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Il Cinema Italiano degli Anni Cinquanta: Commedia e Neorealismo, Dispense di Comunicazione Politica

Il cinema italiano degli anni cinquanta, con una particolare attenzione alla commedia e al neorealismo. Sulla coesistenza di questi due generi e della loro importanza nella rappresentazione di nuove classi sociali emergenti. Il testo inoltre analizza la relazione tra cinema e immaginario fotografico, il ruolo del cinema d'autore e la nascita di nuovi generi come western all'italiana e l'horror. Il documento conclude con una riflessione sulle identità del cinema italiano e sulla crisi del cinema italiano a fine anni settanta.

Tipologia: Dispense

2018/2019

Caricato il 19/01/2019

Manu1511
Manu1511 🇮🇹

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Scarica Il Cinema Italiano degli Anni Cinquanta: Commedia e Neorealismo e più Dispense in PDF di Comunicazione Politica solo su Docsity! 1 CINEMA: STORIA DELLA COMUNICAZIONE E DELLO SPETTACOLO IN ITALIA (I MEDIA ALLA SFIDA DELLA DEMOCRAZIA) VOL. 2 1. La sfida del reale. Dal neorealismo alla stagione dell’impegno. L’avvento del neorealismo cinematografico, che coincide con l’uscita in sala di Roma città aperta del 1945 di Roberto Rossellini, rappresenta il passaggio a una stagione politica e sociale che risponde al fascismo con un progetto di ricostruzione democratica del Paese e delle coscienze. Si tratta di una breve stagione, dal 1945 al 1948, ricca di ideali, sospinta dal bisogno che gli italiani si riconoscano come facenti parte della stessa famiglia di sopravvissuti alla distruzione della guerra, cullata dal desiderio di travalicare distinzioni politiche e ideologiche in vista di un progetto comune. Il cinema neorealista (di cui le opere più famose sono Paisà di Rossellini (1946), Sciuscià (1946) e Ladri di biciclette (1948) di De sica), propone vicende legate alla contemporaneità rappresentate con uno stile innovativo: le riprese, spesso in esterni o in set ricostruiti, presentano fluidi movimenti di macchina; gli attori non professionisti si affiancano a divi come Anna Magnani o Aldo Fabrizi; i dialoghi sono quasi sempre doppiati e le musiche di stampo melodrammatico sottolineano gli sviluppi emotivi delle scene. Nel 1948 la fase del neorealismo è conclusa, ma esso diventa un “generatore d’immagini”, motore di raffigurazione che, mentre hanno contraddistinto una breve stagione, si sono anche disseminate nel tempo storico e nello spazio globale, invadendo il campo dei generi dello spettacolo e dei media e sospingendo il cinema italiano dei decenni successivi. Una terra di mezzo: gli anni Cinquanta del cinema italiano. Gli anni Cinquanta sono un periodo spartiacque tra due fasi gloriose del cinema nazionale: quella neorealista e quella del cinema d’autore di fama internazionale. Possiamo distinguere i film del periodo in tre gruppi: gli ultimi esempi di neorealismo, un cinema cosiddetto “medio” (ossia erede del neorealismo, ma piegato sui toni della commedia) e un cinema propriamente popolare, di genere, che rivisita i luoghi forti e gli archetipi della cultura nazionale. 2 Neorealismo: fine di una stagione. Gli anni Cinquanta si aprono all’insegna di un duplice sentimento nel mondo del cinema: delusione della critica rispetto al mancato rinnovamento della produzione nazionale, visto il graduale esaurirsi della stagione precedente; entusiasmo del pubblico per il ritorno sugli schermi dei film hollywoodiani e di prodotti nazionali in grado di competere con questi quanto a creazione di mondi immaginari. Cinecittà riprende le attività nel 1948 così come altri stabilimenti quali la Fert Film di Torino, la Tirrenia Studios Film a Livorno e la Scalera Film a Venezia. Dai “colori” del neorealismo al realismo. Il passaggio dal neorealismo a un cinema popolare è segnato da Riso amaro di Giuseppe De Santis (1949), film in perfetto equilibrio tra i codici hollywoodiani nella narrazione e le istanze civili di matrice neorealista. • Rossellini individua la continuazione del progetto neorealista nell’approfondimento dei temi morali e spirituali. Alla fine del decennio egli torna con Il generale Della Rovere (1959) ai temi resistenziali e partigiani, ma con uno stile più classico. • Visconti gira Bellissima (1951), che è insieme una critica al neorealismo e uno sguardo non proprio benevolo sulla macchina cinematografica, lasciando trapelare la passione per il melodramma, la letteratura e la musica classica. • De Sica invece era già approdato a un neorealismo-fantastico con Miracolo a Milano (1951). • Antonioni, mentre nega tematicamente e figurativamente la precettistica neorealista, ne radicalizza alcune tensioni stilistiche e, come Rossellini, pone attenzione soprattutto all’indagine psicologica dei personaggi. • Fellini, infine, oscilla tra la lezione realista e quella fantastico-onirica, più personale e visibile ne La strada (1954) e Le notti di Cabiria (1957). L’apporto del cinema neorealista si riscontra anche in film manifestamente popolari come Totò cerca casa (Monicelli, 1949), in cui l’attore napoletano, già ampiamente noto e apprezzato dal pubblico, si presta a un’operazione di spostamento della maschera nei territori del realismo. È soprattutto la commedia, tuttavia, a rappresentare il terreno in cui il neorealismo, avvisaglie della modernità e cinema popolare riescono a convivere proficuamente, coinvolgendo ambienti e caratteri tipici 5 All’insegna dei padri: la nouvelle vague italiana. Gli anni Sessanta si contraddistinguono per il lavoro di registi che manifestano spiccate intenzioni autoriali. Accanto ai maestri della vecchia scuola (De Sica, Visconti, Rossellini), acquistano peso internazionale Fellini e Antonioni. Il primo prosegue sulla strada di un cinema fortemente simbolico e autoriflessivo (Amacord, 1973), ma anche critico rispetto alla storia e alla società (La dolce vita, 1960); il secondo, invece, inizia il decennio con una tetralogia che interpreta il malessere esistenziale (L’avventura, 1960; La notte, 1961) e prosegue poi la sua carriera all’estero, accentuando l’astrazione dei suoi film precedenti e portando a termine opere che riflettono sullo statuto dell’immagine (Blow-up, 1966). Il decennio rappresenta l’esordio per molti giovani che spingono il “nuovo” in direzioni diverse: • Pier Paolo Pasolini: egli recupera la lezione realista e la incrocia con l’arte pittorica (Mamma Roma, 1962; Il vangelo secondo Matteo, 1964), arrivando al saggio politico-sociale (Uccellacci e uccellini, 1966), al mito e alla tragedia antica (Edipo re, 1967), al racconto medievale (Il Decameron, 1971; I racconti di Canterbury, 1972). • Olmi: egli si orienta verso l’indagine minuziosa della quotidianità. • Bertolucci: omaggia il cinema francese e americano, confezionando opere stilisticamente e narrativamente sempre più innovative. Anche sul versante del cinema di genere si distinguono registi in grado di apporre un discorso assolutamente personale: • Sergio Leone riguardo al genere western (Per un pugno di dollari, 1964). • Mario Bava riguardo all’horror (La maschera del demonio, 1960). La diversificazione dei gusti: il cinema dei generi. Il periodo che si apre con gli anni Sessanta è contrassegnato da un pubblico di massa, trasversale alle classi e indifferente alla collocazione geografica o all’età, che non va al cinema semplicemente per trascorrere il tempo libero, ma rispondendo a un desiderio profondo. Soprattutto quest’ultimo aspetto comporta una differenza fondamentale con il passato: il pubblico non è più semplicemente affamato di cinema, ma opera scelte consapevoli. L’esplosione di genere corrisponde anche all’esplicita richiesta del mercato americano di grandi quantità di film economici, immediatamente fruibili e spettacolari. La realizzazione serializzata di questi prodotti, che sfruttano tecnologie a basso costo e set condivisi, risponde a questa richiesta. 6 Vi sono generi che non appartengono al patrimonio del cinema italiano o che evolvono verso nuove strade: • Western all’italiana e l’horror: questi film fondono modelli stranieri con elementi del cinema italiano. • Musicarelli: film con cantanti protagonisti destinati al pubblico giovanile. Un connotato comune a tutti è l’escalation di violenza ed erotismo: per quanto concerne la violenza, essa è sia verbale sia narrativa sia figurativa e questo non riguarda solo il genere horror (come Dario Argento nei Settanta), ma anche il western e quella sorta si sua variante cittadina che è il poliziesco; per quanto concerne, invece, l’erotismo, anch’esso si traduce in una maggiore libertà di costumi trasversale ai generi, e diventa tema centrale in un gruppo di film che prendono spunto da opere d’autore come Il portiere di notte di Cavani. Un ultimo e decisivo aspetto è la capacità che i generi possiedono di «rendere conto dei fermenti in atto nella realtà sociale circostante», cioè di esprimere le tensioni e i desideri di una società. L’horror, per esempio, descrivendo personaggi femminili crudeli e perversi, traduce la resistenza conservatrice di buona parte dell’opinione pubblica italiana rispetto ai cambiamenti nel mondo femminile. Il cinema politico e sociale degli anni Settanta: un secondo realismo? Gli anni Sessanta finiscono il 12 dicembre 1969, con l’attentato di piazza Fontana a Milano che inaugura la “strategia della tensione”, uno dei periodi più oscuri e tragici della nostra Repubblica, e che perdura fino alla strage di Bologna dell’agosto 1980. In un clima di rivendicazioni sociali e ideologiche, prende corpo una produzione cinematografica che tenta di riflettere e di rispondere ai fatti della storia. Da una parte si colloca un’intensa produzione a opera dei gruppi della sinistra extraparlamentare, intenzionati a costruire una vera e propria attività di controinformazione rispetto alle ricostruzioni dei fatti fornite dai media. Dall’altra, il decennio si caratterizza per film che, più o meno velatamente, affrontano alcuni snodi storici del recente passato e della contemporaneità, manifestando un chiaro impegno civile e politico. Titoli significativi di questo periodo sono Le mani sulla città (1963) e Il caso Mattei (1972) di Rosi, e La classe operaia va in paradiso di Petri. La critica, però, accusa questi film di spettacolarizzare la realtà, rifuggendo da un’analisi adeguata soprattutto della lotta di classe. Il periodo si chiude con la scomparsa di tre registi (Pasolini, Visconti e Rossellini), attivissimi fino agli ultimi giorni e con loro un’intera stagione sembra ormai definitivamente alle spalle. 7 2. Cinema, media e tecnologie del sonoro. Il vero core business dell’industria cinematografica nostrana è dato dai prodotti musicali: nel dopoguerra si è profilato un percorso di ri-mediazione che aveva già portato il cinema, nel ventennio fascista, a mettersi al servizio dell’apparato industriale legato alla riproduzione elettrica del suono. Nell’Italia della ricostruzione le tecnologie della riproduzione sonora si configurano su quella stessa base strutturale, seppure nella forma di un appello di partecipazione allo Stato etico: il neorealismo con le sue formule retoriche di commento verbale e musicale, così come il melodramma popolare e la commedia dei sentimenti genuini che ne prendono gradualmente il posto nell’Italia democristiana, ricalcano e ripropongono nello spazio pubblico delle piazze e delle sale modelli di organizzazione dell’ascolto caratteristici della radiofonia. Riso amaro costituisce un esempio in cui l’evidente ricerca di un equilibrio tra i valori spettacolari dell’immagine cinematografica e l’adesione neorealista al popolare, non solo ha un suo efficace equivalente musicale, perché i canti delle mondine vendono opposti senza mezzi termini al boogie-woogie, ma contemporaneamente sono incorniciati in un commento istituzionale che garantisce il pieno controllo dell’istituzione sul discorso filmico. La canzone, infine, racchiude il climax emotivo di molti nascenti generi di profondità, passando per tutti gli anni Cinquanta e superando i confini del cinema. Il cinema di questi anni punta su nuovi formati come Cinescope o Cinerama, anche se fallisce temporaneamente la scommessa della stereofonia: in Italia vince ancora il modello istituzionale legato al doppiaggio e alla sincronizzazione in post-produzione. Il cinema italiano incorpora ora nel suo universo musicale anche la chitarra elettrica e l’amplificazione stereofonica del suono nei concerti dal vivo, che stanno rivoluzionando l’industria e il consumo musicale. 3. Immagini cinematografiche e immaginari: fotografia, arte, design. I film neorealisti guardano in faccia la realtà, mettendo in circolazione documenti della distruzione del Paese, anche se all’interno di storie di forte valenza simbolica. Il risultato è un’epica del quotidiano, una mitologia del reale. Il cinema neorealista scaturisce anche dalla rivoluzione nella sfera del visibile a partire dalla seconda metà degli anni Trenta, momento in cui il documento visivo trova piena legittimazione estetica, soprattutto nella sua veste fotografica. 10 produzione bassa, mentre trascurano o liquidano frettolosamente la produzione media. Sui quotidiani e sui rotocalchi il critico di presenta come eco e guida dell’opinione pubblica. Da una parte si propone come portatore di un buon senso che il lettore può facilmente condividere, dall’altra si impone come arbitro del gusto cui il lettore è invitato esplicitamente a inchinarsi. Il atto che spesso i critici siano noti scrittori li pone come figure autorevoli, anche se non specializzate. Se gli anni della contestazione segnano un’effimera e virulenta ripresa dell’ideologismo, alla metà degli anni Settanta avvengono nuove divisioni: alla critica del senso comune non si oppone più quella ideologizzata, quanto un discorso sul cinema che si serve di strumenti analitici aggiornati, ambendo alla scientificità. 11 CINEMA: STORIA DELLA COMUNICAZIONE E DELLO SPETTACOLO IN ITALIA (I MEDIA ALLA SFIDA DELLA CONVERGENZA) VOL 3 1. Il cinema italiano, un medium mutante. I due periodi in cui è scandita la storia del cinema italiano alla fine degli anni ’70 può essere rappresentata da due eventi: 1. Nel 1983 un incendio distruggeva il cinema di Statuto di Torino procurando 64 vittime. L’esercizio, ristrutturato da pochi mesi, era perfettamente in regola con le norme di sicurezza: erano tali norme purtroppo a non essere efficaci, permettendo l’utilizzo di materiali il cui fumo trasformò la sala in una camera a gas. Questo evento è l’emblema del periodo italiano che arriva all’incirca alla fine degli anni Novanta: un’era buia del nostro cinema, ridotto a cadavere dalla spietata concorrenza della televisione. 2. Nel 1999, a Los Angeles, il film La vita è bella di Roberto Benigni (uscito in Italia due anni prima) si aggiudicava tre premi Oscar su sette nomination: il film sarebbe divenuto il secondo film straniero più visto negli Stati Uniti. Questo evento è invece l’emblema del periodo che va dagli anni Novanta a oggi, caratterizzato da riprese economiche e identitarie. Un cinema che brucia bene: gli anni degli “schermi opachi” (1978-1999). L’episodio di Torino sembra incarnare la separazione del cinema italiano che costituisce il refrain del periodo. Ma il cinema italiano sparisce davvero negli anni Ottanta e Novanta? Certamente si assiste a un progressivo crollo nelle vendite dei biglietti, dovuto soprattutto all’avvento del piccolo schermo nelle case. Per analizzare questo fatto consideriamo diversi piani: • Piano della produzione. In questo periodo emerge la debolezza del sistema produttivo, privo tanto di mezzi economici quanto di strategie a lungo termine. I produttori italiani cercano di sfruttare fino all’osso i filoni che appaiono redditizi alimentando la produzione popolare: negli anni Ottanta si tratterà dei “Pierini” o delle commedie con Adriano Celentano; più tardi saranno i film dei comici emergenti dagli show televisivi o i cinepanettoni dei fratelli Vanzina. Si tratta di una non-stratega che concentra gli incassi su pochi film di successo. In questo quadro, una boccata di ossigeno viene proprio dalle aziende televisive: la Rai avvia una politica di produzione di cinema d’autore, tentando anche la strada della 12 sperimentazione con opere girate in elettronico; Fininvest insiste invece soprattutto sulla commedia. Il finanziamento pubblico, se in molti casi è utile per lanciare esordienti di valore o film d’autore, in altri casi finisce per consentire la realizzazione di film di giovani autori invisibili e in buona parte improponibili per la scarsa qualità della scrittura, della ripresa e della recitazione. Da segnalare infine la nascita di alcune nuove esperienze di produzione autonome e piccole. Si tratta di iniziative che smuovono le acque sotto due aspetti: promuovono le figure i giovani autori e professionisti e soprattutto liberano il cinema italiano dal romano-centrismo, aprendolo a nuovi linguaggi e nuove culture territoriali. • Piano dei prodotti. Il panorama è dominato dalla compresenza di generazioni e stili cinematografici differenti, che stentano a comunicare tra loro. Le generazioni di autori operanti sono quattro: 1. Generazione emersa nel dopoguerra e subito successivamente: Fellini e Antonioni continuano a produrre film, così come Dino Risi, Monicelli e Comencini. La generazione affiorata negli anni ’70 raggiunge la sua maturità e ottiene notevoli successi: Bertolucci si afferma come grande regista mondiale con L’ultimo imperatore (1987) e Piccolo Buddha (1999); Bellocchio dirige 9 film di successo, da Salto nel vuoto (1980) a La balia (1999). 2. Generazione degli anni Ottanta: tra i nomi di questa generazione spiccano quelli di Nanni Moretti e Gianni Amelio. Moretti esordisce nel 1978 con Ecce bombo e svolge in questo periodo una parabola di maturazione che lo porta alle nuove forme di Caro Diario (1993) e Aprile (1998): il primo vince il Premio per la migliore regia al Festival di Cannes del 1994. 3. Generazione dei comici pensosi: nata anch’essa negli anni Ottanta, questa generazione di comici viene etichettata dalla critica dell’epoca come “malinconici”. Tra i nomi di questa generazione spiccano Carlo Verdone con Un sacco bello (1980), Massimo Troisi con Ricomincio da tre (1981), Maurizio Nichetti con Ho fatto splash (1979) e la figura anomala di Roberto Benigni. Ad essi si aggiungono nell’ultima fase di questo periodo nuovi volti che preannunciano le imminenti trasformazioni: Leonardo Pieraccioni con Il ciclone (1996) e il trio Aldo Giovanni e Giacomo con Tre uomini e una gamba (1997). 4. Generazione degli anni Novanta: in questo periodo di assiste all’emergere di un giovane cinema sempre meno romano-centrico e sempre più alla ricerca di una legittimazione e di un mercato propri, di un cinema orientato verso un prodotto medio. Tra i numerosi nomi ne spiccano per visibilità anche internazionale almeno tre: Gabriele Salvatores che vince con Mediterraneo (1991) un Oscar come miglior film straniero; Giuseppe Tornatore che ebbe la stessa sorte con Nuovo Cinema 15 Ipotesi identitarie del cinema italiano. Esiste un’identità del cinema italiano degli ultimi quarant’anni circa? Una prima declinazione della domanda riguarda la capacità del cinema italiano di tradurre sugli schermi una identità del nostro Paese. Per un verso il nostro cinema ha disegnato anche negli ultimi anni una geografia riconoscibile del nostro Paese nelle sue varietà territoriali e socio-antropologiche. D’altro canto occorre anche osservare che, a partire dalla fine degli anni Settanta, il cinema italiano sembra rinunciare a un ruolo propositivo, limitandosi nel migliore dei casi a registrare dall’esterno l’impossibile riconciliazione delle differenti e numerose identità del Paese e nel peggiore dei casi a mascherare il problema attraverso le facili non-soluzioni della commedia. La seconda declinazione della domanda circa la sussistenza di un’identità tocca invece direttamente il cinema italiano: la molteplicità e la discontinuità dei fenomeni presentati viene bilanciata e risarcita da una sostanziale coerenza del discorso sociale che è stato e che viene svolto nei confronti del nostro cinema; una coerenza fondata sulla presenza ricorrente di un topic unitario: la condizione di separatezza del cinema italiano. Una simile coscienza di separatezza resta sostanzialmente unitaria, benché declinata in sensi differenti: • Separatezza storica: il successo del racconto di un epico passato nazionale e del grande affresco storico va ben al di là di una passione per il vintage, e la nostalgia come cifra del film contemporaneo è l’altra faccia di quella difficoltà che il cinema italiano avrebbe a raccontare il presente, cioè a proporsi come dispositivo di rispecchiamento culturale. • Separatezza della storia del cinema: Brunetta e Marcus individuano nella morte di Fellini una cesura simbolica, l’addio definitivo al cinema dei padri e dei maestri. Alla stagione più gloriosa del film d’autore italiano, della quale si sottolinea un’irreplicabilità quasi mitologica. • Separatezza ideologica: si tratta di una nostalgia per l’impegno che si sovrappone spesso a una nostalgia puramente storica, ma abbraccia in realtà un più ampio arco di tempo che comprende l’epoca post-terroristica e quella berlusconiana. • Separatezza geografica: il cinema italiano non è più quello del passato ma al contempo non è (ancora) quello di altrove. Sia in termini produttivi sia in termini stilistici, Garrone e Sorrentino sono salutati dopo Cannes 2008 come coloro che avrebbero svecchiato e sprovincializzato il cinema nazionale, rendendolo finalmente presentabile all’estero. 16 • Separatezza mediologica: è un cinema che sarebbe stato reso marginale e vampirizzato dalla televisione e che da un modello televisivo oggi discenderebbe, economicamente, ma anche linguisticamente, per lo stile, gli attori, i registi e i produttori e che anche per questo sarebbe condannato all’apoliticità. • Separatezza dell’ambito estetico: l’ambito estetico è ridotto in sostanza al confronto con il neorealismo, che produce risultati definiti talvolta neo-realisti e un ritorno al referente o, al contrario, il passaggio a un paradigma post-realista. Il tema della separatezza come principio di spiegazione del cinema italiano recente si lega strettamente alla sottolineatura di una persistente condizione di crisi del nostro cinema. Non a caso, è proprio il termine crisi a ricorrere di gran lunga più frequentemente negli interventi critici sul cinema di questo periodo, in quelli italiani quanto in quelli stranieri: di crisi si parla ciclicamente nel cinema italiano, e da ben prima degli anni Ottanta. A noi interessa la funzione retorica della crisi: paradossalmente è proprio su di essa che sembra fondarsi un’identità del cinema italiano contemporaneo. La coscienza di una condizione periferica o postuma; la nostalgia di un passato che forse non è mai esistito; i miti ricorrenti del ricambio, della rifioritura, della rigenerazione sono le forme nelle quali il cinema italiano non cessa di riconoscersi e di desiderarsi. 2. Tutto cambia. Nulla cambia. Il cinema come impresa e come mercato. Fra il 1978 e il 2012 il cinema è investito in Italia da una serie di mutamenti eclatanti. Cambiano i supporti tecnologici al servizio della produzione, mutano le tendenze e le estetiche, cambia e in modo profondo il consumo di cinema. Nonostante la portata di questi rivolgimenti, se si adotta come punto di osservazione l’andamento del mercato e lo stato dell’impresa cinematografica, gli anni che ci si stendono davanti appaiono quasi immoti. Nel 1978 il cinema si presenta come un’impresa in dimissione. Lo è dal punto di vista produttivo in quanto il numero dei film italiani decresce, si assiste a una progressiva omologazione dei generi cinematografici e alla crescita ipertrofica delle commedie, dalle trame esigue e incentrate su un solo personaggio. Cresce la relazione fra produzione cinematografica e produzione televisiva, sancita nel 1986 dall’ingresso sul mercato di Reteitalia, ramo della Fininvest finalizzato alla produzione di film. La situazione non appare migliore se ci si rivolge all’esercizio e al consumo: gli anni Ottanta sono un decennio orribile per le sale cinematografiche. L’irrigidimento della normativa in materia di sicurezza, a seguito dell’incendio del cinema Statuto del 1983, dà il colpo di grazia a un sistema già estenuato dall’emorragia di pubblico. 17 In questo contesto il prodotto filmico non sparisce dallo scenario culturale, ma si immette in canali alternativi di sfruttamento: non più la sala, ma i palinsesti televisivi, prima, e poi le videocassette, il cui mercato cresce enormemente a partire dalla fine degli anni Ottanta. Se, come si diceva in partenza, il sismografo della produzione e del consumo cinematografico, almeno in termini numerici, non registra grandi scosse, alcuni sussulti cominciano ad essere rilevati alla metà degli anni Novanta: il dato di novità con cui il cinema si accomiata dal secolo breve è la diffusione anche in Italia dei multisala e, successivamente, dei multiplex. La crescita del numero di schermi porta con sé anche una crescita positiva dei biglietti venduti: sebbene il 2001 si caratterizzi per un aumento della quota di mercato dei film italiani, legata ad alcune pellicole di enorme successo, film come L’ultimo bacio, Le fate ignoranti, La stanza del figlio e Il mestiere delle armi sono l’esempio di una produzione in grado di contemperare successo e stilistiche di genere alternative. La crescita dei consumi si accompagna, infine, all’estensione del comparto della homevideo, che va incontro in questi anni a un cambiamento rilevante con la dimissione del VHS e la diffusione, rapidissima, del dvd e delle tecnologie ad esso correlate. Superato il primo lustro del nuovo millennio, il mercato e l’impresa cinematografici entrano in una fase di stagnazione: lo scarto è visibile in modo lieve nel passaggio dal 2003 al 2005 e può essere interpretato come una paradossale conseguenza della legge Urbani, la cui preannunciata entrata in vigore porta dapprima a un incremento dell’apertura di nuovi complessi multischermo e subito dopo a una frenata, con la conseguente contrazione del volume dei biglietti venduti. La crescita dei multiplex aveva comunque già esaurito la sua spinta propulsiva sul pubblico e negli anni successivi le presenze in sala e il numero degli esercizi restano sostanzialmente stabili; o meglio non si riesce a tracciare una linea di tendenza riconoscibile: in parte per l’impossibilità di stabilire una correlazione diretta fra investimento, anche pubblico, consumi e impatto culturale; in parte per la forte instabilità dello scenario, che vede nell’arco di pochi anni le sale impegnate a digitalizzare le proprie tecnologie, la diffusione ampia della banda larga, il profilarsi di nuove modalità di consumo dei contenuti cinematografici, attraverso player che distribuiscono cinema in rete. Uno scenario che non si è ancora stabilizzato e che proprio per questo offre margini di manovra e spazi per azioni capaci di promuovere il cinema in modo nuovo, sapendo cogliere le opportunità che le forme emergenti dell’industria creativa offrono, in una prospettiva non più di scontro, ma di coesistenza e forse persino di collaborazione fra i media. 3. Geografia del cinema italiano. 20 Dalla seconda metà degli anni Quaranta, la commedia è stata l’architettura portante del nostro cinema: grande container, capace di trasportare ogni tipo di materiale narrativo e di assemblare i codici più svariati, prima ha gestito la trasmigrazione dei comici dallo spettacolo dal vivo al set e al teatro di posa; poi, negli anni Cinquanta si è offerta come potente dispositivo modellizzante per un popolo alle prese con la costruzione di una faticosa identità collettiva; infine, negli anni Sessanta ha raccontato la mostruosità dell’italiano medio negli anni del boom e ha messo in scena il crescente e strisciante disagio della modernità. Anche se non sempre consapevole dei propri fini e dei propri statuti linguistici, la commedia ha agito nel tessuto complessivo della società italiana del dopoguerra non solo come macchina per la produzione di modelli di adattamento dell’individuo alla società, ma anche come grande ammortizzatore di conflitti e come dispositivo di assoluzione dei comportamenti che risultavano di volta in volta vincenti o emergenti in seno alle dinamiche sociali. La commedia degli anni Quaranta, ha prima istituzionalizzato la spensieratezza, poi ha indotto l’apparato produttivo del cinema italiano a far tabula rasa di tutti quei registri o quei generi che avrebbe potuto compromettere la tenuta della sua egemonia o produrre la messa in discussione dei suoi modi di rappresentazione della realtà. La commedia ha determinato nel corso del tempo la progressiva rimozione dalla scena del cinema italiano del tragico e del sublime, cioè dei due registri istituzionalmente delegati a esprimere proprio ciò che la commedia ritiene sia sommamente disturbante e incompatibile con i propri statuti finzionali: la rappresentazione del dolore, la messinscena dell’inquietudine e della paura. La domanda di fondo è: che tipo di riso ha legittimato? Le maschere che la commedia ha messo in scena hanno consentito agli italiani di sentirsi superiori, di pensare “non sono io”, di proiettare sugli altri il fantasma della propria latente mediocrità. In questo modo la commedia ci ha liberato della nostra parte oscura e ci ha fatto vivere meglio. Ma chi ha anche assolto dalla nostra congenita e irrimediabile mediocrità. Per questo il rapporto con la commedia non può che essere ossimorico, fatto al contempo di amore e odio, di riconoscimento e rifiuto, di identificazione e repulsione. 5. Inetti e antieroi: i personaggi del grande schermo. Uno dei parametri più efficaci per valutare la fortuna di un personaggio è la capacità di “resilienza digitale” come supporto simbolico di memoria e, il marchese del Grillo, ne costituisce un esempio perché è vivo e vegeto in rete o suoi social network. Il marchese Onofrio del Grillo è la leggendaria guardia nobile di papa Pio VII, goliarda sfaccendato e arrogante che bersaglia crudelmente i mendicanti con monete 21 arroventate e si burla del suo sosia ubriacone. Il personaggio ha certo riempito di sé la cultura romana della fine del Settecento fino al secondo dopoguerra, quando Visconti pensò di farci un film per Fabrizi; fu però Monicelli che infine riuscì a realizzare Il marchese del Grillo nel 1983, affidando il ruolo ad Alberto Sordi. È importante osservare che il marchese identifica le principali linee di tensione che attraversano i personaggi di successo degli anni Ottanta e Novanta: palesa la tensione tra regionalismo e nazionalismo e il bisogno di marcare i confini della propria piccola patria, rivendicando, attraverso la lingua, un antagonismo non radicale ma tuttavia ben presente. Sul piano delle dinamiche intermediali, va detto che i personaggi di Verdone e Troisi, come quelli di Nuti o Benigni, nascono nei teatrini off, arrivano in televisione e approdano al cinema solo alla fine. L’origine cabarettistica, che plasma i personaggi sui ritmi della formula breve dello sketch e su pulsazioni drammaturgiche, assicura a questi personaggi un’ottima resilienza digitale nell’epoca della convergenza, prestandosi perfettamente al riciclo su YouTube. Sono tutte storie che, in modo più o meno consapevole, tradiscono o traducono la percezione di una perdita definitiva di leadership del cinema nel sistema dei media, nel quadro più generale dei cambiamenti del paese. In questo senso il vitellone cinefilo Antonio Barozzi di Sono fotogenico (Dino Risi, 1980) è un personaggio anacronistico che sogna di diventare attore al cinema quando al cinema sono in pochi ad andare, è però assolutamente innovativo per il tipo di comicità (che per certi aspetti anticipa quella di Checco Zalone), che deriva nell’ignorare le richieste volendo accoglierle. Valga per tutte le scene in cui un fotografo lancia a Barozzi/Pozzetto delle sollecitazioni per provocare durante un servizio fotografico le sue reazioni espressive, e Antonio risponde alle più diverse domande con la stessa identica espressione anodina, provocando con la sua non-reazione quella violenta del fotografo. Barozzi/Pozzetto sono sostanzialmente degli inetti: categoria individuata da Reich nel suo studio su Marcello Mastroianni, ma applicabile a molti personaggi maschili del cinema italiano a partire dagli anni Cinquanta. Secondo Reich la figura dell’inetto è un riverbero dell’instabilità politico-sociale del dopoguerra italiano, segnato da una trasformazione dei ruoli di genere. Alan O’Leary ritrova tale figura anche nei cinepanettoni: i personaggi interpretati da De Sica per esempio, apparentemente indossano dei panni da vincenti, ma a ben guardare esprimono un profondo sentimento di inadeguatezza. Il secolo nuovo propone figure inedite, non si possono non menzionare gli antieroi di Sorrentino, a partire dalla coppia di omonimi, il calciatore Antonio Pisapia e il cantante Tony Pisapia, protagonisti di L’uomo in più (2001): personaggi che con la loro 22 spietatezza si incaricano di mandare definitivamente in frantumi il folclore degli anni Ottanta in nome dell’emancipazione dal luogo comune e dalla libertà di essere. 6. Quel che resta della critica. Alla fine degli anni Settanta il cinema italiano entra in crisi produttiva e artistica: i generi o filoni tradizionali si esauriscono, ai registi storici si rimprovera di segnare il passo. Il divario tra critica e autori si allarga. Al tempo stesso, il consumo di cinema si amplia e si trasforma, creando nuove forme di discorso critico. Nella seconda metà degli anni Settanta il boom delle Tv libere che programmano film a tappeto porta da una parte a una crisi delle sale cinematografiche tradizionali, dall’altra induce a fenomeni di riscoperta, in cui si instaura un nuovo rapporto con i film e si intreccia, all’inizio degli anni Ottanta, con l’uso del videoregistratore come supporto cinefilo. In questo clima matura, dal 1988, l’esperienza di Fuori orario di Ghezzi, spazio di programmazione notturno su Raitre dove la critica non è fatta solo con i discorsi del curatore con l’audio fuori sincrono, ma anche con la giustapposizione e il montaggio di film eterogenei e cose mai viste. Tra la fine degli anni Settanta e l’inizio degli anni Ottanta si scrive molto di cinema. Nascono nuove riviste: l’annuario il Patalogo (che si occupa di cinema dal 1979 al 1987) o Cult Movie (1980-1984). Un caso a parte è Ciak, che inizia le pubblicazioni nel 1985: ispirato a modelli stranieri e dedicato alla promozione del cinema-spettacolo, si propone di raggiungere un pubblico generalista, come alle riviste di cinema non succedeva da molto tempo. In questo contesto la critica specialistica e cinefila si allontana da quella che tiene banco sui grandi quotidiani. Le firme prestigiose dei decenni passati raccolgono in volumi di successo le proprie recensioni, ma ai più giovani danno l’impressione di essersi istituzionalizzati. I trentenni che scrivono sulle riviste sono anche la prima generazione di critici con una laurea in storia del cinema: portano nuove competenze e voglia di definire polemicamente la propria identità. Uno straordinario laboratorio è il Patalogo, che si occupa anche di altri media come il teatro, la musica e la televisione con un approccio al tempo stesso ludico e rigoroso, e che catalizza personalità di spicco. L’esplorazione di nuovi territori cinefili ha tante declinazioni e si colloca in un orizzonte culturale più vasto e non solo italiano. 25 esternamente alle scienze umane rapportandosi in modo innovativo alle scienze sociali e naturali, come la psicologia cognitiva e le neuroscienze. Sul secondo fronte, proprio i concetti di esperienza e di ambiente mediale divengono i capisaldi di una riflessione che incrocia speculazione e metodologia empirica, nel progetto di recupero e attualizzazione di una fase storica della ricerca sull’audiovisivo che aveva trovato sviluppi importanti anche sulla scena italiana. Giocano un ruolo fondamentale in questo ambito alcune recenti ricerche che cercano di far dialogare prospettive apparentemente incompatibili come la fenomenologia continentale e il cognitivismo di matrice analitica con l’obiettivo di individuare nuovi modelli di analisi delle componenti culturali e naturali dell’esperienza audiovisiva. 26 PUBBLICITÀ: I MEDIA ALLA SFIDA DELLA DEMOCRAZIA (VOL. 2) 1. Dal nazionale all’internazionale: il sistema pubblicitario. La pubblicità in Italia ha più di un secolo e mezzo di vita. La sua nascita può essere infatti fatta risalire al 1863, quando il farmacista Attilio Manzoni creò la prima concessionaria. Il periodo che va dagli anni Cinquanta agli anni Settanta è particolarmente cruciale: si può ritenere infatti che, con il processo di ricostruzione e industrializzazione avviatosi dopo la fine della seconda guerra mondiale, la pubblicità italiana sia entrata in una fase di vera e propria maturità. In precedenza, la comunicazione pubblicitaria si era basata su uno strumento ancora elementare come il manifesto ma, l’avvento della televisione ha radicalmente cambiato la situazione della pubblicità italiana. La televisione ha visto primeggiare inizialmente il modello pubblicitario basato sulla sponsorizzazione dei programmi, ma già alla fine degli anni Cinquanta questo è stato sempre più sostituito con il modello basato sullo spot, il quale dev’essere necessariamente realizzato da un’efficiente struttura di tipo industriale. Dalla ricostruzione al boom dei consumi e della pubblicità. Grazie anche all’arrivo del modello basato sugli spot, ma soprattutto in conseguenza di una spettacolare espansione a livello di massa del consumo dei beni, la pubblicità, durante gli anni Cinquanta, stava attraversando negli Stati Uniti un periodo caratterizzato da un intenso sviluppo. Tutte le agenzie americane stavano incrementando la loro attività e le loro dimensioni, spesso anche aprendo delle succursali ed esportando il loro modello in molti Paesi stranieri, compresa l’Italia, che però si trovava nella faticosa fase della ricostruzione economica seguita alle distruzioni della guerra. Il mondo dei consumi di massa, però, cominciava a muovere i suoi primi passi, pur incontrando difficoltà di accettazione. La fotografia si faceva sempre più largo rispetto all’illustrazione, sebbene continuasse a essere ancora centrale la figura ottocentesca del cartellonista che disegnava manifesti. Diversi nuovi grafici stavano emergendo, sebbene le campagne più 27 significative fossero ancora frutto della mano di un artista o della sua collaborazione con un tecnico della pubblicità. Le agenzie pubblicitarie italiane attive erano in gran parte ciò che restava da prima della seconda guerra mondiale, affiancate da alcuni studi grafici trasformati in agenzie. Anche Armando Testa trasformò nel 1956 lo studio grafico che aveva aperto a Torino dieci anni prima in agenzia, destinata a diventare negli anni Novanta la principale operante in Italia e ancora oggi l’unica tra ole grandi a essere di proprietà interamente nazionale. La situazione comunque cominciava a cambiare. Erano nate le prime associazioni di categoria: • Nel 1946 l’Upi (Unione italiana della pubblicità), che successivamente sarebbe diventata Fip (Federazione italiana pubblicità). • Nel 1948 l’Upa (Utenti pubblicitari associati). Nel 1950 la Sipra, con il patrocinio di Fip e Upa, organizzò a Torino quello che venne denominato Primo congresso nazionale della pubblicità. Soprattutto, vennero aperte anche nella penisola le prime succursali delle agenzie multinazionale, di provenienza generalmente statunitense. Dunque, sul piano culturale, il mondo italiano della pubblicità fu in parte colonizzato da un modello professionale che negli Stati Uniti era già arrivato a livelli di elevata maturità. Nella pubblicità italiana del secondo dopoguerra cominciarono via via a convivere due mondi estremamente differenti: da un lato, le agenzie italiane che erano ancora delle botteghe di tipo artigianale; dall’altro, le agenzie americane dotate di una rigorosa cultura aziendale imperniata sul marketing e le ricerche di mercato e organizzato al proprio interno con ruoli professionali ben distinti. Il modello americano andò progressivamente ad affermarsi anche perché queste agenzie avevano importato dal loro Paese diverse campagne di comprovata efficacia. Tra queste, ad esempio, troviamo la campagna Lux «il sapone delle stelle», creata nel 1927 dalla Walter Thompson e imperniata sulla seducente bellezza delle più importanti attrici di Hollywood. I mezzi disponibili all’epoca per chi voleva fare pubblicità erano la tradizionale affissione, il cinema, la radio e la stampa. Quest’ultima, in particolare, era soggetta in quel periodo a un intenso processo di espansione, grazie a un deciso sviluppo dei quotidiani e a un vero e proprio boom dei rotocalchi. Tutto il settore pubblicitario italiano poté svilupparsi notevolmente in conseguenza all’espansione dell’economia durante gli anni Sessanta, il periodo che vite il manifestarsi del cosiddetto “boom consumistico”. 30 delle donne, impiegata per il lancio dello shampoo Libera e Bella o nello slogan pseudo-femminista «Né strega né madonna. Solo donna» della linea di abbigliamento Cori. I pubblicitari tentarono inoltre di recuperare nei loro messaggi i giovani, che da ribelli e contestatori erano stati progressivamente trasformati nei nuovi modelli di riferimento della società dei consumi. Pertanto, la pubblicità degli anni Settanta finì per rivolgersi a loro con suggestioni americane o chiare allusioni sessuali. D’altronde la cosiddetta rivoluzione sessuale di cui erano protagonisti i giovani degli anni Settanta doveva necessariamente avere dei riflessi anche all’interno dei messaggi pubblicitari. Ecco allora la presenza negli annunci di donne ammiccanti e aggressive, come nel caso della modella bionda della birra Peroni, la quale, a torso nudo e avvinghiata a un’enorme bottiglia di birra, proclamava «Chiamami Peroni, sarò la tua birra». Il clima sociale di libertà predominante negli anni Settanta consentì anche la realizzazione di annunci originali e innovativi, come il sedere in primo piano di una ragazza, coperto da ridottissimi shorts di jeans («Chi mi ama mi segua»). Questi annunci avevano suscitato all’epoca vivaci polemiche, ma oggi rappresentano la testimonianza di come gli anni Settanta siano stati un periodo di notevoli cambiamenti e di parziale avvicinamento della pubblicità italiana a ciò che stava accadendo negli altri Paesi industrializzati. Una testimonianza della crescente maturità raggiunta dalla pubblicità in Italia è offerta dalla creazione ne 1975, da parte di Barilla, della marca Mulino Bianco, che poté usufruire di una delle più importanti campagne pubblicitarie. La nascita di Pubblicità Progresso. Negli anni Settanta, l’Italia importò dagli Stati Uniti il modello della pubblicità sociale. L’Advertising Council venne preso a modello per la creazione di Pubblicità Progresso, un organismo avente come principale obiettivo la promozione e la realizzazione di campagne pubblicitarie finalizzate a stimolare le persone e le organizzazioni ad agire per il bene comune. Pubblicità Progresso fu voluta con l’intenzione di migliorare l’immagine del mondo industriale, ma anche della pubblicità. Va considerato infatti che alla fine degli anni Sessanta e nei primi anni Settanta erano particolarmente intense le critiche nei confronti del sistema delle imprese e della comunicazione pubblicitaria, che veniva accusata di manipolare le menti delle persone. Nel 1971, quando Pubblicità Progresso cominciò la sua attività, lo Stato italiano era del tutto assente dall’ambito delle iniziative di comunicazione su tematiche di tipo sociale e pertanto l’intenzione degli operatori del settore era anche quella di 31 stimolarlo a investire in tale ambito. Questo risultato fu in parte raggiunto: negli anni successivi lo Stato commissionò alcune campagne di tipo sociale. Pubblicità Progresso ebbe comunque il merito di avere reso più sensibili gli italiani rispetto a diversi problemi sociali. Si occupò, ad esempio, di Aids e incidenti sul lavoro. Alcune sue campagne, grazie probabilmente al carattere decisamente innovativo che possedevano rispetto al contesto pubblicitario dell’epoca, sono rimaste scolpite nella memoria collettiva, come quelle con gli slogan «Il verde è tuo: difendilo!» o «Chi fuma avvelena anche te. Digli di smettere». Negli anni Settanta, la pubblicità italiano cercò anche di autoregolarsi: le categorie professionali avevano deciso di istituire un Codice di lealtà, ufficializzato poi nel maggio 1966 con il nome di Codice di autodisciplina pubblicitaria. Le finalità di tale Codice, tuttora attivo, erano di tutelare tre tipi di interessi: 1. Dei consumatori 2. Dei singoli utenti 3. Della pubblicità. A questo Codice sono stati affiancati due organi giudicanti: 1. Comitato di controllo: formato da un gruppo di esperti che segnala al Giurì le pubblicità che sembrano violare il Codice. 2. Giurì: emette le sentenze definitive sui messaggi e viene solitamente presieduto da importanti magistrati. Si tratta di un insieme di regole di comportamento concordato e volontariamente sottoscritto da tutte le categorie professionali che compongono il mondo della pubblicità; ne consegue che è molto difficile che una campagna pubblicitaria possa sottrarsi al Codice di autodisciplina. Verso gli anni Ottanta. Con la fine degli anni Settanta e l’arrivo degli anni Ottanta, il mondo italiano della pubblicità mutò ancora e anche in questo caso la televisione fu uno dei principali fattori di cambiamento. L’1 gennaio 1977 la Rai fece cessare Carosello, diventato per le imprese uno strumento da un lato troppo costoso e dall’altro troppo limitato rispetto alle loro sempre più grandi necessità di spazi di comunicazione. Un mese dopo, la stessa Rai cominciò a trasmettere a colori, il che costituì un evento dalla portata dirompente sul piano culturale e sociale. L’arrivo del coloro in televisione portò con sé non soltanto la possibilità di rappresentare più vivacemente la realtà sociale, ma anche un insieme di significati che esprimevano abbondanza, benessere e piacere del consumo. Si può dunque 32 sostenere che la televisione a colori permise il costituirsi di un ambiente estremamente favorevole al successivo sviluppo delle televisioni commerciali. 2. Industria, animazione, pubblicità. Nell’immediato secondo dopoguerra la diffusione pubblicitaria è divisa in due circuiti principali: Public-Enic (locandine e manifesti) e Public-Enic Schermo per la pubblicità cinematografica, entrambi gestiti dai fratelli Leoni. Per loro lavora Mayer che, nel 1949, propone a Nino e Toni Pagot la realizzazione di un cortometraggio d’animazione pubblicitario per il Sartisoda della Biancosarti. Nasce così Sogno d’amore, il primo film pubblicitario d’animazione degli anni della rinascita industriale. Il successo è tale che viene loro commissionato immediatamente un altro spot, Il pennello magico per Sarti 3 Valletti e un contratto in esclusiva con la Public- Enic Schermo. I Pagot non sono i soli a scegliere questa strada: nel giro di pochi mesi altri animatori decidono di dedicarsi alla produzione di réclame cinematografica. Sulla spinta di una richiesta sempre crescente da parte delle aziende, aprono molti studi di animazione, soprattutto a Milano. Oltre ad essere redditizia, la pubblicità per il cinema è ancora parzialmente libera dal controllo delle agenzie pubblicitarie, le quali gestiscono prevalentemente gli spazi murali e sulle riviste. Ciò permette agli animatori di stabilire un contatto diretto con il committente e di essere liberi da vincoli di durata, dall’obbligo di mostrare solo ed esclusivamente il prodotto reclamizzato e dall’uso delle più standardizzate strategie pubblicitarie. Il progressivo aumento di produzioni pubblicitarie per il cinema sollecita la nascita di alcune importanti manifestazioni in cui vengono assegnati riconoscimenti alle produzioni nazionali e internazionali di qualità. Nel 1951 nasce la Mostra internazionale del cinema al servizio della pubblicità, che ha sede a Milano; nel 1954 è la volta del Festival internazionale del film pubblicitario di Cannes. Con la fine di Carosello nel 1977, il cinema d’animazione subirà un duro contraccolpo. Senza il sostegno dell’industria, molti studi saranno costretti, nel giro di pochi anni, a ridurre notevolmente il proprio organico e in alcuni casi a chiudere del tutto. 35 della fotografia. La modernità di questi nuovi spot è anche segnalata dall’uso della musica che rende alcuni spot molto simili a dei clip musicali. Gli spot della Panda, in particolare, incarnano la dicotomia che caratterizza il periodo, in bilico tra un desiderio di internazionalità e modernità, e l’amore e la riscoperta della localizzazione, con i proprietari della Panda che, in giro per l’Italia, ognuno con il suo dialetto, spiegano perché amano l’utilitaria Fiat. Gli anni Novanta: l’epoca dei sogni e dei mondi (pubblicitari) possibili. In questa fase storica, la televisione diventa indubbiamente lo spazio comunicativo privilegiato per gli investimenti pubblicitari, soprattutto delle grandi imprese capaci di stanziare importanti budget per conquistare notorietà e creare un legame duraturo con i numerosi telespettatori italiani. Nonostante lo scenario italiano si mostri più simile a quello dei Paesi più evoluti, non si evince una corrispondente maturazione delle strategie comunicative, con una tendenza a far più che altro esplodere format già preesistenti. La prima decade 2000-2010: l’impatto del digital sul mondo pubblicitario e la nascita delle conversazioni brandizzate. Anche il settore pubblicitario viene travolto da un mondo digitale in progressiva espansione, che contempla, oltre al tema della qualità dei contenuti grazie al sistema Hd, anche l’introduzione della banda larga e l’avvio del sistema wireless. Per il mondo aziendale, lo sviluppo delle tecnologie apre la strada a un fenomeno che va a impattare pesantemente sul linguaggio pubblicitario: la nascita delle community digitali. I brand si trovano sempre più a poter (e dover) interagire online con i loro fan, andando a sollecitare sempre più la loro dimensione emotiva. Le imprese, proprio grazie alle leve digitali, iniziano a guardare i propri fan come interlocutori quasi alla pari, che offrono loro idee, tanto che la letteratura di settore inizia a parlare di relationship marketing. A rinforzare questa ondata di innovazione culturale nel settore dell’advertising troviamo Kevin Roberts, che conia il neologismo “lovemarks” per identificare tutti quei marchi capaci di instaurare (sia online che offline) un senso di lealtà, fedeltà e affetto nell’acquirente, aldilà di ogni forma di razionalità economica o pratica. Di certo questi vari e nuovi fenomeni trasformano il concetto di marca, che appare sempre più appartenere ai consumatori che la usano e sempre meno alle aziende che l’hanno inizialmente creata. Sono i consumatori che danno contenuto alla marca. Tra gli effetti salienti sul linguaggio di settore si rintracciano: 36 • Un ridimensionamento del testimonial sportivo quale mito irraggiungibile attraverso il ricorso a un linguaggio più ironico e informale. • Un’evoluzione complessiva del ruolo del testimonial da garante autentico di un prodotto a intrattenitore. All’interno di questa cornice, la coerenza fra brand e testimonial, un tempo elemento fondamentale del linguaggio pubblicitario, cede il passo a un protagonista ad alta densità mediale, che sembra vivere solo in Tv e nel mondo dello spettacolo e come tale autorizzato ad essere privo di legami unici con una certa realtà aziendale. Si instaura così una sorta di ridondanza, dove si creano ripetizioni fra spot, ma anche fra spot e trasmissioni Tv per cogliere, a seconda delle necessità, le significatività espressive dell’uno o dell’altro mondo. La seconda decade: dal 2010 al 2012. Tra il 2011 e il 2012 l’economia mondiale registra una contrazione e una nuova ondata di crisi si ripercuote sull’Europa. Sulla scia di questo delicato scenario, il mondo pubblicitario italiano dà vita a una sorta di “operazione simpatia” con l’intento di sdrammatizzare e intrattenere e divertire il pubblico. Si attiva così nel linguaggio pubblicitario, un filone umoristico che permea fortemente gli spot di questo periodo storico. Ecco allora che i volti più in voga della comicità italiana del periodo, come Claudio Bisio o Aldo, Giovanni e Giacomo, appaiono sempre più frequentemente nelle vesti di intrattenitori pubblicitari, promuovendo le più svariate categorie merceologiche attraverso formule sketch che richiamano il format Carosello. Interessante anche il fenomeno che vede apparire sulla scena pubblicitaria numerose figure femminili tratte dal mondo sportivo meno noto al grande pubblico, a partire da Federica Pellegrini, per trasmettere valori quali la tenacia per il conseguimento dei propri obiettivi. 2. Dagli spot al branded entertainment: trent’anni di tendenze integrative. Gli anni della separazione: “non si rompe un’emozione!”. Risale circa a trent’anni fa il celebre slogan «Non si interrompe un’emozione”» che protestava contro le interruzioni selvagge dei film trasmessi in televisione a opera della pubblicità. Quello slogan, coniato da Federico Fellini, rivela alcuni dati significativi sul proprio tempo, in relazione sia alle caratteristiche formali, sia alla percezione pubblica della comunicazione commerciale. Per quanto riguarda l’aspetto formale, il dato è sul formato della pubblicità televisiva: spot, che si inseriscono all’interno di contenuti di intrattenimento, interrompendone il flusso. Il secondo dato, 37 invece, indica che gli spot erano percepiti come nemici delle emozioni: l’interruzione frequente e repentina dei programmi era una pratica comune agli anni Ottanta tra le televisioni private commerciali, il cui sostentamento economico si basava sulle sole entrate pubblicitarie. Oltre ai bumper, ossia brevi sequenze audiovisive, spesso animate, che delimitano un segmento pubblicitario, il passaggio dal contenuto editoriale a quello commerciale viene d’ora in avanti segnalato dalla dicitura “Pubblicità” sovrimpressa sul primo spot della sequenza. Attraverso i principi di separazione e di identificazione, la legge impedisce ogni forma di pubblicità clandestina, tutelando lo spettatore contro possibili tentativi di persuasione occulta da parte degli advertiser. Cominciano a prendere forma quei fenomeni strutturali che porteranno allo sviluppo di forme di comunicazione commerciale sempre più integrata al contenuto editoriale. Il primo di questi fenomeni è noto come frammentazione mediale e consiste in una moltiplicazione dei possibili percorsi che connettono produione e consumo. In ambito televisivo, l’offerta si amplia con l’avvento di Tele+ e Stream che offrono una programmazione tematica a pacchetti, suddivisa tra cinema, sport e cultura. La maggior parte delle risorse proviene dagli abbonamenti, dunque film ed eventi sportivi possono essere trasmessi senza interruzioni pubblicitarie. In questa prima fase l’audience share delle pay Tv rimane molto modesta, ma la trasformazione è ormai avviata e destinata a investire in modo irreversibile l’ecosistema mediale italiano. Il tempo dell’integrazione: product placement e branded entertainment. Con l’inizio del nuovo millennio il panorama italiano dei mass media è in piena trasformazione. La diffusione della connessione Internet tramite Adsl fa sì che un numero sempre maggiore di famiglie usufruisca di servizi e contenuti online. Ci si connette da computer, ma anche, e sempre più, da smartphone, tablet e console per videogiochi. Lo scenario mediale degli anni Duemila, dunque, vede un’offerta di contenuti sempre più frammentata, fruibile online e in modalità mobile, ma, allo stesso tempo, una minore disponibilità di investimento da parte degli advertiser. Tutti questi apsetti rendono il formato spot sempre meno efficace, spingendo così le aziende a cercare modi nuovi per comunicare con i consumatori. Tra le nuove tecniche pubblicitarie vi è il product placement (tradotto come “inserimento dei prodotti”) che, dopo una prima legalizzazione per i soli film destinati alla sala, può essere impiegato anche nei programmi televisivi di intrattenimento. Il principio di identificazione obbliga il broadcaster a segnalare con una sovrimpressione la presenza di inserimenti di prodotti per fini commerciali. Ecco dunque che viene
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