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RIASSUNTO STORIA DELLA MEDICINA E DELLA SANITA' IN ITALIA - COSMACINI, Appunti di Storia Contemporanea

Riassunto sostitutivo del libro di Cosmacini - Storia della medicina e della sanità in Italia dalla peste nera ai giorni nostri (Laterza, 2016) | dal capitolo "Prima della rivoluzione politica: gli acquisti del Settecento" al capitolo "Nell’Italia repubblicana: la seconda metà del Novecento" (da pag. 209 a 511)

Tipologia: Appunti

2020/2021

In vendita dal 08/05/2022

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Scarica RIASSUNTO STORIA DELLA MEDICINA E DELLA SANITA' IN ITALIA - COSMACINI e più Appunti in PDF di Storia Contemporanea solo su Docsity! Capitolo 3 PRIMA DELLA RIVOLUZIONE POLITICA: GLI ACQUISTI DEL SETTECENTO 1. LE MALATTIE DEI LAVORATORI Il Seicento si conclude con una vera e propria crisi della scienza medica universitaria. Questo perché la struttura istituzionale universitaria era abbastanza rigida e consentiva poca libertà di ricerca, proprio nel momento in cui si iniziava a chiedere ai medici una più attiva partecipazione nella ricerca scientifica. Si chiedeva ai medici un nuovo tipo di scienza medica: non più quella aristotelica-galenica, ripetuta e riascoltata all’infinito nelle aule universitarie, ma una medicina nuova fondata sulla matematica, sulla fisica, sulla chimica, sulla sperimentazione e sull’osservazione. Va cambiando anche il ruolo socio-professionale del medico: fino ad allora chi studiava medicina mirava a installarsi in un ceto sociale alto prestando i propri servizi presso il re, il papa, i nobili, i vescovi. Adesso, i medici esercitano la professione anche nelle campagne, nelle zone periferiche. Anche se formare un medico era una impresa costosa, spesso le borse di studio elargite da comunità e privati permettevano a giovani borghesi provenienti dalla città e dalla campagna di studiare medicina. Un nome da ricordare è Bernardo Ramazzini (1633 – 1714), un medico novatore. Egli smaschera tanti suoi colleghi che non sapendo cosa fare di altro e non volendolo ammettere si rendevano essi stessi nocivi agli ammalati somministrando certi preparati o praticando i salassi. Anche lui praticava i salassi, ma con parsimonia e non in maniera indiscriminata, diceva. In un contesto di medicalizzazione spinta anche la semplice parsimonia e discrezione terapeutica può far novità. Scrive Ramazzini nella sua opera “De morbis artificum diatriba”: C’è una categoria di medici che ordina lunghe cure anche per malattie brevi e che guarirebbero da sole. Dapprima propina lenitivi, poi eccitanti, sciroppi di cui sarebbe doveroso non conoscere l’esistenza, indi purganti, ripetuti salassi e mille altri fastidi, tutto secondo il principio: non passi giorno senza che sia stata prescritta una nuova ricetta. Riferiti a questi medici, suonano bene i versi di orazio: come sanguisuga che, non appena ha afferrato qualcuno per curarlo, lo tiene e lo uccide, e non lascia la pelle se non quando è piena di sangue. Non è solo per la cautela terapeutica che Ramazzini merita il nome di “novatore”. Lo merita anche e soprattutto perché inizia a parlare di “malattie dei lavoratori”. Egli è il primo medico che inizia a trattare e a informarsi sulle malattie delle persone che possono essere correlate al lavoro che fanno; lavoro che è mezzo di sostentamento e causa di malattia. Oggetto di questo nuovo sguardo medico sono i metallurgici, cioè coloro che lavorano i metalli e i minerali in generale. Scrive Ramazzini: I minatori vengono colpiti da gravissime malattie che resistono a ogni tipo di cura, anche se somministrata secondo tutte le regole. C’è da chiedersi, comunque, se si debba considerare un’opera pietosa concedere a questo genere di lavoratori il soccorso della medicina e prolungare loro una vita di miseria. Ma poiché spesso principi e mercanti traggono dalle miniere grandi guadagni e l’uso dei metalli è indispensabile praticamente in tutte le lavorazioni, è necessario preoccuparsi della loro salute, prendere in esame le loro malattie e proporre accorgimenti e rimedi. È dunque il vantaggio economico che principi e mercanti traggono dal lavoro della gente, oltre alla necessità imposta dal progresso tecnologico, a motivare Ramazzini nel profondo, per sua stessa ammissione, spingendolo a posare il proprio sguardo su chi si ammala lavorando e lavorando produce ricchezza. Dopo i minatori vengono i doratori e gli unguentari, gli uni e gli altri offesi dal mercurio. Vengono poi i vasai danneggiati dal piombo, gli stagnai dal «piombo bianco», i fabbriferrai e i solfatari dallo zolfo, i vetrai dal borace e dall’antimonio, i pittori dai diversi minerali contenuti nel minio, nel cinabro, nella biacca, nel verderame, nell’azzurro oltremarino. Le malattie dei chimici dànno a Ramazzini l’occasione storica di prendere posizione in merito a quello che forse è il primo caso noto di inquinamento dell’ambiente, in Italia. Egli cita il caso di un fabbricante di prodotti chimici del Modenese, querelato da un cittadino che lo ha accusato di ammorbare l’aria con i fumi velenosi prodotti in fabbrica dalla lavorazione del vetriolo. Il querelante ha esibito un certificato medico addebitante alla nube tossica le malattie polmonari sofferte da molti abitanti della zona, nonché le morti per consunzione registrate nelle parrocchie zonali in percentuale nettamente maggiore che altrove. Alla fine, i giudici dettero ragione al fabbricante» e torto al cittadino. Una seconda categoria è quella dei lavoratori che introducono sostanze nocive sotto forma di vapori, liquori, polveri, particelle. Essa comprende quelli che «usano il gesso e la calce e li cuociono nelle fornaci»; poi gli speziali, i tintori, i vuotacessi, i fabbricanti di oli, di candele di sego, di budelli per strumenti musicali a corda, i conciatori, i beccai, i casari e i pescivendoli. Ramazzini ricorda che è dovere del medico analizzare attentamente le cose sgradevoli e avere a che fare con le cose ripugnanti, quindi non c’è da essere non abbia continuatori fino alla seconda metà dell’Ottocento è legata all’accelerazione dell’incremento demografico. Per meglio dire: tra il 1750 e il 1800 ci fu una ripresa demografica (tasso di incremento fino al 4,4%) che favorì la disponibilità di manodopera e provocò quindi disinteresse per la sorte dei lavoratori. Disinteresse dei datori di lavoro preoccupati solo del profitto, ma anche disinteresse dei medici che criticavano Ramazzini dicendo che umiliava la scienza scendendo nei pozzi e frequentando i più umili ambienti di lavoro. Disinteresse anche dei lavoratori stessi privi della coscienza necessaria per assumersi il problema della propria e altrui salute e tra l’altro trascurati dalla stessa opera di Ramazzini, scritta in una lingua ad essi inaccessibile. Nel triennio 1711-1713 ci fu in Italia la peste bovina. Il medico Carlo Francesco Cogrossi scrisse che la peste bovina, come ogni altra epidemia contagiosa, è causata da “animaluzzi” tanto minuti quanto micidiali, la cui virulenza è dimostrata dal fatto che riescono ad uccidere un bue. E la vita di questi microrganismi è correlata al clima dei paesi e all’igiene dei popoli. Dice che il solo modo per impedire la contagiosità di questi animaluzzi è l’isolamento degli individui infetti, o sospetti di esserlo, seguito da disinfezione germicida. Un altro medico importante è Giovanni Maria Lancisi (1654 – 1720) che formula un’ipotesi: osserva le acque stagnanti trasformate in vivai di zanzare e ipotizza l’esistenza di “insetti, i quali alterano in modo speciale le condizioni del sangue, infondendovi un liquor velenoso…”. Scruta attentamente la zanzara e riproduce sperimentalmente in grandi recipienti le condizioni della sua nascita, e segue passo passo la sua metamorfosi, da larva a insetto. Dunque, tra i suoi maggiori contributi vi fu la scoperta della correlazione tra la presenza di zanzare e la diffusione della malaria. 2. LA GESTAZIONE DEL MEDICO MODERNO La scienza medica avanza ma si misura con una pratica medica svolto ancora prevalentemente in casa, sia del paziente che del medico. Le cure negli ospedali erano riservate principalmente a coloro che non avevamo né mezzi finanziari né famiglia, o amici, o domestici che potessero assisterli; oppure erano riservate agli ammalati che, dopo aver provato tutto, speravano di trovare altrove qualche aiuto. Quindi, una ospedalizzazione che serviva più ad assistere il malato piuttosto che per esigenze di diagnosi e cura e riservata più ai casi gravissimi che a quelli di minor gravità. Ma nel primo Settecento, in campo ospedaliero, qualcosa si muove: c’è la creazione di istituti clinici, cioè di ospedali clinicizzati a partire dalla città di Leida (Olanda) con Boerhaave, il medico olandese di Goldoni. La clinica di Boerhaave è un luogo di selezione dove può scegliere a scopo didattico i malati da seguire e studiare. L’osservazione del malato dà modo di interpretare e descrivere le malattie. Ma anche il nuovo modello boerhaaviano, come quello galenico, non considera la possibilità del riconoscimento diagnostico post mortem, ovvero l’idea di indagare la malattia in un corpo non più in vita. Idea sorretta anche dal senso comune: a che giova diagnosticare la malattia quando il malato è già morto? Lancisi propone il modello di carriera al medico del Settecento, in poche parole la sua tipologia di percorso professionalizzante si articola in due poli. Primo polo è il luogo ospedaliero che è sede di formazione e di reclutamento dei chirurghi ed è sede di apprendistato e di tirocinio pratico per i medici. Secondo polo è la biblioteca che si trova nell’ospedale stesso. Essa è sede di apprendimento delle discipline come la chimica, la botanica, l’anatomia, la zootemia, la geometria. I due poli tra i quali, nel modello lancisiano di carriera, si dipana la formazione scientifico-professionale del medico settecentesco sono estranei entrambi all’area dell’insegnamento pubblico. Infatti, le lezioni tenute a La Sapienza a Roma e anche a Bologna - le due sedi più prestigiose degli studi medici nello Stato pontificio – sono frutto ancora della dottrina classica della tradizione aristotelico-galenica. Quindi lo studente per imparare il mestiere cerca anche fuori dalle aule universitarie i saperi scientifici della professione del medico. Questi contenuti scientifici vengono trovati nelle ore di libertà e di ozio, scrive Lancisi, nelle biblioteche del luogo ospedaliero, fuori dall’orario delle lezioni universitarie. Un altro medico, Gianbattista Morgagni, professore di anatomia all’Università di Padova, pubblica il suo libro De sedibus et causis morborum per anatomen indagatis in cui raccoglie tutte le dissezioni fatte in tutta la sua carriera. Morgagni conosce i suoi cadaveri, sono i ricoverati nell'ospedale di Padova che disseca per vedere se a sintomi e malattie corrispondono segni anatomici sul corpo. Nasce con Morgagni l'anatomia patologica. Con la questione dell’autopsia che prende vita, si dimostra che le malattie hanno una sede e una causa precisabili. Quanto alla sede, sono localizzate in queste o quell’organo e non generalizzate all’intero organismo. Quanto alla causa, sono dovute a lesioni organiche e non ad alterazioni umorali (della composizione chimica degli umori) o del “tono” (dello stato fisico delle fibre). Morgagni – osserva Stanley J. Reiser – stabilì due premesse che divennero fondamentali nella formazione e nella pratica delle generazioni successive di medici. La prima è che le malattie lasciano tracce rivelatrici nei tessuti del corpo; la seconda è che lo studio di queste tracce è il modo migliore con il quale il medico può verificare i suoi giudizi dal vivo e raggiungere così l’eccellenza clinica. I cadaveri dove Morgagni ricerca le lesioni non sono infatti più i corpi dei giustiziati. Questi corpi potevano solo servire all’anatomia umana normale in quanto, da sani, erano corpi sani. All’anatomia patologica invece servono corpi che da vivi erano malati. Ma l’anatomia patologica resta comunque in disparte per un po’, anche a causa di un’obiezione che le viene fatta, quella che le lesioni degli organi sono effetti delle malattie e non le cause. Il punto era che la scienza medica era spiegata a partire dalla vita, dal corpo vivente, e non dalla morte, dai cadaveri. Il paradigma secondo cui la medicina non era stata mai pensata se non partendo dal vivente verrà messo da parte da un altro paradigma secondo cui la medicina sarà pensata partendo dalla morte vista come entità non più opposta alla vita ma intrinseca alla vita sottoforma di lesione distruttiva e quindi di malattia. Ma questo blocco ideologico a livello scientifico è anche un blocco mentale che opera nella società. Infatti, nella società del Settecento si fa fatica a far coincidere il mestiere meccanico-manuale del chirurgo e la professione liberal-intellettuale del medico. Nel Settecento inoltrato poi ci sono una serie di riforme “laiche”, “scientifiche” nella Lombardia di Maria Teresa e Giuseppe II e cioè: apertura degli studi alla concorrenza di nobili e non nobili; soppressione della Compagnia di Gesù e delle sue scuole; rifondazione dell’università come spazio pubblico non più marginale, ma centrale, e, in questo spazio ricuperato alla sua funzione originaria, conferimento del titolo di studio dopo lo studio, non prima, un titolo molto simile alla moderna laurea in medicina e chirurgia, acquisito con l’apprendimento e l’apprendistato nella nuova facoltà scientifica. Si trasformano le istituzioni: non solo arrivano i cadaveri per le dissezioni dal luogo pio ospedaliero, ma in questo si eseguono le operazioni chirurgiche ed entrano i professori a far lezione e gli studenti a far pratica in corsia. Si supera la dicotomia tra università e ospedale, ovvero tra la sede dell’insegnamento-apprendimento teorico della medicina (università) e la sede del suo esercizio-apprendimento pratico. Vengono così anche a sovrapporsi le contrapposte figure del medico e del chirurgo. Quindi, a fine Settecento, nasce la figura del medico-chirurgo moderno, formato contemporaneamente in aula e in corsia, da teoria e pratica. Si verifica anche una sorta di cambiamento di prospettiva a livello sociale per quanto riguarda la saldatura della vecchia frattura lavoro intellettuale e lavoro manuale. E questo si accompagna a una maggiore mobilità sociale: non pochi giovani provenienti dalla più minuta borghesia cittadina e rurale stesse persone due volte e non ritorna nello stesso luogo se non a distanza di 4, 5, 6 anni. Per meglio dire, durante tutto il Settecento, arrivavano ondate di vaiolo ogni 4,5 o 6 anni. Questo si spiega col fatto che chi ha avuto la malattia (e l’ha superata) non viene ricontagiato nel momento in cui ha contatto nuovamente col vaiolo. Per cui, gli intervalli regolari di 4, 5, 6 anni servono al ricostituirsi di una popolazione indifese sufficientemente folta. Dunque, non potendo fare ritorno negli individui guariti e immunizzati, il vaiolo colpisce soprattutto i bambini sotto i cinque anni: cinque anni è, mediamente, l’intervallo di tempo tra una epidemia e l’altra. Il vaiolo è responsabile così di circa un terzo della mortalità infantile. Mortalità e incidenza del vaiolo sono minori negli adulti e la spiegazione è che questi hanno in gran parte già contratto la malattia nell’infanzia. Però nelle campagne, che per essere poco popolate non consentono alla malattia di persistere endemica, sono colpiti in gran numero anche gli adulti, in precedenza non immunizzati. Nei guariti, nei punti dov’erano le pustole, restano le cicatrici, indelebili, che deturpano stabilmente il viso il corpo: una traccia della morte scampata. Il metodo che sarà detto della variolizzazione, cioè l’inoculazione a scopo profilattico del vaiolo umano consisteva nel prelevare con una specie di ago una goccia di pus da una pustola vaiolosa e graffiare il braccio della persona da “immunizzare”. Antenato del moderno vaccino. Così la piccola malattia che si provocava faceva sì che il soggetto non venisse ricontagiato dopo. Era una pratica nuova, empirica, non basata su alcuna teoria e deve la sua fortuna a una nobildonna, lady Mary Wortley Mmontagu, moglie dell’ambasciatore inglese presso la Sublime Porte. E’ lei, rientrata in patria, a farsi nel 1721 promotrice della pratica della variolizzazione, che viene provato in sei condannati a morte, cinque dei quali si ammalano di vaiolo in forma leggera e guariscono. Circolazione e respirazione sono al centro dell’attenzione medica. Le condizioni dell’aria respirata sono da sempre nel mirino di chi cerca le cause degli eventi morbosi; e le modificazioni del circolo sanguigno sono ritenute responsabili di molte malattie. La stessa febbre è vista come effetto di una mutata composizione del sangue. Per tornare all’inoculazione del vaiolo, non è causale che in Italia l’inoculazione del vaiolo esca fuori a Livorno, uno dei più importanti scali marittimi inglesi. “Trovai nel 1755 l’inoculazione stabilita in Livorno, molto tempo innanzi avendocela portata i negozianti inglesi”, scrive La Condamine nel mémoire di quello che è stato un voyage médical da lui compiuto in Italia. L’inoculazione si installa dopo un’eclissi trentennale, spiegabile con l’instabilità politica del paese e anche a causa degli ostacoli messi sul cammino dei movimenti illuministi e riformatori che saranno una premessa indispensabile della battaglia per l’innesto. Uno di questi ostacoli sta proprio all’interno della classe medica italiana che nel suo torpore intellettuale non aveva molta disponibilità ad assimilare un progresso così innovatore come la variolizzazione. Tuttavia, la battaglia per l’innesto non è riconducibile schematicamente a una lotta tra medici conservatori e medici novatori. Il problema è più complesso perché questa pratica della variolizzazione porta anche dei rischi, non lievi: innesti troppo leggeri non evitano la malattia e innesti troppo virulenti addirittura provocano la malattia in maniera grave. Questo è il nodo che discussioni e polemiche non riescono a sciogliere. La posizione dei medici nei confronti dell’inoculazione del vaiolo è sintomatica della posizione di questi verso tutta la scienza. Essere inoculisti significa schierarsi dalla parte di quella nuova scienza. Essere anti-inoculisti significa invece schierarsi contro di essa, a difesa di vecchie forme di sapere legate alla metafisica e alla teologia. Il problema dell’innesto viene infatti ulteriormente complicato: “quanto è lecita questa pratica sotto il profilo teologico-religioso?”. La prevenzione contro la malattia che si intendeva realizzare sembrava contrastare con la volontà di Dio, sola arbitra della vita e della morte, della malattia e della sanità. In sostanza, variolizzare era un produrre la malattia nell’individuo sano, rovesciando il fine istituzionale della malattia di far recuperare la salute all’individuo malato. Nel 1756 c’è una violenta epidemia di vaiolo in Toscana e l’autorità pubblica di Firenze organizza per la prima volta in Italia l’azione preventiva contro il vaiolo. Il medico toscano Angelo Gatti, professore di medicina teorica a Pisa dal 1755 al 1762, è autore di centinaia d’innesti a persone di alto rango e ne sbaglia qualcuna, falsificando, agli occhi degli anti-inoculisti, la validità della pratica. Siccome i casi di vaiolo aumentavano, gli anti-inoculisti portavano avanti l’idea che la causa della grave diffusione dei vaiolo fosse proprio la variolizzazione. Gatti ammette con dignità la propria svista nei casi di innesto fallito e nella sua opera Réflexions “sui pregiudizi che si oppongono ai progressi dell’inoculazione”, pubblicata nel 1764, si oppone alle obiezioni degli avversari provando a dare una prima spiegazione scientifica dell’inoculazione. Dopo, nell’altra sua opera Nouvelles réflexions, del 1767, il suo scopo non è più quello di illuminare la classe medica sulla scientificità della pratica dell’inoculazione, ma è quello tecnico-pratico di fare da guida agli inoculatori per imparare bene l’arte dell’inoculare. Dà ormai per scontato che l’inoculazione sia utile e arriva a dire che ogni persona può praticarla, anche una donna, e che non sarà più privilegio di pochi ma sarà universale, per tutti, e solo a quel punto l’inoculazione sarà davvero utile al genere umano. Va da sé intuire che da questo momento in poi si fa strada la medicina non più solo come “cura”, ma anche preventiva, profilattica. La riforma istituzionale di Frank prevede anche una “polizia medica” che è inserita anche come materia d’insegnamento nel nuovo piano degli studi della facoltà medica pavese. Polizia medica vuol dire politica della salute pubblica. Il monarca illuminista è interessato alla buona salute dei suoi sudditi. Questo per assicurarsi efficienza, produttività e ricchezza e dunque deve interessarsi direttamente delle condizioni di vita di tutta la popolazione e delle condizioni di lavoro della popolazione. Per Frank la medicina è il collegamento tra le istituzioni politiche, che legiferano per il bene di tutta la popolazione, e l’intervento preventivo e curativo, che deve trasformare quel bene in termini di concreto benessere. Frank allarga le visioni e arriva a negare che la malattia sia un prodotto soltanto naturale, cioè un evento predestinato a verificarsi e contro cui l’uomo non può far nulla; si convince invece che la malattia è soprattutto l’effetto di cause secondarie come la miseria, l’ignoranza e l’ineguaglianza. Frank scrive che la polizia medica è un’arte di difesa che insegna a proteggere gli uomini e gli animali dalle conseguenze di una numerosa coabitazione e a promuovere il loro benessere del corpo. E’ un’arte fatta di cibo sufficiente, vestiti adatti, case abitabili. Consiste nel controllo sanitario della vita umana in tutti i suoi momenti; comprende infatti l’igiene matrimoniale, la tutela della maternità e dell’infanzia, l’educazione fisica dei bambini, la protezione dei lavoratori, la regolamentazione dei tempi e delle pause di lavoro, la cura ospedaliera dei malati, l’assistenza ai malati, la sorveglianza delle sepolture. In poche parole, l’uomo è vigilato, controllato, sotto la protezione del medico dalla culla alla tomba. L’arte di difesa si realizza anche nella prevenzione delle epidemie: Frank, infatti, è tra i sostenitori dell’innesto del vaiolo e sarà l’iniziatore, a Vienna, della vaccinazione antivaiolosa proposta nel 1798 dal medico inglese Edward Jenner attraverso l’inoculazione non più di pus, ma di “materia vaccina”, del primo vaccino della storia. Con l’invenzione del vaccino di Jenner, il bilancio demografico si aggiorna in positivo: la vaccinazione salva più vite umane di quante ne sacrifichi la guerra napoleonica insieme alle carestie ed epidemie collegate. mai visto prima: lo stetoscopio. Un cilindro di legno attraverso cui possono trasmettersi, uscendone amplificati, in condizioni sia normali che patologiche, suoni e rumori endotoracici dovuti a varie cause: movimenti del cuore, apertura-chiusura delle sue valvole, scorrimento del sangue nelle sue cavità, passaggio dell’aria nei bronchi e negli alveoli polmonari. E’ una cosa nuova. L’orecchio può diventare il tramite privilegiato di una percezione affidata fino a quel momento all’occhio. L’auscultazione del torace va ad ampliare l’esplorazione del corpo del malato da parte del medico. Questa nuova tecnica incomincia ad essere accettata in Italia nel decennio 1826-1835. Ma non è un percorso facile, molti medici considerano lo stetoscopio uno strumento ridicolo che compromette la loro reputazione di professionisti dell’intuito. Pensano che il loro “intuito clinico” non ha bisogno di strumenti e di manualità. Oltretutto l’auscultazione si deve studiare, risulta inutile e frustrante se la si usa senza saperla interpretare. L’accettazione dello stetoscopio è dunque in ritardo, in Italia, di almeno 25 anni. Ma le ragioni del ritardo non sono solo mediche. Anche i malati stessi sono restii. Molti sono allarmati, intimoriti da quest’”arma” che il medico estrae dalla sua borsa, infastiditi da questo bastoncino che viene affondato nella loro pelle. Per molte donne è una situazione imbarazzante quella di far avvicinare il volto del medico al loro petto. Chi accetta il nuovo metodo spesso lo fa solo perché crede che quel cilindro applicato al proprio torace possa avere potere terapeutico, più che diagnostico. Chi invece sa che lo strumento serve alla diagnosi ha dei motivi in più per temerlo: la precisione dello stetoscopio può confermare che la malattia non sia guaribile. L’entrata in scena dello stetoscopio è in ritardo in Italia così come in ritardo l’uscita di scena del salasso. Solo nel 1859 Salvatore Tommasi, medico a Pavia, comincia a insegnare che il salasso non serve. La polmonite, che fino al 1860 è ritenuta curabile con il salasso, dopo il 1860 è ritenuta diagnosticabile scientificamente con lo stetoscopio. Lo stetoscopio trasforma anche il rapporto medico/paziente. L’abitudine di raccogliere l’anamnesi, di ascoltare il paziente comincia a cedere il campo a un diverso modo di ascolto, all’auscultazione del torace. E’ un metodo sicuramente più oggettivo, più obiettivo rispetto alla soggettività dei sintomi riferiti dal paziente. Tutto l’Ottocento è un secolo di transizione. Nella prima metà del secondo la maggior parte della gente nasce, vive, muore senza ricorrere alle cure dei medici. Ma è anche vero che si assiste a una nuova fiducia nei progressi sanitari e medici. La crescita tecnologica dell’Ottocento porta con sé anche trasformazioni psicosociali. La chirurgia fa passi avanti nel trattamento di fratture, nel taglio di fistole anali o lacrimali, nella sutura di labbri leporini, nella legatura di vene varicose. Ma affronta anche interventi più complessi come eniotomie, litotomie, oftalmotomie, amputazione di arti. La prima operazione indolore, in Europa, è l’amputazione di gamba eseguita da Robert Liston, a Londra, il 21 dicembre 1846. Apre la porta all’ETERE. E’ la svolta. Prende avvio la rivoluzione dell’anestesia. E sempre nell’Ottocento si pongono le premesse di un’altra rivoluzione che avrebbe poi trasformato la sala operatoria in un luogo asettico, sterile: a cominciare dal lavaggio delle mani con acqua di cloro prescritto nel 1847 agli ostetrici viennesi da Ignàc Ssemmelweis. Lui è il tizio che ha scoperto che la febbre puerperale è dovuta a tracce di una sostanza velenosa trasmessa alle puerpere dagli ostetrici reduci dalla sala d’autopsia. Ma dopo questo, la scoperta di Semmelweis attende quasi vent’anni prima di essere utilizzata, sotto forma di disinfezione con acido fenico per prevenire la mortalità postoperatoria che penalizza fortemente le amputazioni: viene utilizzata nel 1865 da Joseph Lister, a Glasgow, e nel 1866 da Enrico Bottini, a Pavia. Quanto alle trasformazioni psicosociali, un mezzo per comprendere la loro dinamica nelle campagne è quello di confrontare la figura del medico con quella dell’altro intellettuale del mondo contadino: il prete. Nell’età della Restaurazione (1815-1848) tra i doveri del medico riguardo al malato c’è per prima la “famigliarità” e subito dopo la devozione religiosa. Nessun medico poteva dirsi ateo. I medici che hanno a cuore la salute dei loro pazienti devono far sì che il malato senta il dovere di confessarsi e devono inculcare in lui, se si aggrava, l’esigenza della Comunione per viatico. Devono anche prescrivere l’osservanza del digiuno quaresimale. Inoltre, i medici non devono mai negare i miracoli. Queste erano le “regole”. Il medico di campagna appare integrato in un sistema assistenziale che si prende cura delle condizioni igienico-sanitarie solo individuali dei pazienti, dando consigli in un contesto di tipo più pedagogico che scientifico. In un Discorso della morale del medico (Milano 1852), il medico Giuseppe Antonio Del Chiappa scrive che “la professione del medico è una maniera di sacerdozio”. Dal sistema benefico-assistenziale preunitario si passa gradualmente al sistema dell’assistenza pubblica, dove il medico, non solo combatte contro l’effetto-malattia ma lotta anche socialmente contro la causa-miseria. Assume anche un ruolo sociale centrale, tutelando tutta la specie umana sotto tutti i punti di vista. 2. CITTA’ E CAMPAGNA: MALATTIE DELLA MISERIA E MALATTIE DEL PROGRESSO I lumi della ragione e l’illuminismo hanno acceso la consapevolezza che la salute è un bene non solo del singolo, ma dell’intera società. La presa di coscienza che la malattia è un danno anche sociale ha portato alla denuncia del più importante tra i fattori che la determinano: la miseria, con conseguente malnutrizione e scarsa igiene. Tra il 1815 e il 1817 si abbatté su tutto il territorio nazionale una epidemia di tifo petecchiale con conseguenze drastiche aggravate dalla carestia. Ma ci sono altre malattie che colpiscono la popolazione: nelle campagne si diffondono la malaria e la pellagra; nelle città, con l’industrialismo, troviamo la tubercolosi e altre malattie dell’apparato respiratorio. Per quanto riguarda le epidemie ci sono vari tifi e il vaiolo resta lungi dall’essere debellato nonostante il diffondersi della vaccinazione. All’Italia del primo Ottocento resta questo primato: di essere un “osservatorio privilegiato all’incrocio delle conoscenze mediche e delle epidemie”. L’ultima epidemia di peste è la “peste di Noja” – odierna Noicattaro – datata 1815. Per quanto riguarda il tifo, invece, si nota che miete vittime quasi esclusivamente tra i poveri. In questo caso c’è un forte nesso tra miseria ed epidemia. L’età napoleonica è una vera e propria epoca d’oro della vaccinazione. Nel 1809 Luigi Sacco afferma che nel Regno governato da Napoleone si contano un milione e mezzo di vaccinati. Negli Stati italiani, con la sola eccezione del Lombardo-Veneto, esiste una netta discontinuità tra la grande penetranza della vaccinazione nei primi quindici anni del secolo e la notevole impermeabilità ad essa delle diverse realtà medico-sociali nel periodo successivo. Succede poi che nel 1829 si assiste ad un aggravamento del vaiolo. E l’unica arma resta solo il vaccino. Tra i non vaccinati la mortalità arriva a sfiorare il 20%. E’ questa l’ultima epidemia di vaiolo veramente grave, prima che la vaccinazione proceda (e soprattutto la rivaccinazione) e faccia progressivamente diminuire la mortalità. Esce quasi di scena il vaiolo ed entra in scena il COLERA, la “peste dell’Ottocento”. La sua marcia è cominciata nel 1817 e nel 1829 si è affacciata in Europa. Sintomi: l’individuo viene assalito da stanchezza, vertigini e brividi, seguono quasi immediatamente il vomito e la diarrea, oppressione al petto e sete. Il decesso è veloce. Nei casi meno disperati il male si prolunga fino a tre giorni. Il colera arriva in Italia nel 1835: passa da Marsiglia a Genova per via mare. Poi passa nel Lombardo- Veneto e dilaga nell’Italia centrale. A Napoli in ottobre e a Palermo l’anno dopo. In un triennio si contano 150.000 morti. A Milano ci fu un decorso dell’epidemia più mite grazie all’osservanza rigorosa delle misure sanitarie prescritte dall’autorità. A Parigi si è già definitivamente compiuto il doppio passaggio dalla preclinica «medicina dei sintomi» alla protoclinica «medicina dei segni» e da questa alla «medicina anatomo-clinica» di tipo moderno. Dal rilievo di un insieme caratteristico di dati spontanei, percepibili a una diretta osservazione del malato o da questo riferiti come fatti soggettivi, i medici di scuola parigina sono passati al rilievo di un insieme altrettanto caratteristico di dati provocati o comunque ricercati attraverso un esame attivo del malato; e sono poi passati al rilievo di alterazioni anatomiche. Questo passaggio viene recepito e assimilato dai medici di scuola viennese nella prima metà dell’Ottocento. La medicina arriva nei laboratori. Si tratta di passare da una medicina che ha ereditato dall’ideologia empirista il rifiuto per la ricerca delle cause, considerata una questione metafisica, a una medicina che invece vuol procedere in questa ricerca, attraverso l’indagine in laboratorio. Nei laboratori la ricerca sulla natura delle malattia procede grazie al microscopio, perfezionato dopo il 1830, e alla chimica. Tuttavia, la medicina anatomo-clinica è ricca di meriti nel campo della diagnosi, ma è povero di successi nel campo della cura. Si dice nichilismo terapeutico: il clinico, fatta la diagnosi, ritiene esaurito il proprio compito e si astiene dal prescrivere rimedi. Skoda, direttore della clinica medica di Vienna, dice che “quanto di meglio si può fare in medicina interna è il non far nulla”. Questo astensionismo che si crede salutare fa sì che alcuni medici si disinteressino della terapia, considerata cosa non scientifica e guardino alla guarigione come un fine secondario. Le questioni che si dibattono nei Congressi degli scienziati italiani sono molte. L’importante questione epidemiologica ha per obiettivo “l’istituzione di una statistica clinica nazionale e magistrale” finalizzata alla “migliore prosperità fisica dei popoli”. L’altrettanto importante questione ospedaliera ha per oggetto la disputa tra chi vuole aumentare i soccorsi a domicilio e diminuire il numero dei pazienti in ospedale e chi vuole invece potenziare ulteriormente gli ospedali. La questione accademica o scolastica, relativa alle molte scuole mediche in cui si diversifica l’insegnamento universitario, ha come oggetto l’unità della medicina: una stessa malattia non può essere curata in modi diversi a seconda della scuola di appartenenza dei medici. In Italia, la medicina non ha ancora conseguito la maturità anatomo-clinica già raggiunta a Parigi, a Berlino e a Vienna. Maturità anatomo- clinica della medicina e sua fondazione su basi fisiopatologiche sembrano realizzarsi con Maurizio Bufalini, clinico medico a Firenze dal 1835, che osservava, palpava, e utilizzava tutti i mezzi chimici e fisici a disposizione per visitare il malato. La scienza medica nel frattempo, nel corso dell’Ottocento, si è man mano perfezionata alla luce di nuove materie come l’istologia, la dottrina cellulare, la fisiopatologia e la patologia sperimentale. A Parigi, nel 1865 viene enunciata l’idea di una medicina sperimentale da parte di Claude Bernard. Il programma di Bernard è quello di portare oltre la medicina: è vero che è capace di diagnosticare scientificamente, ma è ancora incapace di stabilire quei nessi tra modificazione fisiopatologiche e farmaci che possono permettere la terapia scientifica. La medicina è attesa al varco di questo definitivo passaggio. Cambiano le preferenze. Il luogo medico privilegiato passa dalla corsia d’ospedale al laboratorio di analisi; l’oggetto della ricerca medica passa dall’uomo malato all’animale da esperimento; il mezzo terapeutico passa dal preparato galenico al principio attivo, isolato dalla chimica e clinicamente sperimentato. Inizia lo sviluppo farmacoterapico che continuerà nel Novecento. Il rinnovamento della medicina in Italia è scientifico e pratico, ma anche istituzionale e didattico. La soluzione al problema dell’insegnamento delle discipline mediche viene inquadrata dalla “legge Casati” del 13 novembre 1859. L’operazione che viene intrapresa negli anni 1861-62 dai ministri della Pubblica Istruzione consiste principalmente nell’immissione nell’insegnamento superiore di numerosi professori nuovi, molti dei quali di grande valore. “[…] dacché la morte di un organismo intero ha nella vita dell’universo lo stesso significato che per l’organismo umano ha la morte di migliaia di cellule epiteliali che in ogni minuti della nostra vita si staccano senza che noi ce ne accorgessimo menomamente”. Cantani dal libro di fisiologia Circolazione della vita. La riforma della medicina si realizza sempre più come revisione e aggiornamento della pratica operativa e sempre meno come instaurazione di nuovi principi sul piano concettuale. Tra i filoni della scienza medica è primario quello che riguarda il rapporto tra fatica e nutrizione (dissipazione e reintegrazione di materia ed energia). La fisiologia dell’alimentazione delle persone rimanda ai problemi economico-sociali dello sfruttamento del lavoro umano e della patologia da carenza alimentare. L’esaurimento da troppa fatica e il deperimento organico conseguente al suo cronicizzarsi sono visti come cause di sottosviluppo fisico. La capacità vitale del ricco a diciannove anni è molto maggiore di quella del diciannovenne povero. Si riflette quindi sulle condizioni di vita e di lavoro delle classi oppresse. Si arriva così al filone della patologia da lavoro. Lo specifico problema delle “malattie dei lavoratori” è stato rilanciato dopo un silenzio durato oltre un secolo e mezzo, da Paolo Mantegazza. Nonostante Ramazzini sia una gloria italiana, le ricerche in Italia sono in netto ritardo rispetto a quelle nate in Francia e in Inghilterra, paesi che molto prima del nostro hanno conosciuto i risvolti dannosi dell’industrialismo. In uno studio sulle Malattie professionali in rapporto al lavoro eccessivo (Milano 1884) il medico Giovanni Boeri identifica l’effetto nocivo e lesivo dell’eccesso di lavoro in un deperimento generale del lavoratore, in una debolezza di tutti gli organi e di tutte le funzioni. Il lavoro avvelena e consuma lentamente gli operai che appaiono pallini, stanzi, avvizziti. Dopo le due ondate epidemiche prima dell’unificazione – quella degli anni Trenta e quella del triennio 1854-56 – il colera ha investito nel 1865 il paese unificato, trascinandosi fino al 1867 e facendo non meno di 150.000 vittime. Più di tutte le guerre risorgimentali messe assieme. La campagna anticolerica condotta dai medici è stata improntata, fino alla fine degli anni Settanta, molto sulle norme di “profilassi individuale” e molto poco sulle norme di “profilassi pubblica”. L’iniziativa per provvedimenti legislativi di portata collettiva nel campo delle malattie contagiose prende piede negli anni Ottanta proprio dopo la scoperta da parte di Koch del virus del colera. Nel 1878 Pacchiotti fonda la Società italiana d’igiene e dice: “L’ora è propizia. I medici colgano il destro dal risveglio che nelle popolazioni manifestarsi per tutto che tocca la salute pubblica. Eglino si conducano al cospetto del pubblico, tengano conferenze, concioni, discussioni sopra tutti i grandi problemi di pubblica e privata igiene. Si facciano gli apostoli del benessere sociale, gli educatori delle nuove generazioni. [...] In ogni città si aprano pubbliche scuole d’igiene, dove tutte le classi sociali imparino come il popolo italiano possa in pochi anni diventare uno tra i più sani”. Dunque, si avvia una politica sanitaria guidata e gestita dai medici stessi che entrano in politica. Ma quest’ideale di sanità che progredisce in una società che si evolve è destinato a scontrarsi con la realtà. Ci sono forze contrarie e resistenze sociali. Il più importante momento di svolta nella storia della sanità in Italia fino al dopoguerra è segnato dalla LEGGE CRISPI-PAGLIANI del 22 dicembre 1888. Inizia la riforma sanitaria. La riforma crea nel paese una struttura piramidale articolata con al vertice un organo direttivo, affidato in partenza a un igienista come Pagliani e affiancato dal Consiglio superiore di sanità, immediatamente sotto ci sono i medici e i Consigli provinciali fino alla base dove ci sono gli uffici sanitari. Questa si presenta come la struttura portante di una politica sanitaria in equilibrio tra centralità e vedere cose nascoste all’interno del corpo umano. E’ uno strumento che rende più profondo lo sguardo medico, va oltre la capacità visiva degli occhi, così come lo stetoscopio permetteva di amplificare la capacità uditiva dell’orecchio. Il metodo radiologico a partire dal primo Novecento porta a pensare ai nuovi medici che la diagnosi basata sul racconto del paziente stia per scomparire. L’abitudine di raccogliere accuratamente l’anamnesi era già diminuita con la scoperta delle nuove tecniche diagnostiche che permettevano al medico di prescindere o quasi dalla soggettività dei sintomi riferiti dal paziente e di affidarsi alla oggettività dei segni rilevati dai propri strumenti. I racconti dei malati venivano considerati molto spesso inutili o comunque meno utili dell’esame obiettivo: due minuti ben spesi a esaminare il malato valevano più di due ore passate ad ascoltarlo. E nel primo Novecento la prassi clinica d’avanguardia minaccia di mutare ulteriormente: una radioscopia del torace e un esame dell’espettorato valgono, per la diagnosi di tubercolosi polmonare, molto più di una anamnesi fatta di racconti e molto più dell’esame obiettivo fatto con lo stetoscopio. Dei tre flagelli endemici (tubercolosi, malaria, pellagra), la tubercolosi è il primo, tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento. Tubercolosi che dal 1887 al 1914 si inserisce ai primi posti, stabilmente, tra le cause di morte. Non c’è una cura precisa, la clinica non ha grande potere di controllo su questa malattia, anche se batteriologia e radiologia assicurano diagnosi precise e tempestive. Più che altro c’è da aspettarsi che la diminuzione della mortalità per tubercolosi possa realizzarsi grazie all’elevazione degli standard di vita, più che per i progressi della medicina. Dal Settecento in poi piano piano la salute delle persone è migliorata, non tanto per i progressi della medicina, quanto per una maggiore e migliore alimentazione e per condizioni abitative più umane. Il fattore decisivo della vittoria su malattie come quelle infettive che si trasmettono attraverso aria, acqua, cibo, è il fattore sociale del controllo igienico dell’ambiente. Nel 1885 il chirurgo Francesco Durante ha per primo operato un tumore al cervello (meningioma) e un suo allievo, Guido Farina, ha operato nel 1896 sul cuore. Due grandi conquiste dell’Ottocento: anestesia e antisepsi. II. TRA PACE E GUERRE: LA PRIMA META’ DEL NOVECENTO 1. LE “MAGNIFICHE SORTI E PROGRESSIVE” E LA TRIPLICE ENDEMIA Il binomio scienza e umanità caratterizzava molti medici all’inizio del Novecento. Risaltavano figure di medici la cui identità professionale era fortemente connotata da valori come umanitarismo, filantropia, impegno etico-sociale. Il Novecento si apriva con la promessa di una igiene applicata alla sanità pubblica e di una tecnologia diagnostica e terapeutica destinata a migliorare le condizioni di salute delle persone. Agli inizi del Novecento era ancora il continente europeo a produrre i maggiori avanzamenti nei campi della diagnosi, della profilassi, della terapia. Nel 1901 i primi premi Nobel toccavano a Wilhelm Conrad Rontgen, scopritore dei raggi X, e a Emil von Behring, inventore del siero antidifterico. Il nuovo secolo iniziava anche con la fiducia che la medicina – giovando degli avanzamenti nella fisica, chimica, biologia e microbiologia – sarebbe stata in grado di raggiungere uno statuto di massima scientificità con sempre più forti ricadute a vantaggio dell’uomo; e sembrava definitivamente raggiunta la figura ideale di un medico scientificamente preparato, tecnicamente forte, umanamente partecipe, civilmente impegnato, schierato a favore della vita nella sua pienezza, contro la morte, la malattia, la fame, la povertà, lo sfruttamento. La Prima guerra mondiale (1914-18) interrompe lo sviluppo della medicina. La guerra viene etichettata come l’”ultima epidemia”, che chiude l’età delle epidemie sociali, aperta dalla peste del Trecento. La guerra non è un evento biologico, ma è caratterizzata da quegli aspetti di epidemicità e letalità che, nel Cinquecento ma anche dopo, facevano definire “peste” ogni malattia diffusa su scala molto vasta e clinicamente assai grave. Infatti, come la peste, la guerra ha portato via molte vite, ha causato modificazioni nell’equilibrio demografico dei popoli, ha portato carestia, fame, devastazione di ampi territori. Il fatto che la guerra costringesse gli uomini a grossi spostamenti da regione e regione accresceva il rischio della propagazione dei contagi. Fin dai primi mesi di lotta, ci sono nuovi casi di colera e tifo. Peggiora, ovviamente, lo stile di vita e come conseguenza abbiamo un progressivo aumento delle mortalità per molte malattie, anche a causa degli organismi indeboliti (dallo stile di vita a cui costringeva la guerra, appunto). Nel 1918 con sorprendente velocità si diffonde in tutta la penisola l’INFLUENZA SPAGNOLA che in pochi mesi fa 600.000 vittime tra la gente indebolita da tre anni di privazioni. Ma in quel periodo c’è anche l’epidemia di tifo petecchiale e l’epidemia di vaiolo del 1919-20. Il bilancio complessivo dei morti è di circa 1.200.000 morti e un disavanzo di circa 1.500.000 nascite. E’ il bilancio fallimentare di una civiltà travolta nel crollo della propria ideologia del benessere garantito. La medicina, che ha scopo la difesa dell’umanità dai tutti i mali, deve dunque schierarsi contro ed esercitare una critica coraggiosa l’ideologia e la politica che portano alla guerra. Questa critica coraggiosa al contesto ideologico-politico è stata esercitata, in Italia, da una ristretta schiera di medici, tanto responsabile quanto minoritaria. Nel dopoguerra si arresta l’evoluzione demografica del paese e ugualmente si arresta lo sviluppo medico. Le prime chirurgie a decollare sono state quella dell’apparato locomotore e la chirurgia addomino-pelvica. Il decollo a più stadi della chirurgia è stato segnato, nello scorrere del tempo, dai tempi della guerra. La guerra franco-prussiana del 1870, con le sue ferite da pallottole, ha convalidato l’antisepsi di Lister come mezzo risolutivo del problema infezione; la guerra mondiale del 1914-18, con le sue ferite da granate, ha dimostrato la necessità di sostituire al trattamento conservativo e alla medicazione listeriana con acido fenico la resezione dei tessuti offesi (devitalizzati, necrotici) e l’irrigazione continua con ipoclorito di sodio e acido borico (soluzione di Darkin-Carrel). Grazie all’antisepsi si migliora la ginecologia operatoria. Edoardo Porro (1842-1902) è stato colui che ha dato inizio alla nuova era del taglio cesareo. Nell’Ottocento era ancora penalizzato da un’altissima mortalità postoperatoria. Questa era stata abbattuta a partire dal 1876 grazie alla tecnica demolitrice di Porro, che aveva prevenuto le mortali complicanze della setticemia puerperale facendo seguire al taglio l’”amputazione utero-ovarica”. Venticinque anni dopo, nel 1901, la casistica europea contava oltre mille interventi con una mortalità postoperatoria discesa al 24% per le madri e al 22% per i neonati. Già dai primi anni del secolo, tuttavia, il definitivo trionfo del metodo antisettico aveva cominciato a dare nuova fisionomia alla ginecologia operatoria, facendo tornare la tecnica conservatrice con sutura dell’utero (quindi non più asportazione dell’utero). Una delle altre glorie chirurgico dell’ultimo Ottocento è l’operazione d’ernia, dovuta a Edoardo Bassini (1844-1924), chirurgo a Padova, che con la propria tecnica radicale di sutura a strati e di rinforzo dei diversi piani anatomici della parte addominale ha ridotto quasi a zero le recidive postoperatorie. Nello storico discorso dell’Ascensione, del 26 maggio, Mussolini esordisce dicendo che bisogna “curare la razza”. Quali cure? Innanzitutto, l’Opera nazionale per la maternità e l’infanzia (Onmi), fondata con la legge del 10 dicembre 1925, e poi la tassa sui celibi, istituita per dare una spinta alla natalità della nazione, poiché la potenza demografica è premessa necessaria della potenza economica, politica e morale. Mussolini si schiera contro l’urbanesimo industriale che dice portare alla sterilità le nazioni. Perciò è necessario ruralizzare l’Italia, altrimenti “non si fa l’impero, si diventa una colonia”. La fase dinamica della bonifica ha il suo culmine nei risultati ottenuti nel Tavoliere delle Puglie, nel Basso Volturno e soprattutto nell’Agro Pontino. Qui la fondazione di Littoria (dicembre 1932), di Sabaudia (agosto 1933), di Pontinia e di Aprilia ha grandissima eco e costituisce uno dei maggiori successi politici del fascismo. Nel corso del ventennio fascista la mortalità per malaria subisce una forte diminuzione. Il miglioramento dei livelli di mortalità anche se dovuto in parte ai provvedimenti dell’Italia liberali precedenti e in parte agli avanzamenti della ricerca scientifica internazionale, viene utilizzato dalla propaganda di un regime impegnato più che mai nella politica del consenso. E’ quasi grottesca l’enfasi con cui viene celebrato questo risultato. Però c’è un altro dato: la percentuale di individui morti per malaria che appartengono al Mezzogiorno e alle isole, dal già elevato 79% nel periodo 1923-38, sale all’84% nel 1929-34 e all’88% nel 1935-40. Viene fuori il pensiero che in nessun periodo, forse, come in quello fascista, la malattia si caratterizza come una malattia tipica delle campagne e dei ceti rurali meridionali. Praticamente la finalità antimalarica della politica fascista è il mero epifenomeno (fatto accessorio, la cui presenza o assenza non incide sull’esplicazione di un dato fenomeno) di una politica economica che ha per fine l’aumento del prodotto agricolo lordo, in particolare di quello cerealicolo. Una prova di ciò è fornita dal fatto che la cerealicoltura tende a conservare piuttosto che ad eliminare le condizioni ambientali da cui trae origine la malaria. Anche in questo caso, ancora una volta, sanità, economia e politica si rivelano strettamente intrecciate. Nel Mezzogiorno anche la lotta contro la malaria è una battaglia perduta dal fascismo. Un provvedimento del 1927 obbliga le Province a istituire Consorzi antitubercolari destinati a disciplinare la lotta contro la malattia, ad assistere i malati, a tutelare i sani. In ottobre dello stesso anno un decreto emana l’obbligo all’assicurazione che impone a ciascun assicurato per invalidità e vecchiaia un contributo al fine di preordinare la gestione dell’assistenza e della cura, sua e dei suoi familiari, nel caso che si ammalino di tubercolosi, da parte della Cassa nazionale per le assicurazioni sociali (Cnas). Dal decreto traggono beneficio circa 18 milioni di persone, poco meno della metà della popolazione del Regno che è di 42 milioni di individui. Gli assicurati appartengono soprattutto ai ceti occupati e urbanizzati del Sud. Per i non assicurati, le prestazioni sono affidate alle scarse risorse dei Consorzi. Tra questi e la Cnas c’è divisione. Dunque, la lotta antitubercolare, che Mussolini vuole unitaria, è divisa proprio a partire delle istituzioni competenti. Nel 1928 la Federazione nazionale fascista per la lotta antitubercolare organizza a Roma un corso speciale per formare gli operatori sanitari. Di lì a poco trasforma il proprio bollettino nel giornale mensile “Lotta contro la Tubercolosi”. I motivi di questo corso che porterò a una nuova organizzazione: creare i medici qualificati a costruire gli edifici per la rete sanatoriale “assicurativa”. Morelli, in veste di consulente della Cnas, sceglie le località dove devono sorgere i nuovi sanatori. Nel 1933 l’Istituto nazionale fascista per la previdenza sociale (Infps) sostituisce la Cnas e si prefigge di gestire per la seconda metà degli anni Trenta su tutto il territorio nazionale. L’Infps costruisce molti ospedali sanatoriali. Viene fatto un grandioso lavoro di edilizia sanitaria, prestigioso quasi quanto l’opera di bonifica, per fronteggiare la più importante malattia sociale della nazione. Tuttavia, il vero problema edilizio non è quello degli ospedali, ma quello delle abitazioni delle persone, per una malattia sociale dove il degrado delle condizioni abitative è strettamente correlato al grado di contagiosità. La tubercolosi prospera in quei monolocali superaffollati. Il modello di lotta antitubercolare della politica fascista è quello di un intervento di carattere meramente sanitario, privilegiando il ricovero, attraverso un’attività prevalentemente edilizia: un’attività edilizia di tipo sanatoriale, medico-terapeutico, piuttosto che di tipo abitativo, socio-profilattico. Vengono costruiti ospedali, ma non migliorate le case. Quindi, nella lotta alla tubercolosi l’ideologia terapeutica della gestione clinica e della ospedalizzazione prevale sull’ideologia preventiva della gestione igienica e del risanamento ambientale. In quest’ottica, la socio-profilassi non si propone tanto di eliminare le diffuse cause sociali della malattia, quanto di cogliere con tempestività i primi segni clinici della malattia; la prevenzione assume i caratteri della diagnosi precoce. Morelli dice: “sarebbe scientificamente un disastro, socialmente una colpa, amministrativamente un disastro, se continuassimo ad occuparsi solo dei malati gravi”. I morti per tubercolosi decrescono. Il tasso di mortalità, tra il 1923 e il 1940, si dimezza dall’1,5% allo 0,75%. Anche se la malattia occupa ancora il quarto posto nella statistica delle cause di morte, è un successo, considerato come il frutto della diagnosi precoce e dell’assistenza curativa. Chi obietta sostiene che è un successo che nessuna organizzazione antitubercolare avrebbe potuto raggiungere se non ci si fosse già trovati in presenza di una fase rallentata della malattia. Tra le mancanze della lotta antitubercolare in periodo fascista c’è proprio il puntare tutte le carte sul ricovero sanatoriale. Invece, bisognerebbe dare al malato la possibilità di vivere con la sua famiglia in un alloggio moderno ma igienico, bisognerebbe che l’ammalato avesse la sua cameretta con la disinfezione continua, così la lotta sarebbe trasportata nella casa e nella famiglia. La sifilide, invece, è l’oggetto del “regolamento Mussolini” del 25 marzo 1923 che rappresenta uno dei primi atti di “sana politica morale e demografica del Regime Fascista”. L’art. 9 destina al ricovero le donne affette, mentre agli uomini è riservata preferibilmente la cura ambulatoriale. La legislazione fascista ha individuato immediatamente i bersagli da colpire: le prostitute sono inquisite, controllate, classificate e curate. La classificazione medica distingue le prostitute in vigilate – clandestine – larvate. La vigilanza è opera di medici che controllano periodicamente le prostitute nelle case di tolleranza e anche sulle libere esercenti che devono avere obbligatoriamente la tessera sanitaria in base all’art. 20. Di fatto questa tessera sancisce la liceità del libero esercizio contro l’esclusivismo delle case di tolleranza quali unici luoghi riconosciuti di spaccio del sesso mercenario. Il controllo medico si realizza nei “dispensari dermoceltici” resi obbligatori in tutti i capoluoghi di provincia e in tutte le città con popolazione superiore ai 30.000 abitanti. Il testo unico delle leggi di pubblica sicurezza del 6 novembre 1926 prevede che la polizia controlli che le prostitute su strada rispettino il divieto di non sostare “in luoghi pubblici in attitudine d’adescamento”. Il marciapiede è tuttavia consentito alle clandestine se, non più tali, si muniscano della tessera e si sottopongano alle prescritte visite trisettimanali (tre volte la settimana). La polizia ha azione moralizzatrice. Anche se il testo unico delle leggi di pubblica sicurezza del 18 giugno 1931 è sostanzialmente ripetitivo del testo di cinque anni prima, prevede un nuovo reato contemplato (art. 554) dal nuovo codice di procedura penale – il codice Rocco – varato nel 1930. Il reato è quello di contagio di sifilide o malattia venerea, punito con la reclusione da 1 a 3 anni nel caso in cui il malato o la malata abbia occultato il suo stato. Per prevenire la sifilide e le malattie veneree la politica fascista ha una serie di obiettivi che hanno come comune denominatore l’alta moralizzazione. Sfollamento delle città, ritorno ai campi, bonifica integrale, i provvedimenti a favore del matrimonio e della natalità, sono i rimedi che vogliono distogliere i giovani dalla vita viziosa dei grandi centri urbani in modo da allontanarli da focolai pericolosi dove le malattie sessuali hanno la più grande facilità di sviluppo. Moralizzando la famiglia, L’avvenimento nuovo dei primi anni Trenta è la soluzione privatistica costituita dall’apertura dell’ospedale ai pazienti che pagavano, alla cura dei non poveri. E’ una soluzione di considerevole importanza: concorre alla trasformazione strutturale in corso, trasforma la figura stessa del medico ospedaliero e dà inizio a un’accesa concorrenza tra ospedali e case di cura private. La figura stessa del medico ospedaliero cambia. Il medico che lavorava in ospedale gratuitamente o quasi, in cambio di una formazione postlaurea e di una qualificazione professionale che gli davano bravura e prestigio, ora lavora con immutata professionalità e con la propria parte di compartecipazioni (le quote solventi derivanti dalla clientela pagante o le quote mutue derivanti dai versamenti delle Casse). Gli ospedali italiani aumentano di numero: dai circa mille prima della guerra con complessivi 70.000 posti letto si è passati ai 1.474 del 1936 con 153.577 posti letto. Però la popolazione è anche aumentata in vent’anni e tuttora permane una sensibile differenza fra Nord e Sud Italia nella distribuzione dei posti letto. La media nazionale è di 3,6 posti letto per mille abitanti. Il sistema ospedaliero va sistemato: sistemare il sistema mutualistico, prevedere un adeguato coordinamento, una adeguata ridistribuzione territoriale dei servizi e provvedere all’adeguamento dei posti letto. La legge dell’11 gennaio 1943, n. 138 rende obbligatoria l’assicurazione sociale di malattia dei lavoratori dipendenti e opera il tentativo di fondere le varie gestioni in un solo ente, l’Ente mutualità (che assumerà poi la denominazione di Inam). La creazione di questo ente è l’atto legislativo che conclude, sulla carta, la ventennale politica sanitaria del fascismo. 3. MEDICINA DI VERTICE E MEDICINA DI BASE A partire dagli anni ’40 i progressi in campo chimico e farmaceutico porta alla sintesi dei sulfamidici (farmaci chemioterapici antibatterici ottenuti per sintesi chimica). Tra i bersagli dei sulfamidici ci sono molti germi patogeni, contro le cui aggressioni gli organismi erano indifesi: il pneumococco della diffusa polmonite (malattia che fino alle soglie degli anni ’40 è ai primi posti tra le cause di morte); lo streptococco dell’angina; lo stafilococco “piogene”, generatore di pus, agente eziologico delle tante suppurazioni; il bacillo della dissenteria “bacillare”, agente causale di tante endemie delle caserme e delle collettività in genere; il meningococco della meningoencefalite epidemica. Tutti questi germi sono ora vulnerabili, le malattie da essi provocate sono farmacologicamente guaribili. I nuovi farmaci danno inizio a quella che è stata definita come la rivoluzione farmacologica. L’intera struttura della popolazione in Italia e negli altri paesi industrializzati è stata mutata soprattutto dall’arrivo di nuovi farmaci. Questo però non deve minimizzare i risultati ottenuti nella lotta contro le malattie infettive nel periodo anteriore alla rivoluzione farmacologica. Lo dimostra il fatto che dal 1882 la vita media in Italia è aumentata da 33 a 55 anni. Prima dei sulfamidici hanno avuto maggior importanza le condizioni ambientali e di vita, dopo i sulfamidici (e soprattutto dopo gli antibiotici) hanno avuto importanza anche i farmaci. A Torino, all’Istituto anatomico diretto da Giuseppe Levi (1872-1965) si introduce in Italia il metodo della coltura dei tessuti in vitro e che dà orientamento biologico e citologico a scienze morfologiche quali l’anatomia e l’istologia. Levi era ebreo e venne allontanato dall’insegnamento a causa delle leggi razziali, ma non prima di aver fatto in tempo a crescere alcuni ricercatori che sono delle vere e proprie promesse: Salvador Luria (premio Nobel nel 1969 per le scoperte sul meccanismo di replicazione e la struttura genetica dei virus), Renato Dulbecco (premio Nobel nel 1975 per le scoperte riguardanti le interazioni tra i virus tumorali e il materiale genetico della cellula), Rita Levi-Montalcini (premio Nobel nel 1986 per la scoperta della sostanza proteica in grado di stimolare la crescita della fibra nervosa). Mentre diminuiscono le vecchie malattie infettive (malaria, tubercolosi, sifilide) crescono le nuove malattie metabolico-degenerative (cancro). Quello che sarà il male del XX secolo, è un male incurabile. Però non mancano radiologi e chirurgi che provano a renderlo curabile. Tra questi il maggiore, negli anni Trenta, è Mario Donati (1879-1946), clinico chirurgo a Padova, a Torino e infine a Milano dal 1933. Egli sostiene con forza che la chirurgia non è riducibile a tecnica, ma è prima di tutto clinica. Il clinico medico Nicola Pende (1880-1970) afferma che la clinica è competenza dell’internista. E’ lui che deve assumere insieme al chirurgo la responsabilità dell’indicazione operatoria: il chirurgo sarà la mano sapiente e tecnica diretta da due cervelli. Aggiunge anche che solo così possono evitarsi tante operazioni inutili e a volte più dannose della malattia stessa che c’è. Dice praticamente che non bisogna lasciare tutto e solo in mano al chirurgo. La figura del medico di famiglia è quella di un uomo di scienza ma rimasto “amico” del malato, al quale si può dire tutto come al confessore. Questo era il medico di famiglia negli anni Trenta, oggi si può dire che sia sempre meno così. Morelli, nel febbraio 1934 dice: “Penso che il medico di famiglia che conosce di persona tutte le vicende e che talvolta è una forza potente di coesione famigliare, debba sempre sussistere. [...] Lasciamolo ancora il medico nella famiglia, ad ascoltare con pazienza così come nel discorso di Napoli il Duce consigliava. [...] Lasciamo che il medico nel gruppo famigliare diffonda tutte quelle idee che il Duce vuol portare a conoscenza del popolo; lasciamo che egli nelle famiglie faccia profondamente sentire la bellezza del Fascismo”. I circa 30.000 medici che, sul finire degli anni Trenta, esercitano la professione in Italia, combattono le malattie sociali – tubercolosi e cancro – come ogni altra malattia, curano i tubercolotici e i cancerosi come ogni altro genere di malati. Li curano secondo il proprio «sapere, saper fare, saper essere». Molti di loro sono professionisti che, nelle famiglie e nelle condotte, «sanno» quel che generalmente si sa quando, sedimentata in cultura la scienza appresa all’università, un modesto sforzo di aggiornamento permette di tenere agevolmente il passo di un ancor lento progresso scientifico-tecnico. Essi «sanno fare» i medici con una tecnologia certamente meno perfezionata e meno specializzata di quella che sarà a disposizione dei loro eredi di prima e seconda generazione. Tuttavia, molti di questi professionisti «sanno essere» medici con una antropologia relazionale più attenta e adeguata al paziente di quella che finirà per affermarsi anni dopo. Il mestiere di medico di famiglia in Italia alle soglie degli anni ’40 mantiene un equilibrio tra scienza e valori umani. Poi arriva la Seconda guerra mondiale. Aumenta la mortalità per cause violente. Aumentano le malattie mortali infettive e parassitarie (tifo, tubercolosi, malaria, sifilide); aumentano le malattie dell’apparato cardiocircolatorio a esito letale. Aumenta la patologia tumorale maligna. Aumentano anche le malattie mortali dell’apparato digerente i cui organi – stomaco, fegato, intestino – sono i primi e più direttamente coinvolti dall’ipoalimentazione e malnutrizione di guerra. In tempi di guerra la tubercolosi non è più la malattia che minaccia i soli debilitati e malnutriti: è la malattia che minaccia tutti. La malaria non è più la malattia che minaccia i soli contadini: è la malattia che minaccia anche i cittadini di capitale, quando le barriere igienico-sanitarie si abbassano. «La situazione igienicosanitaria di Roma», scrive «Il Policlinico» nel luglio 1944, è tale che la «malattia infettiva che ora potrebbe profilarsi è la malaria, per l’affluenza di infetti e la presenza di zanzare». Durante la guerra il paese era avviato a uno sfascio sanitario pari al disastro politico ed economico. La sanità pubblica, nel ventennio fascista, non è stata integrata dall’adesione e dalla partecipazione, se non di facciata, della medicina accademica; non ha avuto il consenso e il concorso della medicina di base; non ha realizzato, anzi del passato – di un passato anche recente – e di quanto invece sia ricca la medicina del presente: un presente postbellico e anche perciò più sereno. La nuova medicina, già vittoriosa su molti mali, appare infallibilmente progressiva e, in prospettiva, vittoriosa su tutti. Dal nichilismo-pessimismo terapeutico del passato si va verso una incondizionata e talora «indiscriminata fiducia nei moderni miracoli». Un letto in cui giace una bimba con gli occhi chiusi e il volto arrossato, divorata dalla febbre e, accanto a lei, i genitori con lo sguardo angosciato e implorante rivolto al medico, che seduto su quel letto di dolore osserva una fiala di penicillina che tiene con cura in mano e dalla quale dipende il miracolo della guarigione. Napoli milionaria, Eduardo de Filippo. Una storia analoga a quella della penicillina è la storia della streptomicina efficace contro la tubercolosi, scoperta da Waksman. Isolata inizialmente nel 1943, da Albert Schatz, nel laboratorio di Selman Abraham Waksman alla Rutgers University. Nel 1952, sei anni dopo Fleming, Waksman vince il premio Nobel per “la scoperta della streptomicina, il primo antibiotico attivo contro la tubercolosi”. Così la streptomicina cancella anche la tubercolosi. Altri antibiotici, tra la fine della guerra e il 1950, vengono ricercati e scoperti in America che verranno usati anche dai malati in Italia. Un elenco sommario comprende: la cloromicetina (cloroamfenicolo), isolata dallo Streptomyces venezuelae, prodotta dalla Parke Davis e attiva contro tifo e febbri tifoidi; l’aureomicina (clortetraciclina), isolata dallo Streptomyces aureofaciens, prodotta dalla Lederle e con largo campo d’azione antibatterica; la tetraciclina (ossitetraciclina), isolata dallo Streptomyces rimosus, prodotta dalla Pfizer e dalla Cyanamid e dotata anch’essa di azione «ad ampio spettro». Nell’Italia dell’immediato dopoguerra, la medicina già realizza, di suo, concreti benefici. Tra questi benefici figura, non ultimo, quello fornito dalle «nuove sostanze insetticide che eliminano radicalmente gli insetti vettori, d’onde la fondata speranza, già in parte realizzata, che si possa in pochi anni eliminare la malaria, sorgente di tanta miseria e depauperamento». L’eliminazione della zanzara malarigena Anopheles e la conseguente eradicazione del parassita malarico – il Plasmodium nelle sue varietà, falciparum, vivax, malariae – sono incominciate nel 1944 in Sardegna, prima regione italiana occupata dagli angloamericani e sede prescelta per la realizzazione di un piano sperimentale di bonifica – il Sardinian Project – mediante disinfestazione con diclorodifenil-tricloroetano (Ddt). Il Progetto Sardegna, condotto dal governo italiano e da quello regionale sardo in collaborazione con la Rockefeller Foundation, viene realizzato tra il 1945 e il 1951. Esso ha avuto come primo obiettivo la distruzione dei focolai delle larve anofeliche. Successivamente, «il teatro delle operazioni si spostò dai focolai larvali alle abitazioni umane e la strategia della lotta», una lotta massiccia condotta senza tregua, «si orientò sulla selettiva diminuzione della longevità degli individui adulti», cioè delle zanzare, particolarmente di quelle domestiche. In un terzo tempo la realizzazione del progetto aggiunse ai trattamenti delle abitazioni mediante aspersione intradomiciliare «il trattamento con DDT e con clordano [altro clorurato già impiegato per la lotta antimosche] dei corsi d’acqua e delle campagne mediante l’impiego anche di aerei ed elicotteri». Questo tipo di intervento viene esteso ad altre aree dell’endemia malarica: all’Agro Pontino, al delta del Tevere, alla Sicilia. Le cifre parlano chiaro: la morbosità da malaria in Sicilia, dai 139.156 casi del 1946, con un tasso del 32,51‰, precipita ai 2.595 casi del 1950, con un tasso dello 0,58‰ (e poi ai 6 casi del 1953, con un tasso di morbosità praticamente nullo). La campagna antimalaria con il DDT condotta nell’Italia peninsulare e in Sicilia rimane fra i migliori esempi di lotta chimica anti-insetti ad alta efficacia e a costi tossicologici ed economici pressoché nulli. Da metà Novecento in poi, i maggiori rischi per la salute degli italiani non sono più quelli infettivologici: le malattie infettive sono considerate ormai malattie del passato. La drastica diminuzione delle malattie infettive si ha grazie agli effetti della rivoluzione terapeutica con i farmaci. La mortalità per tali malattie in Italia, pari a 1,7 ‰ abitanti nella prima metà degli anni Trenta, è vent’anni dopo ridotta allo 0,42‰, cioè a un quarto. Il Ddt ha sradicato l’anofelismo e il parassitismo malarici; la penicillina e la streptomicina – quest’ultima insieme all’acido paraamino-salicilico (Pas) e all’idrazide dell’acido isonicotinico (isoniazide) – stanno dando il definitivo colpo di grazia al problema biologico e sociale di sifilide e tubercolosi. Subentrano altre endemie: l’arteriosclerosi con le sue molte complicanze, il cancro nelle sue molte forme. La mortalità di queste due problematiche sale tra gli anni Trenta e gli anni Cinquanta. Quindi nell’ultimo ventennio dell’Ottocento si è capito quali fossero gli agenti biologici che causavano le malattie infettive, mentre a metà Novecento si aggiunge la certezza terapeutica circa i farmaci da usare contro tali agenti patogeni (gli antibiotici). Dopo l’entrata degli antibiotici il medico che prima curava e talvolta guariva, che prestava il proprio tempo, con la presenza e la parola, o compensando la propria impotenza terapeutica con la pazienza dell’ascolto, cambia modalità di agire. Adesso dispone di quest’arma potente che è il farmaco, il medico “curante” diventa il “terapeuta” che prescrive e somministra il farmaco che risolve la malattia. Si vede uno spostamento d’impegno: dall’impegno contro le cause ambientali e sociali della malattia – impegno che aveva connotato la medicina in Italia fra l’Unità e la Prima guerra mondiale – al più agevole e anche appagante impegno farmacoterapico contro la causa microbiologica della malattia. Viene meno quell’impegno e quell’interesse spiccato per la realtà socio-ambientale della malattia. L’approccio prevalentemente o esclusivamente orientato alla condizione fisiopatologica del malato porta a privilegiare le componenti organiche, chimico- fisiche dei processi patologici, a scapito delle componenti psicologiche e antropologiche. Le malattie del presente, arteriosclerosi e cancro, non godono di certezze né per quanto riguarda le cause né per le cure farmacologiche. L’arteriosclerosi non ha cause né uniche né semplici, ma multiple e complesse (nutrizionali, metaboliche, ematovascolari, comportamentali, oltreché costituzionali e legate all’aumento della vita media). Il cancro dal canto suo ha cause addirittura ignote. Quanto alle cure, i due complessi morbosi non hanno farmaci specifici. Per l’arteriosclerosi e il cancro non esiste il «proiettile magico» da indirizzare a colpo sicuro contro un bersaglio bene individuato: come la penicillina contro lo pneumococco della polmonite. Fino agli anni Cinquanta tra salute individuale e sanità pubblica esisteva un intreccio molto stretto e anzi la prima era considerata un prodotto della seconda. Igiene e medicina sociale erano discipline altrettanto primarie quanto la patologia e la clinica. Dagli anni Cinquanta in poi non è più così: igiene e medicina sociale sono diventate delle specializzazioni; diventano rami, non più radici, dell’albero del sapere. Diventano discipline coltivate da pochi, secondarie. L’idea che la malattia è in primo luogo un fatto sociale e ovviamente ambientale non è più valida a partire dagli anni Cinquanta. Dopo la Seconda guerra mondiale i rapporti tra igiene e sanità pubblica si allentano. Questo perché la medicina diagnostico-terapeutica prevale sull’orientamento preventivo. Ma c’è una contraddizione: diminuisce drasticamente la concezione socio-ambientale della malattia ma aumenta l’importanza dei fattori di rischio socio-ambientali nella comparsa delle malattie in generale. E’ per questa maggior importanza dei fattori di rischio ambientali che il cancro finisce per essere considerata una malattia sociale: diventa sempre più frequente nella popolazione, ha una incidenza economica nelle fasce di età produttiva, assume una crescente risonanza politica, facendo della lotta contro il cancro un dovere della società civile e dello Stato. Negli anni Cinquanta l’epidemiologia della medicina vive la transizione da un criterio di causalità forte, tipica delle malattie infettive del passato, a un criterio di causalità debole, tipica delle malattie degenerative del presente come cancro e Il nuovo ministero corrisponde alle aspirazioni esistenti da tempo verso una direzione unica e articolata della politica sanitaria del paese. Subentrato al soppresso Alto Commissariato per l’igiene e la sanità, del quale eredita le attribuzioni moltiplicandole. Nei tredici anni intercorrenti tra la fine della seconda guerra mondiale e l’istituzione del nuovo ministero, si contano centinaia di leggi e decreti emanati in tema di sanità. Tutti opportuni e necessari ma sconnessi. Quindi c’era molto disordine in materia di sicurezza sociale e sanità. Disparità di trattamento degli assistiti (molti dei quali assistiti in maniera «indiretta» tramite «rimborso spese»); preponderanza assoluta della terapia sulla prevenzione; squilibri territoriali tra zona e zona, tra regione e regione, tra città e campagna, tra Nord e Sud; insussistenza della minima forma di programmazione sia dal punto di vista sanitario che dal punto di vista finanziario: questi i principali difetti o elementi negativi di un sistema che si trascina senza segni di cambiamento. 2. LA FISIOPATOLOGIA DEL BENESSERE Dopoguerra e anni Cinquanta sono ormai alle spalle. Il paese avanza in una stimolante atmosfera di lavoro, di iniziative, di competitività. Si trasforma la sua realtà economica, la sua situazione socio-culturale; cambiano i suoi simboli, i suoi valori. Nelle strade circolano in numero sempre maggiore i motoscooter e le automobili; nelle case sono sempre più numerosi i frigoriferi, gli apparecchi radio, i telefoni. È appena nata una generazione di italiani cui sono familiari le prime immagini televisive, le prime radio a transistor e ogni sorta di apparecchi elettrodomestici. La trasformazione veramente radicale è che tutti questi beni di consumo trovano acquirenti sempre più numerosi. E’ la rivoluzione del benessere. L’Italia è entrata nel suo quinquennio più felice, quello dal 1959 al 1963. Sono gli anni in cui esplode il miracolo economico. Milioni di persone si sono spostate dal Sud al Nord, dalla campagna alla città». L’industrializzazione ha cambiato il tenore di vita, le abitudini, i costumi, la mentalità di molta gente. La popolazione italiana si rimescola, cresce di numero, migliora complessivamente le proprie condizioni di esistenza (anche se, nelle campagne spopolate, nelle periferie delle metropoli, nelle fabbriche, molte situazioni di vita e di lavoro contraddicono questa realtà complessiva). In questo periodo di benessere rivoluzionario e di supercrescita c’è anche posto per i primati. L’Italia ha raggiunto posizioni di primato nella ricerca atomica, nella chimica, nella medicina, nel disegno industriale, nel cinema. Era l’epoca in cui Milano costruiva i suoi grattacieli e Roma era diventata la seconda capitale mondiale del cinema, insieme ad Hollywood. C’è anche il primato della medicina. Le scoperte della batteriologia, della chimica biologica, della clinica. Un chirurgo sudafricano, Christiaan Barnard, ha eseguito il 3 dicembre 1967, presso il Groote Schuur Hospital di Città del Capo (Sudafrica), il primo trapianto interumano (omotrapianto) di cuore, prelevando l’organo dal cadavere del donatore (espianto) e trasferendolo nel corpo del ricevente (impianto) al posto del cuore di questi, nella sede sua propria (trapianto ortotopico). Quel paziente però muore. Si passa dal successo all’insuccesso del primo trapianto di cuore. Entrano in funzione a partire dalla prima metà degli anni Sessanta le macchine esterne che sostituiscono la funzione compromessa di un organo interno (dialisi). Inoltre, prende il via il trapianto renale. L’era dei trapianti d’organo viene inaugurata in Italia nel 1966 con il primo trapianto di rene, eseguito dal chirurgo di Roma Paride Stefanini. Si arriva al tubo di Magill che consente di intubare i pazienti e di evitare il collasso polmonare quando il chirurgo apre il torace. L’apparecchio ha permesso la nascita della chirurgia toracica. Nel 1957 il Nobel per la medicina è vinto da Daniel Bovet, un farmacologo italiano di origine svizzera, per la sua scoperta di farmaci che bloccano l’azione di specifici neurotrasmettitori. È meglio conosciuto per la sua scoperta nel 1937 di antistaminici, che bloccano il neurotrasmettitore istamina e sono usati nei farmaci per l' allergia. Bovet ed Erspamer sono, con Giuseppe Moruzzi e Rita Levi-Montalcini, i quattro fondatori della neurobiologia italiana nel dopoguerra. Moruzzi ha scoperto il «sistema reticolare attivatore ascendente», una formazione anatomofunzionale del sistema nervoso centrale che fa da modello teorico per gli ulteriori sviluppi delle neuroscienze. Rita Levi-Montalcini, ebrea, futuro premio Nobel per la medicina (nel 1986) proprio negli anni delle persecuzioni antiebraiche e della clandestinità aveva compiuto importanti lavori scientifici nel campo della neuroembriologia. Trasferitasi nel dopoguerra negli Stati Uniti per proseguire colà le ricerche in questo campo, ha scoperto nel 1951 il «fattore della crescita nervosa» o Ngf (nerve growth factor). Se la ricerca «pubblica», pur producendo risultati isolati d’alto valore, è in evidenti difficoltà, la ricerca «privata», come quella condotta nell’ambito dell’industria farmaceutica, non è in condizioni migliori. L’industria farmaceutica italiana, nata nell’Ottocento dai laboratori installati nei retrobottega delle farmacie, grazie all’intraprendenza dei farmacisti più attivi59, è giunta alla fase del suo maggior sviluppo ancora gravata da due vizi d’origine, tutt’altro che scomparsi dopo oltre mezzo secolo di progresso: il frazionamento delle unità produttive, molte delle quali dedite solo al commercio, e l’insufficienza della ricerca, di rado supportata da laboratori degni di questo nome. Vengono fuori due nuovi prodotti: le rifamicine e la daunomicina. La rifampcina, messa a punto da Lepetit nel 1965, si impone nella terapia della tubercolosi, come farmaco di prima scelta, preferita alla streptomicina. La daunomicina, studiata negli anni Sessanta nei laboratori della Farmitalia, è un farmaco di elezione nel trattamento delle leucemie. L’adriamicina che da esso deriva si rivela efficace non solo nella terapia delle leucemie e dei linfomi (come il linfogranuloma), ma anche nel trattamento di numerosi tipi di cancro (come i carcinomi correlati ad attività ormonali). Accanto a sulfamidici e antibiotici, ad antistaminici e cortisonici, a vitamine e ormoni, a sieri e vaccini specifici (come l’«antipolio»), si registrano i contraccettivi, che consentono il controllo delle nascite, e gli psicofarmaci, che modificano il comportamento umano. Nella farmacopea ufficiale molti vecchi farmaci sono scomparsi, molti nuovi farmaci si sono aggiunti ai vecchi. All’insulina si sono aggiunti gli antidiabetici orali, alla digitale e alla teofillina i nuovi cardiocinetici, ipotensivi e diuretici, ai vecchi antipiretici e antidolorifici i nuovi antinfiammatori e anestetici. Tra i nuovi farmaci figurano quelli che rendono praticabili in condizioni di sicurezza i più avanzati e complessi interventi chirurgici. Questi farmaci nuovi, molti dei quali meritano il nome di «salvavita», sono in gran parte non più «sintomatici», cioè rivolti alla cura dei sintomi delle varie malattie, ma «eziologici» o «patogenetici», cioè rivolti a contrastare le cause delle patologie. Poi c’è il caso del talidomide  un nuovo sedativo lanciato sul mercato da una industria tedesca, provoca, se assunto nel secondo mese di gravidanza, gravi malformazioni fetali con mancato sviluppo degli arti (focomelia). Anche quando i danni provocati dal farmaco sono noti all’industria produttrice, solo l’insistita azione di alcuni legali, mirante al risarcimento delle famiglie colpite, e di alcuni medici, mirante alla tutela dell’intera collettività, riesce a porre fine alla tragedia. Ne esce turbata l’armonia del rapporto medico-farmaco-paziente. Fino ad allora non c’era ancora cautela nell’uso dei farmaci, ma anzi c’era una incondizionata fiducia nel farmaco sia da parte del medico che da parte del paziente. Questo fino al caso del talidomide. Nasce la consapevolezza che un farmaco può giovare ma anche nuocere. Negli anni Sessanta c’è un’altra vicenda non meno drammatica: la storia della poliomielite e della sua vaccinazione. Il nome «poliomielite» – dal greco poliòs, grigio, e myelòs, midollo –etichetta una malattia infiammatoria che colpisce la sostanza «grigia» del «midollo» spinale, o meglio quella parte di essa (corna anteriori o motrici) che governa la motilità del tronco e degli arti. Il patologo viennese Karl Landsteiner nel 1908 ne dimostrò che la rete fognaria cittadina, il cui progetto risale al 1884, non è mai stata risistemata. Mentre si vedono carogne di topi galleggiare sull’acqua lurida nelle strade, si apprende che il Comune ha trascurato la necessaria opera di derattizzazione. In un campione d’acqua prelevato dalla rete fognaria viene isolato il vibrione. La città di Napoli vede un’altra volta, come nell’Ottocento, la propria immagine sciupata per colpe non sue. I colpevoli non sono i mitili – i «mitili ignoti» –, né i loro coltivatori trasformati in untori, ma quanti, ai vari livelli decisionali e organizzativi, hanno ignorato per decenni il degrado igienico della città (inoltre consentendo per anni che i mitili fossero coltivati proprio là dove arrivano gli scarichi dei rifiuti cittadini). Colpevoli sono tutti coloro – politici, amministratori, tecnici – che hanno gestito nel tempo la sanità pubblica. L’Italia del benessere è ancora un paese a due velocità. Statisticamente, se in termini di «medie» è annoverata tra i sette paesi più industrializzati del mondo, in termini di «varianti» è ancora un paese nel quale all’accelerazione industriale nelle aree del Nord fa riscontro un relativo ritardo, con crescente divario, nelle aree del Sud. Nell’Ottocento agricolo, alle ricorrenti epidemie infettive urbane di colera faceva riscontro l’endemia rurale pellagrosa. Nel Novecento industrializzato, alla stessa epidemia infettiva riesplosa al Sud fa riscontro, esplodendo al Nord in modo non meno inquietante, una epidemia tossica da inquinamento ambientale. Sabato 10 luglio 1976, alle ore 12.37, esplode con un grande boato il reattore di una fabbrica posta al confine tra Meda e Seveso, due grossi comuni della Brianza. Il cielo vede sollevarsi una «nube tossica» che, incontrando un forte vento da nord, ricade in basso su una zona densamente popolata. La nube, fuoriuscita dal reattore, reca nell’ambiente un veleno, la tetraclorodibenzo-pdiossina (Tcdd), che è un prodotto di scarto del triclorofenolo (Tcf), un diserbante chimico. Per un’intera settimana l’incidente viene taciuto. Soltanto la sera del 16 luglio l’ufficiale sanitario di Seveso e paesi limitrofi riceve dal sindaco della cittadina briantea la notizia telefonica: «È successo qualcosa di grave. Non sappiamo ancora di preciso, ma dall’Icmesa è uscito un veleno che uccide gli animali e intossica la gente». Infatti, si registrano estese morie di animali domestici e si vedono bambini (inizialmente 14 casi, saliti poi a 190) con pelle ricoperta di strane papule- pustole come i pellagrosi di cento anni prima. E invece si tratta di un incidente chimico con enormi ripercussioni sanitarie. La strana eruzione cutanea, poi identificata come cloracne, è una dermatosi tossica. Gli italiani si rendono conto per la prima volta di cosa possa essere un incidente ecologico. Dal settembre 1976 al dicembre 1977 una epidemia di aborti e nati morti, associata a danni alla vegetazione segnalati nello stesso tempo dagli agricoltori, viene rilevata nella periferia nordovest di Milano dove dal 1975 funziona un inceneritore e dove dall’agosto al novembre 1976 vengono bruciati i rifiuti solidi urbani (domestici) provenienti dalle zone inquinate da Tcdd della Brianza. Diciassette anni dopo dall’epidemia di cloracne una serie di indagini epidemiologiche portano alla conclusione che l’incremento dei tumori è da ritenersi correlato al disastro della Brianza. La speranza di vita alla nascita (aspettativa media degli anni da vivere) dal 1951 al 1976 è passata da 63 a oltre 68 anni per i maschi e da 67 a oltre 74 anni per le femmine. Nello stesso arco di tempo l’indice di vecchiaia (numero dei «vecchi» ultrasettantenni rapportato a cento «giovani» di età inferiore ai quindici anni) è passato da 50 a 61 per i maschi e da 52 a 84 per le femmine. Ciò significa che la popolazione italiana sta rapidamente invecchiando, come d’altra parte dimostra l’aumento dei pensionati, passati dal 9% del 1961 al 17% del 1975. Lo stato sanitario del paese non è mai stato così florido. Nello stesso quarto di secolo (1951-76) il quoziente di mortalità infantile (per mille nati vivi), che più di ogni altro rispecchia le condizioni socio-sanitarie e il grado di civiltà di un paese, è disceso da 66,6 (98 nel 1945!) a 20,7. Il quoziente di mortalità generale (per mille abitanti), che oscilla stazionario intorno a 9, è più indicativo se riferito ai vari gruppi di cause. Su 100 morti 47 sono imputabili a malattie cardiovascolari, 20 a tumori, 7 a malattie respiratorie; soltanto l’1% è dovuto alle superstiti malattie infettive e parassitarie. Con ciò si conferma, anzi si accentua, la tendenza caratterizzante la svolta epidemiologica degli anni Cinquanta. Lo sviluppo dell’industria e la meccanizzazione dell’agricoltura porta un problema: la mal’aria urbana. Le polveri dell’atmosfera raggiungono elevata pericolosità, dovuta all’assorbimento di sostanze tossiche e al fatto che esse hanno un’azione cancerogena sulle vie respiratorie. In generale, il cancro è più frequente nelle grandi città che nelle campagne. Il cancro polmonare diventa il nemico principale dell’uomo civilizzato. Poi c’è un altro problema che assilla la società del benessere: quello della salute nelle strade, legata alla crescente motorizzazione e agli incidenti del traffico. Le statistiche parlano chiaro. La morte sulle strade si profila come una nuova grande morìa. La morte è un effetto che si può solo prevenire, non curare e le misure di prevenzione per gli incidenti d’auto proposte negli anni Sessanta sono concettualmente simili a quelle per il fumo. Esse si rifanno ancora e sempre alla concezione che considera l’individuo come l’unico responsabile della propria salute e che lo colpevolizza quando non ottempera alle raccomandazioni impartite: nel caso del fumatore, alle esortazioni a smettere di fumare, nel caso dell’automobilista, alle raccomandazioni alla prudenza e contro l’eccesso di velocità. Altrettanto o più cruciale del problema della salute nelle strade è il problema della salute nelle fabbriche. Nel decennio 1959-1968, l’occupazione industriale è costantemente diminuita e la curva degli infortuni costantemente aumentata. Ogni mille operai occupati, si hanno duecento infortuni all’anno. Dal 1960 in poi gli infortuni nell’industria superano annualmente il milione, di cui 2.500 mortali. Ma c’è inerzia tutelare da parte di ruoli e istituzioni che dovrebbero proteggere in modo più incisivo di quanto non facciano, la salute dei lavoratori. Anche inerzia della classe politica. Si verificano una serie di proteste da parte dei lavoratori. Questa lotta per la salute contribuisce a mettere in crisi il modello di sviluppo unidirezionale, produttivistico, che ha retto l’economia italiana dagli anni ‘50 in poi. Il movimento operaio fa comprendere non solo alle classi lavoratrici, ma a tutto il paese, l’esigenza della prevenzione e quindi del controllo e della modifica delle condizioni di lavoro e dell’ambiente. Inizia a farsi avanti un’attenzione più precisa sull’intera qualità della vita metropolitana. Viene fuori l’esigenza che la coscienza sanitaria degli operai venga estesa a tutti i fenomeno socio-ambientali, in particolare all’inquinamento delle acque e dell’aria dovuto agli scarichi industriali e all’intesa motorizzazione e all’edilizia abitativa che comporta affollamento, traffico caotico e carenza di verde. La difesa della salute passa anche attraverso la difesa della salubrità ambientale. La sanità è anche ecologia, questo si diceva già a fine anni ’70. 3. RIFORME DELLA SANITA’ E DECOLLO TECNOLOGICO Negli anni Sessanta la “questione ospedaliera” si configura come questione tecnologica, di tecnologie che possano impiantarsi e sviluppare nell’ospedale, ma anche come “questione pubblica”, di una medicina che sappia realizzarsi come servizio di interesse collettivo evoluto in dovere sociale. Per quanto riguarda la tecnologia, gli sviluppi della pratica ospedaliera richiedono un alto tasso specialistico da parte di medici e infermieri e da parte di un personale di nuova formazione, detto appunto dei “tecnici” (di sala operatoria, di radiologia, di laboratorio). In ogni caso, si apre la crisi ospedaliera. E’ una crisi ricondotta dapprima a una carente dotazione di attrezzature e a una carente disponibilità di posti-letto. Il dissesto di molti ospedali è anche il frutto guasto in partenza di una crisi progettuale e normativa che si trascina da decenni. «Purtroppo», si è costretti a riconoscere nel 1966, «anche se la legge del 1938 aveva stabilito le strutture interne Servizio sanitario nazionale, che la legge 833/1978 definisce: il complesso delle funzioni, delle strutture, dei servizi e delle attività destinati alla promozione, al mantenimento e al ricupero della salute fisica e psichica di tutta la popolazione, senza distinzione di condizioni individuali o sociali e secondo modalità che assicurino l’eguaglianza dei cittadini nei confronti del servizio. Le funzioni di tale servizio, pur articolate a livello statale e regionale ai fini della programmazione nazionale e della organizzazione territoriale, si decentrano a livello locale nelle Usl, calibrate ciascuna su un numero di cittadini variabile da 50 a 200.000, per servire con efficacia ai bisogni di questi ultimi in vari campi: educazione sanitaria, prevenzione delle malattie e degli infortuni, diagnosi e cura degli eventi morbosi, promozione della salute e salvaguardia della salubrità ambientale, sicurezza nel lavoro, superamento dell’arretratezza sanitaria e della patologia del sottosviluppo, nonché tutela della procreazione responsabile e consapevole, della maternità e dell’infanzia, della terza età e della salute mentale. Siamo alle soglie degli anni Ottanta. Dopo una fase di relativo ristagno, si assiste alla ripresa di uno sviluppo economico che porta l’Italia ad attestarsi tra i sette paesi più industrializzati del mondo. Ma il bilancio dello Stato è sempre più in rosso. La tecnologia segna il definitivo trionfo dell’elettronica e dell’informatica. Esse rivoluzionano la fabbrica, l’ufficio, la casa. E quindi anche l’ospedale, si prova con la bionica che diventa il prolungamento naturale della biologia. Suoi campi di azione sono l’elaborazione di segnali e d’immagini, la modellistica di sistemi biologici, la strumentazione biomedica, lo studio di biomateriali, la biomeccanica, la bioingegneria. Nuova frontiera è l’ingegneria genetica, basata sulla tecnica della manipolazione dei geni. In America nel 1982 da un embrione modificato con i geni dell’ormone della crescita nasce un supertopo; nel 1986 viene clonato il primo embrione di vitello; nel 1989 si annuncia la prima terapia genica praticata con successo a bambini affetti da malattia genetica; nel 1990 si lancia il progetto di mappatura del genoma umano. Seguiranno nel 1993 la clonazione di un embrione umano e nel 1998 la clonazione della pecora più famosa del pianeta, «Dolly». Poi, nello zoo degli animali clonati, arriveranno il toro «Galileo» nel 1999, la cavalla «Prometea» nel 2003 e recentemente il cane «Snuppy» nel 2005. Inoltre dal 1982 le biotecnologie consentono di ottenere, trasferendo geni specifici in taluni batteri, nuovi preziosi farmaci: insulina su larga scala, l’ormone della crescita, fattori antiemofilici, vari tipi di interferone. La radioimmunologia, che associa tra loro immunologia e radiochimica (una biochimica utilizzante i mezzi della medicina nucleare), permette l’identificazione di molecole proteiche, il riconoscimento della loro struttura, la precisazione del loro ruolo, la messa a fuoco dei meccanismi funzionali del sistema immunocompetente. L’interpretazione fisiopatologica nuova di molti processi morbosi porta a importanti acquisizioni diagnostiche, così come la biosintesi di nuove molecole farmacologicamente attive porta ad altrettanto importanti acquisti in campo terapeutico. L’innovazione tecnologica in biologia e in medicina ha lo scopo di aumentare non tanto la produttività della tecnica, quanto le possibilità di soddisfacimento dei bisogni dell’uomo. I progressi dell’elettronica e dell’informatica sono di tale portata e così convincenti da generare una crescita tumultuosa della richiesta di esami superspecialistici, di alta tecnologia, con ripercussione immediata e incontenibile sulla pratica clinica e sulla spesa sanitaria. La radiologia si fa interventistica. Ciò avviene soprattutto nel settore vascolare, dove si rende possibile sia la riapertura di arterie occluse (come le coronarie sclerotiche tramite l’angioplastica), sia la chiusura di territori patologicamente aperti (come certi tumori tramite l’embolizzazione). La produzione di nuove bioimmagini, fornite in rapida successione di tempo dall’ecografia, dalla tomografia assiale computerizzata (Tac), dalla risonanza magnetica (Rm), viene a instaurare la nuova «rivoluzionaria» eidologia, scienza d’immagini corporee sempre più ricche di tecnologia e sempre più approssimate alla realtà. Però, come e più che in passato, è la figura del medico l’elemento mediatore unificante del rapporto tra la tecnica e il paziente, tra la macchina e l’uomo. Le immagini vanno lette dal medico. Le tecnologie d’avanguardia fanno compiere grandi passi in avanti anche sfruttando vecchie energie secondo modalità nuove. L’energia atomica arricchisce ulteriormente l’eidologia medica che comprende dal 1980 anche la Spect (tomografia computerizzata a emissione di fotone singolo) e dal 1984 anche la Pet (tomografia a emissione positronica). L’energia luminosa amplificata con emissione stimolata da radiazioni o laser viene utilizzata in vari campi per la sua azione microchirurgica. L’energia generata da scariche elettriche fatte scoccare tra elettrodi immersi in acqua e sottoposti a tensione elevata si trasforma in un’onda d’urto molto simile a quella che si crea quando un aereo supera il muro del suono; tale onda d’urto, ripetuta in una serie di colpi inviati al paziente portatore di calcoli delle vie urinarie (o biliari), permette la frammentazione di questi o «litotrissia», senza più necessità d’intervento chirurgico. La chirurgia ha attraversato varie fasi o forme: rimozionale (amputazioni ed exeresi), riparativa (ortopedia e plastica), funzionale (derivazioni, denervazioni ecc.), correttiva (di difetti congeniti e di vizi acquisiti), sostitutiva (con protesi e trapianti). Ora conosce anche le fasi o forme della microchirurgia, della chirurgia conservativa, della chirurgia mini-invasiva. La vista e la mano del chirurgo sono prolungate da strumenti di sempre più raffinata e delicata tecnologia. Fino alla fine degli anni Settanta i trapianti di cuore non andavano ancora a buon fine. Nel 1978 con la scoperta dell’immunosoppressore principe, la ciclosporina, i trapianti di organo riescono bene, e in particolare decolla il trapianto di cuore in Italia. La ciclosporina che evita il rigetto e aiuta il trapiantato è uno dei maggiori risultati della ricerca e del progresso in campo farmacologico. Ma succede anche che le strutture sanitarie ritardano ad adeguarsi al progresso tecnologico e questo fa sì che molti italiani vadano all’estero per i trapianti. Non manca la scoperta di nuovi farmaci antitumorali. Ma il progresso non è solo quello della scoperta di nuovi e più efficaci farmaci, ma negli sviluppi di protocolli terapeutici più efficaci, in una migliore conoscenza dei meccanismi d’azione dei farmaci, in una più approfondita conoscenza dei processi biologici tumorali. Negli anni Ottanta la disciplina che studia per curare il cancro vive la transizione da una ricerca finalizzata al miglioramento della terapia a una ricerca finalizzata al miglioramento della qualità della vita. Anche l’epidemiologia fa passi in avanti quando va ad identificare i fattori di predisposizione individuale per l’insorgenza del cancro legati al patrimonio genetico. Con i geni analizzati nasce l’epidemiologia molecolare. Era un periodo di grande ottimismo, anche medico, echeggiato da Alvin Silverstein, nel 1971 presidente dell’Associazione nazionale americana per la sconfitta del cancro. Il periodo è durato almeno un decennio, tanto che nel 1979 lo stesso Silverstein ha scritto un libro sulla Conquista della morte, pubblicato in Italia nel 1982 con il sottotitolo eloquente: «Perché potremmo essere l’ultima generazione che muore. Come e quando la medicina sconfiggerà definitivamente le malattie». All’ottimismo scientifico si è unito quello sanitario, legittimato in parte dalla eradicazione su scala planetaria del vaiolo. Condivide tale ottimismo l’Organizzazione mondiale della sanità (Oms) lanciando nel 1981 il progetto ambizioso che promette «Salute per tutti nell’anno Duemila». L’ottimismo sanitario sarà di lì a poco contraddetto. Si capirà poi che la prevenzione è la sola arma veramente efficace o la più utile, economica ed etica.
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