegato in modo massiccio solo nelle ultime fasi della guerra. Fu il sottomarino ad avere un ruolo centrale sul corso della guerra: i tedeschi se ne servirono per attaccare le navi da guerra nemiche e per affondare i mercantili che portavano rifornimenti verso i porti dell’Intesa. Nel maggio 1915 un sottomarino tedesco affondò il transatlantico britannico Lusitania che trasportava passeggeri tra cui americani, e le proteste degli USA convinsero i tedeschi a sospendere la guerra sottomarina indiscriminata. 10.7 Il “fronte interno” La Grande Guerra costituì un acceleratore di tutti i fenomeni legati alla società di massa. Le donne, ad esempio, si trovarono a svolgere funzioni di capofamiglia. L’intera società fu mobilitata in funzione della guerra, una guerra che può essere quindi definita totale, perché coinvolse tutti gli ambiti della vita dei paesi belligeranti. Vi era il problema di chi risiedeva in un paese diverso dalla propria patria e rischiava di trovarsi nella condizione di nemico, oppure la situazione delle minoranze etniche che erano tenute fortemente sotto controllo. Un caso limite fu quello degli armeni, abitanti di una regione del Caucaso divisa tra l’impero ottomano e quello russo. Gli armeni che vivevano nella parte turca, sospettati di intesa con la Russia, furono sottoposti a una brutale deportazione nelle zone interne dell’Anatolia e sterminati, nel 1915. 25 Nell’ambito economico, e soprattutto nel settore industriale, vi furono trasformazioni vistose e uno sviluppo imponente, che imposero una riorganizzazione dell’apparato produttivo e una dilatazione dell’intervento statale, attraverso controlli militari dell’industria, requisizioni e prezzi controllati nell’agricoltura. Il sistema era gestito da organismi composti da militari e industriali, i quali trassero dall’economia vantaggi in termini di profitto e potere. Vi furono, di conseguenza, trasformazioni degli apparati statali: aumento della burocrazia, rafforzamento del potere esecutivo, invadenza dei comandi militari. Strumento essenziale per la mobilitazione dei cittadini fu la propaganda, che cercava di raggiungere in tutti i modi possibili la popolazione civile, oltre alle truppe. In Svizzera, tra il 1915 e il 1916, si tennero due conferenze socialiste internazionali che si conclusero con l’approvazione di documenti in cui si chiedeva una pace “senza annessioni e senza indennità”: i gruppi contrari alla guerra, tra cui i bolscevichi guidati da Lenin, si rafforzarono col protrarsi della guerra. 10.8 1917: l’anno della svolta Nei primi mesi del 1917 vi fu uno sciopero generale degli operai di Pietrogrado che si trasformò in un’imponente manifestazione politica contro il regime zarista. I soldati fraternizzarono con la folla e lo zar fu costretto ad abdicare il 15 marzo, per poi venire arrestato pochi giorni dopo con l’intera famiglia reale. Si mise in moto un processo che avrebbe portato al collasso militare della Russia e alla firma dell’armistizio. Iniziarono a verificarsi ammutinamenti delle truppe di molte potenze, proteste popolari e l’invito del Papa Benedetto XV di porre fine all’”inutile strage”. Nel 1917, un’armata austriaca rinforzata da sette divisioni tedesche attaccò le linee italiane sull’alto Isonzo e le sfondò presso Caporetto, utilizzando la tattica dell’infiltrazione (penetrare nel territorio nemico velocemente senza consolidare le posizioni raggiunte, ma sfruttando la sorpresa). L’esercito italiano si attestò sulla nuova linea difensiva del Piave. Il generale Cadorna accusò della disfatta i soldati, ma in realtà la rottura del fronte fu causata dagli errori dei comandi. Fu costituito un nuovo governo di coalizione nazionale presieduto da Vittorio Emanuele Orlando e venne sostituito Cadorna con Armando Diaz, più attento alle esigenze dei soldati. La guerra venne presentata come una lotta per un giusto ordine interno e internazionale, dando vita all’idea di una guerra democratica. 10.9 La rivoluzione russa: da febbraio a ottobre Dopo l’abdicazione dello zar, si formò nella capitale un governo provvisorio, composto dai rappresentanti di tutti e tre i partiti (i bolscevichi rifiutarono ogni partecipazione), con l’obiettivo di proseguire la guerra e di promuovere la modernizzazione del paese. Il potere legale fu affiancato dai soviet, consigli di operai e soldati, tra cui quello di Pietrogrado, che fungeva da parlamento proletario. Lenin, tornato in Russia dalla Svizzera, diffuse un documento in dieci punti – “Tesi di Aprile” – in cui poneva il problema della presa del potere e poneva come obiettivo la conquista della maggioranza dei soviet e l’espansione delle parole d’ordine della pace, della terra ai contadini poveri, del controllo della produzione da parte dei consigli operai. Nonostante il fallimento di un’insurrezione nell’aprile del ’17, i bolscevichi conquistarono la maggioranza nei soviet di Pietrogrado e Mosca, e ad ottobre decisero di rovesciare il governo. Trotzkij, eletto presidente del soviet di Pietrogrado, organizzò l’insurrezione nella quale soldati rivoluzionari e guardie rosse circondarono il Palazzo d’Inverno e se ne impadronirono. Venne costituito un nuovo governo rivoluzionario presieduto da Lenin, il Consiglio dei commissari del popolo. 10.10 La rivoluzione russa: dittatura e guerra civile Alle elezioni dell’Assemblea costituente, i bolscevichi ottennero meno di un quarto dei seggi, e i trionfatori furono i social-rivoluzionari. Tuttavia, i bolscevichi sciolsero l’Assemblea costituente per mezzo dell’intervento dei militari che obbedivano a un ordine del Congresso dei soviet. I leader bolscevichi si proponevano la costruzione di un nuovo Stato proletario ispirato alla Comune di Parigi, secondo un modello di autogoverno basato sui principi di democrazia diretta sperimentati nei soviet. Il nuovo governo si trovò a firmare l’armistizio che poneva fine alle ostilità, a cui seguì una trattativa con gli Imperi centrali che si concluse nel 1918 con la firma della pace di Brest-Litovsk. La Russia dovette accettare le durissime condizioni che comportavano la perdita dei territori non russi nell’ex Impero. Le potenze dell’intesa considerarono la pace un tradimento e iniziarono ad appoggiare le forze antibolsceviche, organizzate sotto la guida di ex ufficiali zaristi. Lo zar e la sua famiglia furono giustiziati per ordine del soviet locale nel timore che fossero liberati dai controrivoluzionari. 26 Nel frattempo, il regime rivoluzionario accentuò i tratti autoritari attraverso: la creazione di una polizia politica, la Ceka; l’istituzione di un Tribunale rivoluzionario centrale col compito di processare chiunque fosse contrario al governo; la messa fuori legge dei partiti d’opposizione; la reintroduzione della pena di morte; la riorganizzazione dell’esercito col nome di Armata rossa degli operai e dei contadini, basato su una ferrea disciplina; l’istituzione di commissari politici. Nacque così un nuovo modello di Stato a partito unico, dai tratti autoritari, capace di proporsi come agente di liberazione per i popoli e come minaccia per l’ordine economico e per gli equilibri internazionali dell’Occidente. 10.11 1918: la sconfitta degli Imperi centrali Gli Stati dell’Intesa accentuarono il carattere ideologico dello scontro, presentandolo come una crociata della democrazia contro l’autoritarismo. Nel 1918, Wilson presentò le linee ispiratrici della sua politica in un programma di pace in 14 punti, nei quali proponeva il rispetto del principio di nazionalità e l’istituzione di un nuovo organismo internazionale, la Società delle Nazioni, per assicurare il rispetto delle norme di convivenza dei popoli. La Germania tentò l’ultimo assalto sulla Marna e gli austriaci sul Piave. Le forze dell’Intesa passarono al contrattacco e, nella battaglia di Amiens, i tedeschi subirono la prima grande sconfitta sul fronte occidentale. I generali tedeschi capirono di aver perso la guerra e si sbarazzarono del potere, lasciando il compito ingrato di aprire le trattative a un nuovo governo di coalizione democratica, al quale partecipavano i socialdemocratici e i cattolici del centro. La Bulgaria cedette, così fece anche l’Impero turco, ed infine l’Austria-Ungheria, con la proclamazione dell’indipendenza da parte della Cecoslovacchia e degli Slavi del Sud e la sconfitta austriaca nella battaglia di Vittorio Veneto, alla quale seguì l’armistizio di Villa Giusti con l’Italia. In Germania, i marinai di Kiel si ammutinarono e diedero vita a consigli rivoluzionari ispirati al modello russo. Friedrich Ebert, socialdemocratico, fu proclamato capo del governo, mentre Guglielmo II fuggì in Olanda e venne proclamata la Repubblica. Successivamente fu firmato l’armistizio nel villaggio francese di Rethondes. La Germania perse la guerra, ma non fu sconfitta sul piano militare e non fu mai invasa da eserciti stranieri. 10.12 Vincitori e vinti Il 18 gennaio 1919, nella reggia di Versailles, si aprirono i lavori della conferenza di pace, dalla quale furono esclusi i paesi sconfitti. Le materie più importanti erano riservate ai “quattro grandi”, i capi di governo delle potenze vincitrici (Wilson, Clemenceau, Lloyd George e Orlando), con il compito di ridisegnare la carta politica del Vecchio Continente, sconvolta dal crollo dei quattro imperi (russo, austro-ungarico, tedesco e turco). La Germania subì una serie di clausole che, se eseguite integralmente, sarebbero state sufficienti a cancellarla per molto tempo dal novero delle grandi potenze. Il trattato firmato a Versailles il 28 giugno 1919 fu in realtà un’imposizione, un Diktat, subita dalla Germania sotto la minaccia dell’occupazione militare e del blocco economico. Esso prevedeva la restituzione dell’Alsazia-Lorena alla Francia, la cessione alla Polonia dell’Alta Slesia, della Posnania e di una striscia della Pomerania, la cessione di Danzica che divenne “città libera”, la privazione delle sue colonie in Africa e Oceania. In più, le clausole economiche prevedevano l’impegno a rifondere ai vincitori i danni subiti in conseguenza del conflitto, l’abolizione del servizio di leva, la rinuncia della marina di guerra, la riduzione dell’esercito entro il limite di cento mila uomini e la smilitarizzazione della valle del Reno. Si trattò di condizioni umilianti. I popoli slavi trassero vantaggio dal crollo dell’Impero asburgico: i cechi e gli slovacchi confluirono nella Repubblica di Cecoslovacchia, gli slavi del sud si unirono alla Serbia e al Montenegro per dar vita al Regno dei Serbi, Croati e Sloveni, la Romania si ingrandì, la Bulgaria fu ridimensionata e l’Impero ottomano conservò solo la penisola di Anatolia (esclusa Smirne) e si trasformò in uno Stato nazionale turco. Furono riconosciute le Repubbliche indipendenti formatesi nei territori baltici con il trattato di Brest- Litovsk: Finlandia, Estonia, Lettonia e Lituania. Nel 1921 si formò lo Stato libero d’Irlanda (escluso il Nord protestante). La Società delle Nazioni prevedeva la rinuncia da parte degli Stati membri alla guerra come strumento di soluzione dei contrasti e l’adozione di sanzioni economiche nei confronti degli Stati aggressori, ma nasceva minata da contraddizioni, come l’esclusione dei paesi sconfitti e della Russia e, successivamente, dal rifiuto da parte del Senato statunitense di ratificare i trattati di Versailles che includevano l’adesione all’organismo. La Società delle Nazioni finì con l’essere egemonizzata da GB e Francia. 10.13 Il mito e la memoria 27 adoperando per raggiungere un accordo con le potenze vincitrici. I governi di coalizione si impegnarono comunque a pagare le prime rate delle riparazioni e, di conseguenza, furono costretti ad aumentare la stampa di carta moneta: il valore del marco precipitò, accelerando il processo inflazionistico già in atto. Nel 1923, Francia e Belgio inviarono truppe nel bacino della Ruhr, e l’unica cosa che il governo tedesco poté fare fu incoraggiare la resistenza passiva della popolazione. L’occupazione della Ruhr rappresentò il definitivo tracollo e costrinse il governo ad ingenti spese per finanziare la resistenza passiva. Lo Stato stampava banconote in quantità sempre maggiore e con valore nominale sempre più alto. Le retribuzioni venivano continuamente adeguate e si giunse a pagarle giornalmente, ma non si riusciva a stare dietro al ritmo dell’inflazione. Nell’agosto 1923 si formò un governo di coalizione presieduto da Gustav Stresemann, leader del Partito tedesco-popolare, che ordinò la fine della resistenza passiva nella Ruhr e riallacciò i rapporti con la Francia. Inoltre, represse tutti i focolai insurrezionali, tra cui quello di Monaco del Partito Nazionalsocialista di Hitler, che fu arrestato. Il governo cercò soprattutto di porre rimedio al caos economico, emettendo una nuova moneta, il Rentenmark, e avviando una politica deflazionistica, basata sull’aumento delle imposte e la limitazione del credito e della spesa pubblica. Nel 1924 si trovò un accordo con i vincitori, sulla base del piano di Dawes, che prevedeva che l’entità delle rate da pagare fosse graduata nel tempo e che la finanza internazionale sovvenzionasse lo Stato tedesco con prestiti a lunga scadenza. Nel 1925, la coalizione si ruppe e nelle elezioni presidenziali vinse Hindenburg, capo dell’esercito e simbolo del passato imperiale. I partiti di centro e di centro-destra mantennero il potere fino al 1928, quando i socialdemocratici riassunsero la guida del governo. 11.6 Il dopoguerra dei vincitori In Francia e GB l’obiettivo della stabilizzazione fu sostanzialmente raggiunto sul piano della politica interna, mentre la ripresa economica fu lenta. In Francia, la maggioranza di centro-destra attuò una politica fortemente conservatrice. Nel ’24, i radicali di sinistra e i socialisti (“cartello delle sinistre”) riuscirono ad ottenere la maggioranza, ma non seppero affrontare la grave crisi finanziaria. Nel ’26, la guida del governo fu assunta dal leader storico dei moderati, l’ex presidente della Repubblica Raymond Poincaré, che riuscì a stabilizzare il corso della moneta e a risanare il bilancio statale aumentano la pressione fiscale. In Gran Bretagna, tra il ’18 e il ’29, i conservatori furono quasi sempre al potere. Il Partito Laburista assunse in questi anni il ruolo di antagonista dei conservatori e fece sì che il sistema politico britannico riassumesse la tradizionale forma bipolare. I conservatori portarono avanti una politica di austerità finanziaria e di contenimento dei salari che li fece scontrare con i sindacati. A seguito di uno sciopero dei minatori, il governo dichiarò illegale la pratica per cui gli aderenti alle Trade Unions venivano iscritto “d’ufficio” al Labour Party. I Laburisti riuscirono comunque ad affermarsi nel ’29. In ambito europeo, la Francia cercò di costruire in funzione antitedesca una rete di alleanze con i paesi dell’Europa centro-orientale avvantaggiati dai trattati di Versailles, come Polonia, Cecoslovacchia, Jugoslavia, Romania. Questa linea subì un mutamento nel ’24 con l’accettazione del piano Dawes, inaugurando una fase di distensione, nel quadro di un più vasto progetto di sicurezza collettiva. Nel ’25 vi furono gli accordi di Locarno, attraverso i quali Germania, Francia e Belgio riconoscevano le frontiere comuni tracciate a Versailles, con il ruolo di GB e Italia di garanti. Nel ’26 la Germania fu ammessa alla Società delle Nazioni. Nel ’29 fu varato il piano Young, che ridusse e graduò ulteriormente le riparazioni tedesche, dilazionandole in sessant’anni. Questa stagione di distensione internazionale si concluse con l’inizio della grande crisi economica mondiale. Nel 1930 la Francia decise di dare il via alla costruzione di un imponente complesso di fortificazioni difensive (linea Maginot) lungo il confine con la Germania. 11.7 La Russia comunista Appena conclusa, nella primavera del ’20, la guerra civile, i bolscevichi dovettero affrontare l’attacco improvviso della Polonia, che cercava di approfittare delle difficoltà del vicino per ritagliarsi confini più vantaggiosi. Dopo fasi alterne si giunse a un trattato di pace che accontentava in parte le aspirazioni polacche e segnava la fine della speranza di esportare la rivoluzione grazie ai successi militari. Un’altra minaccia per il comunismo fu il rischio del collasso economico. Sotto i bolscevichi avvenne la creazione di una miriade di piccole aziende che producevano soprattutto per l’autoconsumo e non 30 contribuivano all’approvvigionamento delle città. Le banche furono nazionalizzate e i debiti con l’estero cancellati. Ma lo stato di caos costrinse il governo a stampare carta moneta priva di qualsiasi valore, finendo così col tornare al sistema del baratto e al pagamento in natura delle retribuzioni. A partire dal ’18, il governo bolscevico cercò di attuare una politica energica ed autoritaria, definita “comunismo di guerra”. Venne incoraggiata la formazione di comuni agricole volontarie, le fattorie collettive, e furono istituite delle “fattorie sovietiche” gestite direttamente dallo Stato o dai soviet locali. In ambito industriale, furono nazionalizzati i settori più importanti, con lo scopo di normalizzare la produzione e centralizzare le decisioni. Sul piano economico, l’esperienza del “comunismo di guerra” si risolse in un totale fallimento e il punto massimo di tensione fu toccato nel 1921 con la ribellione dei marinai di Kronstadt, roccaforte dei bolscevichi, seguita da una feroce repressione militare. Nello stesso anno fu avviata una parziale liberalizzazione nella produzione e negli scambi attraverso la nuova politica economica (Nep) che aveva l’obiettivo di stimolare la produzione agricola e di favorire l’afflusso dei generi alimentari verso le città. La Nep ebbe conseguenze sull’economia, ma produsse effetti sociali imprevisti, come il riemergere del ceto dei contadini benestanti, i kulaki. 11.8 L’Urss da Lenin a Stalin La prima Costituzione della Russia rivoluzionaria fu varata nel luglio del ’18 e si ispirava all’idea consiliare e collocava al vertice del potere il Congresso dei soviet. Lo Stato doveva: avere carattere federale, rispettare l’autonomia delle minoranze etniche e aprirsi all’unione con altre future Repubbliche “sovietiche”. Nel 1922 nacque l’Urss, una compagine priva di reali meccanismi federativi e in cui i russi erano la nazionalità dominante. La nuova Costituzione dell’Urss, approvata nel ’24, prevedeva una struttura istituzionale al cui vertice stava il Congresso dei soviet, ma il potere reale era nelle mani del Partito comunista (Pcus). Il partito era guidato da un segretario generale e aveva come organo fondamentale l’Ufficio politico del Comitato centrale (Politburo), controllava la polizia politica (ceka) e proponeva i candidati alle elezioni dei soviet che avvenivano su lista unica e con voto palese. Il suo apparato si sovrapponeva quindi a quello dello Stato. Lo sforzo di modernizzazione mirava al cambiamento della società nel profondo e si indirizzava in due direzioni: - Alfabetizzazione di massa: l’obbligo scolastico fu elevato fino a 15 anni, si privilegiò l’istruzione tecnica rispetto a quella umanistica, si cercò di formare ideologicamente le nuove generazioni incoraggiandole ad iscriversi al Komsomol (Unione comunista della gioventù), organizzazione giovanile del partito, e si fece spazio all’insegnamento della dottrina marxista - Lotta contro la Chiesa ortodossa: scristianizzazione attraverso la confisca dei beni ecclesiastici, la chiusura delle chiese e l’arresto di capi religiosi. Il Governo stabilì il riconoscimento del solo matrimonio civile e semplificò le procedure per il divorzio. Nel 1920 fu legalizzato l’aborto. Vi fu una notevole liberalizzazione dei costumi. Nell’ambito culturale, la stagione delle avanguardie fu inizialmente guardata con simpatia dalle autorità preposte alla cultura, ma dalla metà degli anni ’20 la libertà di espressione artistica fu condizionata dalle preoccupazioni di ordine propagandistico e dalla invadenza di un potere politico che diventava sempre più autoritario. Le tendenze autoritarie si consolidarono con l’ascesa al potere di Stalin, nominato segretario generale del partito nel 1922. Nel 1924, alla morte di Lenin, iniziò una lotta per la successione. Lo scontro fu principalmente tra Stalin e Trotzkij e riguardò vari ambiti, tra cui il problema della burocratizzazione del partito (Trotzkij voleva limitarla). Inoltre, Trotzkij riteneva che la Repubblica dei soviet dovesse estendere il processo rivoluzionario all’intero Occidente capitalistico (rivoluzione permanente). Stalin, contrariamente, sosteneva che la vittoria del socialismo era possibile anche in un solo paese e che l’Unione Sovietica aveva in sé le forze sufficienti a fronteggiare l’ostilità del mondo capitalista (socialismo in un solo paese). Stalin sconfisse Trotzkij e si trovò a dover affrontare l’opposizione di Zinov’ev e Kamenev che sostenevano la necessità di interrompere l’esperimento della Nep. Stalin era favorevole alla tesi opposta di Bucharin. Messi in minoranza, Zinov’ev e Kamenev furono espulsi dal partito e Trotzkij fu deportato in una località dell’Asia centrale e successivamente espulso dall’Urss. Iniziava così la crescita del potere personale di Stalin e il suo tentativo di portare l’unione Sovietica alla condizione di grande potenza industriale e militare. 31 12. Dopoguerra e fascismo in Italia - Parola chiave: Squadrismo 12.1 Le tensioni del dopoguerra In Italia, l’economia presentava i tratti tipici della crisi postbellica: sviluppo abnorme di alcuni settori industriali, con conseguenti problemi di riconversione, sconvolgimento dei flussi commerciali, deficit del bilancio statale, inflazione galoppante. Inoltre, la guerra aveva accelerato il processo di avvicinamento delle masse allo Stato, provocando tuttavia nuove divisioni che sfociarono nella radicalità dello scontro politico e sociale, dovuta alla tendenza bellica a risolvere le controversie con atti di forza. Il centro delle lotte passò quindi dal Parlamento alle piazze. Le tensioni sociali erano legate soprattutto al continuo aumento dei prezzi al consumo, che causò violenti tumulti nelle città contro il caro-viveri, scioperi nelle industrie e astensioni dal lavoro nei settori dei servizi pubblici. In Val Padana furono intense anche le lotte dei lavoratori agricoli, organizzate dalle “leghe rosse” controllate dai socialisti. Nelle regioni centrali erano attive le “leghe bianche” cattoliche. Nel Centro-Sud si sviluppò invece l’occupazione di terre incolte e latifondi da parte di contadini ex combattenti. La situazione fu aggravata anche dalla cattiva gestione della pace. L’Italia aveva ottenuto Trento, Trieste e le altre “terre irredente”, e aveva visto la scomparsa sulle frontiere dell’Impero asburgico. Tuttavia, alla conferenza di Versailles il presidente del Consiglio Orlando e il ministro degli Esteri Sonnino chiesero l’annessione di Fiume sulla base del principio di nazionalità, causando l’opposizione degli alleati. Questo insuccesso portò alla fine del governo Orlando e all’inizio del Ministero presieduto da Saverio Nitti. Si sviluppò in questo periodo un sentimento di ostilità nei confronti degli ex alleati, accusati di voler defraudare l’Italia dei frutti della vittoria, portando all’idea di D’Annunzio di una “vittoria mutilata”. Questa protesta portò, nel 1919, all’occupazione di Fiume da parti di alcuni reparti militari ribelli guidati da D’Annunzio, che si prolungò per 15 mesi. 12.2 I partiti e le elezioni del 1919 In questo clima, la classe dirigente liberale finì col perdere l’egemonia indiscussa di cui aveva goduto fino ad allora. Furono favorite quelle forze, socialiste e cattoliche, considerate estranee alla tradizione dello Stato liberale. I cattolici diedero vita nel gennaio 1919 al Partito popolare italiano (Ppi), con segretario Luigi Sturzo, che presentò un programma di impostazione democratica e che si dichiarava non confessionale, pur essendo legato alla Chiesa. Nel partito confluirono gli eredi della democrazia cristiana, i capi delle leghe bianche e gli esponenti delle correnti clerico- moderate. Crebbe inoltre il Partito socialista, nel quale prevalse la corrente sinistra massimalista rispetto a quella riformista, con a capo il direttore dell’”Avanti!” Giacinto Menotti Serrati, che si poneva come obiettivo l’instaurazione della repubblica socialista fondata sulla dittatura del proletariato. Nel Psi si formarono anche gruppi di estrema sinistra che si battevano per un impegno rivoluzionario e per una più stretta adesione all’esempio bolscevica, tra i quali quelli che faceva riferimento alla rivista “L’Ordine Nuovo” di Antonio Gramsci, affascinati dall’esperienza dei soviet. Questa radicalizzazione precluse ai socialisti ogni possibilità di collaborazione con le forze democratico-borghesi. Il 23 marzo 1919, Benito Mussolini fondò un movimento oltranzista nazionalista, i “Fasci di combattimento”, che si schierava a sinistra, chiedeva riforme sociali e si dichiarava favorevole alla repubblica, ma allo stesso tempo ostentava un acceso nazionalismo e una avversione verso i socialisti. Il movimento si fece subito notare per il suo stile politico aggressivo e violento, e fu protagonista del primo episodio di guerra civile postbellica in Italia: lo scontro con un corteo socialista. Le prime elezioni del dopoguerra si tennero nel novembre 1919 con il metodo della rappresentanza proporzionale con scrutinio di lista. I gruppi liberal-democratici presero la maggioranza assoluta, a seguire vi furono i socialisti e poi il Ppi. L’unica maggioranza possibile fu quella basata sull’accordo tra popolari e liberal-democratici. 12.3 Il ritorno di Giolitti e l’occupazione delle fabbriche Giolitti costituì il nuovo governo, proponendo la nominatività dei titoli azionari (obbligo di intestazione delle azioni al nome del possessore così da poterlo tassare) e un’imposta straordinaria sui profitti realizzati dall’industria bellica. In politica estera, avviò un negoziato diretto con la Jugoslavia che si concluse nel 1920 con la firma del trattato di Rapallo, con la quale l’Italia conservò Trieste, Gorizia e l’Istria, mentre la Jugoslavia ebbe la Dalmazia, salvo la città di Zara, e Fiume venne dichiarata città libera; D’Annunzio fu costretto ad abbandonare la partita. Durante il biennio rosso (’19-’20), il governo impose la liberalizzazione 32 di Stato. nel 1931, i partiti democratici e repubblicani ottennero largo successo e si formò una Repubblica; in Portogallo, nel 1926, i militari interruppero l’esperienza democratico-parlamentare e il potere passò nelle mani di António de Oliveira Salazar, guida di un regime autoritario, clericale e corporativo. 13. La grande crisi: economia e società negli anni ‘30 - Parola chiave: Ceto medio 13.1 Sviluppo e squilibri economici Nella seconda metà degli anni ’20, i rapporti tra le maggiori potenze attraversò una fase di distensione e l’economia dell’Occidente capitalistico riprese a svilupparsi con discreta regolarità dopo le convulsioni dell’immediato dopoguerra. Tuttavia vi erano squilibri profondi sotto questa apparente normalità economica: gli apparati produttivi europei erano stati piegati alle esigenze dello sforzo bellico e, a guerra finita, l’economia internazionale si trovò alle prese con una sovrapproduzione cronica; inoltre gli Stati Uniti applicarono una scelta “isolazionista”, rifiutando di assumersi il ruolo di leader dell’economia mondiale, introducendo nuovi dazi doganali sulle merci importate (politica protezionistica) e varando provvedimenti che limitavano drasticamente l’immigrazione. Questi squilibri vennero allo scoperto alla fine del 1929 con la “Grande crisi”, che fece sentire i suoi effetti anche sulla politica e sulla cultura, sulle strutture sociali e sulle istituzioni statali. La Crisi diede un’ulteriore spinta alla decadenza dell’Europa liberale, creando le premesse per l’affermazione dei regimi autoritari e di un nuovo conflitto mondiale. 13.2 Gli Stati Uniti: dal boom al crollo di Wall Street Nel dopoguerra, gli Stati Uniti videro confermato il loro ruolo di grande potenza economica mondiale. Erano il primo paese produttore in tutti i settori più importanti dell’industria e dell’agricoltura, il primo esportare di capitali e il primo creditore; il dollaro era la nuova moneta forte dell’economia internazionale. Dal 1921, l’economia statunitense cominciò a crescere a ritmi molto rapidi, affermando sempre di più il modello fordista-taylorista che favorì un aumento notevole della produttività e dei salari in ambito industriale, ma allo stesso tempo diminuiva il numero degli occupati nell’industria a causa degli sviluppi della tecnica. Crebbe l’occupazione nel settore terziario. Gli USA erano caratterizzati da una forte egemonia conservatrice. I Repubblicani alimentarono le aspettative ottimistiche sull’immancabile crescita della prosperità americana e introdussero leggi limitative dell’immigrazione, con lo scopo di preservare i caratteri etnici della popolazione bianca e di impedire la diffusione di ideologie sovversive europee. Si inasprirono di conseguenza le pratiche discriminatorie anche nei confronti della popolazione nera (Ku Klux Klan), provocando una difesa fanatica dei valori della civiltà bianca e protestante. Lo stesso proibizionismo scaturì da questo retroterra culturale. La conseguenza del clima di fiducia sulla prosperità americana fu la frenetica attività della Borsa di New York: i risparmiatori acquistavano azioni per rivenderle a prezzo maggiorato, confidando nella continua ascesa delle quotazioni, sostenuta dalla crescente domanda di titoli. Le fondamenta erano in realtà assai fragili, dal momento in cui la capacità produttiva era sproporzionata rispetto alle possibilità di assorbimento del mercato interno. L’industria statunitense aveva ovviato a questa difficoltà con l’aumento delle esportazioni nel resto del mondo, dando vita ad un rapporto di interdipendenza tra economia americana ed economia europea. Tuttavia, questo meccanismo poteva incepparsi da un momento all’altro. Quando, nel 1928, molti capitali americani furono dirottati verso le più redditizie operazioni speculative di Wall Street, le conseguenze sull’economia europea si fecero sentire immediatamente. Gli squilibri accumulatisi nel precedente periodo di espansione, provocarono il crollo della Borsa di New York. Il valore dei titoli a Wall Street raggiunse i livelli più elevati all’inizio di settembre del 1929. Di seguito, emerse la tendenza degli speculatori a vendere i propri pacchetti azionari per realizzare i guadagni fino ad allora ottenuti. La corsa alla vendita determinò una precipitosa caduta del valore dei titoli. Il crollo del mercato azionario colpì in primo luogo i ceti ricchi e benestanti, ma in poco tempo ebbe conseguenze disastrose sull’intera economia nazionale. 13.3 Il dilagare della crisi La recessione economica si diffuse rapidamente in tutto il mondo come una spaventosa epidemia. Tra il 1929 e il 1932 la produzione mondiale di manufatti diminuì del 30% e quella di materie prime del 26%, mentre i disoccupati raggiunsero il numero di 14 milioni negli USA e di 6 milioni in Germania. Quando le banche americane ridussero l’erogazione di crediti all’estero, gli Stati europei si trovarono a corto di capitali 35 e le loro esportazioni negli USA si ridussero per il calo della domanda. Nel 1930 il presidente degli USA, Herbert Hoover, inasprì il protezionismo per difendere la produzione interna, inducendo gli altri paesi a adottare analoghe misure a difesa della propria bilancia commerciale. Molti Stati svalutarono le loro monete per favorire le esportazioni, rendendo così instabili i rapporti di cambio tra le diverse monete. Anche i Paesi meno sviluppati furono penalizzati dalle politiche protezionistiche e il divario tra i Paesi più ricchi e quelli meno sviluppati toccò una delle sue punte massime. Al crescente allentamento dei legami commerciali e finanziari corrispose l’assenza di un’effettiva collaborazione tra gli Stati. 13.4 La crisi in Europa I crolli verificatisi in Austria e Germania provocarono un allarme incontrollato sulla solidità delle finanze del Regno Unito, che aveva investito in quei due Paesi, e sulla stessa tenuta della sterlina. Nel 1931 fu sospesa la convertibilità della sterlina in oro e la moneta fu svalutata. I governi dei Paesi industrializzati cercarono di ridurre il deficit tagliando drasticamente la spesa pubblica, comprimendo in questo modo ulteriormente la domanda interna e aggravando la recessione e la disoccupazione. In Germania, a causa della stretta integrazione che il sistema dei prestiti internazionali aveva creato tra l’economia statunitense e quella tedesca, le conseguenze della crisi furono ancora più dannose. Il governo cadde e il nuovo cancelliere, il cattolico- conservatore Heinrich Bruning, attuò una politica di sacrifici allo scopo di rivelare al mondo l’intollerabile onere che la Germania era condannata a sopportare per tenere fede all’obbligo delle riparazioni; ne sospese difatti il versamento per tre anni. In Francia, la politica di austerità fu applicata con estremo rigore, attraverso la difesa della moneta nazionale, il franco, ritardandone fino al ’37 la svalutazione. Inoltre, la situazione politica francese era instabile: tra il ’29 ed il ’36 si succedettero 17 governi. In Gran Bretagna, il governo guidato dal laburista Ramsay Macdonald cercò di fronteggiare la crisi con un programma che prevedeva un drastico taglio del sussidio ai disoccupati, incontrando l’opposizione delle trade unions. Macdonald si accordò quindi con liberali e conservatori per la formazione di un governo nazionale che svalutò la sterlina e abbandonò la sua tradizione liberoscambista. A partire dal 1933 vi fu una ripresa molto lenta. 13.5 Il New Deal di Roosevelt Nel 1932, si tennero negli USA le elezioni presidenziali, nelle quali il repubblicano Hoover fu sconfitto dal democratico Franklin Delano Roosevelt, governatore dello stato di New York, che instaurò con i cittadini un rapporto diretto, convinto della necessità di infondere speranza e coraggio nella popolazione. Roosevelt inaugurò un New Deal, caratterizzato da un più energico intervento dello Stato nei processi economici, attuando una serie di provvedimenti per arrestare il corso della crisi: cercò di risanare il sistema creditizio, di facilitare i prestiti, di aumentare i sussidi di disoccupazione e di svalutare il dollaro per rendere più competitive le esportazioni. Introdusse nuovi strumenti di intervento: l’Agricultural Adjustment Act, per limitare la sovrapproduzione nel settore agricolo; il National Industrial Recovery Act, per imporre alle imprese dei codici di comportamento volti ad evitare una concorrenza troppo accanita; la Tennessee Valley Authority, ente con il compito di sfruttare le risorse idroelettriche del bacino del Tennessee. Nonostante queste misure, alla fine del ’34, gli investimenti erano ancora stagnanti. Il governo allargò il flusso della spesa pubblica, si impegnò nel campo delle riforme sociali (riforma fiscale, legge sulla sicurezza sociale, nuova disciplina dei rapporti di lavoro). Tra il ’35 ed il ’36, la Corte suprema degli Stati Uniti cercò di bloccare le riforme di Roosevelt dichiarando l’incostituzionalità del NIRA e della AAA. L’azione di Roosevelt non riuscì completamente a ridare slancio alle iniziative economiche dei privati e l’economia americana giunse ad una vera ripresa solo durante la Seconda Guerra Mondiale. 13.6 Il nuovo ruolo dello Stato Con la crisi del ’29, la fiducia nella capacità del mercato di autoregolarsi e di espandersi per forza propria precipitò. Molti subirono il fascino delle alternative di sistema che si andavano affermando in Europa: dal collettivismo integrale dell’URSS di Stalin agli esperimenti corporativi proposti dal fascismo italiano e dai regimi autoritari di destra. Lo Stato assunse nuovi e importanti compiti, adottando più radicali misure di controllo e un ruolo attivo nel promuovere l’espansione economica. John Maynard Keynes aprì un capitolo nuovo nella storia della scienza economica. Il crollo del ’29 e la crisi fornirono a Keynes gli elementi per confutare alcune proposizioni fondamentali della teoria economia classica. Keynes riteneva che i meccanismi spontanei del capitalismo non fossero in grado di garantire da 36 soli un’utilizzazione ottimale delle risorse e ciò lo indusse a criticare le politiche deflazionistiche che aggravavano solamente le difficoltà dell’economia. Era dunque compito dello Stato sostenere la domanda con politiche di aumento della spesa pubblica, anche a costo di allargare, per periodi determinato, il deficit del bilancio statale e di accrescere la quantità di moneta in circolazione. 13.7 Nuovi consumi e comunicazioni di massa Nel corso degli anni ’30, il processo di urbanizzazione accelerò a causa della crisi in cui versava il settore agricolo. Crescita delle città significava sviluppo del settore edilizio. La grande crisi, per un certo verso, determinò un miglioramento nelle retribuzioni reali e nei livelli di consumo di quei lavoratori che avevano mantenuto la loro occupazione e che avevano ridotto la quota di reddito riservata ai consumi alimentari, aumentando quella destinata ad altri beni. In Europa, le prime vetture popolari furono concepite per emulare il successo della leggendaria Ford T, la prima utilitaria. Si estese anche l’uso degli elettrodomestici, come il ferro da stiro elettrico, la cucina a gas e la radio. La radio si trasformò da mezzo di comunicazione tra singoli soggetti in strumento di diffusione di programmi di informazione e di svago. Di conseguenza, la diffusione della stampa subì un rallentamento e cominciò quindi a puntare più sull’immagine. La radio inaugurò un’era nuova nel campo delle telecomunicazioni e fu affiancata dallo sviluppo del cinema, utilizzato come mezzo di svago ma soprattutto come veicolo per divulgare messaggi ideologici e visioni del mondo. Furono soprattutto i regimi autoritari a sfruttare appieno le possibilità dei nuovi mezzi di comunicazione. 13.8 La scienza e la guerra Negli anni ’30, si scoprì che dalla scissione, provocata artificialmente, di un nucleo atomico di materiale radioattivo era possibile enormi quantità di energia. Nel 1942 una équipe di scienziati guidata da Fermi realizzò il primo reattore nucleare e lo spettro della guerra atomica si materializzò minacciosamente. Negli anni ’20 e ’30, gli aerei diventarono più sicuri e più rapidi, aumentandone allo stesso tempo la loro capacità di carico e la loro autonomia. Tutte le grandi e medie potenze intensificarono la costruzione di aerei militari: aerei da caccia, aerei da trasposto, bombardieri. 13.9 La cultura della crisi Negli anni ’20 e ’30, si accentuarono i fenomeni di disgregazione e di perdita dell’unità. Nel campo delle arti figurative e della musica, si sviluppò il surrealismo. In campo letterario, furono pubblicati grandi capolavori: “Alla ricerca del tempo perduto” (Marcel Proust), “Ulisse” (Joyce) e “La montagna incantata” (Thomas Mann). In questo periodo, letterati ed artisti furono fortemente coinvolti nelle contrapposizioni di carattere politico-ideologico, furono mobilitati da partiti e governi e si divisero secondo linee di contrapposizione: - Cultura liberale: Mann e Croce - Cultura comunista: Picasso - Cultura della destra autoritaria: Gentile, Heidegger, Schmitt e Pound La cultura europea subì le conseguenze dell’avvento dei regimi totalitari, che provocarono la fuga di cervelli e quindi un’emorragia della cultura europea. 14. L’Europa degli anni ’30: totalitarismi e democrazie - Parola chiave: Totalitarismo 14.1 L’eclissi della democrazia Negli anni ’20 del ‘900 si affermarono in molti Stati dell’Europa mediterranea e orientale dei regimi autoritari. In ampi strati dell’opinione pubblica degli anni ’30 si era diffusa la convinzione che i sistemi democratici fossero troppo deboli per tutelare gli interessi nazionali e troppo inefficienti per garantire il benessere dei cittadini, e che la vera alternativa fosse quella tra il comunismo sovietico e i regimi autoritari di destra. Caratteristica fondamentale dei movimenti e dei regimi “fascisti” era il tentativo di proporsi come artefici di una propria rivoluzione che avrebbe dato vita ad un nuovo ordine politico e sociale. In ambito politico, questi regimi si proponevano l’accentramento del potere nelle mani di un capo, una struttura gerarchica dello Stato, un inquadramento più o meno forzato della popolazione nelle organizzazioni di 37 sopportare sacrifici pesanti (caso dello stachanovismo). Nessuno si rese però conto che il clima creatosi era il più adatto ad accentuare i tratti totalitari del regime e la crescita del potere assoluto di Stalin. 14.7 Lo stalinismo, le grandi purghe, i processi Stalin finì con l’assumere in Urss un ruolo di capo assoluto, di depositario della autentica dottrina marxista- leninista e di garante della sua corretta applicazione. Il settore culturale veniva utilizzato con scopi propagandistico-pedagogici entro i canoni del realismo socialista (Andrej Zdanov era il controllore del settore culturale). Stalin non si limitò a combattere i nemici della rivoluzione, ma eliminò buona parte del gruppo dirigente comunista e tutti coloro che considerava rivali reali o potenziali. Vittime principali della macchina del terrore indiscriminato erano stati i contadini e tutti coloro accusati di ostacolare lo sforzo produttivo. Nel 1934 cominciò la stagione delle “grandi purghe”, ossia delle epurazioni di massa giustificate con la necessità di combattere traditori e nemici di classe. Si trattava di una repressione poliziesca condotta nell’arbitrio più assoluto: furono deportate milioni di persone nei numerosi campi di lavoro disseminati nelle zone più inospitali dell’Urss, definite “Arcipelago Gulag”. Vi furono inoltre pubblici processi nei quali gli imputati, sotto tortura, si confessavano colpevoli di complotti contro lo Stato: in questo modo furono eliminati Zinov’ev, Kamenev e Bucharin. Nel 1940, Trotzkij fu ucciso in Messico da un sicario di Stalin. Nel ’37 una vasta epurazione colpì i quadri delle forze armate. Il conto totale delle vittime ammontò a 10-11 milioni. L’immagine di Stalin passò indenne attraverso questo drammatico periodo, principalmente per il prezioso contributi dell’Urss e del comunismo internazionale alla lotta contro il fascismo. 14.8 Le democrazie e i fronti popolari L’avvento al potere di Hitler diede un colpo definitivo all’equilibrio internazionale costruito nella seconda metà degli anni ’20. Nel ’33, Hitler decise di ritirare la delegazione tedesca dalla conferenza di Ginevra e, un anno dopo, ritirò la Germania dalla Società delle Nazioni. Nel ’34, Mussolini schierò quattro divisioni al confine italo- austriaco per contrastare le mire aggressive della Germania e dei nazisti austriaci. Hitler fece marcia indietro e rimandò l’unificazione tra Austria e Germania. Nel 1935 Hitler reintrodusse la coscrizione obbligatoria. I successi di Hitler indussero Stalin a intraprendere la strada della cooperazione internazionale. Nel ’34 l’Urss entrò nella Società delle Nazioni e nel ’35 stipulò un’alleanza militare con la Francia. La nuova parola d’ordine fu quella della lotta al fascismo, perseguita riallacciando i rapporti sia con i partiti operai che con le forze democratico-borghesi, dando vita ai “fronti popolari”. In Francia, nel 1934, l’estrema destra organizzò una marcia sul Parlamento per impedire l’insediamento del governo presieduto dal radicale Daladier; i socialisti e i comunisti risposero con manifestazioni unitarie. L’avvicinamento tra Urss e democrazie non bastò a fermare, nel ’35, l’aggressione dell’Italia all’Etiopia e, nel ’36, la reintroduzione delle truppe tedesche nella Renania smilitarizzata. Il risultato della politica dei fronti popolari fu quello di restituire un minimo di unità al movimento operaio europeo. Nel ’36, una coalizione di fronte popolare vinse le elezioni in Spagna; in Francia si formò un governo composto da radicali e socialisti, che firmò gli accordi di Maginot che prevedevano la riduzione della settimana lavorativa a quaranta ore e la concessione di 15 giorni di ferie pagate. Questi accordi crearono difficoltà all’economia francese, innescando un processo inflazionistico e causando la necessità di svalutare il franco. Il Governo Blum si dimise nel ’37 e nel ’38 l’esperienza del Fronte popolare poteva considerarsi chiusa. 14.9 La guerra civile in Spagna Tra il ’36 e il ’39, la Spagna fu sconvolta da una drammatica e sanguinosa guerra civile. Dopo la fine della dittatura di Primo de Rivera la Spagna aveva attraversato un periodo di instabilità economica e sociale. La Spagna era l’unico paese al mondo in cui il maggior sindacato fosse controllato dagli anarchici, ma dall’altro lato sii faceva sentire il peso della aristocrazia terriera, che possedeva oltre il 40% delle terre coltivate ed era strettamente collegata alla Chiesa. Nel ’36 le sinistre unite in una coalizione di fronte popolare si affermarono nelle elezioni politiche; i gruppi di destra risposero con la violenza squadristica, in cui si distinsero le formazioni della Falange, che si ispiravano al modello fascista. L ‘evento che scatenò la guerra civile fu l’uccisione, il 13 luglio 1936, da parte di poliziotti repubblicani, dell’esponente monarchico- conservatore José Calvo Sotelo. Un gruppo di militari, guidati da Francisco Franco, decise di ribellarsi al governo repubblicano. I ribelli nazionalisti assunsero inizialmente gran parte del controllo della Spagna occidentale. Italia e Germania aiutarono massicciamente gli insorti franchisti; Hitler si servì della guerra 40 civile per sperimentare l’efficienza della sua aviazione. L’unico Stato a portare aiuto alla Repubblica fu l’URSS che favorì la formazione di brigate internazionali. I repubblicani erano inferiori agli avversari sul piano militare ed erano anche indeboliti politicamente dalle loro divisioni interne. Franco (caudillo) realizzò l’unità di tutte le destre in un partito unico chiamato Falange nazionalista; dall’altro lato il fronte popolare vedeva allontanarsi settori della borghesia progressista e videro scontri tra comunisti e anarchici. Tra il ’37 ed i ’38 i comunisti liquidarono con l’intervento di agenti sovietici un intero partito anarchico, il Poum. Nel ’38 i franchisti riuscirono a spezzare in due il territorio controllato adi repubblicani e nel ’39 la guerra civile si concluse con la caduta di Madrid. Il bilancio fu tragico: circa 500 mila morti. In Spagna furono adottati metodi e tecniche di guerra che il mondo avrebbe presto sperimentato su ben più ampia scala. 14.10 L’Europa verso la guerra L’accresciuta tensione fu causata dal programma hitleriano, che prevedeva prima la distruzione dell’assetto europeo uscito da Versailles, poi l’espansione verso est ai danni della Russia. In GB, nel ’37, la guida del governo fu affidata a Neville Chamberlain, sostenitore della politica del ‘appeasement, basata sul presupposto che fosse possibile ammansire Hitler accontentandolo nelle sue rivendicazioni più ragionevoli. L’opposizione alla politica di Chamberlain venne da una minoranza di conservatori che facevano capo a Winston Churchill, convinti che l’unico modo per fermare Hitler fosse quello di opporsi con decisione alle sue pretese, anche a costo di affrontare subito una guerra. In Francia, la paura di una nuova guerra era forte, e questo portò ad una politica timida e oscillante. Nel ’38 Hitler riuscì ad annettere l’Austria alla Germania (Anschluss). Subito dopo, Hitler mise sul tappeto una nova rivendicazione, quella riguardante i Sudeti, ossia i tedeschi che vivevano in Cecoslovacchia. Il governo ceco si mostrò disposto alla concessione di più larghe autonomie alla comunità tedesca, ma Hitler mirava alla distruzione dello Stato Cecoslovacco. Nel ’38, Chamberlain sottopose a Hitler ipotesi di compromesso e Hitler accettò la proposta di un incontro tra i capi di governo delle grandi potenze europee, lanciata da Mussolini. L’incontro si svolse a Monaco di Baviera e si concluse con l’accettazione di un progetto presentato dall’Italia che in realtà accoglieva le richieste tedesche e prevedeva l’annessione al Reich del territorio dei Sudeti. Le potenze democratiche avevano distrutto la loro stessa credibilità e avevano aperto la strada a nuove aggressioni. Churchill commentò in questo modo: “Potevano scegliere tra il disonore e la guerra. Hanno scelto il disonore e avranno la guerra”. 15. Il regime fascista in Italia - Parola chiave: Consenso 15.1 Lo Stato fascista Nella seconda metà degli anni ’20, quando in Germania il nazismo era ancora una forza marginale, in Italia lo Stato fascista era una realtà già consolidata nelle sue strutture giuridiche e nelle sue manifestazioni (adunate, campagne propagandistiche, culto del capo). Caratteristica essenziale del regime era la sovrapposizione di due strutture e di due gerarchie parallele: quella dello Stato monarchico e quella del partito. Mussolini riuniva in sé la qualifica di capo del governo e di “duce” del fascismo; nel fascismo italiano l’apparato statale ebbe, per scelta dello stesso duce, una netta preponderanza sulla macchina del partito. Il Pnf venne però dilatando le sue dimensioni e la sua presenza nella società civile. L’iscrizione al partito divenne una pratica di massa, necessaria per ottenere un posto nell’amministrazione statale. Vi erano inoltre organismi collaterali, come l’Opera nazionale dopolavoro e le numerose organizzazioni giovanili, tra cui l’Opera nazionale Balilla che, nata nel 1926, forniva ai ragazzi tra gli otto e i diciotto anni un indottrinamento ideologico di base. Queste organizzazioni svolsero una funzione importante nella fascistizzazione del Paese, ossia nel tentativo di occupare la società, riplasmandola dalle fondamenta. Gli ostacoli alla fascistizzazione furono: - la Chiesa: non era facile governare contro la Chiesa in un paese in cui oltre il 99% della popolazione si dichiarava di fede cattolica. Mussolini cercò quindi un’intesa col Vaticano e la raggiunse l’11 febbraio 1929 con la stipula dei Patti Lateranensi conclusi tra Mussolini e il cardinale Pietro Gasparri. I Patti Lateranensi si articolavano in tre parti distinte: - Trattato internazionale: si pose fine alla questione romana e la Chiesa riconobbe lo Stato italiano e la sua capitale, ottenendo la sovranità sullo “Stato della Città del Vaticano” - Convenzione finanziaria: lo Stato si impegnò a corrispondere alla Santa Sede una forte somma 41 - Concordato: regolazione dei rapporti interni tra Chiesa e Regno d’Italia In questo modo Mussolini consolidò la sua area di consenso e la estese anche a strati della popolazione rimasti fino ad allora ostili o indifferenti. Nelle elezioni del 1929 il Pnf ottenne il 98% di voti favorevoli. Dai Patti Lateranensi, la Chiesa acquistò una posizione di privilegio nei rapporti con lo Stato, riuscendo inoltre a mantenere intatta la sua rete di associazioni e circoli, assicurandosi un margine di autonomia ed entrando in oggettiva concorrenza con il fascismo proprio nel settore delle organizzazioni giovanili; la Chiesa usò questi spazi per educare ai suoi valori una parte non trascurabile della gioventù. - La Monarchia: il re, pur essendo nei fatti esautorato, restava pur sempre la più alta autorità dello Stato, a cui spettavano, secondo lo Statuto, il comando supremo delle forze armate, la scelta dei senatori e il diritto di nomina e revoca del capo del governo. In caso di crisi, il re avrebbe riottenuto il potere e questa eventualità rappresentava per il fascismo un motivo di sotterranea debolezza. 15.2 Un totalitarismo imperfetto Durante il periodo fascista, l’Italia continuò a svilupparsi secondo le linee di tendenza comuni a tutti i Paesi dell’Europa occidentale, ma con un ritmo più lento. Alla vigilia della II Guerra Mondiale, l’Italia era ancora un paese fortemente arretrato rispetto alle maggiori potenze europee. L’arretratezza economica e civile della società italiana fu funzionale al regime e all’ideologia fascista, che predicò il “ritorno alla campagna” ed esaltò la ruralizzazione, scoraggiando, senza riuscirvi, l’afflusso di lavoratori verso i centri urbani. Il regime, inoltre, difese ed esaltò la funzione del matrimonio e della famiglia, come garanzia di stabilità e come base per lo sviluppo demografico. Il fascismo cercò di incoraggiare con ogni mezzo l’incremento della popolazione e conseguentemente ostacolò il lavoro delle donne, opponendosi al processo di emancipazione femminile. Il fascismo, attraverso le organizzazioni femminili, ribadì l’immagine tradizionale della donna come “angelo del focolare”. Il fascismo, oltre ad essere conservatore ed immobilista, era un regime proiettato verso il futuro, verso la creazione dell’”uomo nuovo”, verso un sistema totalitario moderno che inquadrasse nelle strutture del regime l’intera popolazione. Tuttavia, i maggiori successi il regime li ottenne presso la media e piccola borghesia, che fu favorita dalle scelte economiche di Mussolini e che si vide aprire nuovi canali di ascesa sociale dalla moltiplicazione degli apparati burocratici. Inoltre, i ceti medi erano i più sensibili ai valori esaltati dal fascismo. Il fenomeno della fascistizzazione fu quindi ampio, ma riguardò essenzialmente gli strati intermedi della società. 15.3 Scuola, cultura e informazione Il fascismo dedicò un’attenzione particolare alla scuola, già visibile con la Riforma Gentile del 1923, che mirava ad accentuare la severità degli studi e sanciva il primato delle discipline umanistiche. Rispetto alle scuole, l’università godette di una maggiore autonomia, ma non la usò per contestare il fascismo. Nel 1931, quando fu imposto ai docenti il giuramento di fedeltà al regime, su 1200 professori solo una dozzina rifiutarono di giurare e persero così le cattedre. Gli ambienti dell’alta cultura si allinearono su una posizione di sostanziale adesione al regime. Ancora più capillare fu il controllo esercitato dal regime sull’informazione e sui mezzi di comunicazione di massa. Mussolini esercitava personalmente la sorveglianza sulla stampa. Il regime affidò, nel 1927, le trasmissioni radiofoniche a un ente statale denominato Eiar. Tuttavia, solo dopo il 1935 la radio si affermò come essenziale canale di propaganda, affiancata dal cinema, che ricevette generose sovvenzioni con lo scopo di favorire la produzione nazionale e di limitare la massiccia penetrazione dei film statunitensi. I cinegiornali d’attualità, prodotti dall’ente statale Istituto Luce, furono uno dei più importanti strumenti di propaganda di massa. 15.4 La politica economica e il mondo del lavoro La formula fatta propria ufficialmente dal regime fu quella del corporativismo, idea che affondava le sue radici nel Medioevo e che significava gestione diretta dell’economia da parte delle categorie produttive, organizzate in “corporazioni” distinte per settori di attività e comprendenti sia gli imprenditori sia i lavoratori dipendenti. Solo nel 1934 vennero istituite, ma tutto si risolse nella creazione di una nuova burocrazia sovrapposta a quelle già esistenti. Nei primi anni di governo (1922-25) il fascismo aveva adottato una linea liberista, provocando però un riaccendersi dell’inflazione, un deficit negli scambi con l’estero e un deterioramento del valore della lira. Nel 1925 venne inaugurato un nuovo corso fondato sul protezionismo, sulla deflazione, sulla stabilizzazione 42 tutta l’Anatolia e sulla Tracia orientale. Nel novembre ’22 si avviò la trasformazione della Turchia in uno Stato nazionale laico, con l’abolizione del Sultanato e, un anno dopo, con la proclamazione della Repubblica. Nel ’24 fu approvata una nuova Costituzione e Mustafà Kemal fu nominato presidente, con poteri semidittatoriali. Egli si impegnò in una politica di occidentalizzazione e di laicizzazione dello Stato, varando nuovi codici ispirati ai modelli occidentali. 16.3 Nazionalismo arabo e sionismo Il crollo dell’Impero ottomano fece sentire le sue conseguenze in tutta quell’area che in gran parte coincide con quello che oggi chiamiamo Medio Oriente. In quegli anni, il nazionalismo arabo era legato principalmente al prestigio dei capi tribali. Nel 1915 i britannici si accordarono con uno di questi capi, Hussein Ibn Ali, emiro della Mecca, promettendo l’appoggio alla creazione di un grande regno arabo indipendente comprendente l’Arabia, la Mesopotamia e la Siria in cambio di una collaborazione militare contro l’Impero ottomano. Nel 1916 Hussein lanciò le sue tribù beduine in una “guerra santa” contro i turchi. Nello stesso anno, tuttavia, francesi e britannici firmarono un patto segreto, gli accordi Sykes-Picot, per la spartizione in zone d’influenza di tutta la zona compresa tra la Turchia e la penisola arabica. A guerra finita, la spartizione si realizzò e la Gran Bretagna, per placare le proteste degli arabi, creò nella zona di sua competenza due nuovi Stati, governati dalla dinastia hashemita, sempre sotto controllo britannico: l’Iraq e la Transgiordania. Nel 1917, il governo britannico aveva riconosciuto il diritto del movimento sionista a creare in Palestina una sede nazionale per il popolo ebraico. Tra il ’20 e il ’21 scoppiarono i primi violenti scontri tra i coloni ebrei e i residenti arabi. Negli anni ’30, dopo l’avvio delle persecuzioni razziali in Europa, il flusso degli immigrati ebrei aumentò, dando inizio ad un conflitto tuttora irrisolto. 16.4 La lotta per l’indipendenza in India La Gran Bretagna fu la potenza che vide maggiormente ridimensionata la sua posizione imperiale. Questa tendenza fu visibile con la rinuncia al protettorato britannico dell’Egitto, che fu trasformato nel ’22 in regno autonomo e ottenne nel ’36 la piena indipendenza, pur restando nell’orbita della GB, che conservava comunque una presenza militare nel paese. Nella Conferenza imperiale tenutasi a Londra nel 1926, i dominions bianchi furono come “comunità autonome ed eguali in seno all’Impero”, unite dal comune vincolo di fedeltà alla Corona d’Inghilterra e “liberamente associate come membri del Commonwealth britannico”, ossia una libera federazione tra Stati. L’India fu la più importante tra le colonie britanniche in cui le aspirazioni all’indipendenza si erano fatte sentire maggiormente già prima della Grande Guerra, trovando un canale di espressione nel Congresso nazionale indiano. Durante il primo conflitto mondiale, il governo britannico premiò il lealismo della classe dirigente locale facendo promesse, che alla fine della guerra non bastarono a bloccare lo sviluppo del movimento nazionalista. La frattura tra colonizzatori e colonizzati si approfondì nel ’19, quando le truppe britanniche repressero sanguinosamente una manifestazione popolare. Nel ’20 il Congresso nazionale indiano si trasformò in un vero partito politico che seguiva le idee del leader indipendentista, Mohandas Karamchand Gandhi. Egli adottò nuove forme di lotta, basate sulla resistenza passiva, la non violenza e il rifiuto di collaborare con i dominatori, e coniugò la battaglia per l’indipendenza con quella per la rottura del sistema delle caste. I britannici risposero con il Government of India Act, con il quale venne riconosciuto maggiore spazio agli indiani nei ranghi dell’amministrazione. Nel 1935 il diritto di voto fu esteso al 15% della popolazione. Questi provvedimenti offrirono al movimento nazionale indiano canali legali attraverso cui esprimersi e combattere le proprie battaglie. 16.5 La guerra civile in Cina La Cina, per tutto il ‘900, fu sconvolta da una lunga e sanguinosa guerra civile. Sun Yat-sen, leader del Kuomintang, fu costretto all’esilio dopo appena due anni di governo. Si instaurò nel 1913 un regime autoritario, imposto da Yuan Shi-kai, che durò poco e, alla sua conclusione, la Cina precipitò in una situazione di semi-anarchia, nella quale i signori della guerra controllavano le province. La decisione della Cina di intervenire nel conflitto mondiale, nel ’17, a fianco dell’Intesa non mutò la situazione. Alla conferenza di pace venne riconosciuto al Giappone il diritto di subentrare alla Germania sconfitta nel controllo economico della regione dello Shantung. Questa ennesima umiliazione risvegliò in Cina l’agitazione nazionalista, che si raccolse attorno al Kuomintang e al suo leader Yat-sen. Nel ’21 Sun Yat-sen formò un proprio governo a Canton, ottenendo anche l’appoggio del Partito comunista cinese e di 45 conseguenza dell’Unione Sovietica. Alla morte di Yat-sen, nel ’25, l’alleanza tra nazionalisti e comunisti si sfaldò, dal momento in cui il suo successore, Chiang Kai-shek, era molto più diffidente nei riguardi dei comunisti e molto meno aperto alle istanze di riforma sociale. Nel ’27, a Shangai le milizie operaie furono affrontate e sconfitte dalle truppe di Chiang Kai-shek e il Partito comunista fu messo fuori legge. In seguito, Chiang Kai- shek condusse la lotta contro il governo di Pechino, ne uscì vincitore e cercò di riorganizzare l’economia e l’apparato statale secondo modelli di ispirazione occidentale, venati di autoritarismo. Nel frattempo, i comunisti si riorganizzarono in “basi rosse” nelle campagne e vi erano perlopiù in alcune province i signori della guerra aiutati dal Giappone, ostile al consolidamento del potere statale in Cina. Nel 1931 i giapponesi invasero la Manciuria e vi crearono uno Stato-fantoccio, il Manchukuo, indebolendo il governo di Chiang Kai-shek e dando nuovo spazio all’azione comunista. Mao Zedong fu l’ispiratore dei comunisti con la sua strategia che individuava nelle masse rurali il vero protagonista del processo rivoluzionario. Nel 1931 fu fondata la Repubblica sovietica cinese. Chiang Kai-shek diede priorità alla lotta contro i comunisti, lanciando tra il ’31 e il ’34 una serie di campagne militari. Mao Zedong, con la “lunga marcia”, riuscì a salvare il nucleo dirigente comunista e a ricostituire il partito nelle zone in cui era forte la minaccia giapponese. Nel ’36, Chiang Kai-shek lanciò una nuova campagna contro i comunisti, ma subì il rifiuto dell’esercito, che chiedeva la fine della guerra civile, e accettò la stipula di un accordo, nel ’37, tra comunisti e nazionalisti. 16.6 L’imperialismo giapponese La partecipazione alla prima guerra mondiale aveva consentito al Giappone di consolidare la sua posizione di massima potenza asiatica e di rafforzare la sua struttura produttiva. Il Giappone si mosse verso una politica imperialistica, che aveva come campo d’azione il Pacifico e l’intera Asia orientale e come obiettivo principale la sottomissione di vaste zone della Cina. Questa politica poggiava sulla rivendicazione di una superiorità culturale e razziale del Giappone nello scacchiere asiatico. Negli anni ’20, fecero la loro comparsa movimenti autoritari di destra e alla fine degli anni ’20 queste tendenze furono favorite dalle conseguenze della grande crisi e dalle preoccupazioni suscitate dai progressi dei partiti di sinistra. Cominciò così per il Giappone una stagione di crescente autoritarismo, che si risolse nella chiusura di ogni spazio di opposizione legale e in una dura repressione antioperaia. Nel 1926 salì al trono l’imperatore Hirohito, e i generali e gli esponenti delle grandi concentrazioni industriali e finanziarie assunsero un peso crescente nelle scelte politiche giapponesi. 16.7 L’Oriente in guerra Nel luglio del 1937, uno scontro tra militari giapponesi e cinesi sul ponte Marco Polo fornì al governo nipponico il pretesto per lanciare un attacco in forze contro la Cina. Alla fine del ’37, i giapponesi raggiunsero Nanchino, capitale della Cina, e la occuparono. La guerra si prolungò con fasi alterne, sempre contrassegnata dall’elevatissimo numero di vittime civili, causate soprattutto dai bombardamenti giapponesi. Nel ’39, il Giappone occupava buona parte della zona costiera, tutto il Nord-Est industrializzato e quasi tutte le città più importanti. A questo punto le vicende della guerra cino-giapponese si intrecciarono con quelle del secondo conflitto mondiale. 16.8 L’Africa coloniale La condizione di marginalità economica e di subalternità politica delle popolazioni africane, escluse da ogni forma di partecipazione politica al governo dei loro paesi, rimase sostanzialmente immutata. Qualcosa tuttavia cominciava a cambiare, con la nascita, negli anni ’20, delle prime organizzazioni autonome dei nativi. Tra il ’19 e il ’27 si tennero quattro congressi panafricani, dove furono discussi i problemi comuni e furono lanciate per la prima volta proposte di federazione tra le colonie, ma il tema dell’indipendenza era ancora assente in questi dibattiti. 16.9 L’America Latina tra le due guerre mondiali Negli anni ’20 e ’30 anche i paesi latinoamericani subirono il trauma della grande crisi economica, che ridusse i tradizionali flussi commerciali e fece crollare i prezzi delle materie prime e delle derrate alimentari. Alcuni Stati subirono passivamente la crisi, altri reagirono promuovendo un processo di diversificazione produttiva, che consentì lo sviluppo di alcuni settori dell’industria manufatturiera per sopperire alle esigenze del mercato interno. Nei paesi in via di industrializzazione, la crisi ebbe effetti complessi e contraddittori. 46 In Argentina, nel 1930, un colpo di Stato militare rovesciò le istituzioni democratiche, e seguì, per oltre un decennio, una serie di governi conservatori tenuti sotto la stretta tutela dai generali e dalla grande proprietà terriera. In Brasile, una rivolta popolare contro le vecchie oligarchie, appoggiata da una parte delle forze armate, portò al potere Getulio Vargas, politico di formazione liberal- progressista, che diede vita ad un regime autoritario, basato sul rapporto diretto tra capo e masse, su un acceso nazionalismo e su un energico intervento statale a sostegno della produzione, ma anche sulla concessione di una legislazione sociale per i lavoratori urbani. Un regime che ispirò future esperienze politiche latinoamericane, definite con il termine populismo. Il populismo si affermò in Argentina, durante e dopo la seconda guerra mondiale, con l’ascesa al potere del colonnello Juan Domingo Perón (peronismo); si affermò anche in Messico sotto la presidenza di Lázaro Cárdenas. 17. La seconda guerra mondiale - Parola chiave: Genocidio 17.1 Le origini e lo sviluppo della guerra Per la seconda guerra mondiale la questione delle responsabilità è molto meno controversa di quanto non sia per la prima; non vi sono dubbi sul fatto che a provocare il conflitto fu la politica di conquista e di aggressione della Germania hitleriana. Le democrazie occidentali si erano illuse di aver placato la Germania con la cessione dei Sudeti, ma Hitler aveva già pronti i piani per l’occupazione della Boemia e della Moravia, parte più popolosa e industrialmente più sviluppata della Repubblica cecoslovacca. Nel marzo 1939, la Slovacchia si proclamò indipendente, con l’appoggio dei tedeschi, e Hitler diede vita al protettorato di Boemia e Moravia. Tra il marzo e il maggio 1939, Gran Bretagna e Francia diedero vita diedero vita a un’offensiva diplomatica stipulando patti di assistenza militare con i paesi più minacciati dall’espansionismo tedesco, soprattutto con la Polonia, dal momento in cui Hitler aveva rivendicato il possesso di Danzica e il diritto di passaggio attraverso il corridoio che univa la città al territorio polacco. Mussolini cercò di contrapporre alle iniziative di Hitler una propria iniziativa unilaterale, occupando il piccolo Regno di Albania. Successivamente decise di accettare le richieste tedesche di trasformare il generico vincolo dell’Asse Roma- Berlino in una vera e propria alleanza militare, il Patto d’acciaio, nel quale si stabiliva che, se una delle due potenze si fosse trovata impegnata in un conflitto per una causa qualsiasi, l’altra sarebbe stata obbligata a scendere in campo al suo fianco. La principale incognita era rappresentata dall’atteggiamento dell’Urss, dal momento in cui le trattative con i franco-britannici furono compromesse da una serie di reciproche diffidenze. Per questo motivo, il 23 agosto 1939, fu firmato a Mosca il patto Molotov-Ribbentrop, ossia un patto di non aggressione tra Germania e Urss. In questo modo l’Urss allontanava la minaccia tedesca dai suoi confini e otteneva un riconoscimento delle sue aspirazioni territoriali nei confronti degli Stati baltici, della Romania e della Polonia, mentre Hitler, pur dovendo rinviare lo scontro col nemico storico, si assicurava di non correre il rischio di una guerra su due fronti. Il 1° settembre 1939 la Germania attaccò la Polonia, di seguito GB e Francia dichiararono guerra alla Germania, mentre l’Italia proclamò la sua “non belligeranza”. Rispetto al primo conflitto mondiale, il secondo vide accentuarsi il carattere totale della guerra: lo scontro ideologico tra i due schieramenti fu più aspro e radicale, la mobilitazione dei cittadini fu più ampia. 17.2 L’attacco alla Polonia Le prime settimane di guerra furono sufficienti alla Germania per sbarazzarsi della Polonia. Si trattò del primo esempio di guerra-lampo (Blitzkrieg), una strategia che si basava sull’uso congiunto dell’aviazione e delle forze corazzate. A metà settembre le armate tedesche già assediavano Varsavia, che capitolò alla fine del mese. Frattanto l’Urss si impadroniva delle regioni orientali del paese, dopo aver invaso le tre Repubbliche baltiche che persero la loro indipendenza. Per i successivi sette mesi, la guerra a Occidente restò congelata. L’Europa visse una fase di attesa definita dai francesi drôle de guerre (strana guerra). Il teatro di guerra si spostò inaspettatamente nell’Europa del Nord. L’Urss attaccò il 30 novembre la Finlandia, che nel marzo 1940 cedette alle richieste sovietiche, conservando tuttavia la sua indipendenza. La Germania attaccò improvvisamente la Danimarca e la Norvegia il 9 aprile 1940; nella primavera del ’40, Hitler controllava buona parte dell’Europa centro-settentrionale. 47 Nel Pacifico, la spinta offensiva dei giapponesi fu fermata dagli americani nelle due battaglie del Mar dei Coralli e delle isole Midway. Gli USA iniziarono una lenta riconquista delle posizioni perdute nel Pacifico. Nell’Atlantico, gli alleati riuscirono a limitare notevolmente le perdite, grazie a una serie di innovazioni tecniche (radar, razzi antisommergibile, bombe di profondità) e a una migliore organizzazione dei trasporti via mare. Nell’estate del ’43, in Nord Africa, ci fu uno scontro tra gli eserciti italo-tedesco e britannico nella città costiera di El Alamein. Gli italo-tedeschi furono costretti ad una ritirata fino alla Tunisia. Nell’agosto 1942, a Stalingrado, sul Volga, vi fu l’assedio delle armate tedesche della città, ma i sovietici contrattaccarono efficacemente sui fianchi dello schieramento nemico e chiusero i tedeschi in una morsa. Hitler ordinò la resistenza a oltranza, sacrificando un’intera armata, che fu costretta ad arrendersi. Stalingrado divenne un simbolo di riscossa. Nel novembre ’42, un contingente anglo-americano sbarcò in Algeria e in Marocco, accerchiando le forze dell’Asse. Nella conferenza che si tenne a Casablanca, in Marocco, nel gennaio 1943, sulla questione dell’attacco alla “fortezza Europea”, si decise che per prima sarebbe stata attaccata l’Italia, per motivi logistici e politico- militari. Inoltre, gli angloamericani si accordarono sul principio della resa incondizionata da imporre agli avversari: la guerra sarebbe continuata fino alla vittoria totale, senza patteggiamenti di sorta con la Germania o con i suoi alleati. 17.9 Dallo sbarco in Sicilia allo sbarco in Normandia La campagna militare contro l’Italia (il ventre molle dell’Asse) ebbe inizio il 12 giugno 1943 con la conquista dell’isola di Pantelleria; un mese dopo gli alleati sbarcarono in Sicilia, determinando il crollo del regime fascista e l’occupazione da parte dei tedeschi dell’Italia centro-settentrionale. Sul fronte orientale, i sovietici respinsero l’ultima offensiva tedesca nella battaglia di Kursk, la più grande battaglia di carri armati, e da quel momento l’Armata rossa iniziò una lenta ma inarrestabile avanzata che si sarebbe conclusa solo nell’aprile-maggio 1945 con la conquista di Berlino. Nel novembre 1943 si svolse una conferenza interalleata a Teheran, la prima in cui i “tre grandi” si incontrarono personalmente. Stalin ottenne dagli anglo-americani l’impegno per uno sbarco in forze sulle coste francesi. L’operazione Overlord, nome in codice dello sbarco in Normandia, sotto il comando del generale americano Dwight Eisenhower, scattò all’alba del 6 giugno 1944. Gli attaccanti riuscirono a far sbarcare in territorio francese, nelle settimane successive, oltre un milione e mezzo di uomini. Alla fine di luglio, gli alleati sfondarono le difese tedesche e dilagarono nel Nord della Francia. In settembre la Francia era quasi completamente liberata. 17.10 L’Italia: la caduta del fascismo e l’armistizio Lo sbarco anglo-americano in Sicilia rappresentò il colpo di grazia per il regime fascista, già insidiato nel marzo ’43 da scioperi operai che avevano interessato tutti i maggiori centri industriali del Nord. A determinare la caduta di Mussolini fu tuttavia una sorta di congiura che faceva capo al re e vedeva tutte le componenti moderate del regime unite ad alcuni esponenti del mondo politico prefascista, nel tentativo di portare il paese fuori da una guerra ormai perduta e di assicurare la sopravvivenza della monarchia. Nella riunione del Gran Consiglio del fascismo del 24-25 luglio 1943, si auspicò il ripristino di tutte le funzioni statali: un atto di evidente sfiducia nei confronti del duce. Mussolini fu convocato da Vittorio Emanuele III, invitato a rassegnare le dimissioni e arrestato dai carabinieri. Capo del governo fu nominato Pietro Badoglio. Questo annuncio provocò un entusiasmo popolare, dovuto alla speranza di una prossima fine della guerra. L’uscita dal conflitto si sarebbe però rivelata per l’Italia più tragica della guerra stessa. L’Italia dovette sottoscrivere un atto di resa e l’armistizio fu reso noto l’8 settembre 1943. Il re e il governo abbandonarono la capitale e ripararono a Brindisi, sotto la protezione degli alleati sbarcati in Puglia, mentre i tedeschi procedevano all’occupazione dell’Italia centro- settentrionale, attestandosi sulla linea Gustav, da Gaeta a Pescara. Solo nel maggio 1944 le armate alleate riuscirono a sfondare le linee nemiche sui Monti Aurunci. 17.11 Resistenza e guerra civile in Italia L’Italia non era divisa solo da un fronte, ma era anche spezzata in due entità statali distinte, in guerra l’una con l’altra. Nelle regioni meridionali (il “Regno del Sud”) il vecchio Stato monarchico sopravviveva formalmente col suo governo e la sua burocrazia; nell’Italia settentrionale il fascismo rinasceva dalle sue ceneri sotto la protezione nazista; Roma fu dichiarata “città aperta”, ovvero zona non di guerra. Il12 settembre 1943, un commando di aviatori e paracadutisti tedeschi liberò Mussolini dalla prigionia in Campo Imperatore, sul Gran Sasso, e lo condusse in Germania. Il duce annunciò la nascita della Repubblica sociale 50 italiana, nei territori italiani occupati dai tedeschi. Il regime repubblichino trasferì i suoi ministeri da Roma nella zona del Lago di Garda (Repubblica di Salò). Suo obiettivo primario era punire gli artefici del tradimento del 25 luglio. La Repubblica di Mussolini non acquistò mai credibilità a causa della sua totale dipendenza dai tedeschi, vero e proprio esercito di occupazione. L’episodio più tragico si verificò il 16 ottobre ’43, quando oltre mille ebrei furono prelevati da Roma e inviati ad Auschwitz. Le regioni del Centro-Nord diventavano così teatro di una guerra civile tra italiani, sovrapposta a quella degli eserciti stranieri. I partigiani agivano soprattutto lontano dai centri abitati, con attacchi improvvisi e con azioni di sabotaggio, ma erano presenti anche nelle città con i Gruppi di azione patriottica. Gli occupanti risposero con spietate rappresaglie, tra cui la più feroce ebbe luogo a Roma nel marzo ’44, con le fucilazioni nelle Fosse Ardeatine. Nell’estate del ’42 era sorto il Partito d’Azione, in ottobre la Democrazia cristiana raccolse l’eredità del Partito Popolare; dopo il 25 luglio ’43 nacquero il Partito liberale, il Partito repubblicano, il Partito socialista di unità proletaria e, per opera di Bonomi, il Partito democratico del lavoro. I rappresentanti di sei partiti si riunirono clandestinamente, tra il 9 e il 10 settembre, a Roma sotto la presidenza di Bonomi e si costituirono in Comitato di Liberazione Nazionale, proponendosi come guida e rappresentanza dell’Italia democratica, non avendo tuttavia la forza di imporsi al governo Badoglio, che godeva della fiducia degli alleati. Nell’ottobre ’43 il governo dichiarò guerra alla Germania e ottenne per l’Italia la qualifica di “cobelligerante”. Tra il Cln e il governo del Sud si aprì un contrasto sulla sorte del re e dello stesso istituto monarchico. Nel marzo 1944, Palmiro Togliatti propose di accantonare ogni pregiudiziale contro il re o Badoglio e di formare un governo di unità nazionale capace di concentrare le sue energie sulla lotta contro il nazifascismo, in armonia con la linea tenuta dall’Urss (svolta di Salerno). Il 24 aprile si formò il primo governo di unità nazionale, presieduto da Badoglio. L’accordo prevedeva che Vittorio Emanuele III si facesse da parte, delegando i suoi poteri al figlio Umberto, in attesa che fosse il popolo a decidere la sorte dell’istituzione monarchica. Nel giugno 1944, dopo che gli alleati avevano liberato Roma, Umberto assunse la luogotenenza generale del Regno, Badoglio si dimise e lasciò il posto ad un governo guidato da Bonomi, presidente del Cln. Riprese intanto l’avanzata alleata nelle regioni centrali e la base di reclutamento delle formazioni partigiane si allargò. L’efficacia dell’azione partigiana era limitata dalla difficoltà di coinvolgere una popolazione preoccupata della propria sopravvivenza e spesso incline a non schierarsi. Alle difficoltà oggettive si aggiungevano i contrasti tra le diverse componenti politiche, che talvolta sfociarono in aperto conflitto. Il momento più difficile della Resistenza fu vissuto nell’autunno del’44, quando l’offensiva degli alleati si bloccò lungo la linea gotica, tra Pesaro e la Spezia, e la Resistenza dovette attendere l’inverno in attesa dell’ultima offensiva. Nella primavera del ’45, la Resistenza sarebbe stata pronta a promuovere l’insurrezione generale contro gli occupanti in ritirata. 17.12 La fine della guerra e la bomba atomica Nell’autunno 1944, la Germania poteva dirsi virtualmente sconfitta. Il fronte dei suoi alleati si stava sfaldando, i sovietici liberarono Belgrado e i britannici sbarcarono in Grecia. Molte città della Germania, tra cui Amburgo e Dresda, furono ridotte a cumuli di macerie; ma nemmeno i bombardamenti servirono a piegare la determinazione di Hitler, deciso a far sì che l’intero popolo tedesco condividesse fino in fondo la sorte del regime nazista. Hitler si illuse fino all’ultimo di poter rovesciare la situazione grazie all’impiego di nuove armi segrete (razzi telecomandati) o per un’improvvisa rottura della coalizione tra Urss e democrazie occidentali. Tuttavia, anglo-americani e sovietici continuarono a tener fede agli impegni assunti e a cercare accordi globali per la sistemazione dell’Europa postbellica. I tre grandi si incontrarono ancora in Urss, in Crimea, nel febbraio 1945, occasione nella quale fu stabilito che la Germania sarebbe stata divisa provvisoriamente in quattro zone di occupazione e sottoposta a radicali misure di denazificazione. A metà gennaio i sovietici attraversarono tutto il restante territorio polacco e a febbraio erano già a poche decine di chilometri da Berlino. Il 25 aprile le avanguardie alleate raggiunsero l’Elba e si congiunsero con i sovietici che stavano accerchiando Berlino. Sul fronte italiano, il Cln lanciò l’ordine di insurrezione generale e i tedeschi abbandonarono Milano. Mussolini fu catturato mentre cercava di fuggire in Svizzera e fucilato dai partigiani il 28 aprile, assieme ad altri gerarchi e alla giovane amante Clara Petacci. I loro cadaveri furono appesi per i piedi ed esposti per alcune ore a piazzale Loreto, a Milano. Il 30 aprile Hitler si suicidò in un bunker sotterraneo, lasciando la 51 presidenza del Reich a Karl Dönitz, che offrì subito la resa agli alleati. Il 7 maggio 1945 fu firmato l’atto di capitolazione delle forze armate tedesche, a Reims. Sul fronte pacifico, nell’estate del ’45 gli americani attaccarono in forza il Giappone. Il nuovo presidente americano, Harry Truman, decise di impiegare contro il Giappone la nuova arma “totale”, la bomba a fissione nucleare o bomba atomica, per dimostrare la potenza militare americana e concludere definitivamente la guerra. Il 6 agosto 1945 un bombardiere americano sganciò la prima bomba atomica su Hiroshima, e tre giorni dopo fu ripetuta l’operazione a Nagasaki. Il 15 agosto l’imperatore Hirohito offrì agli alleati la resa senza condizioni. Con la firma dell’armistizio, il 2 settembre 1945, si concludeva il secondo conflitto mondiale. 18. L’età della guerra fredda - Parola chiave: Nucleare 18.1 La nascita dell’ONU Il bilancio di perdite umane della seconda guerra mondiale non aveva precedenti nella storia dell’umanità: circa 60 milioni di morti. A ciò contribuì un duplice trauma morale: da un lato quello derivante dalle rivelazioni sui crimini nazisti e sul genocidio degli ebrei, dall’altro quello provocato dall’apparizione della bomba atomica, arma capace di minacciare la sopravvivenza dell’umanità. Questa terribile lezione produsse un generale desiderio di rifondare su basi più stabili il sistema delle relazioni internazionali. Nella conferenza di San Francisco del 1945 fu fondata l’Organizzazione delle Nazioni Unite, che si presentava come un prolungamento del “Patto delle Nazioni Unite”. L’obiettivo era quello di dar vita ad un’organizzazione permanente e a carattere universale. Lo statuto dell’ONU porta l’impronta di due diverse concezioni: da un lato l’utopia democratica di Wilson, dall’altro l’approccio realistico di Roosevelt, convinto della necessità di un direttorio delle grandi potenze. I principi dell’universalità dell’organizzazione e dell’uguaglianza tra le nazioni si realizzano nell’Assemblea generale degli Stati membri, che adotta risoluzioni non vincolanti. Il meccanismo del direttorio è alla base del Consiglio di sicurezza, organo permanente composto da 15 membri, di cui le cinque potenze vincitrici sono permanenti e godono di un diritto di veto. Il Consiglio può prendere decisioni vincolanti. Altri enti dell’ONU sono: il Consiglio economico e sociale e la CIG. Parallelo al progetto di rifondazione dei rapporti tra gli Stati fu il tentativo di aggiornare e codificare il diritto internazionale, includendovi un settore penale. Gli alleati costituirono tribunali militari per giudicare i colpevoli de crimini tra i responsabili delle principali potenze sconfitte. Seguirono i processi di Norimberga e di Tokyo. Si trattava di un procedimento intentato e condotto dai vincitori nei confronti dei vinti, scavalcando la sovranità dei singoli Stati. Sotto l’impulso degli USA, la rifondazione dei rapporti internazionali si estese anche al campo economico, improntando la riforma alla filosofia economica e agli interessi del capitalismo americano, tendenti ad un regime di libera concorrenza. Nel 1944, con gli accordi di Bretton Woods, fu creato il Fondo monetario internazionale, con lo scopo di costituire un adeguato ammontare di riserve valutarie mondiali e di assicurare la stabilità dei cambi delle monete, consolidando il primato della moneta americana. Fu istituita inoltre la Banca mondiale, con il compito di concedere prestiti a medio e lungo termine ai singoli Stati, per favorirne la ricostruzione e lo sviluppo. Sul piano commerciale, fu stipulato nel 1947, l’Accordo generale sulle tariffe e sul commercio (GATT), che prevedeva un generale abbassamento dei dazi doganali. Questi organismi videro in parte compromessa la loro rappresentatività dalla mancata adesione dell’Urss e degli altri regimi comunisti. Gli USA rafforzarono il loro controllo sulle economie occidentali. 18.2 I nuovi equilibri mondiali La guerra segnò un mutamento irreversibile degli equilibri internazionali. Le antiche grandi potenze dovettero presto rendersi conto di non poter più mantenere le proprie posizioni di dominio. La GB avviò un graduale ritiro delle responsabilità mondiali. L’Europa perse definitivamente la sua centralità. A un ruolo egemonico potevano aspirare due soli Stati, due superpotenze continentali e multietniche, molto diverse dai vecchi Stati-nazione: gli Stati Uniti (superiorità economica e supremazia militare) e l’Unione Sovietica (imponente apparato industriale e militare e controllo della metà orientale del continente europeo). Nell’ultimo anno di guerra, queste due potenze avevano provato a gettare le basi di un nuovo ordine internazionale centrato sulla creazione dell’Onu, ma erano emerse divergenze profonde sul futuro del 52 dell’Onu. La Cina di Mao intervenne in difesa dei comunisti e riuscì a respingere gli americani sulle posizioni di partenza. Nell’aprile ’51 Truman accettò di aprire trattative con la Corea del Nord. I negoziati si conclusero nel 1953 con il ritorno alla situazione precedente, con la Corea divise in due da una “zona demilitarizzata”. 18.6 Il Giappone: da nemico ad alleato Il Giappone, dopo la sconfitta, fu sottoposto a un duro regime di occupazione affidato al generale MacArthur. Il paese dovette rinunciare alle sue ambizioni espansionistiche e adeguare le sue istituzioni ai modelli occidentali. La nuova Costituzione, approvata nel 1946, trasformava l’autocrazia imperiale in una monarchia parlamentare. Nel ’46 fu inoltre varata una riforma agraria. Con la guerra di Corea, il Giappone divenne base logistica e fornitore dell’esercito americano. A partire dagli anni ’50 le grandi imprese sarebbero diventate il motore principale di una rapidissima ripresa economica, favorita dall’assistenza degli USA, oltre che da una stabilità politica fondata sull’egemonia dei gruppi moderati, raccolti nel Partito liberal-democratico. Il sistema delle imprese si rivelò particolarmente adatto a cogliere le occasioni di sviluppo. Merito della classe imprenditoriale fu quello di puntare sui settori di crescita e sulle tecnologie d’avanguardia. Tutto ciò permise al Giappone di mantenere per tutto il ventennio 1950-70 un tasso di sviluppo medio del 15% annuo e di invadere il mondo con i prodotti della sua industria. 18.7 Guerra fredda e coesistenza pacifica La minaccia di un conflitto nucleare, principalmente nel quinquennio che va dalla crisi di Berlino del ’48 alla fine del conflitto in Corea, gettò un’ombra d’ansia e di pessimismo sul clima psicologico dei paesi appena usciti dalla guerra e condizionò negativamente la politica interna delle maggiori potenze coinvolte. In Urss, Stalin accentuò i caratteri autocratici e repressivi del suo regime, reintroducendo le purghe; negli USA, a partire dal ’49, si scatenò una campagna anticomunista, il cui principale ispiratore fu Joseph McCarthy (maccartismo) che prese la forma di una “caccia alle streghe”. Nel 1950 il Congresso adottò l’Internal Security Act, strumento giuridico per emarginare o epurare quanti fossero sospettati di filocomunismo o di simpatie di sinistra. Nel ’55 il senatore McCarthy fu censurato dal Senato e uscì di scena. Nelle elezioni presidenziali del ’52, la vittoria andò al generale repubblicano Eisenhower. Nel ’53 Stalin morì all’improvviso. In questi anni di tensione, venne maturando un atteggiamento di accettazione reciproca, che costituiva la premessa per una coesistenza pacifica. USA e Urss rinunciarono ad agire militarmente fuori delle rispettive aree di influenza e arrivarono a collaborare per il mantenimento dello status quo durante la crisi di Suez del 1956, quando le due potenze si trovarono d’accordo nel bloccare l’azione anglo-francese contro l’Egitto. Qualcosa cambiò quando il successore di Stalin alla guida del Pcus, Nikita Kruscev, si impose come leader indiscusso dell’Unione Sovietica. Egli si fece promotore di alcune significative aperture: - In politica estera: i sovietici, con il trattato di Vienna del ’55, accettarono di ritirare le truppe di occupazione dall’Austria in cambio della neutralità del paese; vi fu una riconciliazione con i comunisti jugoslavi; fu sciolto il Cominform - In politica interna: fine delle grandi purghe, rilancio dell’agricoltura e maggior attenzione alle condizioni di vita dei cittadini Kruscev compì un’operazione traumatica: la demolizione della figura di Stalin attraverso una sistematica denuncia degli orrori e dei crimini commessi in Unione Sovietica dagli anni ’30. Kruscev pronunciò una requisitoria contro il leader scomparso tre anni prima, attribuendo gli errori e le deviazioni non al modello sovietico, bensì alle scelte di Stalin, al culto della personalità, all’eccessivo potere della burocrazia e alle violazioni della legalità socialista. Le conseguenze più esplosive della destalinizzazione si ebbero nell’Europa dell’Est, in particolare in Polonia e in Ungheria. In Polonia, i sovietici favorirono il ritorno al potere del leader comunista Wladyslaw Gomulka, vittima delle epurazioni staliniste, che promosse una politica di liberalizzazione e di riconciliazione con la Chiesa. In Ungheria, a capo del governo fu chiamato Imre Nagy, comunista dell’ala liberale; quando Nagy annunciò l’uscita dell’Ungheria dal patto di Varsavia, i reparti dell’Armata rossa occuparono Budapest e stroncarono la resistenza delle milizie popolari. La rioccupazione dell’Ungheria confermò il controllo sovietico sui paesi satelliti e l’immutabilità dell’assetto europeo uscito dalla seconda guerra mondiale. 18.8 Le democrazie europee e l’avvio dell’integrazione economica 55 La ripresa più spettacolare fu quella della Germania federale, dove i governi postbellici applicarono un modello di economia sociale di mercato che combinava un sistema avanzato di protezione sociale con un’ispirazione di fondo liberistica e produttivistica. Il prodotto nazionale tedesco crebbe negli anni ’50 al ritmo del 6% annuo. Diversi furono i fattori alla base del “miracolo tedesco”: - La stretta integrazione nel blocco occidentale: gli USA intendevano fare della Repubblica federale una sorta di vetrina del benessere “capitalistico”, contrapposto al modello “spartano” dei paesi dell’Est: rinunciarono perciò alle riparazioni di guerra loro dovute e consentirono alla Repubblica federale di beneficiare degli aiuti del piano Marshall. - La disponibilità di una numerosa manodopera fornita dai profughi. - La notevole stabilità politica, dovuta alla Costituzione del ’49 che prevedeva meccanismi atti a penalizzare i piccoli partiti e a evitare le troppo frequenti crisi parlamentari che avevano indebolito la Repubblica di Weimar. A guidare il nuovo Stato tedesco furono, fino al ’63, le forze di cooperazione cristiana (Unione cristiano- democratica e Unione cristiano-sociale), il cui leader fu Konrad Adenauer. Gli Stati-nazione dell’Europa occidentale vedevano svanire i vecchi motivi di rivalità e crescere gli elementi di affinità reciproca. Si sviluppò l’ideale di un’Europa unita nel segno della pace, della democrazia e della cooperazione economica, cui anche gli USA erano favorevoli. La prima tappa di questo processo si ebbe nel 1951 con la creazione della Comunità europea del carbone e dell’acciaio (CECA), con il compito di coordinare produzione e prezzi in quei settori chiave della grande industria continentale. I paesi membri erano Francia, Germania federale, Italia, Benelux). I governanti europei si diressero inoltre verso un accordo che consentisse la creazione di un’area di libero scambio e il coordinamento delle politiche economiche, istituendo nel 1957, con la firma dei trattati di Roma, la Comunità economica europea (Cee) e dando vita all’Euratom, ente con il compito di coordinare lo sfruttamento pacifico dell’energia nucleare. Lo scopo della Cee era la creazione di un mercato comune (Mec), mediante l’abbassamento graduale delle tariffe doganali e la libera circolazione della forza- lavoro e dei capitali, ma anche il coordinamento delle politiche industriali e agricole e l’intervento in favore delle aree in crisi. Organi principali della Cee erano: Commissione, Consiglio, Corte di Giustizia, Parlamento europeo. Sul piano economico, il Mercato comune ottenne buoni risultati; sul piano politico, le scelte più importanti continuarono a essere prerogativa dei governi e dei Parlamenti nazionali. La Francia, nel ’46, varò una Costituzione voluta dai partiti al governo, ossia da comunisti, socialisti della Sfio e cattolici del movimento repubblicano popolare. Il sistema politico della Quarta Repubblica fu caratterizzato da frammentazione politica e instabilità dei governi di coalizione, e non resse alle tensioni provocate dalla smobilitazione dell’impero coloniale francese. De Gaulle fu chiamato a formare un nuovo governo di coalizione. Il Parlamento concesse al governo poteri straordinari e avviò un processo di revisione costituzionale. La nuova Costituzione, che diede vita alla Quinta Repubblica, presentava un rafforzamento delle prerogative del Presidente della Repubblica, capo dell’esecutivo: potere di nominare il primo ministro, di sciogliere le camere, di indire nuove elezioni e di sottoporre a referendum le questioni per lui importanti. De Gaulle avviò a soluzione l’affare algerino, riconoscendo, con gli accordi di Evian del ’62, l’indipendenza dell’ex colonia. D’altra parte, De Gaulle cercò di risollevare il prestigio internazionale del paese, promuovendo una politica estera che svincolava la Francia da legami troppo stretti con gli USA e la proponeva come guida di una futura Europa indipendente dai due blocchi. Nel ’66 le truppe francesi furono ritirate dalla Nato; inoltre De Gaulle contestò la supremazia del dollaro e si oppose ai progetti di integrazione europea, ponendo il veto all’ingresso della GB nel Mercato comune. 18.9 Distensione e confronto: gli anni di Kennedy e Kruscev La pace armata che seguì la fase più acuta della guerra fredda coincise con una stagione di crescita demografica, di innovazione tecnologica e di intenso sviluppo produttivo. Le speranze e le contraddizioni di questa stagione furono incarnate nelle figure dei due leader alla testa delle due superpotenze: Kruscev, segretario del Pcus, e John Kennedy, democratico eletto nel 1960 e primo cattolico a entrare nella Casa Bianca. Kennedy suscitò ampi consensi, aggiornando la tradizione progressista di Wilson e Roosevelt col riferimento a una “nuova frontiera” spirituale, culturale e scientifica. Kennedy favorì l’incremento della spesa pubblica, fu di sostegno al movimento per i diritti civili dei neri guidato da Martin Luther King e alle sue battaglie per imporre l’integrazione in quegli Stati del Sud che praticavano ancora forme di 56 discriminazione razziale. Il primo incontro tra Kennedy e Kruscev, avvenuto a Vienna nel ’61 e dedicato al problema di Berlino Ovest, si risolse in un fallimento. I sovietici risposero con la costruzione di un muro che separava le due parti della città, il Muro di Berlino, simbolo della divisione della Germania, dell’Europa e del Mondo. Il confronto più drammatico tra le due superpotenze si ebbe a Cuba, dove si era affermato il regime socialista di Fidel Castro. Kennedy tentò di soffocare il regime cubano, appoggiando una spedizione, nell’aprile ’61, di un gruppo di anticastristi nella località chiamata Baia dei Porci, ma l’iniziativa si risolse in un fallimento. L’Unione Sovietica offrì ai cubani assistenza economica e militare e iniziò l’installazione nell’isola di alcune basi di lancio per missili nucleari. Nel ’62, Kennedy ordinò un blocco navale attorno a Cuba. Per sette giorni il mondo fu vicino a un conflitto generale, ma Kruscev cedette e acconsentì a smantellare le basi missilistiche, in cambio dell’impegno da parte degli USA di astenersi da azioni contro Cuba e di ritirare i loro missili nucleari dalle basi Nato in Turchia. Nel ’63, Usa e Urss firmarono un trattato per la messa al bando degli esperimenti nucleari nell’atmosfera, e nello stesso periodo entrò in funzione una linea diretta di telescriventi tra la Casa Bianca e il Cremlino, per scongiurare il pericolo di una guerra per errore. Nel novembre 1963 Kennedy fu ucciso a Dallas in un attentato, e a lui subentrò il vicepresidente Lyndon Johnson, che ampliò alcuni progetti in materia di legislazione sociale e di diritti civili avviati da Kennedy, ma che verrà ricordato soprattutto per l’impegno americano nella guerra del Vietnam. Nel ’64, Kruscev fu estromesso da tutte le sue cariche e sostituito da una nuova “direzione collegiale”. 18.10 Nuove tensioni nei due blocchi: guerra del Vietnam e crisi cecoslovacca Tra il 1964 e il 1975, gli USA furono coinvolti in una guerra nel lontano Vietnam, che logorò la superpotenza americana economicamente e militarmente, ne sfigurò l’immagine e ne divise profondamente l’opinione pubblica. Gli accordi di Ginevra del ’54 avevano diviso il Vietnam in due repubbliche: quella del Nord, retta dai comunisti di Ho Chi-minh; e quella del Sud, governata da un regime semidittatoriale appoggiato dagli USA. Contro il governo del Sud si sviluppò un movimento di guerriglia, il Vietcong, guidato dai comunisti e sostenuto dallo Stato nord-vietnamita. Gli USA inviarono nel Vietnam del Sud un contingente di consiglieri militari che si ingrossò fino a raggiungere la consistenza di 30 mila uomini. Nell’estate del ’64, in risposta ad un attacco subito, il Presidente ordinò il bombardamento di alcuni obiettivi militari nel Vietnam del Nord. La continua dilatazione dell’impegno militare americano (escalation) non fu però sufficiente a domare la lotta dei Vietcong né a piegare la resistenza della Repubblica nordvietnamita che, aiutata da Russia e Cina, continuò ad alimentare la guerriglia con armi e uomini. L’esercito statunitense entrò in una profonda crisi, originata non solo da fattori tecnici, ma anche da un crescente disagio morale. Negli USA, infatti, il confitto vietnamita apparve ai settori più progressisti dell’opinione pubblica come una guerra fondamentalmente ingiusta; per i movimenti rivoluzionari di tutto il mondo le vicende vietnamite dimostravano che la più grande macchina militare poteva essere tenuta in scacco da una guerra di popolo. All’inizio del ’68, i Vietcong lanciarono contro le principali città del Sud una offensiva che mostrò tutta la vitalità della guerriglia. Il successore di Johnson, il repubblicano Richard Nixon, avviò negoziati ufficiali con il Vietnam del Nord e con i rappresentanti del Vietcong, ma nel contempo allargò le operazioni belliche agli Stati confinanti, il Laos e la Cambogia, nel tentativo di tagliare ai Vietcong le vie di rifornimento. Nel ’73, americani e nordvietnamiti firmarono a Parigi un armistizio che prevedeva il graduale ritiro delle forze statunitensi, ma la guerra proseguì per altri due anni. Nel ’75, i Vietcong e le truppe nordvietnamite entrarono a Saigon mentre i membri del governo abbandonavano la città. I guerriglieri cambogiani avevano nel frattempo conquistato Phnom Penh e tre mesi dopo il Laos cadde nelle mani dei partigiani del Pathet Lao. Tutta l’Indocina era così diventata comunista. Questa fu la prima grave sconfitta della storia degli USA. In Urss, il gruppo dirigente salito al potere dopo l’allontanamento di Kruscev, guidato da Leonid Breznev, accentuò la repressione di ogni forma di dissenso. In economia, fu varata una riforma che accordava alle imprese più ampi margini di autonomia. In politica estera, fu avviata una politica di riarmo che assorbì quote crescenti del bilancio e fu ribadito soprattutto il vincolo di subordinazione dei paesi-satelliti allo Stato-guida; solo la Romania di Nicolae Ceauşescu riuscì a conquistare una certa autonomia. Nel ’68 divenne segretario del Partito comunista cecoslovacco Aleksander Dubĉek, leader dell’ala innovatrice, che cercò di conciliare il mantenimento del sistema economico socialista con l’introduzione di elementi di pluralismo economico e politico e con la più ampia libertà di stampa e di opinione. Questo periodo di rinnovamento politico e culturale viene definito “socialismo dal volto umano”, e fu sentito come una 57 l’esperimento cooperativistico delle comunità agricole. Israele rivelò una forza che gli derivava dalle risorse provenienti dall’esterno, ma anche dalla preparazione dei suoi dirigenti e dalla motivazione patriottica dei suoi cittadini. Circa 700 mila arabi abbandonarono le terre che abitavano e ripararono in paesi vicini, ammassati in campi profughi. Cominciò così il dramma palestinese, il cui ipotizzato Stato arabo della Palestina non vide mai la luce. 19.5 L’Egitto di Nasser e la crisi di Suez La disastrosa sconfitta subita nella guerra contro Israele (nakba = catastrofe) contribuì a radicalizzare le correnti nazionaliste e a far crescere nel mondo arabo il risentimento verso l’Occidente. In questo processo confluivano due correnti: - Tradizionalista: movimento dei Fratelli musulmani, che puntava a una reislamizzazione della società mediante l’applicazione integrale dei precetti coranici. - Laica e nazionalista: militari, più attenti alla modernizzazione e allo sviluppo economico. La seconda tendenza si affermò negli anni ’50, trovando il suo centro nell’Egitto, retto da un regime monarchico legato alla GB. Nel ’52 la monarchia fu rovesciata da un colpo di Stato militare e il potere fu assunto da Gamal Abdel Nasser e Mohammed Neguib. Nel ’54 Nasser si impose come unico leader del paese, instaurando una dittatura personale, avviando una serie di riforme socialiste e tentando di promuovere un processo di industrializzazione. In politica estera, Nasser si propose come guida nella lotta dei paesi arabi contro Israele e si mosse per liberare il paese dai condizionamenti delle potenze ex coloniali, stipulando accordi con l’Urss. Gli USA risposero bloccando il finanziamento della diga di Assuan, così Nasser decise di nazionalizzare la Compagnia del Canale di Suez. Nell’ottobre 1956, d’intesa con i governi di Londra e Parigi, Israele attaccò l’Egitto e lo sconfisse, ma l’operazione fallì per l’atteggiamento delle due superpotenze: gli USA sconfessarono l’impresa, l’Urss inviò un ultimatum a Israele e l’ONU votò una mozione di condanna. Quindi l’offensiva dovette fermarsi, sancendo la fine dell’era coloniale e la perdita di peso delle potenze che ne erano state protagoniste. Inoltre, venne rafforzata la posizione dell’Egitto e quella di Nasser, che rilanciò la causa del panarabismo, fatta propria anche da Siria e Iraq. Nel ’58 Nasser annunciò la fusione tra Egitto e Siria in una Repubblica araba unita, ma il progetto fallì nel giro di pochi anni. 19.6 L’indipendenza del Maghreb Sia il Marocco sia la Tunisia avevano visto nascere, già all’inizio del secolo, forti movimenti indipendentisti. La guida di questi movimenti fu assunta da forze di ispirazione nazionalista e laica. Nel 1956 i francesi si rassegnarono a concedere la piena indipendenza a entrambi i paesi. In Algeria, la lotta di liberazione fu più drammatica e cruenta. A partire dal 1954, il movimento nazionalista algerino si organizzò nel Fronte di liberazione nazionale guidato da Mohammed Ben Bella. Lo scontro culminò nel 1957 con la battaglia di Algeri, nella quale i francesi riuscirono a piegare l’insurrezione con un massiccio invio di reparti speciali e con una repressione brutale. Nel maggio 1958, la minaccia del colpo di Stato da parte dei militari e dei coloni provocò la crisi della Quarta Repubblica e favorì il ritorno al potere di De Gaulle. Il generale agì con determinazione per far uscire il paese da una guerra difficile e costosa. L’indipendenza algerina fu sancita nel marzo 1962 con gli accordi di Evian. L’Algeria si diede un ordinamento interno fortemente autoritario. Nel 1969 vi fu una rivoluzione che depose la monarchia in Libia e portò al potere i militari guidati dal colonnello Muhammar Gheddafi. Il regime di Gheddafi si caratterizzò per il tentativo di realizzare una sua speciale versione del socialismo islamico e soprattutto per il dinamismo della sua politica estera, tesa ad appoggiare i movimenti di guerriglia antioccidentali. 19.7 Le guerre arabo-israeliane Dopo la crisi di Suez del 1956, il Medio Oriente continuò a rappresentare un pericoloso focolaio di tensione. Nel 1967 Nasser strinse un patto militare con la Giordania, e Israele rispose sferrando un attacco preventivo contro Egitto, Giordania e Siria. L’Egitto, in sei giorni, capitolò. La disfatta della “guerra dei sei giorni” segnò il declino di Nasser, determinò il distacco dei movimenti di resistenza palestinese, riuniti nell’Olp e guidati da Yasser Arafat dal ’69, dalla tutela dei regimi arabi e indusse la Giordania a un atteggiamento più prudente. L’Olp pose le sue basi in Giordania, ma il Re della Giordania, Hussein, decise di interrompere la difficile convivenza attaccando nel settembre 1970 (settembre nero) i militanti palestinesi che ripararono in Libano. Nel 1970 Nasser morì e il suo successore, Anwar Sadat, avviò una politica più realistica e meno ideologica. Nel ’73, le truppe egiziane investirono le linee israeliane sul Canale di Suez, ma Israele riuscì a 60 respingere gli attaccanti e a penetrare in territorio egiziano. Con la mediazione degli USA si giunse a un “cessate il fuoco” e la guerra si chiuse senza vincitori né vinti, ma le conseguenze a livello internazionale furono gravi: gli Stati arabi chiusero per due anni il canale di Suez e attuarono un blocco petrolifero. 19.8 Tradizionalismo e modernizzazione in Turchia e Iran La Turchia e l’Iran (Persia) avevano subito l’influenza delle potenze europee: la Turchia, dopo la sconfitta dell’Impero ottomano nella Grande Guerra, aveva rischiato di finire divisa in zone di influenza, ma era stata salvata dalla rivoluzione di Kemal Atatűrk; l’Iran era oggetto delle opposte mire egemoniche di Russia e GB. La Repubblica turca aderì al sistema di alleanze occidentale (membro della Nato dal 1952) per sottrarsi all’influenza della vicina Unione Sovietica. Nel secondo dopoguerra fu concessa una maggiore tolleranza nei confronti delle tradizionali forme di culto. Protagonista di questa fase politica fu Adman Menderes, primo ministro tra il 1950 e il 1960. Menderes fu rovesciato nel 1960 e mandato a morte da un colpo di Stato militare. Da allora la Turchia visse una vita politica alquanto agitata. L’Iran, nel primo dopoguerra, aveva intrapreso un percorso di modernizzazione economica e politica sotto la monarchia di Reza Pahlavi, scià dal 1925. Durante la seconda guerra mondiale, l’Iran fu sottoposto alla duplice occupazione di britannici e sovietici, che nel 1941 imposero allo scià di abdicare in favore del figlio Mohammad Reza Pahlavi, che si avvicinò alla GB. Nel 1951, il primo ministro Mohammed Mossadeq avviò un processo di democratizzazione e di emancipazione del paese dalla subordinazione economica all’Occidente. La GB, affiancata dagli USA, organizzò nel 1953 un colpo di Stato militare che depose il primo ministro e restituì il potere assoluto allo scià. 19.9 L’indipendenza dell’Africa nera Per i paesi dell’Africa a sud della fascia sahariana (l’”Africa nera”) l’emancipazione fu più tardiva. La grande stagione dell’emancipazione africana si aprì con l’indipendenza del Ghana nel 1957. Seguirono la Guinea e il 1960 venne definito l’anno dell’Africa, perché ottennero l’indipendenza ben diciassette nuovi Stati. Il Kenya fu insanguinato dalla violenta campagna terroristica condotta dai Mau-Mau, cui rispose la spietata repressione dei britannici, prima di ottenere l’indipendenza nel 1963; in Rhodesia del Sud, nel 1965, il governo razzista di Ian Smith proclamò l’indipendenza e l’uscita dal Commonwealth e solo nel 1980 il paese fu restituito alla maggioranza nera e prese il nome di Zimbabwe. Nell’Unione Sudafricana il dominio della forte minoranza bianca si reggeva su un regime di segregazione razziale, l’apartheid, che portò all’uscita del Sudafrica dal Commonwealth (1961) e a condanne da parte dell’ONU. La protesta della maggioranza nera, organizzata nell’African National Congress, non fu attenuata dalla concentrazione della popolazione nera in piccoli Stati semi-indipendenti (Bantustan). Nel Congo l’indipendenza, concessa nel 1960, si accompagnò a una sanguinosa guerra civile e al tentativo di secessione della ricca provincia mineraria del Katanga. Patrice Lumumba, capo del governo e del movimento indipendentista, fu ucciso dai secessionisti nel 1961. L’unità del paese fu faticosamente ristabilita solo con l’intervento delle truppe delle Nazioni Unite. Per ottenere l’indipendenza, i leader nazionalisti avevano finito con l’accettare le frontiere tracciate a tavolino dai colonizzatori e gli stessi apparati amministrativi ereditati dall’epoca coloniale, tuttavia quasi mai riuscì il ricalco delle istituzioni democratiche europee e nel giro di pochi anni questi istituti lasciarono il posto a dittature monopartitiche e a regimi militari di stampo autoritario o decisamente dispotico (es. Idi Amin in Uganda dal ’71 al ’79). Si aggiungeva inoltre una condizione di grave debolezza economica. Si fecero più forti le spinte a una decolonizzazione radicale, ispirata al socialismo marxista e appoggiata dall’Urss (Tanzania, Congo Brazzaville, Benin), definita “seconda decolonizzazione” africana, in contrasto con il neocolonialismo. 19.10 Il Terzo mondo: non allineamento e sottosviluppo Tra il 18 e il 24 aprile 1955 si riunirono a Bandung, in Indonesia, i rappresentanti di ventinove Stati afroasiatici, ai quali si aggiungeva come Stato osservatore la Jugoslavia di Tito. La conferenza si concluse con l’approvazione di un documento che proclamava l’eguaglianza tra tutte le nazioni, il sostegno ai movimenti impegnati nella lotta al colonialismo e il rifiuto delle alleanze militari egemonizzate dalle superpotenze. Questi paesi erano uniti dal fatto di far parte del “Terzo Mondo”, distinto sia dall’Occidente capitalistico sia dall’Est comunista. Nella conferenza di Belgrado del 1961 i leader del movimento lanciarono la formula del “non allineamento”, attraverso cui gli Stati del Terzo Mondo si proponevano come protagonisti di una politica di neutralismo attivo, destinata a erodere l’egemonia delle superpotenze. 61 In ambito economico fu il sottosviluppo a caratterizzare questi paesi, facendo emergere un quadro di generale povertà. Il processo di urbanizzazione non era sintomo di progresso, bensì di miseria e degrado. Masse di diseredati si riversavano nelle bidonvilles delle città capitali. Questa problematica fu inoltre amplificata dall’atteggiamento “rivendicazionista” assunto dai paesi del Terzo Mondo nei confronti dell’Occidente sviluppato, che causò un’attenzione inedita da parte dei paesi occidentali, nei quali si sviluppò la tendenza politica del “terzomondismo”, che individuò come obiettivo politico primario il superamento delle diseguaglianze. 19.11 Dittature e populismi in America Latina Ciò che caratterizzò la maggior parte dei paesi sudamericani fu la dipendenza dagli USA. In Messico, i capitali statunitensi concorsero alla crescita industriale; in altri paesi più poveri del Centro America, i gruppi di interesse statunitensi e lo stesso governo si allearono alle oligarchie terriere locali nel combattere ogni forma di rinnovamento. Nel 1948 fu creata l’Organizzazione degli Stati americani, per realizzare la cooperazione economica tra i paesi del continente e per impedire l’instabilità politica e le tensioni sociali, che avrebbero potuto aprire spazi alla penetrazione comunista. I ceti medi urbani si fecero promotori del cambiamento, dando vita alla tradizione del populismo. In Argentina, il regime del colonnello Juan Domingo Perón fu di stampo populista. Egli fu eletto presidente nel 1946 e avviò una politica di incentivi all’industria e di aumenti salariali, di lotta contro i monopoli e di nazionalizzazione dei servizi pubblici. Il suo riformismo sociale si accompagnava a una prassi politica autoritaria. Perón fu rovesciato nel 1955 da un colpo di Stato militare, a causa del dissesto finanziario. Nel 1972 i militari richiamarono l’esule Perón, rieletto alla presidenza della Repubblica nel ’73. Il leader fallì nel compito di riportare l’ordine nel paese, e nemmeno la sua seconda moglie, Isabelita, seppe fare meglio. Nel ’76 fu deposta dai militari, che ripresero in mano il potere e utilizzarono metodi brutali. Ma nemmeno il pugno di ferro dei militari rimise in sesto l’economia e a fermare l’inflazione. In Brasile, negli anni ’30, si sviluppò il primo esperimento di governo populista dell’America Latina, quello di Getulio Vargas. Rovesciato nel 1945 dai militari, Vargas tornò al potere nel 1950, e nel 1954 fu esautorato nuovamente e si suicidò. I suoi successori seguirono una politica di non allineamento nelle relazioni internazionali. Nel 1964 un nuovo colpo di Stato appoggiato dagli USA riportò al potere i militari, che imposero una svolta autoritaria. A Cuba, nel 1959, il regime dittatoriale di Fulgencio Batista fu rovesciato nel gennaio 1959 da un movimento rivoluzionario guidato da Fidel Castro. Quest’ultimo avviò subito una riforma agraria che colpiva il monopolio esercitato dalla United Fruit Company sulla coltivazione della canna da zucchero. Gli USA iniziarono un boicottaggio economico verso l’isola, imponendo l’embargo nei suoi confronti. Castro si rivolse all’Urss, che si impegnò ad acquistare lo zucchero cubano a prezzi superiori a quelli del mercato internazionale. Il regime cubano si orientò sempre più in senso comunista, l’economia fu in gran parte statalizzata e venne istituito un regime a partito unico. Per la prima volta, in un continente sotto tutela nordamericana e vicinissimo agli USA, si affermava un regime filosovietico. Divenne celebre lo slogan di Ernesto “Che” Guevara: “creare due, tre, cento Vietnam”. Nel 1967 Guevara fu catturato e ucciso in Bolivia. Negli anni ’70 i militari assunsero il potere anche in paesi di tradizione democratica: in Uruguay il regime liberale fu rovesciato nel ’73; in Cile, nel ’70 il socialista Salvador Allende assunse la presidenza e tentò di realizzare un programma di nazionalizzazioni e di riforme sociali, ma si scontrò con una situazione economica ai limiti del dissesto e con l’aperta ostilità degli USA. Nel 1973 Allende fu rovesciato da un colpo di Stato militare e ucciso. Il potere fu assunto dal generale Augusto Pinochet, che diede vita a un regime dai tratti duramente autoritari. 20. L’Italia repubblicana - Parola chiave: Mafia 20.1 L’Italia nel 1945 Tra il 1945 e il 1948, l’Italia si lasciò alle spalle l’esperienza della dittatura fascista ed entrò in una nuova fase della sua storia unitaria. Si diede un nuovo ordinamento repubblicano, una nuova Costituzione democratica e un nuovo sistema politico destinato a durare per quasi mezzo secolo e a dar forma a quella che è stata definita “Prima Repubblica”. 62 favorire le esportazioni; restrizione del credito per limitare la circolazione di moneta e costringere imprenditori e commercianti a mettere sul mercato le scorte accumulate. La linea Einaudi ottenne i risultati prefissati, causando però forti costi sociali, soprattutto sul versante della disoccupazione. Nonostante ciò, il paese riuscì, nel 1950, a raggiungere i livelli produttivi dell’anteguerra. Questo modello di sviluppo causò una crescente integrazione con le economie dell’Occidente capitalistico e contribuì a definire la collocazione internazionale dell’Italia, che nel ’48 accettò la proposta di adesione al Patto atlantico, approvata nel marzo 1949 dal Parlamento. 20.5 De Gasperi e il centrismo Nonostante potesse contare sulla maggioranza assoluta dei seggi alla Camera, la Dc mantenne l’alleanza con i partiti laici minori e associò ai suoi governi rappresentanti di sinistra. Diede vita quindi ad una politica centrista, caratterizzata da una dose di riformismo sociale che rafforzava la base di consenso popolare dei partiti di governo. Difatti, nel 1950, fu varata una riforma agraria che prevedeva l’esproprio e il frazionamento di parte delle grandi proprietà terriere, favorendo l’incremento della piccola impresa agricola e il rafforzamento del ceto dei contadini indipendenti. Ma la riforma non servì a contenere il fenomeno di migrazione dalle campagne che assunse proporzioni imponenti. Fu inoltre varata una legge importante che istituiva la Cassa per il Mezzogiorno, un nuovo ente pubblico che aveva lo scopo di promuovere lo sviluppo economico e civile delle regioni meridionali attraverso il finanziamento statale per le infrastrutture e il credito agevolato alle industrie localizzate nelle aree depresse. Dal 1957 la politica della Cassa fu orientata verso il sostegno diretto, attraverso la concessione di crediti agevolati alle industrie che si fossero impiantate in aree prescelte dallo Stato. Queste riforme furono avversate dalla destra (contraria alla riforma agraria) ma anche dalle sinistre, che, insieme alla Cgil, mobilitarono le masse operaie in una serie di scioperi e manifestazioni, seguiti da una intensificazione dei mezzi repressivi da parte delle forze dell’ordine. Furono creati reparti celeri impiegati nei servizi di ordine pubblico. Prima delle elezioni del ’53, De Gasperi e i suoi alleati modificarono i meccanismi elettorali, prevedendo l’assegnazione del 65% dei seggi alla Camera al gruppo di partiti apparentati che ottenesse la metà più uno dei voti. Tuttavia, alle elezioni del ’58, la Dc e i suoi alleati non raggiunsero l’obiettivo e il premio di maggioranza non scattò. La legge fu in seguito abrogata. Nel frattempo, la crescita economica si consolidava e si rafforzavano i legami con l’Europa più avanzata. Nel 1955 fu presentato il piano Vanoni che indicava tra gli obiettivi prioritari l’assorbimento della disoccupazione e la cancellazione del divario tra Nord e Sud. Nel ’56 avvenne l’insediamento della Corte costituzionale e nel ’58 quello del Consiglio superiore della magistratura. Nella Dc emerse la nuova generazione cresciuta nell’Azione cattolica degli anni ’30, il cui principale esponente era Amintore Fanfani. Egli cercò di rafforzare la struttura organizzativa del partito collegandolo alle imprese di Stato, come ad esempio all’Eni. Nel ’56 fu creato il ministero delle Partecipazioni statali, col compito di coordinare l’attività delle aziende di Stato. Nelle elezioni presidenziali del ’55 fu eletto Giovanni Gronchi, democristiano di sinistra. A seguito delle ripercussioni dei fatti d’Ungheria del ’56, il Psi si rese disponibile a una collaborazione con la Dc e i partiti laici. 20.6 Il “miracolo economico” Dagli anni ’50, l’economia italiana iniziò a crescere a ritmi mai conosciuti in passato. Questo processo giunse al culmine tra il ’68 e il ’63: gli anni del miracolo economico, in cui l’Italia ridusse significativamente il divario che la separava dalla maggior parte dei paesi industrializzati. Lo sviluppo interessò soprattutto l’industria manufatturiera. La crescita industriale fu alimentata dallo sviluppo delle esportazioni. La diffusione dei prodotti italiani, la solidità della lira, la stabilità dei prezzi contribuirono a rafforzare l’immagine di un’Italia ormai avviata verso nuove prospettive di benessere. I fattori all’origine del miracolo: - L’Italia si inserì nella fase di crescita delle economie occidentali - La politica di libero scambio - La modesta entità del prelievo fiscale - Lo scarto tra l’aumento della produttività e il basso livello di salari che consentì alti profitti e tassi di investimento molto elevati 65 L’Italia divenne un Paese industriale. La crescita economica si accompagnò a un netto miglioramento delle condizioni salariali dei lavoratori, che ebbero però l’effetto di ridurre i margini di profitto e di mettere in moto un processo inflazionistico. Così, nel 1963-65, il “miracolo italiano” conobbe una battuta d’arresto. Negli anni del boom, l’Italia si lasciò alle spalle le strutture e i valori della società contadina ed entrò nella civiltà dei consumi. Il fenomeno più importante di questi anni fu il massiccio esodo dal Sud verso il Nord e dalle campagne verso le città. Le grandi migrazioni interne e la rapida urbanizzazione erano indubbiamente il segno di un progresso economico del paese, ma i costi umani e sociali furono pesanti. L’espansione delle città avvenne in forme caotiche, senza un adeguato intervento dei poteri pubblici, e l’inserimento difficile degli immigrati meridionali mostrò il divario tra Nord e Sud. In questi anni ebbe tuttavia inizio un processo di integrazione legato alle comuni esperienze lavorative, favorito anche dalla diffusione di consumi di massa: - Dal 1954, iniziarono le regolari trasmissioni da parte della Rai, ente di Stato che deteneva il monopolio dell’emittenza radiofonica. La televisione era, oltre a un mezzo di svago, un veicolo attraverso cui passavano una lingua comune e nuovi modelli culturali di massa. - Vi fu il boom della motorizzazione, col grande successo delle nuove utilitarie prodotte dalla Fiat: la Seicento e la Cinquecento 20.7 Il centro-sinistra e le riforme All’inizio degli anni ’60 vi fu un allargamento delle basi del sistema politico, con l’ingresso dei socialisti nell’area di governo, che suscitò molte speranze di rinnovamento e, nell’opinione pubblica moderata, molti timori. L’apertura a sinistra fu osteggiata dalla destra economica e da una larga parte della stessa Dc, ma anche dal Vaticano e dagli ambienti diplomatici statunitensi. Nel ’60 il presidente del Consiglio Fernando Tambroni formò un governo “monocolore”, composto da soli democristiani con l’appoggio del Movimento sociale italiano. Questa scelta suscitò un’autentica rivolta popolare, nella quale operai e militanti di sinistra si scontrarono con la polizia che si trovava a Genova per lo svolgimento del Congresso del Msi. Alla fine, il governo cedette e rinviò il congresso. Tambroni fu sconfessato dalla Dc e si dimise. Si formò, nell’agosto ’60, un nuovo governo presieduto da Fanfani, che ottenne l’astensione dei socialisti nel voto di fiducia in Parlamento. Nel ’62 si formò un nuovo governo Fanfani, composto da Dc, Pri e Psdi, il cui programma era concordato col Psi. Il programma prevedeva: - La realizzazione della scuola media unificata - L’attuazione dell’ordinamento regionale, che fu rinviata - Una tassazione dei titoli azionari più efficace, che durò solo due anni - La nazionalizzazione dell’industria elettrica, portata a compimento nel novembre 1962 con la creazione dell’Ente nazionale per l’energia elettrica (Enel) Nelle elezioni del ’63, democristiani e socialisti persero voti, vi fu un successo dei liberali e un rafforzamento dei comunisti. Nel dicembre ’63 si formò un governo organico sotto la presidenza di Moro e nato su basi più moderate rispetto al governo precedente. Gli ostacoli più seri a una politica riformatrice venivano dall’interno della coalizione governativa, in particolare dall’esigenza della Dc di mantenere unito il fronte di forze economiche e sociali che costituivano la base del suo consenso, un fronte in cui le istanze di rinnovamento erano nettamente minoritarie. Se la Dc riuscì in questo modo a mantenere la sua unità, il Psi pagò la partecipazione al governo con una nuova scissione: nel ’64 la minoranza di sinistra diede vita al Partito socialista di unità proletaria (Psiup) Nel frattempo il Pci cresceva, anche dopo la morte di Togliatti nel ’64. Nel dicembre 1964 fu eletto presidente della Repubblica il socialdemocratico Giuseppe Saragat. La formula di centro-sinistra sarebbe durata per oltre un decennio, con i governi di Moro del ’68, e poi di Mariano Rumor e di Emilio Colombo. Progressivamente avrebbe però mostrato la propria inadeguatezza a fronteggiare i problemi di una società sempre più articolata e percorsa da un’elevata conflittualità politica e sindacale. 21. La civiltà dei consumi - Parola chiave: Consumismo 66 21.1 La crescita demografica A partire dall’inizio degli anni ’50, la popolazione della Terra crebbe a un tasso medio annuo dell’1,8%; in vent’anni, tra il 1950 e il 1970, gli abitanti della Terra aumentarono del 50%. La crescita della popolazione non si distribuì in modo omogeneo tra le diverse aree del pianeta. Al contrario, si andò accentuando la forbice tra le tendenze demografiche dei paesi industrializzati e quelle dei paesi in via di sviluppo. Negli Stati del Terzo Mondo, in mancanza di controlli alle nascite, i tassi di natalità rimasero molto elevati; nei paesi industrializzati, vi fu il periodo del cosiddetto baby boom. Dopo la metà degli anni ’50, riprese il sopravvento la tendenza al calo della natalità. La tendenza alla pianificazione familiare fu favorita dalla diffusione delle nuove pratiche anticoncezionali, il cui uso generalizzato significò per la prima volta la possibilità di un controllo totale sulla fertilità ed ebbe conseguenze rivoluzionarie non solo sulle tendenze demografiche, ma anche sulla mentalità e sul costume. Questo provocò una rapida liberalizzazione dei comportamenti sessuali. 21.2 Il boom economico Il periodo di sviluppo tra gli anni ’50 e ’60 del ‘900 fu definito “età dell’oro”. Gli USA, l’Europa occidentale e il Giappone vissero, tra il 1950 e il 1973, una crescita rapida e costante, che conobbe pochi brevi rallentamenti ma nessuna vera battuta d’arresto. Il boom cominciò negli USA subito dopo la guerra. La crescita americana trainò a sua volta la ripresa dell’Europa occidentale e del Giappone, che dagli anni ’60 iniziarono a crescere a una velocità superiore a quella degli stessi USA, riducendo le distanze negli equilibri tra i paesi a capitalismo avanzato. L’espansione si basò principalmente sull’industria, in particolare sui settori legati da un lato all’uso di tecnologie avanzate e, dall’altro, alla produzione di beni di consumo durevoli. In questi anni crebbe la quota degli addetti al settore terziario e il tasso di disoccupazione medio scese, in alcuni anni, sotto il 2%. Lo sviluppo di questi anni giovò di condizioni favorevoli: crescita della popolazione e conseguente immissione di nuova forza-lavoro, costo basso delle materie prime, scoperte scientifiche e innovazioni tecnologiche, concentrazione delle imprese (multinazionali), risparmi accumulati dai cittadini, politiche “keynesiane” dei governi in sostegno della crescita. Alla crescita della produzione e dei redditi corrispose l’espansione del commercio internazionale. Il boom si allargò anche ai paesi socialisti dell’Europa orientale, dove però il rigido controllo statale dell’economia attribuì la priorità al rafforzamento dell’industria pesante, a scapito dei consumi e del benessere materiale dei cittadini. 21.3 Nuovi consumi e politiche sociali La grande espansione postbellica si tradusse in un rapido miglioramento delle condizioni di vita della popolazione. Si parla, in riferimento a questa parte del mondo industrializzata, di società del benessere, civiltà dei consumi, consumismo. A beneficiare di questa crescita dei consumi furono non solo i ceti benestanti, ma anche le classi lavoratrici. Aumentò la quota destinata all’abbigliamento, alla casa e soprattutto ai beni e servizi considerati non essenziali. Il risultato fu l’accentuarsi del processo di omologazione delle preferenze, ovvero la standardizzazione dei modelli di consumo. Si attenuarono le differenze tra i paesi, segno di un’inarrestabile “americanizzazione”. Impatto non meno rilevante nel far crescere i consumi collettivi ebbe l’affermazione del Welfare State, un sistema organico di politiche sociali e assistenziali volte a migliorare le condizioni di vita dei cittadini. Tra gli anni ’50 e ’70 tutti i paesi industrializzati adottarono politiche di questo genere: aumento di investimenti pubblici per la scuola, l’università, le cure mediche, nuovi ospedali, pensioni, sussidi di disoccupazione, sostegno agli invalidi. Il maggiore impegno per le politiche sociali comportò un notevole incremento della spesa pubblica. Ogni Stato costruì un proprio sistema di Welfare. La principale differenza era tra: il sistema “universalistico” (modello britannico), rivolto a tutti i cittadini indistintamente; il sistema “occupazionale” (modello tedesco), che offre servizi in base all’occupazione svolta e ai contributi pagati. Le politiche sociali ottennero un vasto consenso, contrassegnando l’iniziativa politica di governi di diverso orientamento 21.4 Le nuove frontiere della scienza e della tecnologia Uno dei fattori fondamentali dello sviluppo economico nel secondo dopoguerra fu senza dubbio costituito dalle scoperte scientifiche e dalle innovazioni tecnologiche. Nel giro di pochi anni, il mondo sviluppato fu sommerso da un’ondata di nuovi materiali e di prodotti di ogni genere. I governi e gli apparati statali destinarono quote crescenti del reddito nazionale alla ricerca. Nel settore chimico, nel secondo dopoguerra, materie plastiche e fibre sintetiche si affermarono su larghissima scala nelle forme e negli usi più vari. I medicinali entrarono nell’uso corrente solo dopo il secondo conflitto mondiale. Nel 1928 67 22. Anni di cambiamento - Parola chiave: Monetarismo 22.1 La fine dell’”età dell’oro”: la crisi petrolifera All’inizio degli anni ’70, si interruppe il ciclo espansivo dell’economia mondiale che aveva contraddistinto l’intero dopoguerra. La svolta fu segnata soprattutto da due eventi: 1. Nell’agosto 1971, gli USA decisero di sospendere la convertibilità del dollaro in oro, pilastro del sistema monetario internazionale. Tale decisione era il segno più evidente delle difficoltà dell’economia americana che non era più in grado di garantire con le sue riserve auree il cambio di una grande massa di dollari circolante nel mondo o custodita nelle banche centrali europee e asiatiche 2. Nel novembre 1973, in seguito alla guerra arabo-israeliana, i principali paesi produttori di petrolio decisero di quadruplicare il prezzo della materia prima. Lo shock petrolifero colpì in varia misura tutti i paesi industrializzati, in particolare quelli che dipendevano quasi completamente dalle importazioni per il loro fabbisogno energetico (Italia, Giappone) e fu il fattore scatenante di una crisi economica seria e profonda. Tra il ’74 e il ’75, la produzione industriale fece registrare un brusco calo, per poi riprendere a crescere dal ’76. La recessione produttiva si accompagnò a una generale crescita dell’inflazione, con tassi di aumento del costo della vita, nei paesi industrializzati, superiori al 10% annuo. Questo fenomeno, definito “stagflazione”, era dovuto in parte all’origine esterna dell’inflazione, in parte alla maggiore rigidità dei salari che tendevano a adeguarsi automaticamente alla crescita dei prezzi creando a loro volta nuove spinte inflazionistiche. Sul piano sociale vi fu una crescita della disoccupazione, e lo stesso modello del Welfare State cominciò a mostrare chiari segni di difficoltà. La crescita continua della spesa pubblica costrinse i governi a portare a livelli sempre più alti la pressione fiscale suscitando critiche contro lo Stato assistenziale e contro l’intervento pubblico in economia, provocando un ritorno delle teorie liberiste e del monetarismo. La crisi petrolifera rivelò un’insospettata fragilità dei paesi più avanzati. 22.2 I problemi dell’ambiente Il primo problema che emerse fu quello del carattere limitato ed esauribile delle risorse naturali del pianeta. La prospettiva ottimistica di una crescita illimitata cominciò ad apparire a molti non solo irreale, ma anche dannosa, in quanto portava con sé la tendenza allo spreco energetico, alla dissipazione delle risorse naturali, alla modifica violenta dell’ambiente. Si sviluppò quindi una critica animata dai movimenti ambientalisti (verdi), attenta soprattutto alle tematiche dell’ecologia e fondata sulla denuncia delle minacce portate dall’azione degli uomini all’equilibrio del pianeta. Il degrado dell’ambiente si era aggravato nel corso del XX secolo, soprattutto per il crescente utilizzo dei combustibili fossili e il consumo di una quantità straordinaria di energia. Da un lato i governi adottarono politiche di risparmio energetico, dall’altro promossero la ricerca e l’uso di nuove fonti di energia. Alcuni Stati puntarono sullo sviluppo di centrali nucleari, ma furono contestati per i problemi legati allo smaltimento delle scorie e per i danni irreversibili che potevano provocare in caso di guasti o incidenti (Chernobyl 1986). Tra la fine degli anni ’80 e l’inizio degli anni ’90 l’emergenza ambientale sembrò ridimensionarsi grazie alla scoperta di nuovi giacimenti petroliferi. Una nuova fase di crescita produttiva e di euforia finanziaria riportò nel mondo dell’economia un clima di diffuso ottimismo. Non per questo venne meno l’attenzione per i problemi ecologici e per la ricerca di uno sviluppo sostenibile. La Commissione sull’ambiente e sullo sviluppo delle Nazioni Unite si espresse al riguardo col rapporto Brundtland del 1987, dove si affermava che lo sviluppo “deve rispondere ai bisogni del presente senza compromettere la possibilità delle generazioni future di fare altrettanto”. Nel 1992, in una conferenza dell’ONU a Rio de Janeiro, oltre 140 paesi si impegnarono a limitare l’inquinamento atmosferico e a perseguire uno sviluppo economico rispettoso dell’ambiente. Nel 1997 un nuovo vertice internazionale elaborò il Protocollo di Kyoto, documento che aveva lo scopo di obbligare gli Stati a ridurre le emissioni di Co2 entro un quindicennio. Questo programma non fu condiviso da USA, India e Cina. 22.3 Crisi delle ideologie e terrorismo Negli anni ’60 e nei primi anni del ’70 la cultura di sinistra era stata la cultura egemone, sia nella versione riformista, sia in quella rivoluzionaria. Entrambe le versioni si basavano sul presupposto di un’illimitata capacità espansiva del sistema economico e sulla possibilità di controllare i processi sociali con gli strumenti della politica. A partire dagli anni dello “shock petrolifero”, queste certezze cominciarono a venir meno. Nei paesi comunisti evidente l’incapacità del modello collettivistico di offrire soluzioni adeguate ai problemi 70 della società contemporanea. Si parlò allora di “grande riflusso”, per indicare la caduta dei più ambiziosi progetti di trasformazione politica e sociale; veniva messo così in discussione la capacità delle ideologie di interpretare la realtà e porsi come veicoli di trasformazione sociale. Si assistette di conseguenze a una drammatica esplosione di terrorismo politico attuato da piccoli gruppi clandestini militarizzati (Brigate rosse in Italia, Rote Armee Fraktion in Germania, Action directe in Francia). Queste formazioni agivano sulla base di parole d’ordine ispirate a una versione estremizzata del marxismo-leninismo e colpivano con gesti esemplari personaggi e istituzioni che si identificavano col sistema da abbattere. Tra la fine degli anni ’70 e l’inizio degli anni ’80 i gruppi terroristici italiani e tedeschi furono sconfitti politicamente e poi anche sul piano dell’azione repressiva. Ma il terrorismo internazionale non scomparve e si espresse in una serie di azioni sanguinose, tra cui quella del 13 maggio 1981, quando papa Giovanni Paolo II fu ferito in piazza San Pietro da un terrorista turco, Ali Agca, affiliato a un gruppo nazionalista di estrema destra. Questo fu un preannuncio del terrorismo di matrice fondamentalista islamica che avrebbe insanguinato il mondo nei decenni successivi. 22.4 Gli Stati Uniti: da Nixon a Reagan Negli anni ’70, gli USA attraversarono una delle fasi più difficili della loro storia. Il repubblicano Richard Nixon, eletto per la seconda volta alla presidenza nel 1972, pose fine all’impegno militare in Vietnam, ma fu travolto nel 1974 da uno scandalo legato alla campagna elettorale: il caso Watergate, dal nome dell’albergo in cui alcuni collaboratori del presidente avevano condotto un’operazione di spionaggio ai danni del Partito democratico. Messo sotto accusa, Nixon fu costretto a dimettersi. Nel ’76 fu eletto il democratico Jimmy Carter, che cercò di promuovere una politica fondata sul riconoscimento del diritto di autodeterminazione e sulla difesa dei diritti umani in ogni parte del mondo. Questa linea fu però portata avanti in modo incerto e velleitario: se da un lato contribuì a rendere tesi i rapporti con l’Urss, dall’altro fu criticato perché lasciava spazio all’affermazione di regimi ostili agli USA. La popolarità del presidente subì il colpo definitivo dalle vicende drammatiche della rivoluzione iraniana. Nelle elezioni del 1980 fu eletto Ronald Reagan, esponente dell’ala destra del Partito repubblicano. Egli si presentò con un programma liberista, basato sulla riduzione delle tasse e della spesa pubblica; promise di adottare in politica estera una linea dura nei confronti dell’Urss (impero del male) e di tutti i nemici degli USA. Il successo di Reagan, rieletto nell’’84, si dovette anche al buon andamento dell’economia che riprese a marciare a pieno ritmo grazie allo sviluppo dei settori di punta. Nonostante ciò, le disuguaglianze sociali si accentuarono in seguito al taglio delle spese per l’assistenza e per le pensioni. In compenso, l’inflazione fu contenuta, la disoccupazione in parte riassorbita e il dollaro tornò ad essere la moneta forte dell’economia mondiale. L’alto livello di armamenti costituì un elemento essenziale nella strategia di Reagan, tesa a far valere il peso militare degli USA: egli appoggiò l’Iniziativa di difesa strategica, un avveniristico progetto mirante a creare uno scudo elettronico spaziale capace di neutralizzare qualsiasi minaccia missilistica; inoltre intensificò l’appoggio ai gruppi armati che combattevano contro i regimi filocomunisti (Nicaragua, Afghanistan); perlopiù intervenne con azioni punitive contro i paesi accusati di terrorismo internazionale (Libia di Gheddafi nel 1986). La linea interventista e aggressiva fu portata avanti anche dal successore di Reagan, George Bush. 22.5 L’Unione Sovietica: da Brežnev a Gorbaĉev Tra la fine degli anni ’60 e la prima metà degli anni ’80, l’Unione Sovietica vide accentuarsi il declino economico e politico in atto ormai da tempo: un settore agricolo inefficiente, un apparato industriale mastodontico e invecchiato, una burocrazia invasiva e soffocante, un’attività repressiva aspra nei confronti degli intellettuali dissidenti. Nel 1975 l’Urss partecipò alla conferenza di Helsinki sulla sicurezza e la cooperazione in Europa (Csce) e ne sottoscrisse gli accordi finali che garantivano il rispetto dei diritti dell’uomo e delle libertà politiche fondamentali. In questi anni, l’Urss approfittò della debolezza degli USA per avvantaggiarsi nella corsa agli armamenti e per ampliare la sua sfera d’influenza, causando una “seconda guerra fredda” che culminò, alla fine degli anni ’70, nella decisione sovietica di installare nuovi missili a media gittata puntati verso l’Europa. L’intervento militare dell’Urss in Afghanistan fu pagato a caro prezzo. Alla fine dl 1979, i sovietici inviarono in Afghanistan un contingente di truppe, che si dovette scontrare per quasi dieci anni contro l’accanita resistenza dei gruppi guerriglieri islamici. Questa esperienza, per l’Urss, viene paragonata all’intervento americano in Vietnam. 71 Nel 1985, dopo la morte di Breznev, la segreteria del Pcus fu assunta da Michail Gorbacev, che era deciso a introdurre una serie di radicali novità nella politica sovietica. In politica economica, egli legò il suo nome alla parola d’ordine della perestrojka (riforma), proponendo una serie di interventi volti a introdurre elementi di economia di mercato. Sul terreno delle istituzioni, egli si fece promotore, nel 1988, di una nuova Costituzione che lasciava spazio a un limitato pluralismo, permettendo l’ingresso nel Congresso di alcuni esponenti del dissenso. Nel maggio ’90 il Congresso elesse Gorbacev presidente dell’Urss. Inoltre, egli avviò un processo di liberalizzazione interna condotto all’insegna della glasnost (trasparenza), che consentì lo sviluppo di un dibattito politico-culturale impensabile fino a pochi anni prima. Tuttavia, le riforme acutizzarono le contraddizioni rimaste fino ad allora nascoste nella stagnazione dell’età di Breznev (le riforme economiche accentuarono il dissesto del sistema, i nuovi spazi di dibattito politico misero in moto tensioni). 22.6 Il dialogo USA-Urss Conseguenza delle aperture riformiste di Gorbacev fu il rilancio del dialogo con l’Occidente, imposto anche dall’incapacità del sistema sovietico di rispondere alla sfida globale lanciata da Reagan e dalla necessità di frenare la corsa agli armamenti per poter destinare maggiori risorse ai consumi individuali. I due incontri (Ginevra nel ’85 e Reykjavik nel ’86) tra Reagan e Gorbacev segnarono la fine di una lunga stagione di incomunicabilità e inaugurarono un clima più disteso. Un terzo vertice (Washington nel ’87), dal gran valore simbolico, portò a uno storico accordo sulla riduzione degli armamenti missilistici in Europa. Nel ’88 l’Urss si impegnò a ritirare le sue truppe dall’Afghanistan. Nuovi incontri tra Gorbacev e Bush posero le basi per ulteriori accordi sulla riduzione degli armamenti strategici. A Parigi, nel 1990, in una riunione della Csce, i paesi della Nato e del Patto di Varsavia firmarono un trattato di non aggressione e di riduzione degli armamenti convenzionali. 22.7 Mutamenti politici in Europa occidentale Negli anni ’60 e ’70, i paesi dell’Europa occidentale conobbero importanti mutamenti politici, con l’entrata al governo dei socialisti. Solo in Francia i gruppi legati a De Gaulle mantennero la guida del governo anche dopo l’uscita di scena del generale nel ’69. Nella Repubblica federale tedesca, nel 1966, l’Unione cristiano-democratica diede vita a una grande coalizione con i socialdemocratici guidati da Ovest Willy Brandt. Nel 1969, i socialdemocratici ruppero la grande coalizione e formarono un governo assieme ai liberali. La nuova linea di politica estera si volse alla normalizzazione nei rapporti tra la Germania federale e i paesi del blocco comunista (Ostpolitik). In GB, i laburisti tornarono al potere nel 1964 con Harold Wilson, che dovette attuare un’impopolare politica di austerità e fronteggiare il riacutizzarsi della questione irlandese. Nell’Ulster, la minoranza cattolica diede vita a una serie di agitazioni. Nel ’67, il governo Wilson aprì un difficile negoziato che si concluse sono nel 1973, con l’ingresso della GB nella Cee. In seguito alla crisi petrolifera, tutti i paesi della Cee furono colpiti dal rincaro del petrolio e dal declino di alcuni settori industriali. Ne risultarono inasprite le tensioni sociali e accentuate le tentazioni protezionistiche. Negli anni ’80 i partiti socialisti videro minacciato o interrotto un dominio che durava da oltre un trentennio. In Germania federale, nel ’83, si ruppe l’alleanza tra liberali e socialdemocratici e vi fu l’ascesa al governo del cristiano-democratico Helmut Kohl. In GB, nel ’79, vinsero le elezioni i conservatori di Margaret Tatcher (intransigente liberismo), che lanciò un attacco contro il potere dei sindacati, mise in discussione i fondamenti del Welfare State e privatizzò settori dell’industria pubblica. Nel 1990, la “lady di ferro” entrò in contrasto con il suo stesso partito e lasciò la guida del governo al conservatore John Major. I partiti socialisti si affermavano nell’area mediterranea: in Francia, nel ’81, salì al governo il socialista François Mitterrand. Le difficoltà dell’economia indussero i socialisti ad accantonare i progetti di riforma più ambiziosi e a adottare una serie di misure restrittive. 22.8 Le nuove democrazie nell’Europa meridionale All’inizio degli anni ’80, governi a guida socialista si affermarono anche nelle nuove democrazie dell’Europa meridionale. 72 La prima a profittarne fu la Polonia, nella quale era già presente un sindacato indipendente a forte base operaia e di ispirazione cattolica, il Solidarnosc, guidato da un leader popolarissimo, Lech Walesa. La Polonia era sempre stata la più refrattaria, tra le democrazie popolari, all’imposizione del modello comunista. Nel 1981, la guida del governo e del Poup, Partito operaio polacco, fu assunta da Wojciech Jaruzelski, che assunse i pieni poteri e mise fuori legge il Solidarnosc. In seguito, egli allentò le misure repressive e riallacciò il dialogo con la Chiesa e con lo stesso sindacato indipendente. Nel ’89 fu aperto un tavolo di negoziato con l’Urss, dal quale uscì un accordo su una riforma costituzionale che prevedeva lo svolgimento di libere elezioni. Le elezioni si tennero nel giugno ’89 e videro la vittoria di Solidarnosc, aprendo la strada a un governo di coalizione presieduto dall’economista cattolico Tadeusz Mazowiecki. Gli avvenimenti polacchi diedero avvio a una reazione a catena che mise in crisi il sistema delle “democrazie popolari”. In Ungheria, nell’’89, fu deposto Kádár e i nuovi dirigenti comunisti riabilitarono i protagonisti della rivolta del ’56, legalizzarono i partiti e indissero libere elezioni per l’anno successivo. Importante fu la rimozione dei controlli polizieschi e delle barriere di filo spinato al confine con l’Austria. 23.2 Il crollo del Muro di Berlino e la riunificazione tedesca A partire dall’estate dell’’89, decine di migliaia di cittadini della Ddr abbandonarono il loro paese per raggiungere la Repubblica federale attraverso l’Ungheria e l’Austria. La sera del 9 novembre 1989, dopo che un portavoce del governo tedesco-orientale aveva annunciato il ripristino della libera circolazione tra le due metà di Berlino, un numero crescente di berlinesi si riversò nei varchi aperti, li oltrepassò e infine cominciò a smantellare il muro e a portarne i pezzi a casa come ricordo. Il crollo del Muro rappresentò simbolicamente la fine della Guerra Fredda e della divisione in due dell’Europa ed ebbe come immediata conseguenza il rilancio della questione dell’unità tedesca. Nel 1990 si tennero libere elezioni in Germania dell’Est e la vittoria andò ai cristiano-democratici, che accelerarono i tempi per la liquidazione di una entità statale, la Ddr, ormai privata di ogni legittimità e svuotata di qualsiasi funzione storica. In questa situazione si inserì con efficacia l’azione del governo di Helmut Kohl, che riuscì a far firmare un trattato per l’unificazione economica e monetaria delle due parti della Germania, accettato dalle ex potenze occupanti, compresa l’Urss. Si trattava in realtà di un assorbimento (incorporazione) della Ddr nelle strutture istituzionali della Repubblica federale. L’integrazione fu faticosa, ma nei due decenni successivi il divario tra le due parti del paese si ridusse progressivamente. 23.3 La fine delle “democrazie popolari” L’abbattimento della cortina di ferro provocò la caduta di tutti i regimi comunisti dell’Europa orientale. In Cecoslovacchia, nel novembre 1989, una serie di manifestazioni popolari costrinse alle dimissioni il gruppo dirigente comunista legato alla normalizzazione del dopo ’68. Il Parlamento elesse alla presidenza della Repubblica il democratico Václav Havel. Il passaggio di potere fu definito “rivoluzione di velluto”, perché avvenne senza spargimento di sangue. In Polonia le elezioni presidenziali del 1990 portarono alla guida dello Stato il leader del Solidarnosc Lech Walesa. In Ungheria, Bulgaria e Albania caddero i regimi comunisti. In Romania la dittatura personale di Nicolae Ceauşescu fu travolta da un’insurrezione popolare. Egli fu catturato e ucciso insieme con la moglie. In Jugoslavia, dalla morte di Tito nel 1980, si era aperta una crisi economica e istituzionale e si erano fatti più difficili i rapporti tra i diversi gruppi etnici. I paesi ex satelliti dell’Urss dovettero affrontare i problemi legati alla riconversione dell’apparato produttivo in funzione del mercato, con la chiusura di molte imprese statali e la conseguente crescita della disoccupazione. Sul piano politico, il ritorno alla democrazia portò con sé l’immediata proliferazione di forze politiche vecchie e nuove. 23.4 La dissoluzione dell’Urss L’Urss, nel giro di due anni, perse il suo “Impero esterno”. Nel 1990 la stessa Repubblica russa rivendicò la propria autonomia dal potere federale ed elesse alla propria presidenza il riformista radicale Borin Eltsin, confermato da un’elezione popolare a suffragio diretto. La crisi dell’Urss si acutizzò tra il ’90 e il ’91, mentre Gorbacev cercava di mediare tra le spinte liberalizzatrici e le pressioni dell’ala intransigente del partito. Questo equilibrio si ruppe nel 1991, quando un gruppo di esponenti della dirigenza sovietica tentò il colpo 75 di Stato per bloccare il processo di rinnovamento. Il colpo fallì clamorosamente di fronte a un’inattesa protesta popolare e al mancato sostegno delle forze armate: a Mosca una grande folla si raccolse a presidio delle libere istituzioni appena conquistate e decisivo fu il ruolo di Boris Eltsin, che si propose come il vero detentore del potere, relegando in secondo piano lo stesso presidente sovietico. L’Urss, tra il 1990 e il 1991, perse tutte le Repubbliche che costituivano il suo impero plurinazionale, tra cui anche la Moldavia, che proclamarono la loro indipendenza. Lo stesso fecero anche Ucraina e Bielorussia, più legate alla Russia da antichi vincoli storico-culturali. Gorbacev tentò di rilanciare l’idea di un nuovo trattato di unione che assicurasse almeno l’esistenza dell’Urss come entità militare e come soggetto di politica internazionale, ma fu scavalcato dai presidenti delle tre Repubbliche slave (Russia, Ucraina e Bielorussia), che si accordarono sull’ipotesi di una comunità di Stati sovrani ottenendo il consenso delle altre Repubbliche ex sovietiche. Il 21 dicembre, ad Alma Ata, in Kazakistan, i rappresentanti di undici Repubbliche diedero vita a una Comunità degli Stati indipendenti e sancirono la scomparsa dell’Unione Sovietica, la cui bandiera fu ammainata dal Cremlino e sostituita da quella russa. 23.5 Conflitti etnici e guerra in Jugoslavia Quasi ovunque, nei primi anni ’90, si fecero sentire le difficoltà provocate dal passaggio all’economia di mercato e si accentuò l’instabilità dovuta alla frammentazione politica. Nei territori dell’ex Unione Sovietica sorsero movimenti indipendentisti e si accesero conflitti per il possesso di territori contesi, così come nelle ex democrazie popolari si manifestarono irredentismi e contrasti etnici. In Cecoslovacchia, le aspirazioni separatiste della minoranza slovacca portarono nel 1992 a una separazione consensuale e alla creazione di due Repubbliche, una ceca (governata da partiti di ispirazione liberale) e una slovacca (guidata dai gruppi ex comunisti) In Jugoslavia, la crisi del regime a partito unico fece saltare gli equilibri tra le nazionalità su cui il paese si reggeva. L’esito delle prime elezioni libere del 1990 accentuò le spinte centrifughe già operanti all’interno dello Stato federativo. Nel 1991, prima la Slovenia poi la Croazia proclamarono la propria indipendenza, sancita attraverso i plebisciti. Lo stesso fece la Repubblica di Macedonia. Il governo federale jugoslavo, controllato dai serbi, accettò l’indipendenza slovena e macedone, ma reagì duramente all’iniziativa della Croazia, mobilitando forze armate e milizie irregolari (in Croazia vi erano consistenti minoranze serbe). Fece ricordo a operazioni di pulizia etnica, ossia a persecuzioni e violenze rivolte contro le minoranze per costringerle ad abbandonare le aree contese. Nel 1992 il conflitto si spostò in Bosnia, abitata da una popolazione mista, composta da musulmani, croati cattolici e serbi ortodossi. La secessione musulmana provocò la reazione dei serbi, appoggiati dal regime di Milosevic. L’episodio di violenza più terribile fu il genocidio di Srebrenica, dove circa 8000 civili musulmani furono sterminati dalle milizie serbe. Sarajevo fu sottoposta dai serbi a un assedio. Fu necessario l’intervento degli USA: nel 1995, la Nato attuò una serie di attacchi aerei contro le posizioni dei serbi in Bosnia. Il “cessate il fuoco” fu proclamato in ottobre. L’accordo di pace fu siglato in novembre a Dayton, negli USA, e prevedeva il mantenimento di uno Stato bosniaco, diviso in una repubblica serba e in una federazione croato-musulmana. Anche la guerra con la Croazia si concludeva intanto con la sconfitta della Serbia. In Serbia, tra il ’96 e il ’97, iniziò una stagione di agitazioni contro lo strapotere del presidente Milosevic e degli ex comunisti del Partito socialista serbo. In Croazia, il processo di democratizzazione si avviò, nel 1999, dopo la morte del presidente Franjo Tudjman e l’elezione del progressista Stipe Mesic. Nel Kosovo (regione autonoma della Serbia abitata da albanesi), nel 1998, si sviluppò un focolaio di tensione. La repressione serba provocò l’intervento della Nato (“ingerenza umanitaria”), criticato dalla Russia, tradizionale alleata della Serbia. Esso suscitò discussioni nell’opinione pubblica occidentale, ma permise il ritiro delle truppe serbe dal Kosovo. Nel settembre 2000, Milosevic fu sconfitto nelle elezioni presidenziali, venne successivamente arrestato, consegnato al Tribunale Internazionale dell’Aja e processato per crimini contro l’umanità. Morì in carcere nel 2006. In quello stesso anno vi fu la dichiarazione d’indipendenza del Montenegro, proclamata sulla base di un referendum. Nel 2008, anche l’indipendenza del Kosovo fu riconosciuta dai principali Stati occidentali. In Albania, il passaggio alla democrazia si accompagnò in una prima fase a una grave crisi economica, alla quale seguì un moto di ribellione contro la classe dirigente accusata di connivenza coi responsabili delle società fallite. Nel 1997 vi fu un collasso delle strutture statali che si accompagnò ad un imponente flusso 76 migratorio (es. verso l’Italia). Ne seguì una fase di semi-anarchia, interrotta dall’intervento dell’ONU, che inviò un contingente di pace per favorire l’ordine e la normalità politica. Da allora fu avviato un percorso di ripresa economica e di stabilizzazione. 23.6 La Russia postcomunista La Russia di Eltsin cercò di accreditarsi come l’erede del ruolo di grande potenza svolto dall’Urss e venne appoggiata dagli USA e dalla comunità internazionale che le riconobbero il diritto di occupare il seggio dell’Urss in seno al Consiglio di sicurezza dell’ONU. Questa aspirazione era però contraddetta dall’oggettiva debolezza della Russia, minacciata da movimenti separatisti e in difficoltà nel trovare uno stabile equilibrio istituzionale. Il fronte degli avversari delle riforme trovò un luogo di aggregazione nel Congresso del popolo (Parlamento russo). Il conflitto esplose nel 1993 quando Eltsin sciolse l’assemblea elettiva e indisse nuove elezioni. Il Parlamento rispose destituendo il presidente, che reagì decretando lo stato di emergenza e facendo occupare il Parlamento da reparti speciali delle forze armate. Eltsin varò una Costituzione una nuova Costituzione che rafforzava i poteri del Presidente. Nel 1994, Eltsin decise un intervento militare in Cecenia, una repubblica musulmana situata nella regione del Caucaso, ma l’operazione si trasformò in un lungo e logorante conflitto dall’esito disastroso, causato dall’inefficienza della macchina militare russa, da una profonda crisi dell’intero apparato statale e di una crescente disgregazione civile. Inoltre, si aggiunse una crisi economica, causata dal tentativo di Eltsin di accelerare il processo di transizione verso il capitalismo, che non riusciva a decollare per l’assenza di un vero ceto imprenditoriale. La nascita del capitalismo finì con l’avvantaggiare solo gruppi ristretti, legati alla malavita, mentre le condizioni di vita della maggioranza della popolazione peggioravano sensibilmente. La crisi culminò nell’estate del 1998, travolgendo il rublo, che fu svalutato del 60% rispetto alle altre valute. Nel 1999, Eltsin scelse come primo ministro uno sconosciuto dirigente dei servizi segreti, Vladimir Putin, che si impose come successore di Eltsin alle elezioni presidenziali del 2000. La sua presidenza si caratterizzò per il tentativo di restituire efficienza alla macchina statale e di ridare slancio all’economia che cominciò a manifestare segni evidenti di stabilizzazione finanziaria e di ripresa produttiva, grazie anche all’aumento dei prezzi delle materie prime esportate dalla Russia. Egli mostrò anche un crescente autoritarismo, ma nonostante ciò continuò a godere nel paese di una crescente popolarità, testimoniata dal successo del partito governativo “Russia Unita” nelle elezioni per la Camera del 2007 e dall’ascesa alla presidenza, nel 2008, del suo collaboratore Dmitrij Medvedev. In politica estera, vi fu una ripresa di iniziativa della diplomazia russa, in due direzioni: - Tentativo di presentarsi all’Occidente come interlocutore affidabile e come alleato alla lotta contro l’integralismo islamico - Ambizione di raccogliere l’eredità dell’Urss come contraltare della potenza degli USA. Da qui una serie di contrasti con l’Occidente L’entrata nella Nato degli ex satelliti dell’Urss preoccupò i dirigenti russi, che vedevano vanificato l’obiettivo strategico della costruzione di una rete difensiva esterna. 23.7 Gli Stati Uniti: la difficile gestione di una vittoria La scomparsa dell’Urss e le difficoltà della Russia postcomunista proiettarono gli USA nel ruolo di unica superpotenza mondiale, che accresceva le responsabilità internazionali degli USA in un momento in cui l’economia americana mostrava segni di difficoltà. George Bush subì infatti un calo di popolarità, dovuto essenzialmente ai problemi economico-sociali lasciati aperti dalle precedenti amministrazioni repubblicane. Il deficit del bilancio statale costrinse il presidente ad aumentare la pressione fiscale. Nel 1992, Bush fu sconfitto dal candidato democratico Bill Clinton, che cercò di imprimere alla politica estera americana un segno “progressista” e di rilanciare l’immagine degli USA come garanti degli equilibri mondiali e difensori della democrazia. Nel 1996, Clinton poteva giovarsi del netto miglioramento economico. Il sistema americano riacquistò flessibilità e competitività e si sviluppò con un tasso annuo superiore al 4%, rafforzando il suo primato nei settori produttivi della nuova economia (informatica) e nei mercati finanziari. Tra il ’98 e il ’99, la posizione di Clinton fu minacciata dall’emergere di accuse relative alla sua vita privata e ai metodi usati nella raccolta di fondi per la campagna elettorale, ma queste accuse non ne scalfirono la popolarità interna, fondata sulle sue personali capacità comunicative e sui continui successi dell’economia statunitense. Nel 2000, le elezioni presidenziali si risolsero con la vittoria di George W. Bush, per poche centinaia di voti. I primi atti della nuova presidenza si ispirarono a una linea conservatrice in politica interna 77 A partire dagli anni ’50, i movimenti nazionalisti si erano imposti quasi ovunque sull’onda delle lotte contro il dominio europeo e avevano represso l’attività dei gruppi religiosi tradizionalisti, come i Fratelli musulmani. A partire dagli ultimi decenni del ‘900, tuttavia, si riacutizzarono le antiche divisioni religiose interne al mondo musulmano, a cominciare da quella tra sunniti e sciiti (i sunniti sono più numerosi su scala mondiale, gli sciiti sono maggioritari in Iran, Siria, Iraq e presenti in Libano e Yemen. 25.2 La pace tra Egitto e Israele Per quanto riguarda il conflitto arabo-israeliano, nuove soluzioni sembrarono aprirsi nella seconda metà degli anni ’70, soprattutto per iniziativa del presidente egiziano Anwar Sadat, che si convinse della necessità di far uscire il suo paese da un perenne stato di guerra e di trovare una soluzione pacifica al conflitto con Israele. La premessa della svolta fu il riavvicinamento agli USA, nel ’74-’75, quando Sadat impresse alla sua politica un orientamento filoccidentale congelando i rapporti con l’Urss. Nel 1977 Sadat si recò in visita a Gerusalemme e formulò la sua offerta di pace, accolta dal governo israeliano, guidato dal leader della destra nazionalista, Menachem Begin. Nel 1978 Begin e Sadat si incontrarono a Camp David, negli USA, e sottoscrissero un accordo che prevedeva un trattato di pace tra i due paesi, firmato alla Casa Bianca nel 1979. In cambio, l’Egitto ottenne la restituzione della penisola del Sinai, occupata da Israele nella “guerra dei sei giorni” del ’67. Questa svolta sembrava porre le premesse per una soluzione generale basata sulla formula “pace in cambio di territori”. Tuttavia, nel1981, Sadat fu ucciso al Cairo in un attentato organizzato da un gruppo fondamentalista islamico. 25.3 La rivoluzione iraniana Alla fine del secolo XX, le democrazie occidentali si trovarono a fronteggiare una nuova sfida globale: quella dell’islam radicale e fondamentalista, che prese le mosse da due eventi verificatisi nel 1979: 1. L’intervento sovietico in Afghanistan, che provocò una mobilitazione internazionale di combattenti islamici 2. La rivoluzione scoppiata in Iran, che, dopo aver deposto lo scià, portò al potere l’ala più intransigente del clero musulmano di osservanza sciita. L’Iran era stato fino a quel momento un pilastro fondamentale della presenza occidentale in Medio Oriente e un importante fornitore di petrolio. Dagli anni ’60, lo scià Pahlavi aveva avviato una politica di modernizzazione accelerata per trasformare il paese in una potenza militare. Questa politica suscitò una crescente opposizione, che portò nel 1978 il clero islamico tradizionalista ad assumere la guida di un vasto movimento di protesta popolare. Nel 1979, lo scià dovette lasciare il paese. Nel frattempo, rientrava nella capitale Teheran l’ayatollah Ruhollah Khomeini, massima autorità spirituale dei musulmani sciiti. In Iran si istaurò una Repubblica islamica di stampo teocratico, ispirata a un vago riformismo sociale basato sui dettami del Corano e guidata dal clero sciita. Questo regime entrò in contrasto con gli USA, accusati di aver sostenuto lo scià. Per oltre un anno, il personale dell’ambasciata USA a Teheran fu tenuto prigioniero da un gruppo di militanti islamici che agivano col pieno appoggio delle autorità. L’Iran fu attaccato nel 1980 dal vicino Iraq, che cercò di profittare della situazione per impadronirsi di alcuni territori contesi tra i due paesi. Nel 1988, il “cessate il fuoco” trovò i contendenti sulle stesse posizioni dell’inizio del conflitto. 25.4 La guerra del Golfo Nell’agosto del 1990, Saddam Hussein, dittatore dell’Iraq, invase l’Emirato del Kuwait, affacciato sul Golfo Persico, uno dei maggiori produttori mondiali di petrolio, tradizionalmente filoccidentale, e ne proclamò l’annessione alla Repubblica irachena. L’invasione del Kuwait fu subito condannata dalle Nazioni Unite, che decretarono l’embargo nei confronti dell’aggressore. Gli USA inviarono in Arabia Saudita un corpo di spedizione che sarebbe giunto a contare oltre 400 mila uomini, con lo scopo di difendere gli Stati arabi minacciati e di costringere Hussein al ritiro. Decisivo fu l’atteggiamento dell’Urss di Gorbacev, che non si oppose all’intervento armato e consentì alla forza multinazionale di agire sotto la copertura dell’ONU. Hussein cercò allora di presentarsi come il vendicatore delle masse arabe oppresse e il banditore di una guerra santa contro l’Occidente. L’appello trovò notevole eco tra le masse di molti paesi arabi, in particolare tra i palestinesi dell’Olp. Il Consiglio di Sicurezza dell’Onu approvò una risoluzione che imponeva all’Iraq di ritirarsi dal Kuwait, autorizzando in caso contrario l’impiego della forza. Tra il 16 e il 17 gennaio 1991, la forza multinazionale scatenò un violento attacco aereo contro obiettivi militari in Iraq e nel Kuwait; Hussein rispose lanciando 80 missili in Arabia Saudita e Israele e minacciando il ricorso alle armi chimiche. Alla fine di febbraio scattò l’offensiva di terra contro le forze irachene, che cedette abbandonando il Kuwait, non prima di averne incendiato gli impianti petroliferi. Ottenuta la liberazione del Kuwait, George Bush decise di arrestare l’offensiva per evitare complicazioni diplomatiche o il prolungamento del conflitto. Hussein sopravvisse politicamente alla sconfitta, ma gli USA ne uscirono vincitori e si imposero come garanti degli equilibri mondiali. 25.5 La questione palestinese L’ostacolo principale ai negoziati per la soluzione del problema palestinese venne dagli Stati arabi e dall’Olp, che denunciarono il “tradimento” dell’Egitto e rifiutarono ogni trattativa col “nemico storico”. Dalla metà degli anni ’80, gli Stati arabi moderati e la stessa dirigenza dell’Olp assunsero una posizione più morbida e si dissero disposti a trattare con Israele e a riconoscerne l’esistenza in cambio del suo ritiro dai territori occupati (Cisgiordania e striscia di Gaza), dove sarebbe dovuto sorgere uno Stato palestinese. Tuttavia, i dirigenti dello Stato ebraico rifiutarono la trattativa con l’Olp di Arafat, considerata un’organizzazione terroristica. A partire dalla fine del 1987, i palestinesi dei territori occupati diedero vita a una lunga e diffusa rivolta (intifada = “risveglio”) contro gli occupanti, che reagirono con una dura repressione. I riflessi del nodo palestinese si fecero sentire anche in Libano, piccolo Stato pluriconfessionale e plurietnico dove l’Olp aveva trasferito le sue basi dopo il “settembre nero” del 1970. Dal 1975 il Libano entrò in uno stato di cronica e sanguinosa guerra civile tra tutte le fazioni. La situazione si aggravò dopo che l’esercito israeliano, nel 1982, invase il paese spingendosi fino a Beirut per cacciarne le basi dell’Olp. L’intervento di una forza multinazionale di pace (USA, Francia, Italia, GB) consentì l’evacuazione dei combattenti dell’Olp, che si spostarono a Tunisi. Dopo una serie di attentati, la forza multinazionale fu ritirata nel 1984 e il Libano rimase lacerato da lotte intestine. Nel 1991 fu convocata a Madrid la prima sessione di una conferenza di pace sul Medio Oriente, in cui rappresentanti del governo israeliano incontrarono delegazioni dei paesi confinanti ed esponenti palestinesi dei territori occupati. Nel 1992, le elezioni politiche israeliane si conclusero con il successo del Partito laburista e di Yitzhak Rabin, che bloccò i nuovi insediamenti ebraici nei territori occupati e mostrò un’apertura a concessioni territoriali in cambio della pace. Nel 1993, Rabin prese la decisione di rimuovere il principale ostacolo che si opponeva al progresso dei negoziati e di trattare direttamente con l’Olp. Nel 1993 fu sottoscritto a Washington, da Rabin e Arafat, l’accordo preso ad Oslo che prevedeva un avvio graduale dell’autogoverno palestinese nell’amministrazione dei territori occupati. Nel 1994 fu creato un organismo elettivo internazionalmente riconosciuto, l’Autorità nazionale palestinese. Molti integralisti islamici non apprezzarono questo accordo e iniziarono a ricorrere ad attentati suicidi che fecero numerose vittime tra le forze armate e la popolazione civile di Israele. Questa nuova spirale di violenza e fanatismo ebbe il suo culmine nell’uccisione del premier Rabin, avvenuta a Tel Aviv nel 1995 per mano di un giovane estremista israeliano. Nelle elezioni politiche del 1996 vinse una coalizione di destra guidata da Benjamin Netanyahu, leader del Likud (patito nazionalista), e formata dai partiti che si erano opposti alle trattative con l’Olp. Nel 1988, Netanyahu e Arafat firmarono negli USA un nuovo accordo che fissava i tempi del ritiro israeliano dai territori occupati in cambio di un impegno da parte dell’autorità palestinese nella repressione del terrorismo. Nelle elezioni politiche del 1999, vinse una coalizione di centro-sinistra guidata dal laburista Ehud Barak. Nel 2000 Clinton, presidente degli USA, convocò le parti per un accordo, che fu nuovamente mancato. Alla fine di settembre del 2000, il leader della destra israeliana, Ariel Sharon, visitò la spianata delle Moschee di Gerusalemme, provocando una rivolta dei palestinesi che considerarono quel gesto come una provocazione. Il conflitto divenne cronico e coinvolse le stesse città israeliane, dove ripresero gli attentati condotti contro i civili da organizzazioni estremiste come Hamas, un movimento islamista che si era radicato negli strati più poveri della popolazione. 25.6 La diffusione dell’integralismo islamico In Afghanistan, alcuni gruppi fondamentalisti detti talebani approfittarono della situazione di caos creata dal ritiro sovietico e, tra il 1995 e il 1996, assunsero il controllo di buona parte del paese, imponendo un regime di intollerante oscurantismo. 81 In Algeria, nel gennaio 1992, gli integralisti del Fronte islamico di salvezza vinsero le elezioni, ma il governo annullò le votazioni, provocando la reazione del Fis: una strategia del terrore a base di massacri indiscriminati tra la popolazione civile. In Turchia, le elezioni del 2002 videro la vittoria del partito di ispirazione islamico- moderata Giustizia e Sviluppo, guidato da Recep Tayyip Erdogan, che governò il paese con metodi autoritari, vanificando il tentativo di far entrare la Turchia nell’UE. In Somalia, Sudan, Pakistan, nell’Africa subsahariana si manifestarono violente manifestazioni del fondamentalismo islamico, la cui diffusione suscitò non poche preoccupazioni in Occidente. A metà degli anni ’90, alcuni osservatori iniziarono a sostenere l’ineluttabilità di uno “scontro di civiltà”. Con l’attentato terroristico alle Twin Towers di N.Y dell’11 settembre 2001, l’idea dello scontro di civiltà sarebbe diventato oggetto di discussione e di confronto politico. 26. Declino e crisi della Prima Repubblica - Parola chiave: Proporzionale/Maggioritario 26.1 Contestazione e riforme La fine degli anni ’60 fu caratterizzata in Italia da una radicalizzazione dello scontro sociale che ebbe come protagonisti prima gli studenti, poi la classe operaia. La contestazione giovanile del ’67-’68 si caratterizzò in Italia per una più accentuata connotazione marxista e rivoluzionaria. Il movimento studentesco assunse una posizione sempre più ostile nei confronti del sistema capitalistico e della “cultura borghese” in generale. La critica alla società borghese divenne rifiuto della prassi politica tradizionale, esaltazione della democrazia di base e della pratica assembleare, dell’egualitarismo e della spontaneità. La ricerca di un nuovo modo di far politica si accompagnò a una vera e propria rivoluzione dei comportamenti che coinvolgeva i rapporti personali, il ruolo della famiglia e le relazioni tra i sessi. Il movimento studentesco individuò il suo interlocutore privilegiato nella classe operaia. La ricerca di uno stabile collegamento con la classe operaia derivava dall’influenza dei gruppi intellettuali schierati su posizioni operaiste, ma soprattutto era dovuta alla presenza di una forte tradizione marxista che aveva caratterizzato nel dopoguerra la cultura della sinistra italiana. L’operaismo fu il tratto distintivo di alcuni tra i nuovi gruppi politici che nacquero tra il ’68 e il ’70, chiamati extraparlamentari (Potere operaio, Lotta continua, Avanguardia operaia; più vicina ad un’organizzazione partitica fu l’Unione dei marxisti- leninisti; nel ’69 nacque un altro gruppo, il Manifesto). Questo periodo coincise con un’intensa stagione di lotte dei lavoratori dell’industria, culminato nell’autunno caldo del ’69. Le lotte ebbero come protagonista la figura dell’operaio di massa, ossia del lavoratore scarsamente qualificato sul quale più gravavano i disagi dell’inserimento nel contesto urbano e l’insufficienza dei servizi sociali. Questi conflitti si caratterizzarono per l’adozione dell’assemblea come momento decisionale, per l’elevato grado di partecipazione e per la radicalità delle richieste. Le tre maggiori organizzazioni sindacali riuscirono a prendere in mano la direzione delle lotte e a pilotarle verso la firma di una serie di contratti nazionali che assicurarono ai lavoratori dell’industria cospicui vantaggi salariali. Questo permise un riavvicinamento tra le tre confederazioni sindacali, che avviarono un processo di parziale unificazione e rinnovarono le loro strutture organizzative, con la creazione di nuove forme di rappresentanza, i consigli di fabbrica. I sindacati assunsero un peso crescente nella vita del paese, grazie anche all’approvazione da parte del Parlamento, nel 1970, dello Statuto dei lavoratori, ossia di una serie di norme che garantivano le libertà sindacali e i diritti dei salariati all’interno delle aziende. In ambito politico, la Dc continuò a occupare il centro e il Pci consolidò il suo ruolo di maggior partito di opposizione. Nel campo dell’istruzione, l’unico intervento di rilievo fu la liberalizzazione degli accessi alle facoltà universitarie. Nello stesso anno furono approvati i provvedimenti relativi all’istituzione delle regioni e si tennero le prime elezioni regionali. In dicembre fu approvata in Parlamento la legge Fortuna-Baslini che introduceva l’istituto del divorzio. 26.2 Violenza politica e crisi economica Il 12 dicembre 1969, una bomba esplosa a Milano, in piazza Fontana, nella sede della Banca nazionale dell’agricoltura, provocò 17 morti e oltre 100 feriti. L’opinione pubblica individuò nell’estrema destra fascista la matrice politica della strage e denunciò le responsabilità dei servizi di sicurezza nel deviare le indagini verso una pista anarchica. Si parlò allora di una “strategia della tensione”. Nel 1970 vi fu una rivolta 82 Andreotti, riuscirono a condurre in porto le riforme politiche reclamate da gran parte dell’opinione pubblica. Le radici della crisi furono individuate nel meccanismo elettorale proporzionale, nella debolezza dell’esecutivo, nell’impossibile alternanza al governo di schieramenti contrapposti. 26.6 Una difficile transizione L’assetto politico-istituzionale italiano della prima metà degli anni ’90, caratterizzato dal crollo dei vecchi partiti, dalla nuova legge elettorale maggioritaria e dal profondo rinnovamento della classe politica, in direzione di un sistema bipolare, fu definito “Seconda Repubblica”. In ambito economico, a partire dal 1990, la crescita si interruppe e molte imprese italiane iniziarono a perdere competitività sui mercati internazionali, anche perché penalizzate dall’inefficienza della pubblica amministrazione. In ambito politico, la prima novità fu la trasformazione del Pci nel nuovo Partito democratico della Sinistra (Pds), con l’obiettivo di sbloccare la principale forza di opposizione e porre le premesse per una ricomposizione della sinistra italiana nel segno del riformismo democratico. Sull’opposto versante, si consolidavano, nel Settentrione, le posizioni della Lega Nord, che intensificava la sua polemica contro lo Stato accentratore, il fisco e l’intero sistema dei partiti. Le forze politiche cominciarono a prendere in considerazione l’ipotesi di una nuova legge elettorale capace di dare maggiore stabilità all’esecutivo, sollecitata da un referendum abrogativo di alcune parti della legge elettorale promosso da un comitato presieduto da Mario Segni e sollecitata anche dallo stesso presidente della Repubblica Francesco Cossiga. Le elezioni del 1992 registrarono la sconfitta della Dc e del Pds e una flessione del Psi, ma soprattutto la crescita delle forze politiche nuove, come i Verdi e la Lega Nord (quarta forza politica nazionale). All’indomani delle elezioni, il Parlamento elesse alla presidenza della Repubblica Oscar Luigi Scalfaro, democristiano, presidente della Camera, parlamentare dai tempi della Costituente. Da mesi uno scandalo stava coinvolgendo un numero crescente di uomini politici accusati di aver preteso e ottenuto tangenti per la concessione di appalti pubblici. L’inchiesta “Mani pulite” svelava un diffuso sistema di finanziamento illegale dei partiti e dei singoli uomini politici che fu denominato “Tangentopoli”, i cui destinatari principali erano i partiti della maggioranza. Il sistema delle tangenti rivelava una penetrazione capillare che aggravava la crisi dei partiti e testimoniava la loro incapacità di rinnovarsi. Tra il 1992 e il 1993, numerosi esponenti politici di primo piano, tra i quali Craxi, furono aggiunti da avvisi di garanzia e costretti ad abbandonare le responsabilità di partito. Andreotti fu accusato di collusioni con la mafia, ma le accuse caddero nel processo. La situazione fu resa ancora più drammatica dall’offensiva mafiosa contro i poteri dello Stato. Il 23 maggio 1992, un attentato al tritolo lungo l’autostrada tra l’aeroporto di Palermo e la città uccise il magistrato Giovanni Falcone, direttore degli Affari penali del ministero della Giustizia, la moglie e tre agenti della scorta. Il 19 luglio, il magistrato Paolo Borsellino e cinque agenti furono uccisi da un’autobomba in piena Palermo. La loro morte scosse l’opinione pubblica e stimolò un potenziamento dell’azione di magistratura e polizia, che avrebbe portato, nel 1993, all’arresto del “capo dei capi” dell’organizzazione mafiosa, Salvatore Riina. Il nuovo governo presieduto dal socialista Giuliano Amato si trovò dunque ad affrontare un compito difficilissimo. Il governo affrontò subito il problema finanziario prima con interventi fiscali, poi con una manovra più organica volta a contenere le spese. In ambito elettorale, l’introduzione di un sistema maggioritario uninominale sembrava a molti la via più rapida per la riforma e la moralizzazione della politica. Il disaccordo tra le forze politiche spianò ancora una volta la strada a una soluzione imposta da un referendum abrogativo. Il 18 aprile 1993 i cittadini approvarono a larghissima maggioranza il quesito che introduceva il sistema maggioritario uninominale al Senato. Il successo del referendum suonava come una secca sconfitta per il sistema dei partiti. Amato rassegnò le dimissioni e il presidente della Repubblica chiamò allora il governatore della Banca d’Italia Carlo Azeglio Ciampi, che formò il governo. Il nuovo esecutivo si impegnò a favorire il varo di una riforma elettorale che recepisse il principio maggioritario indicato dal referendum e promise di proseguire l’opera di risanamento delle finanze pubbliche. Questo passaggio segnò la fine della “Repubblica dei partiti” che proprio su quel sistema si era retta per quasi mezzo secolo. 26.7 La “rivoluzione maggioritaria” I partiti della vecchia maggioranza cercarono di rinnovarsi, cambiando, in qualche caso, il simbolo e il nome del partito. Il Psi, uscito di scena Craxi, che espatriò in Tunisia temendo l’arresto, si diede nuovi dirigenti; la 85 Dc assunse, nel 1994, il nome di Partito popolare italiano (Ppi); una minoranza abbandonò il Ppi e diede vita al Centro cristiano democratico (Ccd); a destra, il segretario del Msi Gianfranco Fini avviò la trasformazione del suo partito in Alleanza nazionale. L’elemento di maggiore novità fu l’ingresso in politica dell’imprenditore televisivo Silvio Berlusconi. Proprietario delle tre maggiori reti televisive private e del Milan, Berlusconi annunciò nel gennaio 1994 la sua “discesa in campo” con il dichiarato obiettivo di arginare un eventuale successo delle sinistre e di ricompattare uno schieramento moderato ormai disperso. Berlusconi fondò un proprio partito, Forza Italia, che si presentava con un programma di ispirazione liberale, e mise assieme una doppia alleanza elettorale: con la Lega Nord nell’Italia settentrionale (Polo delle libertà) e con Alleanza nazionale nel Centro-Sud (Polo del buon governo). Sul fronte opposto il Pds coagulò intorno a sé tutte le forze di sinistra da Rifondazione comunista ai Socialisti, ai Verdi. Le elezioni politiche del 1994 decretarono il successo delle forze raccolte intorno a Berlusconi, che ottennero la maggioranza assoluta dei seggi alla Camera. Le ragioni della vittoria di Berlusconi erano ascrivibili non solo al sostegno delle sue reti televisive, ma soprattutto alla capacità di proporsi come l’unico in grado di sostituire il ceto di governo spazzato via dagli scandali di “Tangentopoli”. Ma la nascita di una “normale” democrazia dell’alternanza simile a quella dei principali paesi europei si rivelò subito difficile. Troppo aspra era la contrapposizione tra i due schieramenti principali: mentre Berlusconi bollava i suoi avversari come eredi del comunismo, la sinistra accusava Berlusconi di attentare ai fondamenti antifascisti della Repubblica e denunciava il conflitto di interessi del presidente del Consiglio. Nel maggio 1994, Berlusconi formò il nuovo governo con gli alleati della Lega, di Alleanza nazionale, del Ccd e altri esponenti del centro. Ma l’alleanza si rivelò subito fragile. Era soprattutto la Lega a manifestare insofferenza nei confronti di possibili misure di austerità e a voler riprendere la sua libertà d’azione, scontrandosi con le altre componenti della maggioranza. In novembre, Berlusconi fu raggiunto da un avviso di garanzia della magistratura milanese per una vicenda di tangenti da cui poi sarebbe uscito prosciolto. Un mese dopo il governo fu costretto a dimettersi per il ritiro della fiducia da parte della Lega. Nel 1995 Lamberto Dini formò un esecutivo di tecnici con l’obiettivo di contenere la spesa pubblica e di portare in tempi brevi il paese a nuove elezioni. Il governo Dini divenne sempre più espressione del centro-sinistra, mentre il centro-destra passava a una netta opposizione reclamando l’immediato ritorno alle urne. Nell’imminenza delle nuove elezioni, i due schieramenti principali si riorganizzarono. La novità più significativa fu la nascita dell’Ulivo, un nuovo contenitore politico di centro-sinistra che raccoglieva il Pds, il Ppi e altri gruppi minori attorno alla candidatura di Romano Prodi e che stipulò poi un accordo elettorale con Rifondazione comunista. Sull’altro fronte, il Polo delle libertà riuniva Forza Italia, Alleanza nazionale e gruppi minori. La Lega decideva invece di correre da sola. Nelle elezioni del 1996, l’Ulivo si impose di misura, ottenendo la maggioranza assoluta al Senato e quella relativa alla Camera. Clamoroso fu il successo della Lega, che superò il 10% nazionale e il 30% nel Nord-Est. Bossi cercò quindi di ricompattare le file del movimento, spostandolo su posizioni separatiste, promuovendo una serie di manifestazione culminate in una “dichiarazione di indipendenza della Padania”. 26.8 Il centro-sinistra e la scelta europea Il nuovo governo presieduto da Romano Prodi schierava nelle sue file esponenti politici e tecnici di peso: - Walter Veltroni vicepresidente del Consiglio - Giorgio Napolitano ministro degli Interni - Lamberto Dini ministro degli Esteri - Carlo Azeglio Ciampi ministro delle Finanze - Antonio di Pietro ministro dei Lavori pubblici Al governo Prodi spettava il compito di equilibrare la necessaria politica di rigore con la tutela dei ceti meno protetti, e di rilanciare l’economia e l’occupazione. Il primo obiettivo fu quello di ridurre il deficit del bilancio statale entro il 3% del PIL. Una serie di interventi fiscali e di tagli alla spesa pubblica consentirono all’Italia di rientrare nel Sme alla fine del ’96, di attestarsi, nel ’97, al di sotto del 3% e di ottenere, nel ’98, l’ingresso nell’Unione monetaria europea, cui sarebbe seguita l’introduzione, nel 2002, dell’euro in sostituzione della lira. Occorreva inoltre agire sul fronte del Welfare: la spesa previdenziale caricava sulle generazioni future il costo di un numero elevato di pensionati che avevano avuto la possibilità di uscire anticipatamente dal mondo del lavoro. I correttivi da introdurre portarono a calcolare le nuove pensioni 86 non più in base all’ultima retribuzione (sistema retributivo), ma in base ai contributi versati nella vita lavorativa (sistema contributivo). Le richieste giudiziarie sul sistema delle tangenti erano ben lungi dall’essere concluse, mentre rimaneva aperto un contenzioso tra i settori dell’ordine giudiziario e una parte della classe politica, che criticava il ruolo protagonistico assunto dopo Tangentopoli dalla magistratura inquirente. Nell’ottobre 1998, Rifondazione comunista negò la fiducia al governo Prodi, che si dimise. Si formò rapidamente un nuovo governo di centro-sinistra presieduto da Massimo D’Alema, leader dei Democratici di sinistra. Il cambio della presidenza del Consiglio senza un’investitura elettorale apparve come una ripresa delle consuetudini del vecchio sistema dei partiti e perciò fu duramente contestato dal Polo. In due occasioni si manifestò un largo consenso tra le forze politiche: - Elezione di Carlo Azeglio Ciampi alla presidenza della Repubblica, nel maggio 1999 - Sostegno alla partecipazione italiana alle operazioni militari contro la Serbia per il Kosovo In politica interna, D’Alema non resse alla prova delle elezioni regionali del 2000, si dimise e al suo posto fu chiamato Giuliano Amato, alla testa di un governo di centro- sinistra. La principale realizzazione di quest’ultima fase della legislatura fu l’approvazione, nel marzo 2001, di una legge costituzionale che introduceva alcune modifiche all’ordinamento italiano in materia di enti locali (ampliamento dei poteri legislativi delle Regioni, maggiori autonomie ai comuni, alle province e alle aree metropolitane. La riforma mirava a togliere spazio alle rivendicazioni federaliste della Lega. Tra il 1996 e il 2001, il centro-sinistra aveva guidato l’Italia verso la nuova dimensione europea, ma il paese sembrava mantenere molte caratteristiche legate alle specifiche tradizioni della sua vita pubblica e del suo ordinamento istituzionale, quali la debolezza dell’esecutivo e la breve durata dei governi. 27. La terza rivoluzione industriale e la globalizzazione - Parola chiave: Multiculturalismo 27.1 La rivoluzione informatica Negli ultimi decenni del ‘900, il mondo industrializzato fu investito da un’ondata di innovazioni tecnologiche. Si assistette al declino di interi settori industriali che avevano svolto un ruolo centrale per oltre un secolo, all’affermarsi di nuove produzioni, all’aprirsi di nuovi campi di attività. Il nucleo propulsore di questo processo di trasformazione stava nell’elettronica. Nella seconda metà del secolo, i progressi dell’elettronica si intrecciarono con lo sviluppo di una nuova disciplina: l’informatica. Da qui nacque, negli anni ’70, una nuova branca della disciplina: la telematica, ossia l’applicazione delle tecniche dell’informatica al settore delle telecomunicazioni. Protagonista e simbolo di questa rivoluzione tecnologica fu l’elaboratore elettronico, in inglese computer. I primi calcolatori erano stati realizzati già durante la seconda guerra mondiale, ma erano soggetti a usura, oltre che molto ingombranti. La sostituzione del relè prima con la valvola termoionica e poi col transistor consentì di ridurre enormemente le dimensioni dei computer e di aumentarne la potenza di calcolo, l’affidabilità e la complessità. Un ulteriore salto qualitativo fu compiuto nel decennio successivo con l’introduzione, da parte dell’americana Ibm, del circuito integrato (chip). La svolta decisiva fu realizzata dalla società americana Intel che, all’inizio degli anni ’70, mise a punto il microprocessore, che agisce come “cervello” di un computer, segnando il passaggio dall’elettronica alla microelettronica. Nascevano così i computer della “terza generazione”, che uscirono dall’ambito dei laboratori specializzati e degli istituti di ricerca, per entrare nel mondo della produzione di massa e diventare uno strumento individuale di uso comune. Infine, la digitalizzazione, a partire dagli anni ’80, del suono e delle immagini consentì di unificare i linguaggi e di far circolare informazioni di diversa natura sugli stessi canali di comunicazione. Alla metà degli anni ’70, nacquero imprese che diedero un importante contributo al settore: la Apple di Steve Jobs e la Microsoft di Bill Gates. 27.2 La Rete Una delle più importanti novità fu lo sviluppo di Internet. Alla fine degli anni ’60, era stata istituita negli USA una rete di connessione tra diversi computer (Arpanet), che costituiva un sistema di comunicazione capillare e sicuro, in grado di resistere anche a una guerra nucleare. All’inizio degli anni ’80, le forze armate statunitensi diedero vita a una propria rete separata, mentre le reti civili vennero unificate. Nacque così Internet. Nel 1991 il Cern di Ginevra creò il primo server World Wide Web, dando vita alla grande 87 Nonostante il forte rallentamento della natalità, la popolazione mondiale continua ad aumentare, anche se a un ritmo meno rapido 27.7 Questioni di genere Negli ultimi decenni del ‘900, l’emancipazione giuridica delle donne nei paesi economicamente più avanzati fece significativi passi avanti. Nel 1975, in Italia divenne legge il principio di pari responsabilità nei confronti dei figli e nell’amministrazione dei beni familiari. Sul terreno dell’emancipazione economica delle donne e della loro presenza nel mondo del lavoro permanevano e permangono ancora ritardi e disparità tra i sessi. Le donne sono state maggiormente penalizzate dalle conseguenze della crisi economica del 2007-8, facendo riemergere con forza il modello di organizzazione della famiglia basato sulla divisione tra lavoro retribuito dell’uomo e quello domestico svolto dalla donna. Assai più limitati furono i progressi nelle condizioni di vita della popolazione femminile in molti pasi dell’Asia e dell’Africa e, in parte, dell’America Latina, dove la forza delle tradizioni culturali e religiose e i ritardi nei processi di modernizzazione ostacolarono lo sviluppo di un’emancipazione simile a quella in atto nei paesi occidentali. In anni recenti sono cresciute, a livello internazionale, l’attenzione e la sensibilità verso i numerosi episodi di violenza sulle donne (violenza domestica, stupri, mutilazioni e “femminicidi”). In molti paesi si sono intraprese specifiche iniziative dei governi e campagne di sensibilizzazione che hanno puntato il dito sul persistere di retaggi culturali arcaici e dinamiche patriarcali e autoritarie, oltre che sulla rappresentazione della figura femminile alimentata dai mezzi di comunicazione e dalla pubblicità. L’Assemblea generale dell’Onu ha deciso di designare il 25 novembre come “Giornata mondiale per l’eliminazione della violenza contro le donne”. Negli ultimi decenni del ‘900 è cambiata anche la percezione generale dell’omosessualità. La cultura medica e psichiatrica abbandonò l’idea che la relazione tra persone dello stesso sesso dovesse essere considerata una forma di perversione o di malattia, per considerarla invece come una delle molteplici varianti dell’affettività e della sessualità umana. Sono state disciplinate legislativamente le unioni omosessuali in tema di previdenza e di successione ereditaria; il passo successivo, ossia la completa equiparazione giuridica al matrimonio civile, è stato compiuto in molti paesi occidentali all’inizio del XXI secolo (Olanda, Belgio, Paesi scandinavi, ecc.). Diversi Stati dell’Occidente hanno approvato specifiche leggi contro l’omofobia. Il mutato atteggiamento nei confronti dell’omosessualità si inscrive in una rinnovata attenzione alle questioni di genere (gender): termine con cui si fa riferimento all’identità sessuale come libera scelta di ruolo e di relazione con gli altri e non come semplice dato biologico. 27.8 Le religioni nel mondo contemporaneo Se negli anni ’70 del ‘900, i processi di secolarizzazione apparivano inarrestabili e generalizzati, nei decenni successivi si ebbe un’inversione di tendenza, che registrava una ripresa della partecipazione alle credenze e alle pratiche religiose. Quello religioso resta ancora il riferimento culturale fondamentale per buona parte dei popoli del pianeta: nelle stesse società industrializzate la ricerca del sacro e del trascendente si fa ancora fortemente sentire, anche se a volte si esprime in movimenti minoritari. La Chiesa di Roma ha guadagnato posizioni nelle tradizionali terre di missione, Africa e Asia, compensando così quella tendenza allo svuotamento del suo nucleo dogmatico e all’abbandono della pratica dei sacramenti. Un ruolo importante nel rilancio planetario del cattolicesimo fu svolto dal papa polacco Karol Wojtyla, primo papa non italiano dopo quattro secoli e mezzo, salito al soglio pontificio nel 1978 col nome di Giovanni Paolo II. Il suo pontificato si caratterizzò per l’intransigente difesa dei dogmi e dei culti tradizionali, ma anche per la grande apertura ai problemi sociali e al dialogo con le altre religioni e con i non credenti. Alla morte di Giovanni Paolo II, nel 2005 (fu beatificato nel 2011), gli succedette Joseph Ratzinger, che si mosse in sostanziale continuità col suo predecessore. Negli anni del suo pontificato, però, scoppiarono all’interno della Chiesa di Roma alcuni gravi scandali, legati da un lato alla scarsa trasparenza della banca vaticana e alla diffusione non autorizzata di documenti riservati, dall’altro alla denuncia di numerosi casi di pedofilia tra le file del clero cattolico. Nel febbraio 2013, Benedetto XVI comunicava la decisione di rinunciare al pontificato, compiendo un gesto senza precedenti nell’epoca moderna e contemporanea. Si creò quindi una coesistenza tra il papa “emerito” e il nuovo papa, il gesuita argentino Jorge Mario Bergoglio, che assunse il nome di Francesco. Il nuovo papa intese richiamare l’attenzione sulla necessità di praticare e predicare la rinuncia ai privilegi e ai beni materiali. Egli mostrò rinnovata attenzione ai settori più svantaggiati della società e apertura al mondo laico su temi attinenti ai comportamenti e alla sfera privata dei fedeli. 90 Un altro aspetto del rilancio religioso di inizio millennio fu la crescita dei fondamentalismi. 27.9 Medicina e bioetica L’aumento della durata media della vita dell’uomo si dovette innanzitutto ai continui progressi realizzati dalla scienza medica. Lo sviluppo delle conoscenze e tecnologie biomediche ha tuttavia ulteriormente allargato il divario tra il Nord e il Sud del mondo: uno squilibrio che potrebbe essere ridotto mediante l’estensione degli interventi sanitari di base e la diffusione di pratiche elementari di assistenza. I maggiori progressi si sono avuti nel campo dei farmaci cardiovascolari e antitumorali e nello sviluppo delle tecnologie diagnostiche. Nel settore della medicina clinica, un decisivo progresso si realizzò con l’applicazione dell’ingegneria genetica. La scoperta decisiva risale al 1953, quando Crick e Watson individuarono la struttura del DNA. Gli sviluppi della genetica consentirono di migliorare la produttività nell’agricoltura e nell’allevamento e aprirono nuovi orizzonti in campo farmacologico. Nel frattempo, sono riemerse malattie infettive che si ritenevano per gran parte debellate, come la malaria, la tubercolosi, la dissenteria. Gli allarmi maggiori sono stati però suscitati dalla diffusione dell’Aida, il cui virus Hiv si trasmette attraverso il sangue e si diffonde soprattutto attraverso i contatti sessuali. La sua comparsa e la sua diffusione relativamente rapida hanno provocato notevoli traumi nei paesi industrializzati, dove il male colpisce solo settori minoritari della popolazione e dove si sono ottenuti buoni risultati nella cura grazie all’uso di una combinazione di farmaci molto costosi. Gli sviluppi recenti della medicina e della genetica hanno portato notevoli successi nella lotta contro le vecchie e le nuove malattie, ma hanno anche fatto emergere molte domande di ordine morale, dando vita a una nuova disciplina, la bioetica, che affronta i problemi riguardanti la generazione della vita in forme assistite dalla scienza o la possibilità di riprodurre la vita in laboratorio. È il caso della clonazione: nel 1997, in GB fu creata in laboratorio la pecora Dolly. Altri problemi di ordine morale sono sorti intorno alla possibilità di ricostruire la sequenza del genoma umano, ossia il patrimonio genetico dell’uomo. Un acceso dibattito si è infine concentrato sull’utilizzo delle cellule staminali nella cura di gravi malattie neurologiche, cardiache e oncologiche. Problemi così complessi hanno sollecitato le istituzioni a confrontarsi con una materia nuova e a inserire i problemi della biologia nell’ambito di intervento delle leggi e della politica. 28. Sviluppo e disuguaglianza - Parola chiave: Debito estero 28.1 Le economie emergenti I processi di globalizzazione ridisegnarono la geografia della ricchezza. A partire dagli anni ’70, il quadro dei rapporti tra le aree prospere e industrializzate e quelle povere e arretrate fece registrare profonde modifiche rispetto al periodo della decolonizzazione. Inizialmente furono i paesi produttori ed esportatori di petrolio (Arabia Saudita, Iran, Kuwait) a guadagnare posizioni nella classifica mondiale della ricchezza. La disponibilità di enormi capitali non si tradusse però nell’avvio di un autonomo processo di industrializzazione e di modernizzazione. Altri paesi in Asia, America Latina e Africa riuscirono non solo a risolvere i problemi alimentari più gravi, ma anche a mettere in moto un meccanismo di sviluppo, inserendosi nei mercati internazionali, integrando le loro economie con quelle dei paesi più avanzati, incrementando le esportazioni di prodotti industriali e attirando investimenti. I primi a imboccare questa strada furono alcuni Stati del Sud-Est asiatico (Corea del Sud, Taiwan, Singapore, Hong Kong), ai quali seguirono i Brics (Brasile, Russia, India, Cina, Sudafrica), poi il Messico e la Colombia. Alla parziale redistribuzione della capacità industriale e della ricchezza globale corrispose una espansione dei consumi. Persistevano, tuttavia, all’interno dei singoli paesi e su scala internazionale, enormi sacche di arretratezza e povertà. 28.2 La Cina potenza mondiale Il caso più rilevante di decollo industriale e di successo economico è quello della Cina, il paese più popoloso del mondo. Tra la fine del ‘900 e i primi anni del XXI secolo, la Cina mantenne un ritmo di sviluppo elevatissimo: i tassi di crescita del PIL furono superiori al 10% annuo, per poi stabilizzarsi intorno al 7%. Nel 2011 il PIL cinese superò per la prima volta quello giapponese, facendo della Repubblica popolare la seconda potenza economica del mondo dopo gli USA. 91 La Cina fondava la sua crescita non tanto sullo sfruttamento delle risorse naturali, quanto sul dinamismo dei settori più moderni dell’economia e della finanza e sul crescente inserimento nel mercato globale. A partire dall’inizio del nuovo secolo, la Cina manifestò una crescente autonomia: aumentarono gli investimenti esteri delle aziende di Stato e dei fondi di investimento controllati dal governo (“fondi sovrani”), che acquisirono partecipazioni azionarie in imprese e istituti finanziari stranieri; parallelamente si intensificavano gli acquisti all’estero di terreni agricoli o di giacimenti minerari per lo sfruttamento di materie prime e fonti energetiche. Nel 2001 la Cina fu ammessa nella Wto. Nell’ambito delle riforme, furono liberalizzati gli istituti bancari e finanziari, fu riordinato il sistema fiscale e fu riorganizzata l’industria di Stato. Venne inoltre garantita la tutela della proprietà privata. Si ebbe anche un notevole sviluppo della ricerca scientifica e dell’innovazione tecnologica. Il governo di Pechino sostenne la crescita delle maggiori università cinesi, stimolò l’innovazione delle imprese nazionali e incentivò le multinazionali straniere a investire in centri di ricerca, avviando una trasformazione del paese da “fabbrica del mondo” a superpotenza tecnico-scientifica. Le Olimpiadi di Pechino del 2008 furono utilizzate dal governo per dare al resto del mondo una dimostrazione del livello di sviluppo tecnologico raggiunto dal paese. In politica internazionale, nel ’97 la Cina ristabilì la propria sovranità sull’antica colonia inglese di Hong Kong, impegnandosi a rispettarne le peculiarità attraverso un regime di autonomia secondo la formula “uno Stato, due sistemi”; nel ’99 fu la volta di Macao. I successi politici ed economici non cancellavano però le contraddizioni della società cinese, bensì ne accentuarono le disuguaglianze. Alle aree rurali più povere si affiancavano le grandi città pienamente inserite nei flussi globali, come Pechino e Shangai. Il nuovo ceto medio continuò a convivere con vaste schiere di lavoratori provenienti dalle campagne e costretti a impieghi mal pagati e scarsamente tutelati. In coincidenza con la crisi economica internazionale del 2008, scoppiarono proteste e scioperi, che coinvolsero soprattutto i settori industriali: il governo reagì con misure volte a migliorare parzialmente le condizioni degli operai e dei contadini, ma anche con un rigido controllo sull’informazione e la repressione delle proteste più politiche. Il boom economico cinese si svolse nella piena continuità politica. Morto, nel ’97, il vecchio Deng Xiaoping, i suoi eredi seguirono la linea da lui tracciata, lasciando ampio spazio all’iniziativa privata, ma sempre nel quadro di un controllo statale e all’interno di un regime autoritario e monopartitico. Nel 2013 divenne presidente della Repubblica Xi Jinping, che si distinse dai suoi predecessori sia per una maggiore apertura alle riforme sul terreno delle libertà personali, sia per un più deciso impegno contro il dilagare della corruzione anche ai vertici dello Stato e del partito unico. Col tempo Xi Jinping andò rafforzando il suo potere personale. Nel 2017 il suo “pensiero” divenne dottrina ufficiale e fu inserito nella Costituzione; nel 2018 il Parlamento approvò una riforma costituzionale che cancellava ogni limite alla rielezione del presidente, aprendo per Xi la via della presidenza a vita. 28.3 Il Giappone e le “tigri asiatiche” Negli anni a cavallo tra i due secoli, i paesi asiatici che per primi avevano intrapreso un percorso di industrializzazione e sviluppo economico dovettero misurarsi con le difficoltà derivanti da una grave crisi finanziaria scoppiata nel 1997-98. La crisi coinvolse tutto il Sud-Est asiatico e suscitò allarme anche nei paesi occidentali, legati ai paesi emergenti dell’Estremo Oriente da vincoli commerciali e finanziari. L’intervento delle autorità monetarie internazionali riuscì a tamponare gli effetti della crisi. La ripresa più difficile fu quella del Giappone, la cui economia entrò all’inizio degli anni ’90 in una fase di declino, che si aggravò in seguito alla crisi, dando vita a una lunga stagnazione. Le cause furono diverse: - Difficoltà a esportare nei mercati occidentali da parte delle grandi imprese nipponiche e conseguente capacità produttiva in eccesso. - La crisi finanziaria colpì le banche, che dovettero ridurre i prestiti alle imprese, innescando una contrazione degli investimenti e un rallentamento delle innovazioni - Difficoltà politiche: il declino del Partito liberal-democratico diede luogo a un periodo di instabilità, aggravata dai frequenti scandali di corruzione. Nel 2009 vinse le elezioni il Partito democratico del Giappone, di centro-sinistra, ma nel 2012 i conservatori tornarono al potere con il loro leader Shinzo Abe, che cercò di rilanciare l’economia con una politica di incentivi fiscali e che diede al governo una forte impronta nazionalista. 92 essere attraversata da profonde disuguaglianze e da frequenti esplosioni di violenza, legata alla diffusa criminalità. 28.9 La geografia della povertà: l’Africa subsahariana Nonostante la globalizzazione, molti paesi rimasero in drammatiche condizioni di povertà e arretratezza e videro accrescersi le distanze dalle economie più sviluppate e peggiorare il livello di vita della popolazione. Il divario complessivo tra le aree ricche e quelle povere si allargò. La situazione più critica era quella di alcune aree dell’Asia meridionale e dell’Africa subsahariana, dove il PIL annuo pro capite era cento volte inferiore a quello dei paesi più sviluppati, gli indici di analfabetismo elevati, i tassi di mortalità infantile al di sopra del 10% e le aspettative di vita intorno ai 50 anni. Si aggiunse la diffusione di nuove e vecchie malattie, come l’Aids e il virus dell’ebola. I problemi erano aggravati dalla crescita demografica. Le tragedie legate alla scarsa alimentazione (Somalia, Etiopia, Sudan) erano la manifestazione più evidente delle condizioni drammatiche in cui versavano le aree più povere dell’Africa. Un altro problema che impegnò la comunità internazionale fu quello del debito: l’indebitamento rappresentava in peso insopportabile per i paesi più poveri. Le campagne per la riduzione o la cancellazione del debito portarono a risultati molto limitati, perché le risorse a disposizione dei governi locali andarono spesso ad alimentare la corruzione locale o l’incremento delle spese militari. A partire dagli anni ’80, alcuni paesi africani si aprirono al mercato mondiale, ma le élite politiche non furono capaci di sfruttare questa opportunità per avviare efficaci politiche di sviluppo. L’afflusso di capitali esteri fu utilizzato per mettere in atto programmi di industrializzazione che fallirono, in assenza di un solido mercato interno e di una forte imprenditoria locale, aggravando così i bilanci degli Stati col peso degli interessi sui debiti contratti. L’Africa centrale e meridionale vide i suoi mali aggravati anche da una esasperata conflittualità politica, causa di frequenti colpi di Stato e di sanguinose guerre civili. La lotta degli eritrei contro la dominazione etiopica si concluse nel 1991 con la conquista dell’indipendenza. Ma in molti casi i conflitti divennero cronici. In Ruanda, nel 1994, le milizie dell’etnia hutu praticarono massacri ai danni dell’etnia tutsi. La guerra provocò un gigantesco flusso di profughi verso i paesi confinanti, soprattutto in Zaire, che nel 1997 riprese il nome di Repubblica del Congo, ma fu teatro di una sanguinosa guerra. Dagli anni ’90 si inserì un nuovo protagonista, il fondamentalismo islamico. In Somalia, dopo la caduta della dittatura di Siad Barre nel 1991, si scatenò una guerra tra clan e bande rivali. Un movimento fondamentalista, le “corti islamiche”, approfittò dell’assenza di potere e si assicurò, nel 2006, il controllo di buona parte del territorio, ma fu poi sconfitto da un intervento militare dell’Etiopia. Dopo il ritiro del contingente etiopico, la Somalia si trovò in uno stato di anarchia. Nel Sudan, alla fine degli anni ’80, scoppiò una guerra civile tra la maggioranza arabo- islamica e le minoranze cristiane e animiste. Nel 2003 le violenze si concentrarono nella regione del Darfur. Nel 2011 il Sudan meridionale si separò dal resto del paese, dando vita al Sud Sudan. In Nigeria, lo Stato più popoloso dell’Africa e potenzialmente ricco, grazie alla disponibilità di risorse petrolifere, vi erano rivalità tribali e contrasti tra un Nord musulmano e un Sud cristiano. A partire dal 2000, il movimento fondamentalista islamico “Boko Haram” fu responsabile di violenti attacchi contro la comunità cristiana. In Mali vi fu una guerra civile, originata dal contrasto tra i nomadi tuareg e le altre etnie. Nel 2012 un gruppo di militari si impadronì del potere. Ne scaturì un conflitto che portò i ribelli a prendere il controllo della parte settentrionale del paese. All’inizio del 2013, la Francia intervenne con attacchi aerei per liberare le città cadute in mano ai ribelli. Soprattutto negli anni 2000, le potenze occidentali intensificarono i loro interventi nelle vicende interne africane, anche per fronteggiare il fondamentalismo. Con l’inizio del nuovo millennio importanti segnali di crescita si registrarono anche in Africa, grazie soprattutto a una maggiore apertura ai mercati internazionali. Nel 2015 ben ventidue paesi del continente videro le loro economie crescere a tassi superiori al 5%, grazie anche ai bassi livelli di partenza, mostrando le potenzialità del continente attraversato da rapide trasformazioni sociali e culturali. Economisti e demografi hanno indicato proprio nell’ascesa dell’Africa un possibile tratto caratterizzante dell’intero XXI secolo. 95 29. Il mondo islamico e lo scontro con l’Occidente 29.1 L’attacco all’Occidente La mattina dell’11 settembre 2001 due aerei di linea americani si schiantarono contro le Twin Towers, gli edifici più alti di New York, sede di uffici e banche, a quell’ora affollatissimi, provocandone l’incendio e il crollo. Un altro aereo si abbatté a Washington sul Pentagono, il ministero della Difesa americano. Un quarto aereo, forse diretto verso la Casa Bianca, precipitò in Pennsylvania dopo una colluttazione tra i dirottatori e alcuni passeggeri. I kamikaze erano tutti provenienti da paesi arabi: di alcuni di loro si accertò l’appartenenza a un’organizzazione terroristica internazionale detta Al Qaeda (“la base”), che aveva la sua principale base operativa nell’Afghanistan dei talebani e si ispirava all’integralismo islamico. A guidarla era un miliardario saudita, Osama bin Laden, assertore di una guerra santa da condurre in ogni luogo e con ogni mezzo contro i nemici dell’Islam, e in particolare contro gli USA. Già nel ’93 le Twin Towers erano state colpite con auto imbottite di esplosivo; nel ’98 erano state attaccate le ambasciate americane in Kenya e in Tanzania. L’attentato dell’11 settembre provocò circa 3 mila vittime e destò enorme impressione. Gli USA avevano subito per la prima volta un attacco sul loro stesso territorio. E l’intero Occidente scopriva la propria vulnerabilità di fronte all’offensiva di un nemico inafferrabile in quanto non si identificava con un singolo Stato. La prospettiva dello scontro di civiltà sembrava farsi improvvisamente più concreta. 29.2 La guerra contro il terrorismo L’amministrazione statunitense guidata da George Bush junior riuscì, dopo un primo momento di smarrimento, a riprendere il controllo della situazione, contando anche sulla compattezza patriottica del paese e della sua classe politica. L’obiettivo primario era l’Afghanistan, che ospitava il capo dei terroristi ed era diventato il riferimento di tutti i gruppi più integralisti, gli stessi che gli USA avevano armato e finanziato negli anni ’80 per la lotta contro l’invasione sovietica. Dopo essersi assicurata l’appoggio della Nato, della Russia e della Cina, la diplomazia americana cercò anche quello degli Stati musulmani filoccidentali (Arabia Saudita, Pakistan, ...) Gli Stati arabi, eccetto l’Iraq, manifestarono comprensione alla superpotenza, persino l’Iran si mostrò neutrale. Il 7 ottobre 2001 ebbero inizio le operazioni militari contro l’Afghanistan, che si limitarono a bombardamenti aerei, mentre l’offensiva di terra fu affidata ai combattenti (i mujaheddin) delle fazioni afghane contrarie all’integralismo. Kabul fu occupata il 13 novembre e Kandahar il 7 dicembre, mentre il mullah Omar e bin Laden riuscivano a far perdere le loro tracce. Gli esponenti delle fazioni vittoriose si accordarono per la formazione di un nuovo governo, presieduto da Hamid Karzai. Negli anni successivi, i fondamentalisti ripresero il controllo di vaste zone del paese, dando vita a un’ostinata guerriglia e scatenando una campagna terroristica che fece molte vittime tra la popolazione civile. Dopo il rovesciamento del regime dei talebani, gli USA rivolsero l’attenzione verso l’Iraq di Saddam Hussein, accusato di fiancheggiare il terrorismo internazionale e di nascondere armi di distruzione di massa. USA e GB cominciarono a preparare l’operazione militare, ma la comunità internazionale si divise: Francia, Russia, Cina e Stati arabi si mostrarono contrari all’uso immediato della forza e propensi a una soluzione diplomatica, ma gli USA e la GB erano decisi. Nel marzo 2003 lanciarono un ultimatum a Saddam Hussein. Il 20 marzo i primi missili statunitensi colpirono Baghdad. Il 9 aprile i marines americani conquistarono la capitale e anche le città principali del Nord del paese. Saddam Hussein fuggì e il regime si sfaldò all’istante. 29.3 La mancata stabilizzazione Nelle intenzioni della presidenza Usa e degli altri governi che inviarono contingenti in Iraq, l’abbattimento della dittatura della dittatura doveva costituire la premessa per la rapida creazione di un regime democratico. In realtà il processo di stabilizzazione trovò ostacoli insormontabili, nonostante l’impiccagione di Saddam Hussein nel 2006. I sostenitori del dittatore deposto e i gruppi integralisti arabi ispirati da Al Qaeda diedero inizio a un lungo stillicidio di sanguinosi attentati contro le truppe di occupazione e contro gli iracheni che collaboravano alla stabilizzazione (episodio di Nassiriya, 2003). Nel 2005 sembrò che la democrazia in Iraq potesse consolidarsi: in gennaio si tennero le elezioni per l’Assemblea costituente, che videro l’affermazione della componente sciita. In agosto fu varata la Costituzione federale successivamente approvata con referendum popolare. Tuttavia, agli attentati di matrice fondamentalista si aggiungeva la protesta dei gruppi sunniti. Il radicalismo islamista intanto cominciò a colpire anche in Europa: - 11 marzo 2004: attentato nella più grande stazione ferroviaria di Madrid 96 - 7 luglio 2005: attacco alla rete dei trasporti urbani di Londra Negli USA, la maggioranza dei cittadini continuava a sostenere la guerra: alle elezioni presidenziali del 2004 Bush fu rieletto. Il prolungarsi del conflitto, tuttavia, suscitava critiche crescenti (le armi di distruzione di massa non erano state trovate, i legami tra Hussein e Al Qaeda non erano stati dimostrati). Il terrorismo fondamentalista sunnita trovò in Iraq un nuovo terreno d’azione, mentre in Iran, il fondamentalismo sciita si espanse, con l’elezione alla presidenza di Mahmoud Ahmadinejad, che aveva rilanciato il khomeinismo nella sua versione più intransigente, rivolgendo minacce a Israele e mostrando la sua intenzione di sviluppare un programma nucleare. 29.4 Gli sviluppi della questione palestinese In Palestina, le tensioni aumentarono dopo il fallimento dei colloqui di Camp David del 2000 promossi da Clinton e l’inizio della “seconda intifada”. Il nuovo governo israeliano, guidato dal 2001 dal leader della destra Ariel Sharon, alzò il livello della risposta militare e della repressione nei territori occupati. Nel 2002 decisi quindi di costruire un alto muro di cemento per separare Israele dai territori palestinesi. Dopo la morte di Arafat nel 2004, divenne presidente dell’Anp il più moderato Abu Mazen, leader di al-Fatah, il principale partito dell’Olp. Nel 2005, con una mossa a sorpresa, il governo Sharon decise unilateralmente il ritiro dell’esercito e lo smantellamento delle colonie ebraiche nella striscia di Gaza. Il ritiro da Gaza non ebbe però gli effetti sperati, soprattutto a causa della vittoria alle elezioni palestinesi del 2006 di Hamas, che rifiutava di riconoscere Israele. Nello stesso anno uscì di scena Sharon e nel 2009 tornò alla guida del governo israeliano il leader del Likud, Benjamin Netanyahu, fautore di una linea negoziale dura nei confronti dell’Olp. Nel frattempo, il Libano, sottoposto dalla fine degli anni ’80 a una sorta di protettorato da parte della Siria, tornò in primo piano. Nel 2005, pur avendo ritirato le sue truppe, la Siria continuò a far sentire la sua influenza soprattutto attraverso il movimento integralista sciita Hezbollah (“Partito di Dio”), appoggiato dall’Iran. Israele reagì con un attacco ai continui lanci di missili sul suo territorio a opera di Hezbollah. La tregua fu stabilita grazie all’arrivo di un contingente dell’Onu. Nel 2008 il centro delle tensioni si spostò sulla striscia di Gaza, dove gli integralisti di Hamas avevano ripreso il lancio di razzi sui centri abitati del Sud di Israele. Solo nel 2009, dopo tre settimane di combattimenti, si arrivò a una tregua, grazie alla mediazione dell’Egitto. Nel novembre 2012 la Palestina fu ammessa dall’Assemblea dell’Onu come Stato osservatore non membro, venendo così riconosciuta di fatto come Stato. Nel 2013 l’Anp cambiò quindi il suo nome in Stato di Palestina, con capitale Gerusalemme Est. Le tensioni non si placarono, in un clima che non poteva non risentire della generale radicalizzazione di una parte del mondo islamico. 30. Scenari del XXI secolo 30.1 Crisi finanziaria, crisi economica A partire dal 2007, l’economia globale dovette confrontarsi con una grave recessione: la crisi investì in primo luogo le economie industrializzate dell’Occidente e fu innescata da uno squilibrio nel mercato finanziario. La causa scatenante fu l’esplosione della “bolla” dei mutui immobiliari negli USA. Si trattava di prestiti ad alto tasso di interesse per l’acquisto di abitazioni, concessi negli anni passati anche a soggetti a basso reddito, e garantiti unicamente dallo stesso valore delle case. Le banche avevano emesso nuovi e complessi titoli finanziari, i “derivati”, il cui valore era collegato agli interessi sui mutui. In quel modo, il debito contratto da soggetti di dubbia affidabilità poteva essere venduto a società finanziarie e a piccoli risparmiatori, convinti di ottenerne un guadagno. In realtà, i derivati erano titoli dal carattere altamente speculativo. Il meccanismo si bloccò nel 2007, quando i prezzi degli immobili cominciarono a scendere e i tassi di interesse sui mutui salirono. Il valore delle proprietà diminuì mentre aumentavano le somme da restituire alle banche: molti di coloro che avevano acquistato una casa non furono quindi più in grado di pagare le somme dovute, e la mancata restituzione dei prestiti mise in crisi le banche. Clamoroso fu, nel 2008, il fallimento del colosso Lehman Brothers. La crisi si diffuse rapidamente al di fuori dei confini degli USA, data l’ampia circolazione che avevano avuti i prodotti derivati. Il crollo del valore di quei titoli fece nascere timori sulla solidità del sistema bancario e spinse molti risparmiatori a ritirare in fretta il proprio 97
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