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Riassunto “Geografia e storia della letteratura italiana” Carlo Dionisotti, Sintesi del corso di Letteratura Italiana

Riassunto “Geografia e storia della letteratura italiana” di C. Dionisotti

Tipologia: Sintesi del corso

2021/2022
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Scarica Riassunto “Geografia e storia della letteratura italiana” Carlo Dionisotti e più Sintesi del corso in PDF di Letteratura Italiana solo su Docsity! Riassunto “Geografia e storia della letteratura italiana” Carlo Dionisotti Geografia e storia della letteratura italiana Prima dell’ultima guerra tornò in discussione fra gli studiosi italiani il quesito se e fino a quale punto la storia d’Italia potesse dirsi unitaria. Benedetto Croce pubblicò nei “Proceedings of the British Academy”, un saggio in cui ribadiva la tesi in cui non bisognava parlare di una storia d’Italia anteriore al processo unitario del Risorgimento, essa si risolse nella storia delle singole unità politiche, regionali o municipali o altamente costituite, in cui l’Italia era stata divisa. La tesi di Croce ricadeva sul tentativo che la storiografia e pubblicistica cognitiva di ritrovare ascendenze alla nobiltà romana e cesarea e al nazionalismo imperialistico (e razzistico) che si era affermato in Italia al potere. Essa però più principalmente mirava all’opporsi alla tesi, sostenuta da vari studiosi, che sotto la diversità e divergenza degli eventi politici verificatisi in Italia durante il Medioevo e l’Età moderna, fosse riconoscibile la linea di una tradizione e di un’aspirazione unitaria di un’unità civile fondata sulla comunità dei costumi, degli interessi economici, delle istituzioni giuridiche, del linguaggio, delle lettere, delle arti, tale che senza di essa impossibile sarebbe rimasta l’unificazione politica attuata dal Risorgimento. A questa discussione, nuovo stimolo dovevano fornire le vicende dell’ultima guerra e dell’immediato dopoguerra. Da una presunta comunità unitaria della storia d’Italia, la discussione fu spostata sulla compattezza dell’unificazione risorgimentale. Luigi Einaudi, un saggio da poco apparso oggi in Italia, c’insegna quanto l’unità di una regione isolata come il Piemonte e di una regione che ebbe molta importanza nel processo unitario del Risorgimento, sia un fatto recente, e come essa risulti da un’assimilazione di nuclei minori; ciascuno con una sua tradizione d’indipendenza. Mai come all’indomani di una disfatta militare e nel decorso di una crisi politica che hanno insidiato l’unità e l’esistenza come nazione e come stato dell’Italia, si è sentito il bisogno di vedere in che modo l’Italia ad oggi sia stata fatta. Il problema che si è posto nei termini di storia politica, invade anche la storia della letteratura, e sollecita l’attenzione degli studiosi di quest’ultima. È significativo che, una storia della letteratura di Francesco De Sanctis, sia l’unico libro che abbia offerto e che offre una suggestiva rappresentazione e interpretazione unitaria della loro storia. Sui documenti letterari, da Dante al Manzoni, è fondata la traduzione unitaria in Italia. Questa tradizione non risulta da un ideale politico, ma bensì da un vittorioso ideale letterario; dal mito che la cultura italiana del Rinascimento creò e impose ad un’Italia risvegliatasi dal suo sonno medievale. È stata una tradizione umanistica nutrita da successi linguistici e letterari, fondata sulla persuasione che gli italiani soffrono la violenza degli eventi storici, ma sono solo essi capaci, tramite la conoscenza e l’educazione, di opporre alla violenza la validità del discorso e della scrittura. Strano potrebbe sembrare oggi questo “mito”, ma non lo è affatto per chi considera l’importanza che la tradizione classica ha avuto sulla cultura europea, e quanto a questa abbia contribuito la scuola umanistica italiana. È un fatto che tra il Trecento e il Cinquecento l’aristocrazia letteraria italiana ebbe largo corso in Europa, e vi lasciò traccia anche nei secoli successivi. Si sviluppavano dal Cinquecento in poi, affianco alla letteratura italiana, le altre grandi letterature moderne. Mutava per via di ricerche e nuove conoscenze, la concezione che il Rinascimento italiano aveva avuto dell’antichità classica e del Medioevo. La letteratura italiana si trovò tra il Seicento e il Settecento a dover difendere la legittimità dei suoi privilegi, come essa aveva largamente donato ad altri, così ora essa potè accettare il combattimento sul terreno degli avversari non meno che sul proprio. Da questa difesa, nel contesto con la cultura francese e a riscontro dell’Histoire littéraire de la France, nasce nel Settecento la storia della letteratura italiana. Il Tiraboschi intese scrivere una storia della letteratura italiana che fosse “storia dell’origine e dei progressi di tutte le scienze in Italia”, cioè, quali fossero i popoli, le lingue e le civiltà che si sono succedute nel corso dei secoli. L’autore via via disegna la storia degli Etruschi, degli abitanti della Magna Grecia e dei Siciliani antichi, fino a giungere a quella dei Romani; e ci si rende conto che Tiraboschi procedeva per una via simile a quella che aveva condotto la cultura italiana del Rinascimento per affermare il principio letterario dell’Italia. Si era arrivati a tale conclusione isolando fra le scienze tutte le letterature, e isolando nella letteratura stessa un canone rigoroso di scrittori classici esemplari. Da qui, grazie a una ragione poetica e una tradizione semplice e unitaria, nasce il principato letterario dell’Italia. Il Tiraboschi ritenne di dover assicurare con la sua opera, integrando e convalidando i fatti accertati dalla sua ricerca, la teorica espressa dalla ragione poetica e dalla tradizione. Egli prestava gran riguardo alla verità e all’esattezza. Verità ed esattezza di storico vietarono a Tiraboschi di attribuire a questa definizione geografica della sua opera un altro tipo di valore, limitandola ad un contenitore delle sue ricerche. L’Italia resta infatti per Tiraboschi una espressione geografica. È anche vero però che nell’opera del Tiraboschi l’intelligenza dei fattori geografici resta inferiore a quella che egli ebbe dei fattori cronologici, e fuori dalla sua considerazione doveva rimanere il rapporto di spazio e tempo di un paesaggio storico. Una tale storia della letteratura italiana non basterebbe alle generazioni successive, a uomini per i quali l’Italia non era un’espressione geografica, ma era una nazione degna fido prendere posto tra le nazioni d’Europa. Sorge così una nuova storia della letteratura italiana, in parte accettando, riformando, semplificando e rifiutando i risultati di quella del Tiraboschi. Della sua storia della letteratura italiana venne rifiutata la parte migliore: l’inflessibile ricerca del particolare vero ed esatto, l’amplia e diretta conoscenza delle fonti, la storia concepita e trattata con metodo filologico. Fu riformata e superata l’irresolutezza teorica del Tiraboschi, e fu sostituita alla poetica del Rinascimento e dell’Arcadia, la poetica del Romanticismo e con essa un nuovo cannone di scrittori, fu fondata un’altra tradizione letteraria. La cultura italiana si rifiutava, anche fra gli intelletti più all’avanguardia, di accettare una poetica e una storiografia che minacciavano di passare agli archivi quattro secoli di letteratura italiana. Si rifiutava per via della fedeltà che aveva verso la tradizione nazionale, che era ormai stata superata dal Romanticismo in Europa; rinsaldata dall’impegno dell’Europa del Risorgimento politico italiano. Veniva però ripugnava, come si può vedere nell’opera di De Sanctis, per via di una consapevolezza critica dei limiti e dei difetti della poetica romantica. La storia della letteratura italiana di De Sanctis è stata la pietra di paragone di un’individuale attitudine critica, e delle esigenze e disposizioni comuni o prevalenti in un’età della cultura italiana. Fra queste una storia della letteratura italiana, cioè l’inquadramento all’interno di uno schema storico-geografico unitario degli “indipendenti” mondi poetici che la critica romantica aveva scoperto e colonizzato. Le figure tragiche dell’Inferno dantesco si incontravano, nel pensiero di De Sanctis, non con altre nel processo della poesia italiana, ma bensì fuori dall’Italia e a intervallo di secoli, come ad esempio con le figure tragiche di Shakespeare. È inoltre vero che questa apertura crescente della cultura italiana sulla cultura europea, doveva ribadire la legittimità dello schema storico-geografico italiano. In questo schema veniva trasferito quel contrasto polemico che Tiraboschi aveva proposto opponendo una grande e immemorabile tradizione italiana alle tradizioni altrui. Il paragone era tra quello che l’Italia sembrava essere e quello che l’Italia avrebbe dovuto essere. Quello che l’Italia avrebbe dovuto essere s’identificava con quello che altre nazioni erano state, e che l’Italia col suo Risorgimento era divenuta o si apprestava a divenire. Questa immagine non solo s’imponeva al passato come termine di paragone, ma essa gli si sovrapponeva pure. Quanto duri questa situazione e quali ostacoli la colonizzazione toscana abbia incontrato nell’Italia settentrionale è difficile da affermare allo stato attuale degli studi. È urgente una più esatta informazione della cultura e letteratura latina in tutta Italia durante il Trecento, così anche della presenza e resistenza di tradizioni così dette dialettali, cioè non toscane. Al Sud era giunta prestissimo l’eco della Commedia dantesca, e nella prima metà del Trecento vive la sua feconda giovinezza Boccaccio, e per tutto il secolo mercanti e banchieri toscani si accalcano, Toscani giungono fino alle più alte cariche dello stato. Proprio dal Sud nel Duecento aveva tratto il suo primo impulso la poesia toscana, ma il panorama letterario che già nella seconda metà del Duecento si disegna e nel Trecento si conferma a rispetto di una colonizzazione toscana nella vita economica e civile è netto: nessuna traccia da Roma a Napoli a Bari all’Aquila o a Sulmona, per non parlare della Sicilia, d’un contributo alla letteratura italiana sulla base proposta dai Toscani e da Dante, fino alla metà del Quattrocento e oltre. Fino a tale data, i risultati di un’inchiesta statistica sono che, nonostante la rivelazione di Dante, confermata ed estesa da Petrarca e Boccaccio, più di mezza Italia, da Nord a Sud, non risponde all’appello. È evidente che la Commedia di Dante sia l’opera di un esiliato, sorge dall’esperienza di insolite e lontane vite e terre, procede nel trapasso dall’Inferno al Purgatorio, fino a una visione più libera e ampia: essa mantiene fede alla città d’origine, Firenze, ancora ne ritrova l’immagine con una meticolosità che sembra l’incubo di un sogno, nel cielo paradisiaco di Cacciaguida. Altrettanto evidente è che il Canzoniere di Petrarca nasce ovunque fuor che in Toscana, da un fragile volontario di cui è ormai patria il mondo, e tuttavia nasce da uno sforzo di concentrazione su di una base linguistica e metrica, fedele alla tradizione toscana. Il Decameron del Boccaccio nasce si, a Firenze, e vi s’inquadra a norma di un equilibrio sentimentale e di una lucidità figurativa che non hanno riscontro nelle sue opere precedenti, ma nasce anche da un impeto narrativo, da un’avventura amorosa, che in quelle opere, nelle prime in specie, traspaiono; e sono nel Boccaccio i segni e i risultati della sua educazione e giovinezza napoletana, della sua esperienza vagheggiata e rimpianta. Perciò nel suo esilio nel suo esilio in patria sedimentata e liberata al canto di una vita più lussuosa di quella che ai suoi occhi sembrava a Firenze. La stanchezza poetica che si avverte nella seconda metà del Trecento non è un fenomeno che possa distinguersi dall’esaurimento della tradizione provenzale, e dall’assottigliarsi di quella francese. La grande poesia italiana del Trecento vien meno nell’anno 1374 anno in cui si spegne Francesco Petrarca. Fra la morte di Petrarca, e l’anno dopo quella di Boccaccio, e l’avvento dei poeti medicei, corre quello che viene comunemente chiamato il secolo senza poesia. Il rilievo che qui s’impone non riguarda l’assenza d’un qualche grande poeta; ma riguarda piuttosto che durante buona parte di quel secolo l’ambito della letteratura toscana si restringe e si municipalizza, e si ha per la prima volta forse in Italia, una letteratura dialettale nel senso vero e proprio della parola, fondata sull’uso consapevole di un linguaggio di rango inferiore. L’avvio su questa pendenza è dato subito dopo la morte di Boccaccio, da Francesco Sacchetti, che può essere considerato il “nonno” se non proprio il “padre” della tradizione macchiaiola toscana, di una prosa argentina e arguta, piacevole e provinciale, che ha avuto vita nei secoli e un pò l’ha tuttora. A Sacchetti sussegue Burchiello, che getta la sua vena di poesia in un gergo intraducibile, e mira a un impegno non più comico ma pur sempre farsesco di quella poesia. Si può dire che Burchiello inauguri una tradizione di poesia burlesca e aggressiva, tipicamente toscana. La contrazione municipale e degradazione letterale contraddistingue la letteratura toscana fra il Trecento e il Quattrocento, Franco Sacchetti volge lo sguardo indietro, e lamenta che ogni poesia sia mancata; ma al tempo stesso Coluccio Salutati guarda con autorità all’avvenire. Il Burchiello si batte per la farsa, ma uomini come Leonardo Bruni, Poggio Bracciolini, Leon Battista Alberti si battono per la serietà e la gravità. La letteratura toscana di riprende e rinvigorisce sulla fine del Trecento e l’inizio del Quattrocento, ma su una base che non è costituita da Dante, Petrarca e Boccaccio; si tratta di una base che implica fedeltà alla propria terra e contemporaneamente il pellegrinaggio umanistico ai santuari dell’antichità classica. Su questa base umanistica, tra la fine del Quattrocento e gl’inizi del Cinquecento, si costituisce una una letteratura italiana. Fenomeno europeo è l’Umanesimo, e non è contestato da nessuno che l’Italia abbia avuto in esso una parte preminente e decisiva. Questa parte non si spiega se non si tien conto dell’appello unitario che si leva in un periodo di cinquant’anni dalla Divina Commedia, dalle rime petrarchesche e dal Decameron, ma neppur si spiega se non si tien conto delle resistenze che opponeva a tale appello il frazionamento politico e linguistico dell’Italia medievale romanza: dove l’invasione verso l’antichità classica e verso la lingua classica era patrimonio comune di tutte le scuole della penisola. Come da una comunità scolastica si passi a una comunità letteraria latina e poi questa si apra al riconoscimento e all’impresa di una comunità letteraria italiana, è un processo storico che gli studi moderni hanno chiarito. Quel che importa sottolineare è il carattere di polemica e di drammaticità che riveste, in un periodo drammatico della storia d’Italia, l’ultima fase del processo stesso. La nuova lingua e letteratura italiana risulta toscana, ma non perché in Toscana sorgesse allora una forza espansiva capace d’imporsi sul resto d’Italia, ma perché un Poliziano riuscisse a quello a cui non erano riusciti un secolo prima Dante, Petrarca e Boccaccio. L’Ariosto nel Furioso dipende anche da Poliziano, ma anche dai tre grandi e dai latini, e direttamente dipende da Boiardo, e per questa via da una tradizione narrativa che fa capo alla letteratura franco-italiana. La linea e il limite di sviluppo della tradizione letteraria toscana in questa età si può segnare nella storia politica, così nel successivo esperimento principesco e papale dei Medici, e come della catastrofe della libertà fiorentina. Sul piano della letteratura, alla resa dei conti di una questione che agli ultimi del Quattrocento si era fatta nazionale e omogenea, da un capo all’altro della penisola, della cultura umanistica, non i Toscani conquistano il resto dell’Italia, bensì il resto dell’Italia conquista la Toscana e ne spartisce a suo modo il patrimonio linguistico e letterario. Guicciardini controlla la lingua della sua Storia, che vuole essere ed è Storia d’Italia, sulle Prose del veneziano Bembo. Nella seconda metà del secolo l’Accademia della Crusca accetta pubblicamente il fatto compiuto, rivolge la situazione a suo favore, e assume il proconsolato della lingua. Tutta la storia della letteratura fiorentina nel Cinquecento è una semplificazione delle reazioni e degli adattamenti che essa comporta. Che l’Ariosto, nella finale rassegna del Furioso, non avesse capito il rammarico di Machiavelli, è indicativo di un fenomeno notevole nella storia della letteratura italiana del Cinquecento: l’esaurimento delle possibilità poetiche nei Fiorentini, e ciò in un’età di esorbitante facilità e sfoggio dell’esercizio poetico in Italia. La poesia non nasce mai da una materia informe, ma nasce da quelle forme che sono le parole e i nessi sintattici, stilistici e metrici. La questione di una lingua e questione di una nuova letteratura, non più toscana ma italiana, fanno nel Cinquecento tutt’uno e rappresentano un contrasto di forme retoriche, che comportano una differente capacità e scelta di poesia o di prosa. Gli studiosi hanno cessato di ribadire la futilità accademica della questione della lingua, per essa si risolve quella polivalenza linguistica che era stata caratteristica della cultura italiana nel periodo delle origini, e che si era perpetuata durante l’età umanistica. Per essa venne a pacificarsi nello scrittore e nel lettore italiano la concorrenza quasi di due nazionalità, municipale l’una e nativa col suo dialetto l’altra, conquistata a prezzo di una trasposizione linguistica. Solo alla luce di queste considerazioni si spiega la genesi dell’opera eccezionale qual è quella del Folengo. L’infondatezza e l’inconcludenza dei tentativi perpetrati nel secolo scorso e nel nostro di rivelare, permanenti caratteri, pregi, difetti e limiti della letteratura italiana non hanno bisogno d’essere ulteriormente dimostrate. Ciò non significa che ogni letteratura non possa avere proposto e risolto particolari problemi suoi, e serbato l’impronta di sé dalle soluzioni aggiunte. Cosi è ad esempio, e di contro al Folengo, il carattere che contraddistingue la letteratura italiana dal Cinquecento in poi. È il risultato del processo linguistico e letterario cinquecentesco, che fu indirizzato con intuito e puntiglio alla poesia, e in essa al momento lirico, che si libera dalla realtà quotidiana e dalla passione stessa. A questa ricerca s’accompagna la diffidenza e lo scarto di elementi realistici e drammatici, quanto più la ricerca si fa agevole e sicura, tanto più si nota in Italia durante il Cinquecento la disposizione a riaprire il varco alla repressione degli affetti. Torquato Tasso e Battista Guarini sono i primi poeti in Italia dei quali possa dirsi che siano nati in italiani, che cioè abbiano avuto un’educazione nell’ambito di una letteratura italiana già costituita. Essi osano e aprono il facile fluido del linguaggio poetico, e all’intima crudeltà e al gioco delle effimere passioni umane, aggiungono all’italianismo, una seduzione immediata e profonda che accompagna nell’età successiva l’inchiesta psicologica e l’interpretazione drammatica della vita. La fondazione cinquecentesca della letteratura italiana è il risultato definitivo, di quelli che come tre secoli dopo l’unificazione politica dell’Italia (17 marzo 1861), non è pensabile possano essere messi in discussione nella storia di un popolo. Procedendo oltre, la situazione muta, sorgono altri problemi e s’impongono altri canoni interpretativi. Nel primo Cinquecento la crisi dovuta alla crescita della letteratura italiana coincide con la crisi politica che travolge l’indipendenza d’Italia e la soggioga al predominio straniero. Querele e invocazioni in prosa e in rima fanno largo alla chiusura del Principe machiavellico. Il problema principale di quella letteratura è nazionale, non nazionalistico. Nel Seicento la situazione appare mutata, la polemica antispagnola di scrittori che ebbero fortuna europea, come il Boccalini, annuncia una istanza nazionalistica e una revisione della tradizione umanistica, che sempre più si diffondono in Italia durante il Seicento; si dichiarano alla fine del secolo e ai primi del successivo con l’Arcadia, e investono l’intero corso della letteratura moderna. La geografia storica italiana richiede, per essere adeguatamente studiata, una carta d’Europa, ma anche una carta della sola Italia si dimostra opportuna. Il panorama del Seicento si è chiarito a seguito degli studi compiuti nell’ultimo cinquantennio, tuttavia di quanto la moderna critica italiana cede per ampiezza e sicurezza d’informazione a quella del Settecento, ha potuto resistere per molto tempo al giudizio polemico pronunciato in Arcadia sulla letteratura del Seicento. È un capo dove vi resta ancora molto lavoro da svolgere, appare evidente l’insufficienza degli addebiti a suo tempo smossi e al predominio spagnolo dell’inquisizione romana e a una presunta fiacchezza morale degli italiani. Un secolo prima l ritirata su posizioni difensive e la capitolazione delle forze politiche accendeva i migliori all’impresa di unificare ed esaltare l’Italia nella letteratura e nelle arti, ora nel Seicento, questa unità né riceve dalle condizioni politiche nuovo stimolo né riesce ad inserirsi in esse e a modificarle. È nel momento in cui più viva si fa l’esigenza di una iniziativa, l’attesa di un appello nazionale, una situazione invece di abbandono di disponibilità, che precipita in ozio accademico. A questa reagisce e ne risente il frazionamento storico dell’Italia: fiorisce nel Seicento, a paragone della letteratura nazionale, la poesia e letteratura dialettale, e consegue risultati sorprendenti e duraturi. Si spiega con ciò il fatto che il rinnovamento della letteratura italiana nel Settecento sia sorto sì dall’iniziativa nazionale dell’Arcadia e da una nazionalistica difesa e reazione dell’Italia contro la scoperta delle altre moderne letterature europee, ma che questo rinnovamento si sia sviluppato a seconda di una differenziazione regionale, serbandone l’impronta. Esempio è la commedia veneziana di Goldoni, la fedeltà di Parini alla sua Milano, non e solo un accidente della sua biografia. Essa corrisponde alla sua posizione letteraria. Decisivo è nella carriera di Parini il coup d’essai, per la quale da giovane entra nel campo dell’autonomia lombarda e contro le illusioni di un’autorevolezza toscana. La sua carriera è una ripresa originale del processo per cui due secoli prima, legando la questione della lingua e quella dello stile del linguaggio poetico, si era costituita una letteratura italiana non toscana. La Lombardia era stata nel Cinquecento fra le regioni più restie e disinteressate al rinnovamento letterario italiano, e per contro nel Settecento fu tra le più solerte al recupero della storia letteraria italiana e dell’eredità cinquecentesca. Parini anche nei suoi capolavori poetici rappresenta fedelmente i gusti dell’Arcadia, per Arcadia non s’intende qui la prima romana, che aveva avuto a suo poeta Metastasio, ma bensì di una seconda e affatto diversa Arcadia, sorta nella metà del Settecento per iniziativa delle colonie settentrionali.
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