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Riassunto storia della letteratura dal 500 al 700, Appunti di Letteratura Italiana

Profilo storico e letterario dal Rinascimento fino all'Illuminismo. Dal Cinquecento al Settecento. Riassunto periodo storico e letterario

Tipologia: Appunti

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Scarica Riassunto storia della letteratura dal 500 al 700 e più Appunti in PDF di Letteratura Italiana solo su Docsity! Cinquecento – Seicento - Settecento| Rachele Giuliani 1 SOMMARIO LA LETTERATURA NEL SECOLO XVI ................................................................................................................. 3 LUDOVICO ARIOSTO ....................................................................................................................................... 5 NICCOLÒ MACHIAVELLI ..................................................................................................................... 7 LA LETTERATURA NEL SECOLO XVI, dalla pienezza alla crisi ........................................................................... 9 FRANCESCO GUICCIARDINI ................................................................................................................ 11 BALDESAR CASTIGLIONE ....................................................................................................................... 15 PIETRO ARETINO .......................................................................................................................................... 16 GIOVANNI BOTERO ...................................................................................................................................... 18 GIORDANO BRUNO ...................................................................................................................................... 18 TORQUATO TASSO ....................................................................................................................................... 20 SEICENTO ......................................................................................................................................................... 23 LA LETTERATURA NEL SECOLO XVII – ....................................................................................................... 25 TOMMASO CAMPANELLA ............................................................................................................................ 29 DANIELLO BARTOLI ...................................................................................................................................... 30 PAOLO SARPI ................................................................................................................................................ 30 GALILEO GALILEI........................................................................................................................................... 31 GIAMBATTISTA BASILE ................................................................................................................................. 33 SETTECENTO .................................................................................................................................................... 33 INTRODUZIONE STORICA ............................................................................................................................. 33 L’Accademia dell’Arcadia ......................................................................................................................... 34 PIETRO METASTASIO .................................................................................................................................... 36 LUDOVICO ANTONIO MURATORI ................................................................................................................. 36 L’illuminismo ............................................................................................................................................ 37 Il Caffè ...................................................................................................................................................... 38 GIAMBATTISTA VICO .................................................................................................................................... 39 CESARE BECCARIA ........................................................................................................................................ 39 LA LETTERATURA NEL SECOLO XVIII ................................................................................................................. 39 GIUSEPPE PARINI ......................................................................................................................................... 39 CARLO GOLDONI .......................................................................................................................................... 42 VITTORIO ALFIERI ......................................................................................................................................... 44 Cinquecento – Seicento - Settecento| Rachele Giuliani 2 CINQUECENTO Allargamento di orizzonte: necessario prendere in considerazione l’Europa tutta, non più soltanto l’Italia. Le nuove forze europee vanno prendendo forma precisa, protagoniste della storia moderna, avviano le prove generali proprio in Italia. Che, si disse, come la famosa <<Graecia capta>>, ai dominatori, ritenuti barbari, mostrò le <<leggi sovrane delle proprie arti, e non solo quelle del disegno e della parola, ma altresì quelle del ‘’cultus’’, del vivere degno dell’uomo non ‘’vulgare’’, di quelle raffinatissime del gioco politico>>. 1La realtà è più complessa di così. Accanto a gravi aspetti di involuzione, la civiltà italiana del ‘500 presenta una carica notevole di valori positivi. Questi ultimi, base per la civiltà moderna, furono originati proprio dal Rinascimento: ad esso dobbiamo ricondurre i fermenti di sviluppo della storia della Europa moderna, mescolati, agli inevitabili aspetti negativi. ASPETTI POLITICI: 1. Prevalere del fattore politico: il progressivo rallentamento dello sviluppo economico-sociale si era verificato in coincidenza con il processo di formazione di forti organismi statali volti all’espansione territoriale sino al loro necessario invalicabile assestamento nella figura di stati regionali; i quali ultimi rappresentano la definitiva cristallizzazione politica dei centri di potenza sviluppatisi dalla rinascita economica. Ma il permanente stato di guerra provocato da interessi stranieri (Francia e Spagna) che trovarono nei contrasti italiani un facile appiglio alle loro tendenze espansionistiche. Il disastro della guerra graverà sulla penisola per due secoli, direttamente o di riflesso: è questo il logico sbocco dei conflitti delle libertà degli stati regionali. La crisi della libertà è crisi di natura politica, e più precisamente di una politica di principi e di contese dinastiche. 2. Italia oggetto delle lotte di predominio europee 3. Predominio spagnolo e Controriforma: il predominio spagnolo è ormai consolidato nella penisola. La pace di Cateau Cambrésis riconosce alla Spagna il possesso diretto della Lombardia, del Napoletano, della Sicilia e della Sardegna oltre al virtuale controllo delle rimanenti terre della penisola, eccettuate quelle del Papa e di Venezia. La pericolosa tendenza instaurata dalla Riforma a mettere in discussione l’autorità costituita porta i massimi rappresentati dei tradizionali poteri politici e religiosi a sostenersi a vicenda contro le forze di disgregazione. Soprattutto la Spagna, specialmente sotto Filippo II, farà coincidere la capacità di coesione dei loro domini con l’unità cattolica. 4. Ostinazione fiorentina del 1530: La repubblica era stata restaurata in Firenze nel ’27 con il sacco di Roma quando i Medici furono cacciati dalla città. 5. Situazione economica: ininterrotta involuzione causata dal perenne stato di guerra che impoveriva gli Stati. 1 A. Gianni, M. Balestrieri, A. Pasquali, Antologia della letteratura italiana II, dal Cinquecento alla fine del Settecento, parte prima: il Cinquecento e il Seicento, casa Editrice G. D’Anna, Messina – Firenze, prima edizione marzo 1961, ultima ristampa febbraio 1980. Cinquecento – Seicento - Settecento| Rachele Giuliani 5 Il pensiero estetico – La conoscenza del pensiero estetico del Cinquecento è utile ad intendere i caratteri e le forme della poesia rinascimentale. Accanto, di fatto, alla concezione dell’arte non come imitazione della realtà ma come qualcosa di alto sopra di essa, come espressione dell’Idea sovrasensibile ed eterna; appare assai diffuso anche il concetto che l’arte abbia per fine il dilettare con la bellezza. Platonismo e edonismo sono dunque le correnti estetiche che, nei primi decenni del Cinquecento, riflettono il gusto degli ambienti aristocratici dell’età influenzando le norme retoriche. Basta pensare, a questo proposito, alle Prose della volgar lingua. Con la pubblicazione del testo originale della Poetica di Aristotele (1536) ha inizio un periodo di più intensi studi intorno alla natura in funzione artistica. Questi studi approfondiscono il concetto di ‘’mimesis’’ già accettato dagli umanisti e dal Bembo, e, chiarendo che l’imitazione deve essere non dal vero naturale ma del verosimile, concludono che tale imitazione si attua perfettamente soltanto seguendo un complesso di regole, una tecnica, di cui si riconoscono maestri i classici. Alcuni caratteri della letteratura rinascimentale – carattere fondamentale di buona parte della poesia cinquecentesca è il classicismo. I sentimenti sono rappresentati non nel loro contraddittorio fluire ma nel loro essere incorruttibili → tendenza a idealizzare e a nobilitare la realtà. Ciò si traduce ad esempio, nelle arti figurative, una serie di figurazioni che fissano statutariamente in un gesto. Ma non tutta la produzione del Rinascimento è così. Di fatto, non mancano gli scrittori che guardano con occhio spietato e lucido all’uomo-individuo; scrittori animati da un pensoso spirito morale, che rappresentano, con evidente intento polemico, per spirito di protesta, un modo diverso da quello ufficiale e cortigiano (Machiavelli, Folengo ecc.). Nessuno degli scrittori più significativi di questa corrente è cortigiano: si tratta per lo più di uomini impegnati nella vita politica come Machiavelli e Guicciardini o di spiriti indipendenti e ribelli come il Folengo, o addirittura scrittori fuori dell’influenza di ogni scuola e ricchi di una particolare esperienza come il Ruzzante, l’Aretino e il Cellini. Ciò che accomuna questa letteratura a quella <<classicista>> è il nuovo concetto dell’uomo e della vita. La letteratura nella seconda metà del secolo – In questo periodo la letteratura riflette chiaramente il processo di decadenza della civiltà rinascimentale italiana. In questa età, caratterizzata dalla perdita delle libertà politiche e dalla restaurazione tridentina, coi suoi divieti e le sue imposizioni, viene meno la libertà di pensiero. In questo senso abbiamo due vie: quegli scrittori che si conformano al nuovo stato delle cose optando per una scrittura insincera che ripete, adattandoli moralisticamente, temi naturalistici rinascimentali; e quelli che resistono alla nuova atmosfera, testimoniando nelle loro opere le verità e il loro intelletto umano, affrontando, di conseguenza, carcere e morte. LUDOVICO ARIOSTO (1474 –1533) Cinquecento – Seicento - Settecento| Rachele Giuliani 6 Cortigiano di professione, Ariosto visse sempre una vita tranquilla e fondamentalmente spensierata. Il suo atteggiamento di fronte alla vita, che si riflette costantemente nelle sue opere, è diversissimo da quello dantesco e richiama, se mai, quello del Boccaccio: egli non ha una passione etica o politica, non descrive un mondo sereno e idilliaco diverso da quello reale: ha sempre l’occhio alla realtà, agli uomini e al mondo, attesta semplicemente una cordiale accettazione della realtà e della vita nella complessità. Nelle sue opere, di fatto, Ariosto descrive l’uomo con la mente sgombra da pregiudizi, lo descrive come essere libero da interni conflitti fi natura morale, tutto assorto nella sua vicenda terrena. Ariosto appare davvero l’interprete della nuova, tutta umana civiltà del Rinascimento. L’Orlando Furioso – La materia del Furioso non è originale ma tutta attinta da poemi, leggende e cantari cavallereschi: Ariosto stesso dice di voler continuare la vicenda lasciata interrotta dal Boiardo. La materia del Furioso, con radici cavalleresche, si apre e s’allarga, si rinnova per consentire l’espressione di un mondo di multiformi e vari e moderni affetti. Tra questi, l’amore – in tutti i suoi aspetti – appare dominante. Gli improvvisi e imprevedibili scioglimenti, le avventure inaspettate e strane che il caso dispone, s’offrono al poeta come il mezzo per spezzare a tempo debito il filo di un’azione, per trapassare da un motivo all’altro, per comporre un mondo armonioso che dia l’immagine della vita come un circolare fluire. I personaggi non hanno un rilievo marcato, una psicologia netta e definita, ma, più che uomini psicologicamente caratterizzati, appaiono tipi, figure che interpretano di volta in volta i motivi di cui è contesto la vita. Le Satire – Il tono dismesso e impoetico delle Satire sembra quanto più di diverso ci sia dal Furioso. In realtà, proprio questo tono, indica alcune delle vie e delle direzioni in cui si muove la poesia maggiore dell’Ariosto: cioè la temperanza di accenti, l’equilibrio, saggezza e concretezza umana, il sottofondo su cui s’innalza la poesia del Furioso. Studiosi e intellettuali affermano che le Satire testimonino la ricorrente dissoluzione che veniva operata dal poeta sui propri stati affettivi: la conquista rinnovata per ognuno dei sette componimenti, di quella che fu detta la “misura umana” ariostesca. L’argomento della prima Satira deriva da uno degli episodi più gravi della biografia del poeta: il rifiuto che oppose al cardinale Ippolito d’Este di seguirlo in Ungheria, nonostante la minaccia di Ippolito di privarlo di alcuni beni. Ma di questo non scaturisce nulla dalle Satire se non una serie di immagini argute, ritratte con una punta di sorriso, con un accento conversevole. Nel 1518, dopo essersi licenziato dal cardinale Ippolito d’Este, l’Ariosto passò al servizio del duca Alfonso I; un servigio che non lo distraeva dalla quiete degli studi. Nella III satira, Ariosto risponde al cugino Annibale che gli aveva chiesto se fosse contento del nuovo incarico. Le Satire non sono certamente un’opera di intensa poesia. Hanno il tono di una quieta conversazione di sfogo bonario. Ma appunto per questa loro assoluta mancanza di retorica, per la semplicità cordiale con cui ci introducono agli ideali del poeta, sono degne di accompagnarsi all’Orlando poiché ne costituiscono la premessa. Rime Cinquecento – Seicento - Settecento| Rachele Giuliani 7 La figura di Angelica – la fuga – Al di sopra di ogni motivo, elemento unificatore di tutto il canto, è la figura di Angelica, la sua fuga attraverso la foresta. Angelica non ha un suo proprio carattere: è la giovinezza, la bellezza medesima. Un’immagine che appare e trascorre innanzi agli occhi dei cavalieri, sempre desiderata e mai raggiunta, sfuggente nell’atto medesimo in cui la credi sottomessa e fermata: simbolo nella gran tela del poema. Ella fugge, inseguita dai paladini e dai saraceni, colta dal terrore ad ogni muover di fronde. Ma la sua fuga non ha nulla di drammatico o tragico; è contemplata dall’alto. Nessun’altra pagina, come questa iniziale, rivela la facoltà ordinatrice della fantasia ariostesca, la sua capacità di ricavare l’ordine dall’apparente disordine il Cosmo dal Caos: riconosciamo, però, nel Furioso una delle esperienze più alte della Rinascita, uno dei segni maggiori della vittoria dell’uomo. NICCOLÒ MACHIAVELLI 1469 -1527 <<La fortuna, come fiume in piena, mena i suoi impeti solo là ove non è disposta virtù a contenerii>> Niccolò Machiavelli, da Il Principe Per il suo impegno civile, Machiavelli c i appare l’erede ed il continuatore degli umanisti civili del Quattrocento (Bruni, Salutati, Palmieri ecc.) avviati all’osservazione della verità effettuale. Machiavelli sostitui sce alla superiore provvidenza reggitrice delle cose umane il concetto dell’uomo creatore della storia, alla morale contemplativa la morale attiva del Principe, all’impero e al feudo il moderno stato svincolato dal potere religioso. De Sanctis si chiede cosa sia rimasto del lavoro dell’ingegno del Machiavelli. Se già storici come il Palmieri avevano mostrato di voler seguire la realtà “effettuale“, soltanto il Machiavelli porta a compimento questo processo di liberazione del pensiero politico dagli schemi medioevali. Machiavelli si rivolge ad un principe, offrendo il frutto delle sue meditazioni, un codice che comprenda le norme stabili da seguire per fondare gli stati e mantenerli, per dominare e costringere il vulgo; quelle norme che insegnano a fare la politica razionalmente e a ridurre gli uomini a quell’ordinato vivere civile che assicura il benessere collettivo. Il pensiero di Machiavelli trae stimolo dalla attiva partecipazione dell’autore alle vicende politiche dell’età . Già nel trattatello Del modo di trattare i popoli della Val di Chiana ribellati (1502), Machiavelli mostra un modo già chiaro e prec iso di concepire l’azione politica. Qui – infatti – egli rivela non solo il suo profondo interesse al mondo umano ma anche e soprattutto la sua tendenza sul reale, a trarre dall’evento storico una lezione di carattere generale. Qui ad esempio delinea il rapporto tra l’umana virtù e la fortuna. Qualche anno dopo incontra Cesare Borgia, rimanendo affascinato dal suo agire politico e illustrandolo nella Descrizione del modo tenuto dal duca Valentino nello ammazzare Vitellozzo Vitelli, Oliverotto da Fermo, il Signor Pagolo e il Duca Gravina Orsini. Questo uomo politico gli pare una conferma dei suoi pensieri: ne ammira la spregiudicatezza. Cinquecento – Seicento - Settecento| Rachele Giuliani 10 a) Pietro Aretino b) Cellini c) Matteo Bandello d) Folengo e) Ruzzante 3. LA LIRICA – Colui che nella lirica diede forma al diffuso ideale classicistico, scegliendo a modello il Canzoniere del Petrarca, fu il Bembo. I contemporanei gli riconobbero il merito di aver rinnovato dal profondo l’imitazione petrarchesca. Dunque, il Bembo, oltre che produttivo poeta, fu il teorico di questa lirica cinquecentesca. Seguendo l’insegnamento del Bembo questi lirici d’amore cinquecenteschi prendono dunque a modello la poesia volgare del Petrarca, e oltre che i temi, ne riprendono i ritmi, le immagini e l’attenzione alla bellezza spirituale. In tal modo il Canzoniere, oltre che come modello formale viene assunto come modello di ideale spiritualità. Al canzoniere petrarchesco del Bembo si suole accostare quello di Giovanni Della Casa, che del petrarchismo cinquecentesco rappresenta l’aspetto moralistico rinnovatore. Della Casa, fatta una profonda e varia esperienza della vita negli ambienti politici ed ecclesiastici della controriforma abbandonò i comuni e correnti argomenti di poesia e affidò le sue rime alla sua solitudine, espressa con accenti gravi e il suo concetto della vita come dovere di operare il bene, della fugacità dei beni terreni. Il Tansillo, invece, ci ha lasciato una poesia vera che ha notevole significato nella storia delle lettere perché preannuncia i modi e gli spiriti della poesia tassesca e secentesca. Questo scrittore, che segue le norme fissata dal Bembo e che ha presente il modello del Sannazaro, appare complessivamente nuovo per i contenuti e i modi della sua produzione segnando il passaggio alla maniera lirica della prima metà del secolo a quella pre-secentesca della seconda metà. 4. Il teatro – alla base del nuovo teatro rinascimentale << dotto >> c’è certamente l’ambizione degli uomini del Cinquecento di far risorgere in volgari tutti i generi letterari degli antichi, di creare una grande letteratura volgare moderna, molto diversa da quella medioevale, che fino a quel momento era stata quasi tutta improntata su temi religiosi o storie romanzesche con una concezione della vita e dell’uomo assolutamente diversa da quella rinascimentale. Gli uomini rinascimentali tendono a fare del teatro una oggettiva, sensibile rappresentazione dei fatti nei quali l’uomo si specchia per intero. A guida di questo nuovo teatro prendono Aristotele e come modello le opere del teatro classico greco e latino. Proprio da Aristotele, di fatto, il Rinascimento trasse le norme fondamentali del teatro tragico, di quelle regole delle tre unità cioè derivate dal concetto di mimesi. Due figure che bisogna ricordare sono il Trissino e il Giraldi, che cominciano a delineare chiaramente quei concetti di dignità, decoro e solennità, quel gusto per l’orribile e l’atroce, che tanta influenza esercitarono sul teatro europeo dei secoli successivi. Un cenno a parte per il significato storico meritano le tragedie del Torelli che, anziché ai motivi tradizionali, s’ispirano alla politica e ai suoi conflitti (anche le insidie delle corti). Queste tragedie danno inizio a quel teatro politico che avrà sviluppo nel ‘600 in Francia e in Italia darà i suoi capolavori con l’Alfieri. Anche nella Cinquecento – Seicento - Settecento| Rachele Giuliani 11 Commedia si definiscono gli schemi espressivi sul modello dei classici; per questo il teatro comico italiano del Cinquecento, che per primo s’informa a regole precise, ha un suo grande significato nella storia delle lettere e si propone a modello al teatro europeo dei secoli successivi. Le commedie cinquecentesche, pur riflettendo la nuova concezione umanistica dell’uomo e della vita, assumono, a seconda degli autori e degli ambienti e del pubblico a cui sono dirette, diverse forme. Tra le commedie dell’Ariosto e la Mandragola, o le commedie di Aretino (interpretazione della realtà le prime, interpretazione profondamente realistica dell’uomo la seconda) corre lo stesso fondo di ritrarre direttamente uomini e vicende così come sono. Le diversità tra gli autori sono originate da un diverso approccio alla materia derivata dalle diverse esperienze. FRANCESCO GUICCIARDINI (1483 – 1540) Ricevuta la prima educazione umanistica, oltre allo studio del greco e latino si dedicò allo studio del diritto e nel 1512 iniziò la sua carriera politica, come ambasciatore della repubblica fiorentina, presso Ferdinando il Cattolico. Caduta la repubblica fiorentina e tornati i Medici in Firenze, egli si mise al loro servizio; così divenne prima governatore di Modena poi di Reggio e Parma, finché Clemente VII, dopo averlo chiamato alla presidenza della Romagna, lo nominò luogotenente generale delle truppe pontificie. Di fronte alla minaccia di Carlo V sull’Italia egli propugnò una lega tra gli stati italiani, il papa e il re di Francia. Subito dopo la lega fu sconfitta e su instaurata la III e ultima Repubblica in Firenze. Tornati nuovamente i Medici, egli partecipò al governo di Firenze in quel grave momento: colpiti duramente con condanne a morte e all’esilio i capi del partito repubblicano, cercò di instaurare in coerenza col suo pensiero politico, il dominio dell’aristocrazia <<de’ savi>>: un governo misto di repubblica e principato assoluto. Clemente VII rigidamente assolutista disapprovò l’iniziativa e lo spedì a Bologna. Pronto a difendere la libertà a fianco dei Medici contro Carlo V, fu però messo da parte in seguito all’accordo di Cosimo I con gli imperiali. Se esaminiamo il pensiero di Guicciardini, vediamo che essa riflette innanzitutto l’esperienza di un politico di professione. Ma se il modo di osservare i fatti appare sempre uguale, lo stato d’animo che ispira le Storie fiorentine e che riflette un preciso momento della esperienza politica dello scrittore è diverso da quello che ispira la Storia d’Italia e detta i Ricordi: fiducioso nell’azione nella prima opera, scettico e pessimistico appare nella seconda. Guicciardini appare, dunque, l’erede di quella politica degli stati italiani che aveva trovato in Lorenzo il suo moderatore, non il pensatore rivoluzionario come il Machiavelli, che intuisce chiaramente soluzioni radicalmente nuove. Ma vi sono anche punti di contatto: Guicciardini, come Machiavelli, considera la politica distinta dalla morale e dalle religioni. Anche egli, pur non credendo che possano esistere leggi fisse nella politica, e negando la possibilità di una scienza della politica, ha pensieri generali sull’uomo, la politica e lo stato, come è dato vedere nelle sue opere storiche e soprattutto nei Ricordi. Così egli vede attore della storia non il vulgo, che anzi gli appare sempre oggetto passivo, ma alcuni uomini autorevoli che sanno comprendere il sempre nuovo manifestarsi e combinarsi delle passioni umane, valutare le situazioni, agire con decisione Cinquecento – Seicento - Settecento| Rachele Giuliani 12 ed energia. Guicciardini, nelle opere storiche, riesce veramente nuovo e grande per la sua penetrazione politica e la sua lucida intelligenza dei fatti. • Il Guicciardini di fronte ai fatti storici è distaccato ed impassibile, non investe e trasfigura con la passione dell’uomo politico militante la materia, le vicende e i personaggi: indaga con occhio lucido. La trattistica politica postmachiavellica. La storiografia minore del’500 – La trattistica politica post-machiavellica si riallaccia fondamentalmente al pensiero dell’autore del Principe in quanto muove tutta, sia pure per confutarla, dalla affermazione machiavellica della politica come forma autonoma dalla vita morale. Con la Controriforma e la condanna di Machiavelli s’impone l’ortodossia cattolica e nella fattispecie la subordinazione della politica alla morale. I trattisti politici si trovano perciò a dover confutare le teorie machiavelliche, a dimostrare che la politica del principe non contrasta alla morale e a giustificare le norme di condotta politica enunciate nel trattatello di Machiavelli. Dunque, gli scrittori politici dell’epoca riprendono in pratica a trattare e a descrivere quelle <<arti esecrande>> di cui Machiavelli s’era fatto precettore, e, spesso e volentieri, per non fare il nome del fiorentino, ricorrono a Tacito, il drammatico storico della tirannide di Tiberio, che aveva rappresentato le arti del principe. Comune a questi scrittori è lo sforzo di conciliare il fatto politico con quello della morale, l’utile con l’onesto. Le opere certamente più significative di questo sforzo sono quelle di Giovanni Botero e Paolo Paruta. Botero, nella sua Ragion di stato, in polemica col Machiavelli, disegna la figura del principe ideale, ispirato dalla giustizia e dal desiderio di procurare la felicità dei sudditi, ma poi contraddice questa idea affermando che le decisioni dei principi <<vince ogni partito>>. Così, nell’opera di Botero, secondo Balestrieri, la politica e l’utile non appaiono, se non formalmente, subordinati all’onesto e alla morale. Letteratura di resistenza e letteratura idilliaco-evasiva nella seconda metà del secolo – Nella seconda metà del ‘500, testimonianza consapevole ed eroica resistenza, di una tenace opposizione al dogmatismo della Controriforma, e alle condizioni politiche e sociali che a questa s’accompagnano, si rivela l’opera di scrittori come Giordano Bruno e Tommaso Campanella. Se il Tasso attesta la sua resistenza alla decadenza dell’epoca vagheggiando ideali figure di eroi nei quali l’esperienza rinascimentale si concili con un cattolicesimo modernamente avvertito, il Bruno, come il Campanella in polemica col pensiero e l’ordinamento politico e sociale della sua età, riprende ed elabora, superandola, la concezione rinascimentale del mondo e dell’uomo e intravede l’infinità dell’universo e dello spirito, della materia e della coscienza, ed accoglie nei suoi scritti quella viva aspirazione alla giustizia che viveva nel popolo e si faceva più acuta in quella età dominata dall’arbitrio. E nel concetto che la verità non può essere accolta in nome di un’autorità perché esse è una conquista che l’uomo compie col pensiero; in un antidogmatismo che s’associa ad un eroico anticonformismo politico e morale, ad una tenace volontà di comprendere la realtà del pensiero testimoniata col carcere o con la morte: <<meglio è una degna et eroica morte, che un indegno e vil trionfo>>; in questa inesausta fede nella <<potenza intellettiva>> dell’uomo, in quella potenza che <<mai si quieta, mai si appaga in verità compresa>> è la novità del pensiero dello scrittore. Il Bruno Cinquecento – Seicento - Settecento| Rachele Giuliani 15 BALDESAR CASTIGLIONE (1478 – 1529) [Grazia e <<sprezzatura>>] (Libro I, 26-27) Indubbiamente il Cortegiano non rispecchia una realtà di fatto della Rinascita, la situazione delle corti nella loro realtà obbiettiva, ma piuttosto una figurazione ideale: il mito della perfetta cortigiania, conforme alle aspirazioni più alte del primo Cinquecento. Il Castiglione stesso lo afferma nella lettera dedicatoria dell’opera, quando accenna al <<mondo intelligibile e delle idee>>: L’IDEA DEL PERFETTO CORTIGIANO. Tuttavia, questo voler ricercare la perfezione, l’assolutezza in ogni aspetto e direzione dell’essere, la compiutezza umana, era proprio uno degli aspetti essenziali della Rinascita: a suo modo derivata da un’idea platonica è persino la figura del Principe tratteggiata dal Machiavelli, capace di piegare ai propri intenti ogni insidia della fortuna; o quella dell’artista ineguagliabile, il <<primo omo del mondo>>, quale è disegnata nelle pagine del Cellini. Nei paragrafi 26-27 del I libro, i conversatori discettano intorno alla grazia, o meglio intorno alla <<sprezzatura>> (la disinvoltura, la naturalezza). Nella sprezzatura pare riassumersi l’ideale rinascimentale dell’equilibrio, della temperanza, del dominio assoluto di sé medesimo. Tuttavia, questo ideale, nell’atto in cui il Castiglione trascorre dalla dissertazione teorica all’esemplificazione pratica, si risolve nel gestire più opportunamente le danze di corte, e nel modo col quale s’hanno da numerare i passi ecc. Perciò la pagina sulla sprezzatura connubia, nelle medesime righe, l’essenza più alta ed i limiti più ovvi di quest’opera singolare, nella quale proponeva i suoi ideali una società che ignorava i contrasti, priva di interesse per i problemi quotidiani. Il termine <<sprezzatura>> fu usato, con la stessa accezione, anche dal Manzoni; tuttavia in un capitolo tra i più polemici dei Promessi Sposi, il XIX, l’uso dello stesso termine costituisce un implicito giudizio nei confronti dell’Olimpo aristocratico. [Che la bellezza non può essere conquistata col diletto dei sensi] (Libro IV, 52) – la sezione più efficace del Cortegiano, quella che appare meno insidiata dalle angustie del moralismo politico, in cui uno dei motivi ricorrenti del secolo perviene alla sua espressione definitiva (platonismo amoroso, contemplazione della bellezza terrena tramite quella divina) è senza dubbio quella finale, in cui Pietro Bembo, incaricato dalla duchessa Elisabetta, illustra i vari aspetti del sentimento amoroso, ed anzitutto quello di natura più terrestre, sensuale. Secondo Bembo personaggio, la bellezza non può essere identificata con la materia, per questo non si può possedere o afferrare. È questa una delle pagine in cui più chiaramente si manifestano gli ideali del Cinquecento; e quell’identificazione del bello, dell’armonia, delle forme col divino, che costituì per molti intelletti la religione più vera del secolo. Il Castiglione deriva le sue teorie indirettamente dal Convito di Platone e direttamente dai testi neoplatonici del Quattrocento (in particolare dal De amore di Ficino). Cinquecento – Seicento - Settecento| Rachele Giuliani 16 [La contemplazione della bellezza divina. Conclusione del trattato] (Libro IV, 58-61; Libro IV, 63) – Dopo aver esaminato i limiti e le sofferenze dell’amore sensuale, nel quale invano si affaticano gli animi, Bembo descrive quel più alto amore terreno che si rivolge alla contemplazione pura e distaccata della bellezza; ed infine l’ultimo grado medesimo dell’amore, quello a cui perviene lo spirito quando si rivolge in sé stesso, e contempla l’idea medesima del Bello, ed assurge perciò all’intuizione di Dio. Castiglione, per bocca di Bembo, espone in queste pagine i principi dell’amor platonico, di quella dottrina che tanto ebbe fortuna nel Cinquecento; e che tale fu detta perché derivata da alcuni motivi del Convito. Non si confonda il personaggio Pietro Bembo nel Cortegiano con l’autore degli Asolani, sebbene si tratti materialmente della stessa persona. Negli Asolani il Bembo trapassa infatti dall’amore terreno al ripudio assoluto di ogni aspetto sensibile; nel Cortegiano invece il Bembo considera la bellezza femminile come un grado della bellezza divina, e non procede operano una negazione aprioristica, ma conforme ai gradi successivi di un’ascesa. Il Castiglione, dunque, attribuisce al personaggio Bembo le proprie dottrine, o meglio lo svolgimento delle dottrine ficiniane2. PIETRO ARETINO Dopo le pagine di Baldesar Castiglione, di Giovanni della Casa, di Firenzuola e altri scrittori <<idealizzanti>> della Rinascita, nei quali i sentimenti terreni sono purificati da ogni <<terrestre volgarità>>, queste di Pietro Aretino si presentano ricche di una genialità spavalda e istintiva, di un estro impensato e senza misura. L’Aretino, anti-letterato più tipico del Cinquecento, colui che del secolo rivela gli aspetti più chiassosi e deteriori, è dotato di in linguaggio tra i più immediati, lontanissimo dalla prosa ufficiale dei grammatici. Nei Ragionamenti egli introduce, ad esempio, il dialogare di cortigiane sboccate e chiassose, in piena esaltazione lasciva: un’opera vicina al gusto dell’osceno ma anche mossa da un gran gusto della vita, delle cose, delle persone e di una felicità inesauribile. Ma l’Aretino non è sempre quel geniale, ma sciatto e frettoloso scrittore di cui parlano le storie letterarie; a volte riesce a condurre le pagine con una perizia particolarissima. Raffinato dunque, ma lontanissima dalla freddezza dei letterati ufficiali. Infine, le Lettere dell’Aretino non sono da considerarsi alla stregua degli epistolari moderni, ma come un’opera autentica d’indole letteraria. L’autore stesso ne curò la pubblicazione a partire dal 1538, e ritornò spesso sul primo libro, che fu impresso a Venezia per tre volte prima della sua morte, mutando in alcuni casi persino il nome dei destinatari. Per alcuni studiosi sono da considerarsi il summum degli scrittori aretineschi. La lettera, infatti, nel ‘500, teneva il posto del giornale periodico, un giornale tanto più ricercato quanto più personale, e creava scandalo, il pettegolezzo, la moda, la fama o la rovina di un uomo. Quelle dell’Aretino erano sicuramente le più ardite; in esse egli ritraeva il suo mondo con spontaneità ed estro. 2 Vedi in proposito uno studio di L. Baldacci, Il petrarchismo italiano nel Cinquecento, Milano-Napoli, 1957. Cinquecento – Seicento - Settecento| Rachele Giuliani 17 BENVENUTO CELLINI (1500 – 1570) Dalla Vita – La fusione del Perseo È questa senza dubbio una delle pagine più grandi di tutta la letteratura italiana, quella in cui risuonano con maggiore genialità e potenza alcuni dei motivi più profondi della Rinascita: vogliamo dire la fede nell’uomo come libero creatore e padrone della propria esistenza, ed il culto, l’entusiasmo per l’arte; uniti anche a quell’egolatria, a quel sentimento enorme di sé che furono propri del Cellini; e però ci pare necessario premetterla alla scelta della Vita, anche se biograficamente posteriore ai passi che seguono. Vediamo come in tutta la pagina, al di sopra di ogni personaggio e motivo, trionfa genialmente l’eroe Benvenuto, intento a salvare la pericolante fusione del Perseo; come intorno a lui tutti gli altri personaggi non appaiono che pallide ombre. Il Cellini non descrive che un’impresa di carattere tecnico, la fusione di un’opera già modellata in cera; tuttavia il racconto è di una epicità straordinaria. L’episodio è sorretto in ogni sua riga da una commozione intensissima, dal culto e quasi dal fanatismo dell’arte, eppure è calato sempre nelle cose e nelle espressioni più quotidiane. Anche il linguaggio è dei più geniali e anti letterariamente spontaneo. Su questo problema dello stile, della scrittura celliniana si è incentrata l’attenzione dei lettori moderni, non più persuasi dal giudizio dei romantici, entusiasti di un Cellini che scriveva come parlava. In realtà, il Cellini è apparso agli studiosi moderni non ignaro di pretese letterarie, e spesso assai attento alla struttura della pagina; e se l’autobiografia è scritta come la leggiamo, con quelle discordanze di costrutti e arresti improvvisi, ciò è dovuto non tanto all’insufficienza di doti tecniche quanto alla forza della scrittura, al prevalere delle emozioni sui propositi formali; tanto che il Cellini si avvide del risultato e incapace di porre ordine al suo manoscritto chiese a Varchi di attendere alla revisione e <<politezza>> dell’opera. Da notare è anche l’episodio che si configura come una lotta tra la virtù (cioè la capacità tecnica del Cellini) e la fortuna che si oppone con ogni mezzo alla riuscita dell’impresa, sì che la pagina può essere commentata quasi con le parole stesse del Machiavelli nel penultimo capitolo del Principe. MATTEO BANDELLO (1485 – 1561) Fu giustamente detto che nessuna novella del Bandello è separabile dalla sua premessa, cioè dalla lettera dedicatoria, che la lettera forma tutt’uno con il racconto, con la storia. Diremo di più, che nella lettera è la spiegazione del tono bandelliano, è contenuta in nuce la poetica dello scrittore. Perché chi permette al racconto una lettera simile, in cui è Cinquecento – Seicento - Settecento| Rachele Giuliani 20 che seguono. In questa pagina, in una forma ancora de tutto paradossale e istintiva, ancora lontana dalla consapevolezza che rinverremo nel Galilei, è capovolto uno dei principi essenziali della Rinascita, quella fede nella superiorità e perfezione degli antichi che tanta efficacia aveva avuto anche su spiriti profondamente innovatori, come quello di Niccolò Machiavelli. I veti antichi, cioè i più vecchi ed esperti, quelli che hanno accumulata maggiore dottrina, e sono ricchi di tutta l’esperienza così del passato come del presente, sono gli uomini dell’oggi, non quelli che hanno vissuto all’inizio delle scienze. Attraverso affermazioni come queste si maturava quella rivoluzione scientifica e filosofica che è propria della civiltà moderna. TORQUATO TASSO (1544 -1595) Nella seconda metà del Cinquecento, conclusasi negativamente la crisi politica degli stati italiani iniziata alla fine del Quattrocento, la splendida civiltà del Rinascimento incomincia a decadere; all’opera dell’Ariosto, del Machiavelli, del Castiglione, che interpreta i motivi dominanti della matura civiltà rinascimentale, succedono l’opera del Guicciardini, in cui già si riflette la crisi che travagliava la società italiana, e quella di altri scrittori minori, nella quale vediamo venir meno la fiducia nei valori razionali dell’uomo, lo slancio attivo e fiducioso, la sicurezza energica e vigorosa, l’impeto creativo, il senso della vita che avevano sostenuto e caratterizzato la civiltà rinascimentale nella sua pienezza, ed affiorare un senso di inquietudine e di pessimismo, una concezione chiusamente individualistica della vita, un senso del limite dell’uomo, unitamente a preoccupazioni moralistiche e a tendenze edonistiche. Il Tasso, in questo clima, non subisce passivamente la crisi della sua età. Erede della civiltà rinascimentale, alimenta in sé il senso della libertà e della dignità umana, che era stato proprio di codesta civiltà, e resiste a lungo alla crisi in atto nella sua età, reagisce a quel sentimento della precarietà e finitezza umana, a quel senso del limite della ragione umana. Il Tasso non si chiude in un distaccato pessimismo. Solo al termine della composizione della Gerusalemme Liberata, in cui culmina in senso poetico questa sua resistenza, egli rinuncia alla lotta, vinto da un accorato senso di vanità della vita. Per comprendere la vicenda spirituale e l’anima del Tasso bisogna innanzitutto tenere presente l’ambiente politico, culturale e morale nel quale il poeta si trovò a vivere. Il ducato, travagliato dalla generale crisi economica, indebolito politicamente, è ormai entrato in una fase di decadenza e dell’antica grandezza conserva soltanto le esteriori apparenze. A Ferrara <<così diversa da quella in cui in altri tempi l’Ariosto aveva condotto la sua stabile esistenza tra le occupazioni quotidiana, confortato dal certo amore di Alessandra Benucci, giunge il Tasso, dopo aver vagato di città in città in cerca di un ideale circolo di alti, aristocratici spiriti ai quali proporre un’ideale immagine di umanità, esemplata sul Cortigiano e sui classici, ma rinnovata da una moderna pietà, da un nuovo intimo sentire religioso, fiducioso di sollecitare l’ardore ad altre imprese>>. Ma la corte di Cinquecento – Seicento - Settecento| Rachele Giuliani 21 Ferrara non si rivelò al Tasso quale egli l’immaginava. Qui il poeta fu costretto a scendere a continui compromessi con l’ambiente, seppur rimanendo fedele al suo alto concetto di poeta, accogliendo solo a tratti l’invito alle evasioni idilliache e alla facile gloria come attestano l’Aminta, le Rime e alcuni episodi della stessa Gerusalemme. Ma il desiderio di giungere rapidamente alla gloria e di entrare trionfalmente alla corte estense, lo indusse a tentare il poema eroico. Erano, di fatto, gli anni in cui il mondo letterario, dopo la sfortunata prova del Trissino, attendeva un nuovo poema eroico. Con una nuova minaccia da parte dei Turchi, Tasso scelse come argomento proprio la prima crociata che diventerà poi la Gierusalemme. Ma ben presto il Tasso si rende conto delle difficoltà pratiche e abbandona l’idea di un poema epico-religioso per dare spazio ad un poema cavalleresco dal titolo Rinaldo. La tradizione cavalleresca era assai viva nelle corti e oltre ai motivi tipicamente cortigiani vi erano anche gli interessi più forti dello stesso poeta. In quest’opera infatti, attraverso il ricorso alle leggende cavalleresche e ai modelli classici, il Tasso ha modo di incarnare in figure e calare in fantastiche vicende, oltre al suo giovanile ardore di avventura e gloria, al suo vagheggiamento delle virtù cavalleresche, la sua fiducia immancabile, il suo amore non corrisposto, il suo ardore eroico cui segretamente contrasta l’amore con la passione dei sensi ecc. In quest’opera, in cui ricorrono, non ancora organicamente fusi, quei temi che ritroveremo nel suo capolavoro, il Tasso, seguendo la tradizione espressiva del Furioso, attinge quella continuità e <<fluidità narrativa>> che gli consentirà nella Gerusalemme, di trasferire su di un piano narrativo una materia propriamente lirica. Gli anni che vanno dal 1564 al 1574 sono gli anni della maturità del Tasso: gli anni in cui il poeta, vivendo intensamente in sé l’antinomia della sua età in forma di contrasto tra un sentimento ancor fiducioso, attivo e tutto umanistico della vita e la nuova visione dell’uomo e della vita proposta dalla Controriforma, tenta di dar vita ad un poema in cui tali contrasti appaiono conciliati. Il primo documento teorico dello sforzo del poeta di conciliare su di un piano poetico questo contrasto sono i Discorsi dell’arte poetica. Tasso cercava dunque di ricorrere alla storia per suscitare una più intensa emozione nel lettore, per evitare che questo guardi al suo poema come si guarda ad una dilettosa e arbitraria favola; ma non si risolve, come faranno i romantici, la vita morale e religiosa dell’uomo nel vero, non giunge al concetto di un’arte ispirata alla verità storica quale ebbero i romantici. Il vero storico infatti, per il Tasso, deve accoppiarsi al <<meraviglioso>>, deve essere dunque abbellito, reso dignitoso e alto. In questo modo il Tasso mostra di assumere regole aristoteliche non come norme esteriori e precetti retorici (come dirà il Caretti) ma come strumento valido a conciliare le sue esigenze di libertà di fantasia coll’ideale di ordine e unità classici. <<Nel complesso accordo di questi due registri. Quello grave e quello acuto, nella fusione delle note profonde e labili con quelle chiare e ferme, in un equilibrio instabile, sempre in procinto di spezzarsi e in ogni caso animosamente ricomposto>> è il nodo vitale, il carattere particolare della Liberata, trascrizione dello stato di inquietudine e di contraddizione interna del poeta, del suo energico e costante sforzo di attingere l’unità dello spirito. Esteriormente derivati dalla tradizione classica e romanza, i personaggi tasseschi si qualificano non tanto per gli atti che compiono quanto per <<l’interno sviluppo delle passioni onde quegli atti e quelle vicende procedono>>. Dietro le loro figure si apre <<la nuova dimensione psicologia del Tasso, il suo intrepido intimismo>>. Cinquecento – Seicento - Settecento| Rachele Giuliani 22 Proprio per questa nuova dimensione psicologia, per la risoluzione della vita dei personaggi nello studio dell’interno sviluppo delle passioni, la poesia del Tasso si colloca al vertice della civiltà letteraria nata col Boccaccio e col Petrarca, e riesce nuova e moderna. La novità dell’ispirazione suscita nel Tasso uno straordinario lavoro di rinnovamento stilistico che è dato seguire chiaramente nelle Rime, nei sonetti, nelle canzoni, nei madrigali che accompagnano la composizione della Liberata. All’esperienza delle Rime ci rimanda direttamente anche l’Aminta, ove vediamo armonizzati tra loro <<modi pienamente narrativi e modi lirici>>. La produzione posteriore alla Liberata e all’Aminta testimonia l’acuirsi della crisi morale del Tasso, la sua rinuncia ad ogni forma di attiva resistenza, ad ogni tentativo di <<ricostruire nella storia l’unità dell’uomo>> il suo adeguamento al pensiero, allo spirito e alle forme della civiltà della Controriforma. Infatti, la produzione posteriore al 1577 è costituita da scritti critici che attestano il faticoso sforzo del poeta di dettare le norme di una poesia che si adegui appieno ai precetti morali: o poesie che attestano nella forma della tragedia la sconfitta del poeta, la sua disarmata angoscia (Torrismondo), o si risolvono nell’alta e composta retorica della Gerusalemme Conquistata. Nel Torrismondo, ad esempio, al disordine delle passioni e all’irrazionale (che nella Liberata aveva una luce di riscatto) si aggiunge anche l’impotenza dell’uomo di liberarsi dalle passioni: perdita di volontà. All’ultimo periodo appartengono anche le Rime sacre che il poeta scrisse verosimilmente dal 1585 alla morte, che provano la <<stanchezza poetica del Tasso>. Dalla Gerusalemme Liberata – La protasi, l’Invocazione, la Dedica – L’inizio non è fatto per piacere ai lettori moderni, ma è indispensabile conoscerlo perché sia colta subito quell’atmosfera grave che costituisce il sottofondo, l’intonazione strutturale dell’opera. Come l’inizio dell’Orlando pone subito dinanzi al lettore la levità della fantasia, il Tasso imposta la gravitas, la serietà un poco opprimente della scrittura, la serietà un poco opprimente della scrittura che si accorda con l’aspirazione perseguita per tutta la vita dal poeta (e destinata alla sconfitta). <<Canto l’armi pietose e ‘l capitano>> - l’accento del primo verso riconduce all’esemplare ufficiale del poema eroico, cioè all’Eneide (Arma virumque cano). La prima ottava pone dinanzi tutta la materia dell’opera, con una chiarezza e precisione che invano cercheresti nel poema dell’Ariosto. Nell’ottava è implicita la poetica del Tasso, la sua conciliazione della varietà degli episodi, della libertà dell’ispirazione con l’unità rigorosa della vicenda. <<le armi pietose>> fanno riferimento alla “pietas” e dunque a Virgilio. Dall’AMINTA – Tutto nell’Aminta del Tasso appare limpido, nitido, senza un’ombra, una macchia. Lineare la vicenda, esemplare la chiarezza del dettato. Da un lato, dunque, l’Aminta sembra riallacciarsi alla Rinascita, alla razionalità e chiarezza ideale di quel mondo. Ma dall’altro lato è dovunque una inflessione musicale del verso, un abbandona ad una irrealtà mitizzata e vaghissima, uno stato di sogno e un che di crepuscolare, il volgersi verso l’irrazionale. Tra questi due modi della cultura, razionale e irrazionale, il Cinquecento e il Seicento, l’Aminta pare comporsi in un equilibrio fragilissimo. Il mondo dell’Aminta si presenta come il mondo dell’amore su cui ancora non si proietti l’ombra e la coscienza dei nuovi tempi. Cinquecento – Seicento - Settecento| Rachele Giuliani 25 LA LETTERATURA NEL SECOLO XVII – Il Seicento è l’età in cui quella crisi politica, morale, religiosa di cui abbiamo indicato i segni e i diversi riflessi nell’opera di alcuni scrittori del tardo Rinascimento, giunge al culmine per effetto del dominio politico della Spagna e del pesante controllo ideologico della Controriforma. La società italiana in questo secolo appare priva di fervida vita interiore, di ideali politici e morali, di vera religiosità, appare conformista, amante dello sfarzo. In questo periodo viene a mancare ai poeti – come precisa il Croce - <<la materia su cui esercitarsi, la vita affettiva, che non è poesia ma è certo condizione della poesia>>. Effettivamente nel Seicento non ci fu grande poesia; le sole opere poeticamente valide son quelle degli oppositori e degli anticonformisti, i soli animati da una viva passione morale: son soprattutto quelle di Campanella, di Sarpi, di Galilei. Per questo motivo la poesia distaccata dalla vita, strumento di evasione che era già propria del Tasso negli ultimi decenni del 500, ma soprattutto nel Guarini, si fa dominante e promuove nuove forme espressive. Sicuramente, però, merito del Barocco è quello del superamento di misure e forme fisse della poesia classica garantendo una più libera e raffinata espressione delle immagini. Ma accanto a questa cospicua produzione edonistica-evasiva si pongono spiriti pensosi e seri, quali Galilei, Sarpi e Campanella. Tra la produzione oziosa e volta al diletto e a quella ispirata all’amore della verità, ad una profonda serietà interiore, ad ideali precisi si colloca la produzione di coloro che non hanno ideali precisi da affermare, ripudiano tuttavia la poesia barocca, e polemizzano contro il conformismo, il dogmatismo, l’aristotelismo, contro decadenza politica, morale, intellettuale della loro età, principalmente: Boccalini, Tassoni, del Rosa, del Testi, che con la loro opera contribuiscono a maturare la coscienza della decadenza presente, a richiamare al letteratura ad una funzione più seria, a riportarla nella vita. Letteratura di decadenza – Il Marino viene giustamente considerato lo scrittore che più compiutamente e brillantemente esprime la sensibilità e il gusto barocco. Il Marino non utilizzò la poesia come strumento di verità, ma di meraviglie e diletto. Di fatto piacque molto alla società aristocratica del tempo poiché ne appagò il gusto corrente. Il Marino, dunque, continua la via indicata dal Tasso e dal Guarino della cui poesia idilliaca, descrittiva e sensuale, riprende e rinnova i modi filtrandoli attraverso la sua personale sensibilità: crea una poesia fluida e musicale capace di distrarre. Nell’Adone, che è opera più rappresentativa del gusto barocco, ed è considerata il capolavoro del Marino, il poeta, ricorrendo ad una favola, canta gli umani sensi attratti dalla bellezza con varietà di toni che va dal lascivo al cupamente sensuale. Talvolta parla di fatti storici, esalta recenti scoperte geografiche, astronomiche e scientifiche ma con l’animo e col tono con cui si guarda alle cose meravigliose. Al contrario il Chiabrera è invece il rappresentante più celebrato della corrente classicista seppur con lo stesso proposito del Marino di voler meravigliare il lettore ma questa volta con il sublime e l’eroico. Il Marino, inoltre, ebbe influenza su un gruppo di lirici che, mirando a fare della poesia puro strumento di meraviglia e diletto dei sensi, esasperarono la tecnica del maestro mostrando un prodotto assai vuoto. Ai lirici marinisti si oppongono, muovendo da un proposito di fedeltà alla tradizione e da un diverso concetto della poesia, i lirici antimarinisti. Questi poeti si differenziano dai primi non per la serietà dei contenuti ma unicamente per la diversità dei procedimenti tecnici, per l’adesione al modello petrarchesco e ai modi espressivi dedotti dall’opera dei classici. Il gusto marinistico, infine, trovò numerosi seguaci anche tra gli scrittori in prosa. Virtuoso della parola, Daniello Bartoli viene definito dal De Sanctis come il Marino della prosa. Giudizio nettamente negativo di <<cervello ozioso>> bisogna comunque ricordare che il Bartoli fu citato dal Leopardi in un confronto con Dante come creatore di sensazioni nuove e sottili. Molto diffusi erano anche i poemi eroici che finiscono per seguire, in fondo, ciò detto fin ora, riflettendo il vuoto morale e il gusto per le forme esteriori. Accanto a queste vi fu anche una cospicua Cinquecento – Seicento - Settecento| Rachele Giuliani 26 produzione di romanzi e novelli, e anche poesia eroicomica e satirica, tutte con lo stesso fondo di distacco dalla realtà con funzione di diletto. L’unico genere che si discostava da questo proposito era proprio la satira che nasceva da un’esigenza morale, trovando nel Rosa il suo più notevole scrittore. Questo genere ha quindi importanza dal punto di vista storico come testimonianza della coscienza, che alcuni scrittori ebbero, della decadenza della loro età. I trattati politici e morali e la storiografia del ‘600 – I trattisti politici non rivelano quella libertà e spregiudicatezza d’indagine che aveva caratterizzato il Machiavelli; essi maturano la loro riflessioni entro i limiti segnati dalla Controriforma. Di qui l’anti machiavellismo dichiarato e il machiavellismo effettivo di questi trattati; di qui temi già teorizzati dal fiorentino come: riflessione tra politica e morale, tra utile e onesto, la reazione al mondo della politica distinto da quello della morale. Proprio in questa aspirazione ad una nuova sintesi che accolga i modi della condotta morale e quelli della condotta politica è fondamentalmente l’aspetto nuovo e positivo di questa trattistica che, se complessivamente non va al di là delle impostazioni e delle conclusioni del Botero e del Paruta, ha però anche il merito inconsapevole di aver offerto molti argomenti a quella critica implacabile che il Settecento illuminista esercitò nei confronti dell’assolutismo. Dunque, gli scrittori che non potevano apertamente cimentarsi sui trattati politici cambiarono argomento, preferendo trattati di tipo <<pratico>>, che insegnavano il modo di risolvere problemi di coscienza. Fra questi, il più valido fra gli altri è intitolato Della dissimulazione onesta di Torquato Accetto. Detta norme e consigli per dissimulare, con gli altri e con sé stessi. In genere, la storiografia del ‘600 è dominata da un vivo interesse alla politica come scienza e come tecnica e si richiama strettamente alla trattistica politica. In Buona parte essa appare immune del gusto umanistico per la descrizione pittoresca ed elegante dei fatti esteriori anziché sulle guerre, gli assalti, le battaglie, le uccisioni. In comune con gli storici del ‘600 hanno un carattere affatto nuovo o nettamente positivo: essi non limitano il loro esame entro i confini della città o della regione di cui fanno la storia, ma lo estendono alle vicende di quelle nazioni europee o extraeuropee che abbiano una relazione con i fatti della regione e dello stato preso in esame. I due nomi più importanti sono il Bartoli e il Bentivoglio, storici gesuiti assieme ad altri, che accurati nello stile si uniformano però ai precetti della Controriforma. Più spregiudicati, non curanti dell’eleganza formale, del tutto al di fuori della tradizione umanistica, appaiono alcuni storici non di professione che mirano a consegnare nei loro scritti il frutto della loro esperienza di soldati, di politici o diplomatici. I maggiori storici della corrente dei gesuiti furono il Boccalini e lo Sforza Pallavicino; degli storici antispagnoli e anticonformisti, più liberi e sereni nel loro esame di fatti storici, degni di nota sono il Davilla e il Sarpi. Da questa rapida rassegna si vede più chiaramente come la storiografia del ‘600 rifletta due indirizzi morali diversi, o meglio, come dice lo Spini, due Italie: <<da una parte l’Italia degli Spagnoli, dei Gesuiti della curia romana; dall’altra l’Italia degli antispagnoli e degli antigesuiti, che sentono nella Venezia, delle guerre del Monferrato e della Valtellina, la capitale politica e morale di una ideale Italia libera. Spiriti polemici e pensosi: dal Tassoni al Boccalini – Le opere immuni o quasi dall’influenza marinistica e dal gusto barocco sono quelle ispirate a seri e nuovi contenuti. Quelle che nascono da uno stato d’animo di polemica nei confronti della società, del pensiero e della vita del secolo. Scrittori animati da vivace spirito critico non volti a dilettare e a meravigliare ma ad affermare le loro serie convinzioni morali e a polemizzare ci appaiono il Tassoni, il Testi, il Rosa e il Boccalini. Ad essi – come scrive il Carducci - <<è titolo di grande gloria l’aver partecipato la eredità santissima del pensiero italiano ad un tempo nel quale più certa e acerba seguitava a quello la calunniosa vendetta dei potenti Cinquecento – Seicento - Settecento| Rachele Giuliani 27 stranieri e nostrani>>. Non è inutile notare che a questi scrittori costò cara la polemica contro il proprio secolo. Tassoni – Intima serietà morale, sincera passione civile e fede nell’intelligenza umana sono le fondamenta dell’opera di Tassoni. La nota costante dei Pensieri, nei quali accanto ad affermazioni rivoluzionarie ritroviamo anche concetti e idee superate (ad esempio sostiene il sistema Tolemaico contro quello Copernicano) è la difesa dei diritti della ragione (polemizza contro Aristotele, ad esempio), è la libertà con cui l’autore affronta i più diversi problemi. È vero che nella sua polemica egli assume spesso posizioni antistoricistiche, ma è vero che egli riesce sostanzialmente rivoluzionario: per questo, in un’età di conservazione e di conformismo quale fu il’600, la sua opera ha un significato decisamente positivo: ha il merito di aver negato il valore vincolante dei modelli antichi e riconosciuto il valore dei moderni. Nelle Filippiche mette in risalto lo stato di miseria materiale e morale della Spagna. È vero che il Tassoni rinnegò quest’opera quando temette di dover pagare di persona, ma è anche vero che non da tutti gli uomini si può esigere l’eroismo e che egli, in un secolo di indifferenza e smarrimento morale, comunque polemizzò con la sua letteratura. Certamente il Tassoni non ebbe l’anima, la passione e profondità di un Sarpi; ma anche egli a suo modo combatté la sua battaglia. Anche nella Secchia, nelle vicende che il poeta narra, s’avverte di continuo la condanna della realtà storica secentesca, di una società dalle apparenze grandiose ed eroiche e dalla vita oziosa e servile. La genesi della Secchia è, come quella dei Pensieri, polemica; ma la polemica qui si svolge nelle forme del poema eroico. Quanto al giudizio sul valore poetico della Secchia, ci pare ancora valido il giudizio del De Sanctis il quale osserva: <<il comico del Tassoni è vuoto e negativo perché gli manca il rilievo nel contrasto di altre forme, e invano cerchi quali altre forme vivessero nel loro secolo e nella loro coscienza. Al contrario il Don Chisciotte è opera di eterna freschezza, perché ivi lo spirito cavalleresco si dissolve nella immagine di una nuova società, che gli sta dirimpetto e con la sua presenza lo rende comico>>. Così il Tassoni per questa assenza di un pensiero, di un sentimento <<positivo>>, di un principio morale superiore, della visione di un mondo diverso, non va al di là quasi mai della parodia e dell’arida negazione, non scava in profondità l’animo umano. Le pagine artisticamente più felici di questo poema restano quelle in cui l’estro polemico del poeta si risolve in un vigoroso realismo satirico, quelle costituite da ritratti, caricature, bozzetti, da scene colte dal vero. Traiano Boccalini – Il fatto che il cardinale Pallavicino, l’autore della Storia del concilio di Trento, ci dica, nelle sue memorie, che i Ragguagli costarono molto caro al loro autore e ci riferisca che l’opinione allora corrente era che il Boccalini finisse i suoi giorni <<di morte eccitata più che naturale>>, ci dà l’idea della reazione che quest’opera suscitò negli ambienti politici del Seicento. Il Boccalini, per polemizzare contro i vizi della sua età ricorre ad una finzione non nuova nella storia delle lettere: immagina di riferire, con tono tra il serio e lo scherzoso, i giudizi e le deliberazioni del tribunale di Apollo sulle questioni o contrasti che sorgono tra gli abitati di Parnaso o dei quali giunge notizia dal mondo dei vivi, cioè dalla società italiana ed europea del tempo. Si critica al Boccalini, ancora oggi, di non aver approfondito e svolto le sue intuizioni politiche, ma di averle frantumate in immaginarie cronache, ma bisogna pur dire che il ragguaglio era l’unico modo “accettato” nell’età della costrizione e della vigilanza. I bersagli polemici del Boccalini furono l’assolutismo spagnolo ed ecclesiastico, la ragion di stato, in tutto contraria alla legge di Dio e degli uomini e ancora il dogmatismo e l’aristotelismo, il costume dell’età. Avara, ambiziosa e ipocrita. Cinquecento – Seicento - Settecento| Rachele Giuliani 30 colpevoli di vaneggiare dietro le preziosità della forma, e di avere in dispregio i problemi essenziali degli uomini. Al Sole, nella primavera, per desio di caldo – Nella fervida ed immaginosa dottrina del Campanella ogni realtà naturale appare dotato di un’anima (panpsichismo); dovunque lo spirito divino palpita nella natura. Sopra agli altri elementi il Sole, dal cui battito discende sulla Terra la vita. Ma al filosofo, chiuso nel profondo della sua cella, è negata la luce. Quando il Sole, all’inizio della primavera, rinnova e risveglia ogni vital sostanza, al filosofo, che pure ha il merito di avergli attribuito animo e vita, è negato il suo calore. Al Sole egli si rivolge, perché il Sole medesimo intervenga presso Dio in suo aiuto: se egli dovrà morire nel carcere nessuno più difenderà l’astro sulla terra. Nella sua sostanza questo è l’inno di un carcerato alla luce, di un tale fervore e coscienza del martirio, che nulla si rinviene di simile nelle pagine dei poeti. Egli, il vendicatore del Sole, gelato trema lontano dal lume. L’impeto lirico dell’inno è una novità, audace nella struttura, si propone di riprodurre nella lingua volgare il metro del distico latino. DANIELLO BARTOLI (1608 – 1685) Senza dubbio il Bartoli è estraneo agli artifici sfacciati del marinismo, perché volto ad un interesse che non è soltanto formale ma di natura fantastica, cioè alla rappresentazione di un universo che si dilata in infinite nuove direzioni. La sua scrittura copiosissima, idonea a costruire sul più semplice degli argomenti una pagina fittissima di osservazioni e di immagini, è perciò dotata di una distensione classica, capace di un equilibrio che appare inconcepibile nel barocco di natura più esterna. Nonostante la materia di molte sue opere, il Bartoli non può essere considerato uno scrittore di scienza. Manca, di fatto, la mentalità dello scienziato e il gusto disinteressato della ricerca scientifica. Non è proteso alla spiegazione di fenomeni. Dinanzi alla natura egli osserva con occhio stupito ed entusiasta; e proprio là dove non riesce a comprendere rinviene l’interesse maggiore. Le sue pagine sono fitte allora di domande a cui lo scrittore non risponde. Il suo scopo è di natura morale, religiosa, ed il suo naturalismo, se così può essere chiamato, è una sorta – dice il Balestrieri – di naturalismo devoto, proteso a rinvenire dovunque le testimonianze misteriose della mano divina. Si avvicina ai naturalisti del Seicento proprio per questo aspetto di ricercare i segreti, invisibili della natura. PAOLO SARPI (1552 – 1623) Dalla ISTORIA DEL CONCILIO TRIDENTINO – Introduzione – Nessuna opera così severa come questa conosce la letteratura del Seicento. In questa, Sarpi, disdegna le vanità letterarie del secolo, non indulge mai a pagine descrittive. È privo di interessi formali. Con una lucidità implacabile e con uno stile definito “geometrico”, e tuttavia con una tensione alta e continua dell’animo, indaga sulle opinioni, sui contrasti, sulle ambizioni che Cinquecento – Seicento - Settecento| Rachele Giuliani 31 guidarono l’opera del Concilio. L’Istoria non conosce una sola distrazione, una sola pausa; impassibile l’autore prosegue la sua indagine, con un rigore, una secchezza scientifica che rendono impegnativa la lettura. Eppure, in un’opera così severa, l’introduzione ha veramente la commozione e il respiro di un poema epico. Non perché il Sarpi si abbandoni ad una insolita eloquenza, anzi, essa appare razionalissima. Ma si avverte, in essa, tutta la solennità e importanza dell’argomento. In questa pagina si raccoglie il frutto di una lunga e intensissima meditazione. [Questioni di cerimoniale ed estirpazione dei Valdesi, 4.] – Una pagina tra le più mosse e drammatiche dell’Istoria, non nel senso che il Sarpi si valga di maggior attenzione dei pregi e della forma, ma nel senso che vi traspare in modo più nudo, più evidente, l’animo offeso e risentito dello scrittore. Nella prima parte è l’indugio lentissimo sulle animate discussioni di cerimoniale che precedettero l’apertura del Concilio, ad esempio intorno ai posti che doveva occupare ciascuno dei partecipanti durante le sedute; un indugio così lento che si può assaporare così, meglio, la vanità delle questioni. Nella seconda parte è invece la narrazione rapidissima, sdegnosa di ogni indugio, di ciò che accadeva in Francia nel frattempo: cioè il massacro degli ultimi Valdesi: <<lo sguardo dello scrittore è obiettivo, ma la mano trema>> dirà Marzot. GALILEO GALILEI (1564 – 1642) Dal SAGGIATORE – La fonte dei suoni – Non una pagina di scienza ma una favola, o meglio una parabola, perché essa deriva un ammaestramento morale e scientifico: che quanto più l’uomo comprende e conosce della realtà naturale tanto più diviene cosciente della pochezza delle sue cognizioni, dell’infinità incommensurabile dello scibile. La favola deriva da un profondo moto polemico: dalla polemica contro la vana scienza ufficiale dell’epoca, presuntuosa di aver risolto ogni problema di merito. Agli scienziati del primo Seicento tutto lo scibile appariva perciò sistemato in un complesso immutabile di dottrine fisiche e metafisiche. Galilei, contro questa idea, predicava invece la necessità di una guida concessa dalla natura agli uomini: l’esperienza sensibile. Fu scritto, di queste pagine, che fu a fondamento di tutta l’opera galileiana. Dal DIALOGO SOPRA I DUE MASSIMI SISTEMI DEL MONDO - [Cielo e Terra. L’inalterabilità dei corpi celesti] – è questo uno dei momenti più vivaci del Dialogo, una delle pagine in cui più pungente si avverte l’ironia contro la vanità della scienza peripatetica. C’è, nell’animo dello scienziato, la certezza serena di parlare in nome del Vero; una certezza da cui deriva l’ampiezza luminosa del suo linguaggio, quella larghezza spaziosa e limpidissima che è propria del suo stile. Stile in apparenza complesso ma fluido, discorsivo e del tutto espositivo seppur ricco di suggestione poetica. Il Medioevo aveva separato con un abisso i corpi celesti, eterni, inalterabili; con Galileo la vecchia distinzione tra cielo e terra crollava; la terra era ricollocata in quel cielo da cui i peripatetici l’avevano bandita, pulviscolo in un’immensità di universo. Da questo amore per le forze vitali della natura, per il fango vilissimo, deriva la commozione più alta della pagina. Cinquecento – Seicento - Settecento| Rachele Giuliani 32 [Aristotele e la libertà della scienza] – Gli argomenti di Salviati sono apparsi a Simplicio così convincenti che è quasi convinto di confessarsi per vinto, di passare dalla parte dei suoi avversarsi. Ma a questo si oppone un ostacolo di una gravità eccezionale: cioè le affermazioni di Aristotele. Di fronte all’autorità di Aristotele, Simplicio è costretto a chinare il capo, a negar fede all’evidenza. All’epoca la maggioranza degli intellettuali credevano fermamente che soltanto il puro ragionamento, condotto secondo i principi più rigorosi (secondo leggi immutabili e perfette del sillogismo) potesse garantire alla filosofia e alla scienza la conquista del vero. [Sull’universo concepito ad uso dell’uomo] – Galilei affronta in questa pagina uno dei problemi più gravi che si pongano all’inizio della sensibilità moderna: la crisi dell’antropocentrismo, di quella concezione che poneva l’uomo al centro della realtà universale, non solo materialmente ma spiritualmente, come protagonista del cosmo. Copernico e poi Galileo toglievano all’uomo tutte le <<riposanti certezze>>. E se con la cosmogonia copernicana si rovinava la centralità fisica dell’uomo con le pagine del Galilei si poneva in crisi la sua dignità di protagonista, di fine ultimo e assoluto della sua creazione. Da qui iniziava il nuovo senso dello spazio, quel senso del vuoto. Dalle LETTERE – [L’ampliarsi smisurato del cosmo] – A Belisario Vinta in Firenze, 30 gennaio 1610: Al Segretario di Stato di Firenze, Galileo annuncia il risultato dei primi esperimenti compiuti col telescopio e la pubblicazione imminente del Nuncius sidereus. La brevissima lettera costituisce perciò quasi un compendio dell’”Avviso” che stava per essere inviato a tutti i filosofi e matematici; e reca con efficacia maggiore del Nuncius la meraviglia e lo stupore innanzi all’ampiezza smisurata del cosmo: quell’ampiezza che era stata preannunciata dalle pagine ardenti del Bruno (così si magnifica l’esistenza di Dio: non si glorifica in uno, ma in Soli innumerabili: non in una terra, non in un mondo ma in dieci, cento mila, dico infiniti) ma si rivelava ora per la prima volta agli occhi dell’uomo. L’inizio dell’avventura stellare. E tuttavia la commozione non si accompagna il più breve moto di superbia. 2.Scienza e Sacra scrittura – A Don Benedetto Castelli di Pisa, 21 dicembre 1613 – Poiché il sistema eliocentrico pareva contraddire alcune affermazioni della Bibbia, il Galilei affrontò in questa lettera, ed in altre successiva, il problema dei rapporti tra i testi sacri e le conoscenze scientifiche con una fermezza e coerenza assoluta di principi, tanto più degna di nota quanto più infido ed estremamente pericoloso il terreno sul quale lo scienziato si muoveva. Le conclusioni alle quali il Galilei pervenne erano dedotte con un tale rispetto del Vero, ripudiano ogni possibile soluzione di compromesso, che appaiono validissime ancor oggi. Galilei si oppose in modo deciso alla tesi corrente della <<duplice verità>>, cioè alla tesi che ammetteva la possibilità, di fronte ad uno stesso problema, di due diverse risposte, una rispecchiante la verità di ragione ed una rispecchiante la verità di fede. 3.La cecità sopraggiunta – A Elia Donati in Parigi, 2 gennaio 1638 – Dopo l’umiliazione del secondo processo, la condanna e la relegazione, dopo la morte della figlia, un’ultima sventura ha colpito il vecchio scienziato: la cecità. Il lettore non avverte nella lettera lo smarrimento che è comune a tutti i cechi, ma una tristezza più alta, e veramente senza conforto; quella dell’uomo di scienza, che tutta la vita ha dedicato all’osservazione dei fenomeni naturali e dei cieli, e per quegli studi ha subito una guerra triste e dolorosa. Cinquecento – Seicento - Settecento| Rachele Giuliani 35 “nazionale” dell’Accademia, che la distingue dalle altre accademie, dove confluivano le tendenze prevalenti e antibarocche dei migliori letterati d’Italia. L’Arcadia restaura, di contro al barocco, quella tradizione classica che opererà sempre più profondamente, su una rinnovata materia, per tutto il secolo. → Rinnovamento letterario: esigenza di semplicità, naturalezza e ordine, di chiarezza espressiva, misura, razionalità – poesia elegante, nitida e fluida, esatta e definita nei contorni, traducendo in forme efficaci il vero, reale o possibile, del sentimento. È l’ideale dell’arte classico, ma di un classicismo filtrato attraverso il razionalismo, rispettoso del sentimento. I classici, per gli Arcadi, sono lo strumento di liberazione dal male barocco. Il primo teorizzatore dell’Arcadia fu il Gravina, convinto cartesiano. Ma la proposta di restaurazione poetica del Gravina, ispirato ad un concetto della poesia derivato da Omero, Dante e dall’Ariosto, era troppo lontano dal gusto del tempo e perciò non ebbe seguito. Prevalse, dunque, sulla proposta del Gravina quella del Crescimbeni che riprende le premesse del gruppo toscano e le adegua agli ideali di costume della società romana: si fa interprete del concetto saggio-edonistico, idillico e patetico della vita diffuso tra la classe aristocratica del tempo. Secondo il Balestrieri, l’Arcadia non riesce ad un sostanziale rinnovamento della nostra poesia; attesta sì, una esigenza di chiarezza e verità espressiva, e riesce ad un rinnovamento nelle forme e nel gusto poetico, ma continua ad essere un’evasione dalla realtà – come era già accaduto nel Seicento con il marinismo (evasione verso il mondo del senso e del capriccio) ma verso un mondo musicale e idilliaco. Diversi sono gli indirizzi della poesia. Nei primi decenni del secolo gli arcadi prendono a modello, semplificandone temi e adattandola alla loro sensibilità e gusto idilliaco-musicale, la poesia petrarchesca. Successivamente abbandoneranno questa prima maniera ricorrendo a quelle forme che maggiormente si prestavano ad accogliere la sostanza idilliaco-evasiva: la poesia anacreontica, pastorale, le egloghe, i sonetti bucolici, l’idillio rinascimentale e alleggeriscono rinnovandole le forme classico razionalistiche. Ma l’età dell’Arcadia vede anche l’opera di Vico, del Muratori e del Giannone, una gran quantità di scrittori di scienze che riprendono la tradizione del Galilei e del Redi, e instaurano un nuovo tipo di prosa, un nuovo genere di scrittura tutta attenta alle cose, alle idee e ai fatti. Non più alle parole → maggiore serietà di propositi. Inoltre, troviamo una vasta produzione di tragedie ma anche di commedie. Da ricordare è, all’interno della tradizione dei romanzi settecenteschi, l’Alfieri con la sua Vita. Partecipe dei nuovi orientamenti culturali e dei nuovi indirizzi letterati dell’illuminismo, letterato di tipo nuovo, già in questa prima metà del secolo ci si rivela uno scrittore veneziano di nascita, che viaggiò per tutta Europa e fece esperienza delle più progredite civiltà: Francesco Algarotti (1712-1764). Per la sua partecipazione alle nuove idee scientifiche e filosofiche, per il suo nuovo concetto di cultura, tra gli italiani appare essere il più vicino a quegli scrittori enciclopedici che riconoscevano Voltaire come maestro. Fu da subito orientato alla nuova cultura d’oltralpe. Nonostante così aperto e innovativo, l’Algarotti conserva tuttavia alcuni caratteri tipici del letterato italiano del primo Settecento: è cortigiano e galante, amabile e civile. Nei suoi scritti anticipa la letteratura di tipo didascalico- divulgativa che fiorirà nella seconda metà del secolo, divulga in forme facili ed amabili la Cinquecento – Seicento - Settecento| Rachele Giuliani 36 nuova scienza, la nuova <<filosofia sensata>>. Notevole è l’influenza di Algarotti per quanto riguarda la tecnica espressiva divulgativa. PIETRO METASTASIO (1698 – 1782) Come conclude il Sapegno, Metastasio <<è veramente l’ultima voce poetica della vecchia letteratura, in cui si riassume un processo secolare di stilizzazione e di idealizzamento del contenuto sentimentale, e in cui si esprime l’aspirazione estetica di un mondo raffinato giunto alla sua estrema maturità>>. Nel melodramma metastasiano – come continua il Sapegno – è possibile cogliere appieno i fortissimi legami che avvincono il mondo arcadico, con la sua tenue ispirazione sentimentale, a tutta la nostra tradizione poetica. Educato dal Gravina, ad una severa disciplina classica, apprese il metodo cartesiano e ne trasse, da questa sua prima formazione, quelle virtù di chiarezza e di precisione. Morto il Gravina, si iscrisse all’Arcadia, si trasferì a Napoli e abbandonò la letteratura del Tasso e del Marino. Condusse una vita cortigiana e venne a contatto con la nuova cultura, conobbe i più grandi musicisti dell’epoca e iniziò a scrivere melodrammi. Dunque, la soggezione alla musica, della poesia. Nei suoi scritti, Metastasio respinge le unità aristoteliche di tempo e di luogo nella tragedia; accoglie il principio del lieto fine, dà un’interpretazione meno tragica, settecentesca, del concetto di catarsi, tale che accoglie gli esempi di virtù e gli affetti più gentili, l’amore prima di tutti. LUDOVICO ANTONIO MURATORI (1672 – 1750) • Pre-illuminista • Nuova storiografia basata sui documenti • Nega la legittimità del potere temporale della Chiesa La più cospicua testimonianza del rinnovamento operato dalle nuove idee d’oltralpe è costituita in questa prima metà del secolo, dalle opere storiografiche ed erudite. Gli storici settecenteschi analizzano i fatti e i documenti scrupolosamente, in modo scientifico. L’opera più erudita di questo nuovo indirizzo delle ricerche storico-erudite è certamente quella del Muratori. Il Muratori, nella sua vasta produzione, attesta oltre che un concetto nuovo della cultura e delle lettere come di strumenti di miglioramento, di progresso e di pubblico bene, un nuovo modo di studiare e valutare i fatti storici e letterari. Attinge dalle idee d’oltralpe innestandole sulla situazione italiana a lui contemporanea. Spesso usava la parola ‘repubblica’ anche per indicare il principato, con lo scopo – dice – di <<far intendere una verità: cioè che quantunque uno stato sia governato da un principe suo, non lascia per questo d’essere quel popolo una società e repubblica, di cui capo è esso principe e membra sono i sudditi>>. La sua opera attesta appunto questo aprirsi della cultura italiana alla cultura d’oltralpe. La novità fondamentale del Muratori, è il ripudio dell’autorità, della tradizione, in nome della ragione dell’esperienza, è in quel suo schierarsi – fatta eccezione per la verità della fede – dalla parte di coloro che <<hanno appreso a cavare le verità dalle profonde miniere della mente e delle cose>>: Bacone, Cinquecento – Seicento - Settecento| Rachele Giuliani 37 Galilei, Cartesio e Gassendi. Già nelle opere giovanili Primi disegni ella Repubblica letteraria d’Italia, Delle riflessioni sopra il buon gusto nelle scienze e nelle arti, il Muratori rivela il suo proposito di procede ad un esame critico della cultura italiana, fondandosi sui principi di ragione e di esperienza, il suo impegno a chiarire la verità, a giovare al bene comune: e a questo fine infatti egli vagheggia un’accolta di tutti i più illustri uomini di cultura d’Italia. A questo nuovo concetto di una cultura utile, volta al pubblico bene, a diffondere la verità che la ragione vien scoprendo, egli ispira tutta la sua opera successiva. Seguace del metodo scientifico che fonda la certezza di ogni conoscenza sull’esperienza, avvedendosi che per gli avvenimenti storici manca la possibilità di una diretta esperienza, egli pensa che soltanto l’esame critico di tutti i documenti e delle testimonianze relative ai fatti possa supplire alla mancanza di questa. Proprio per questa sua convinzione, egli raccolse tutti i documenti e testi, vagliandoli con spirito critico, del medioevo italiano: i Rerum italicarum scriptores. Di questa raccolta, Muratori stesso si valse per le sue Antiquitates italicae medii aevi e per i suoi Annali d’Italia. La sua posizione, chiaramente preilluministica, permette di respingere la vecchia storiografia teologica e provvidenziale e giudicare liberamente illegittimità del potere temporale della Chiesa. L’ILLUMINISMO – Quel vasto moto culturale che rappresenta il punto d’arrivo del processo di rinnovamento avviato dal razionalismo cartesiano e dal pensiero scientifico già durante la prima metà del XVII secolo, prende il nome di Illuminismo. Se l’ideologia illuministica si sviluppa durante il Seicento e i primi del Settecento soprattutto in Inghilterra e nei Paesi bassi, essa giunge alla sua piena maturazione, si fa generale processo di cultura in Francia durante il XVIII secolo. Si fa ideologia interprete e guida di una classe che va affacciandosi alla ribalta della storia. Carattere fondamentale, predominante nell’illuminismo, è la fede assoluta nella ragione umana. Se questa concezione deriva dalla filosofia di Cartesio, assai diverso da quello cartesiano è tuttavia il modo degli illuministi di concepire la ragione. Se per Cartesio la ragione ha in sé alcune verità fondamentali indipendentemente dall’esperienza sensibile, alcune <<idee innate>> dalle quali, seguendo il metodo deduttivo, è possibile dedurre altre verità, per gli Illuministi la ragione non possiede alcuna verità, ma è soltanto il mezzo che la verità consente di conquistare fondandosi sui dati dell’esperienza, risalendo cioè, con processo induttivo, dai dati dell’esperienza alle leggi generali. Fondando la conoscenza tutta sull’esperienza, gli illuministi rinunciano, come a compito al di là delle umane possibilità di conoscenza, a ricerca l’essenza delle cose, e si volgono a studiare come si svolgono le cose. Gli illuministi negano ogni verità soprannaturale, ogni principio di autorità. • Atteggiamento di ostilità degli illuministi nei confronti del passato, quella loro visione della storia come di un composto di molte ombre e poche luci (Balestreri). Il secolo XIX respinse la visione illuministica del passato, negò al ‘700 il senso e il rispetto della storia, scoprì, sulle orme del Vico, le norme del progresso storico, la logica interna alla storia, alla luce della quale ogni momento del passato si giustifica e acquista un suo significato di necessità; tuttavia rimane grande merito degli illuministi l’aver avviato una visione dei fatti del passato libera da ogni pregiudizio e soprattutto aver sganciato i fatti dalla sfera teologico-religiosa e di affermare la validità assoluta della ragione umana. Cinquecento – Seicento - Settecento| Rachele Giuliani 40 intimo alla critica romantica, ad una comprensione più <<storica>> dell’opera del poeta lombardo. Parini elaborò un’originale forma poetica – sintesi delle nuove esperienze tecnico formali e della meditata lezione di una lunga tradizione classica operata sotto lo stimolo dei nuovi contenuti – la sola atta ad accogliere poeticamente la nuova e urgente materia d’affetti. Il Sapegno precisa: << Col Parini, si riaffaccia, nella storia della nostra letteratura, la forza, il peso di una grande coscienza morale: un ‘uomo’, come vide benissimo il De Sanctis, schietto ed intero, saldamente piantato con tutta la sua umanità risentita e vigorosa di fronte alle idee e ai sentimenti della sua età, della quale accoglie il contenuto più moderno e coraggioso, moderandolo in parte e inquadrandolo negli schemi della tradizione italiana di pensiero e d’arte>>. Il Parini pubblicò la sua prima opera – una raccolta di poesie – dal titolo Alcune poesie di Ripano Eupilino, che, se attestano la serietà e la diligenza dei suoi studi letterari, rispecchiano anche la sua posizione di isolamento nella progredita cultura milanese del tempo, la sua estraneità ad essa: per questa opera di fatto, il Parini, appare un Arcade arretrato, si rifà all’Arcadia della prima maniera. Ma già ben visibile la sua perizia letteraria. Ciò gli valse l’ammissione all’Accademia dei Trasformati di cui fino ad allora avevano fatto parte soltanto uomini di illustri natali. Parini ha estrema fiducia nel progresso umano, muove una critica severa agli errori del passato in nome della ragione, ed insieme diffida di ogni rottura dell’ordine del presente; riconosce nella ragione e nella filosofia i principi che debbono informare la vita sociale e ordinarla al bene comune; esalta i sovrani nella misura in cui li vede sapientemente adeguare la loro azione politica a questi principi; professa una nuova morale che, se riconosce la sua radice nella ragione, ritrova i suoi esemplari nei classici, si mantiene fedele alla religione tradizionale ma la rivede alla luce della ragione e dei suoi ideali, e ne sottolinea i motivi egalitari e umani che propone all’Illuminismo; e concepisce le lettere non come strumento di puro diletto ma come missione civile, come mezzo per rendere buoni i cittadini, per apprendere all’uomo quella saggezza fatta di equilibrio degli affetti e di accordo con le leggi naturali, quel dominio di sé, quella coerenza morale e dignità che stanno in cima ai suoi pensieri. La poetica – Abbiamo visto come la poesia del Parini, prima che il poeta venga a contatto delle idee illuministiche francesi e dell’ambiente culturale milanese, sia ancora tutta letteraria e arcadica. Venuta a contatto della società milanese e della nuova cultura, Parini, mentre matura una seria aspirazione morale e civile, arricchisce e rinnova la sua primitiva concezione letterariamente classica della poesia alla luce delle idee sensistiche; egli accoglie cioè i principi della poetica del sensismo e li innesta sulla sua poetica angustamente classicistica. Come tutti i letterati illuministi della sua età, Parini ravvisa le cause della decadenza letteraria italiana nello scadimento degli ideali civili, nella mancanza della libertà di pensiero, nella servitù morale e politica imposta all’Italia dalla Controriforma e dal dominio spagnolo, e aspira ad una nuova letteratura, utile, volta a migliorare moralmente la società a rendere savi e buoni i cittadini. In questa sua poetica, il Parini viene conciliando e temperando coi precetti della poetica classica la lezione del Muratori e del Gravina, e la teoria sensistica dell’arte del Beccaria e del Verri: l’esigenza di un’arte utile e piacevole. Questa nuova poetica, che rispondeva ad un’esigenza di letteratura viva, interprete di una realtà storicamente determinata, attenta più alle cose Cinquecento – Seicento - Settecento| Rachele Giuliani 41 che all’eleganza astratta delle parole, si trova alla base della prima produzione pariniana, quella delle prime odi e delle prime due parti del Giorno. Ma, man mano, Parini viene isolandosi e rinuncia alla sua polemica, chiudendosi in una individuale saggezza distaccata, pone al centro della sua poesia sé stesso: uomo nuovo, disilluso e distaccato, che si descrive. Proietta nella sua poesia la propria umanità e le proprie idealità morali. Nelle ultime parti del Giorno, il Parini non cerca più di indagare le ragioni sociali di quella condizione di vita; la dipinge, la condanna anche, sdegnoso, ma di uno sdegno tutto morale, espressione di una coscienza risentita, non ti una partecipazione militante ad una polemica in atto. Il Giorno, ora, diviene, in altre parole, veramente una satira di costume, che può essere cosa finissima, ma è cosa ben diversa da una più acre e mordente satira sociale. Dal Giorno, Il mattino – Il risveglio del Giovin Signore è diverso da quello del villano o dal fabbro. Solo quando il sole è già alto il Giovin Signore si leva. Il primo dubbio che ha è cosa mangiare a colazione. Poi converserà a letto aggiornandosi sugli ultimi pettegolezzi. Poi si dedicherà alla toeletta. La pettinatura è l’occupazione più importante della mattinata. La sezione si chiuderà con l’uscita del Giovin Signore diretto dalla propria Dama. Il Mezzogiorno – il Giovin Signore raggiunge dunque la sua dama. Imbandita è la mensa. I discorsi dei commensali sono tutti impegnati sull’economia, sui commerci e l’ateismo ma non si toccano temi come l’uguaglianza degli uomini. Il vespro – Il cocchio per l’uscita è pronto. È l’ora delle visite. Il Giovin signore e la dama fanno sosta in un angolo appartato, mentre le ombre discendono ovunque e il sopraggiungere della notte impedisce al poeta di seguire oltre le vicende del Vespro. La Notte – Il poeta accompagna il Giovin Signore e la dama nella gran sala di un palazzo nobiliare, dove si radunano i nobili del luogo. Un gruppo di eroi che si resero illustri per alcune doti mirabili vengono presentati al Giovin Signore. Qui i nobili si abbandonano al gioco. A questo punto, come è noto, fu interrotta dal Parini la stesura del Giorno. L’accento satirico del poema, la coscienza risentita ed offesa del Parini, raggiunge infatti un’efficacia grandissima, ed accenti severi e vibranti quando dall’impasto stesso dei versi delicati, lavoratissimi, sapientemente indugianti tra gli aspetti del costume nobiliare, scaturisce per un inciso, per un solo endecasillabo, per un attributo, l’immagine pietosa e paurosa della miseria. Il Giorno è anche giocato sull’opposizione della vita del Giovin Signore con il fabbro o gli altri umili personaggi, utilizzando un linguaggio che si alterna tra una freddezza minuti di analisi o intonazione volutamente libresca, accademica. La critica ha notato – dal Mattino, al Vespro alla Notte – un decantarsi sempre maggiore dell’impegno polemico, uno spostarsi degli intenti verso zone sempre più equilibrate di nitidezza espressiva, di abbandono contemplativo. Dalle Odi – Il bisogno (1) – Un’Ode di battaglia, per la quale il Parini si apparenta a Beccaria, ed esprime in forma poetica alcuni dei principi più nuovi dell’epoca. Fa parte di quel gruppo iniziale di Odi (La salubrità dell’aria, L’impostura, L’educazione, L’innesto di vaiuolo, Il bisogno) che testimoniano il vivacissimo accordo del Parini con la nuova Cinquecento – Seicento - Settecento| Rachele Giuliani 42 cultura, e la coscienza del poeta di partecipare ad una lotta in cui la parte migliore della società lombarda era impegnata, la persuasione di scrivere non solo per sé ma per i suoi concittadini. La struttura dell’Ode è quella tradizionale del componimento d’occasione: esprime l’idea del Parini sulla giustizia penale del tempo, secondo lo scrittore, crudele e iniqua. La seconda parte delle Odi, che coincise con la prosecuzione ormai stanca del Giorno, attestano il disperdersi dell’impegno più pugnace, polemico e attivo. Ma questo blocco corrisponde anche la proposizione al nuovo secolo delle voci più interne e di una maturazione dello spirito. CARLO GOLDONI (1707 - 1793) • Teatro portavoce del terzo stato • Rinnovatore del teatro • Personaggi tipizzati (Pantalone, Brighella, Truffaldino ecc.) • Teatro realista: riflette il momento storico • Iniziatore della commedia moderna La critica odierna mira ad una interpretazione integralmente storicistica del teatro veneziano, tende, cioè, a cogliere il rapporto dialettico tra lo scrittore di teatro e il mondo culturale e sociale in cui questi visse – spiega la sua riforma come espressione dell’impegno di realizzare un teatro nuovo nelle forme e nei contenuti. Il De Sanctis vede in Goldoni il creatore di un mondo poetico <<il cui centro è l’uomo… ridotto alle sue proporzioni naturali e calato in tutte le sue particolarità della vita reale>> → realismo. Il De Sanctis continua: <<La nuova letteratura fa la sua prima apparizione nella commedia del Goldoni, annunziandosi come una restaurazione del vero e del naturale dell’arte. Se la vecchia letteratura cercava di ottenere i suoi effetti scostandosi possibilmente dal reale, correndo appresso allo straordinario o al meraviglioso nel contenuto e nella forma. La nuova cerca nel reale la sua base e studia al vero la natura e l’uomo […] tutto ciò che costituiva la forma letteraria è sbandito da questo mondo poetico, il cui centro è l’uomo, studiato come fenomeno psicologico, ridotto alle sue proporzioni naturali e calato in tutte le particolarità della vita reale>>. Come poté il Goldoni giungere ad un’arte così nuova? Goldoni fu lettore delle opere teatrali di tutta Europa, soprattutto francesi. Il Goldoni esordisce arcade ma assorbe la nuova cultura razionalistica che si andava formando, quando in Italia si andavano definendo nuclei borghesi, economicamente e culturalmente attivi, l’adesione dello scrittore alle idee illuministiche del tempo, che appare assai chiara ad un esame attento delle opere, non ha nulla di estremistico, ne è del tutto consapevole. Al fondo delle commedie avvertiamo la simpatia, la cordiale accettazione della sana morale del mondo borghese mercantile, tutta fondata sulla schiettezza, sulla fedeltà della parola data, sulla difesa della reputazione; avvertiamo la fiducia nella ragione umana, la simpatia per l’<<omo civil>> che ispira le sue azioni a ragione e natura. Che il Goldoni avesse chiara consapevolezza del significato teatrale e sociale della sua riforma, che avesse un suo preciso programma da realizzare, che si vantasse di essere “filosofo”, cioè devoto della ragione e desideroso di riformare il costume, che avesse un suo mondo cui dar vita in forme adeguate, e che questo mondo e questo programma riflettessero chiaramente la sua adesione alla civiltà Cinquecento – Seicento - Settecento| Rachele Giuliani 45 uomini solitari impegnati in una solitaria lotta titanica contro i limiti che la realtà pone alla condizione umana, in una lotta che si conclude con lo sdegnoso abbandono del mondo, con la morte come estremo atto di protesta, come sola possibile vittoria. Il motivo delle tragedie alfieriane, in situazioni pur diverse, è sempre lo stesso: un incontenibile impeto a realizzare il proprio io, ad attingere una assoluta libertà cui contrasta la realtà. Di qui la cupa e dolorosa solitudine, la oscura tormentosa coscienza di un invalicabile limite, la tristezza dei personaggi alfieriani. Così, al fondo della tragedia di Saul, nella quale trova compiuta espressione l’animo di Alfieri, è la constatazione che all’umano anelito alla libertà s’oppongono forze invincibili da cui Saul si libererà, riaffermandosi, nella morte stessa, liricamente vittorioso. Dal trattato DELLA TIRANNIDE – Gli scritti politici dell’Alfieri, non sono più avvicinati dagli studiosi come un complesso organico di dottrine ma come l’espressione di quei miti passionali, di quella concezione sostanzialmente angosciata e dolorosa dell’essere che è all’origine delle Tragedie, e cioè del sentire alfieriano. Il trattato si incentra tutto su due affermazioni di carattere estremo, che non permettono né tollerano eccezioni: che la paura è alla base di ogni società fondata sulla tirannide, anzi è l’elemento primo su cui la tirannide si regge e che l’uomo libero, all’uomo che voglia conservare intatta la propria dignità in un tale regime, non restano che due soluzioni: o il suicidio o l’uccisione del despota; oppure l’isolamento, la sottrazione di se stesso ad ogni rapporto, ad ogni forma di vita sociale, cioè uno stato similissimo alla morte. Per definizione, Alfieri considera tirannide ogni monarchia, sia pur retta da un principe illuminato o benigno, finisce, dunque, per identificarsi con ogni struttura statale, con ogni forza che si oppone al libero sviluppo dell’Io. Dalla tirannide si evade solo realizzando intorno a sé stessi un’orgogliosa e disumana solitudine. Non politica concreta ma <<metapolitica>>; aspirazione insaziata ad una condizione umana redenta da ogni limite, e perciò stesso non realizzabile, incentrata nel cerchio angusto del solipsismo alfieriano, destinata ad operare con efficacia assai limitata sul terreno pratico, e tuttavia ancora capace di proporsi come mito, come simbolo della libertà interiore. Dalle RIME – Vero petrarchismo è quello dell’Alfieri, non tanto per il richiamo continuo alle situazioni del Petrarca, o ai versi, alle dizioni, alle espressioni del poeta ma per il richiamo ad uno degli insegnamenti essenziali del Petrarca, a quella profondità e idealizzazione del sentire amoroso che il Seicento e il Settecento avevano tradito del tutto. Ma in questo rinnovato petrarchismo, in questa rinnovata serietà del poetare d’amore, quale immissione di furori nuovi, quale inserimento di una psicologia angosciata, di un prorompere altero dell’Io, sullo sfondo di un viaggiare iroso e malinconico, di una solitudine cupa. Tacito orror di solitaria selva – Il poeta pone sé stesso nei suoi rapporti con altri uomini, con il proprio tempo (sintesi dell’autoritratto alfieriano). È da notare che è assente il tema amoroso, che il desiderio della solitudine è ricondotto questa volta ad una condizione più profonda, cioè ad uno stato di <<sofferenza storica>>. Paesaggio preromantico, lontanissimo dalle intonazioni rugiadose. Il solitario bosco ombroso è mutato in un paesaggio interiore, in cui si acquieta la tristezza aspra del poeta più insoave del secolo. Il paesaggio non ha nulla di idilliaco. La dolce tristezza è ricercata non giacché il poeta Cinquecento – Seicento - Settecento| Rachele Giuliani 46 aborra gli uomini ma per lo sdegnoso disprezzo del proprio tempo, di quell’assolutismo illuminato che egli non sarà mai disposto ad accettare. Metrica: sonetto con schema ABBA ABBA CDC DCD Tacito orror di solitaria selva di sì dolce tristezza il cor mi bea, che in essa al par di me non si ricrea tra' i figli suoi nessuna orrida belva. E quanto addentro più il mio piè s'inselva, tanto più calma e gioia in me si crea; onde membrando com'io la godea, spesso mia mente poscia s'inselva. Non ch'io gli uomini abborra, e che in me stesso mende non vegga, e più che in altri assai; nè ch'io mi al buon sentier più appresso; ma non mi piacque il vil secol mai: e dal pesante regal giogo oppresso, sol nei deserti tacciono i miei guai.
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