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Riassunto Storia della moda XVIII-XXI secolo, Dispense di Costume E Moda

-il lusso, la moda, la borghesia -l'apparire rivoluzionario -la moda neoclassica -la moda imperiale -l'affermazione della moda borghese -C.F. Worth -antimode e abiti d'artista -C. Chanel -M. Vionnet -E. Schiaparelli -C. Dior -pret a porter - haute couture e industria del lusso: Chanel -haute couture e industria del lusso: Dior

Tipologia: Dispense

2020/2021

In vendita dal 21/06/2021

Anna2001__
Anna2001__ 🇮🇹

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Scarica Riassunto Storia della moda XVIII-XXI secolo e più Dispense in PDF di Costume E Moda solo su Docsity! Storia della moda xviii- xxi secolo Cap 1: Il lusso La moda è l’usanza che si impone nelle abitudini, nei modi di vivere e nelle forme del vestire. A partire dal medioevo la moda è stata prerogativa di un piccolo gruppo che ha usato le trasformazioni dell’abito per manifestare il proprio ruolo gerarchico all’interno della comunità. L’Europa occidentale è stata messa in crisi tra il 13º e 14º secolo, da quel momento l’abito ha cominciato rappresentare la posizioni di classe sociale della persona secondo regole soggette al gustoànel campo economico medievale alcuni avevano l’incarico di produrre, altri quello di consumare Regola dell’ancien Regime: “far vedere ed essere visti”. Il lusso della corte era immagine dello Stato e della sua concezione economica precapitalistica. Con Luigi 14º: ˇ La nobiltà era costretta dall’esempio del re ed alla partenza la sua corte, ebbe conseguenze di rovina ˇ Lo Stato sfruttando il lusso potè favorire la crescita della classe dei fornitori e dei finanziatori La riforma protestante creò le premesse per una nuova cultura relativa al lusso. Calvinisti e puritani misero al centro delle riflessioni sulla natura dell’uomo à la ricchezza doveva essere gestita il nome della comunità, non poteva essere sperperata per il piacere o la vanità personale. Modestia e moderazione divennero le vere doti da comunicare attraverso l’abito Anche nel mondo cattolico ci furono forti richiami a valori evangelici, più consoni alla condotta cristiana; L’abito diventa segno di comunicazione con un forte collegamento alla morale che si esprime attraverso colori, materiali. Abiti borghesi La borghesia inventò la propria moda che corrispondeva un ideale di vita, un modello etico e poté permettersi di riaprire la questione del lusso, un modo per far girare merci e produrre ricchezza. Su questo concetto si fonda The Fable of the Bees pubblicato da Mandeville nel 1714 à filosofi illuministi che studiarono il concetto di lusso (poteva essere positivi positivamente utilizzato all’interno di un’organizzazione economica, Prima mercantilista e poi capitalista) e di fasto (collegato allo spreco) L’abbigliamento maschile: l’aristocrazia inglese e gli europei proposero un modello semplificato dove il completo composto da marsina, sotto marsina, Camicia, calzoni restò invariato ma iniziarono ad essere utilizzati tessuti di lana in tinta unita o neri(non più preziosi tessuti di seta colorata). Nobiltà e borghesia legarono il proprio status al lavoro. L’abito voleva comunicare I valori come l’intelligenza, la lungimiranza negli investimenti, il benessere, la salute, la comodità. La moda maschile si concentrò sui particolari: i tessuti, le cravatte, vigile, La perfezione dettaglio degli indumenti, Il candore e la pulizia, la stiratura, La distinzione e l’eleganza di portamento(regole stabilite da Lord Brumell E Balzac) Lo scopo della vita borghese erano il matrimonio e la cura dei figli, Quindi l’abito della donna diventò lo specchio di queste virtù. Abiti con colori chiari, nastri, passamanerie, merletti, Indumenti leggeri e comodi(liberare il corpo femminile da tutte le costrizioni in accordo con le terriere illuministe). Le grandi novità nella medicina nella filosofia pose attenzione alla cura del corpo e alla salute: Aria, luce, pulizia, movimento furono messi in collegamento con la possibilità di leggere bene. Le donne erano private di qualsiasi compito pubblico quindi si qualificarono per lo Stato sociale ed economico dell’uomo al quale ”appartenevano”; divennero oggetto di spese lussuose ri. Tutto quello che l’uomo sottraeva il proprio aspetto individuale veniva sommato all’aspetto della sua donna e della sua casa. Dalla fine del 700 la moda si occupa sempre meno dell’uomo e sempre più della donna. Le professioni della moda Le mode dovevano essere considerate tali dal gruppi di riferimento a cui il soggetto apparteneva. Vennero ristorati luoghi nuovi che assumessero il compito della creazione, Identificati e via via fatti crescere; il parametro fu quello del lavoro e della professionalità. Nei secoli dell’al’ancient Regime si creò una netta distinzione tra • momento ideativo: Appannaggio del cortigiano • Fase di realizzazione: appannaggio di artigiani che mettevano in opera l’oggetto d’abbigliamento • L’unica fase autonoma era quella della fabbricazione dei tessuti; il tessuto era così costoso da costituire il più lussuoso di un abito a partire dai suoi filati, colori, tecnica di tessitura. Tutti gli artigiani erano semplicemente degli esecutori che lavoravano su commessa diretta, Infatti noi sappiamo riconoscere la manifattura di profeti provenienza del tessuto ma non conosciamo i nomi dei sarti(prima della fine del settecento, Poi la borghesia capovolge questa logica). La novità fu offrire al compratore la possibilità di essere aiutato da un professionista che gli metteva a disposizione per il servizio Fu il momento delle marchandes de modes: In precedenza la moda era un mondo maschile mentre le donne si occupavano di lavori nascosti nemmeno pagati(Cucitrici e ricamatrici). In questa fase le donne videro una possibilità per la creatività e la professionalità femminile. Le mode del 700 prevedevano un numero di fogge variabili all’infinito attraverso i tessuti, sistemi di ornamenti che venivano sovrapposti all’abito, acconciature, oggetti da manoà era fondamentale avere a disposizione una vasta scelta di decorazioni con cui scatenare fantasia e gusto individuale. La trasformazione delle professioniste della moda avvenne su due fronti: ¨ culturale ¨ economico Abbigliamento e moda resero visibili i percorsi che la società del 700 stava compiendo per trasformare la struttura del mondo occidentale. La vera novità però stava nell’attenzione che venne dedicata al lavoro. L’Encyclopedie disegna una mappa delle professioni della moda elencando quelle antiche di secoli e quelle nate di recente= disegno di un sistema artigianale complesso che si basava su una profonda raffinata sapienza di lavoro. Gli artigiani della moda erano considerati al pari dei rappresentanti delle altre scienze arti liberali e arti meccaniche che le analizzava. Le corporazioni Il sistema delle Arti e dei Mestieri e i Corps mercantili francesi avevano cominciato a subire trasformazioni già alla fine del 600. I sarti, nel 1675, avevano visto riconoscere l’esistenza giuridica della corporazione delle couturièresà un’innovazione dagli sviluppi immaginabili: dalla fine del 18° secolo la moda interessò solo l’abbigliamento femminile. Nel 1595, era nata la corporazione delle lingères, una corporazione femminile che si collocava a mezzo tra la realizzazione e la vendita, così da poter intervenire 1sulle modalità e il gusto di quanto veniva prodotto direttamente 2sulla scelta delle merci da acquistare e mettere in commercio 3sulle richieste delle clienti cui offrire entrambe le possibilità. Ma i veri padroni della moda parigina erano stati fino a quel momento i merciers: nei loro magazzini si commerciavano tutti gli oggetti e i manufatti di lusso legati alle più diverse mode e quindi anche quelle vestimentarie. Svolgevano una funzione di intermediari fra la corte e il resto della societààruolo fondamentale all’interno del sistema della moda nei confronti dei fabbricanti e nel mercato dell’importazione. Da questa potentissima corporazione prese forma alla fine del 600 la specializzazione delle marchandes de modes. Le ‘marchandes de modes’ Secondo la descrizione dell’Encyclopedie, la loro attività comprendeva "la vendita di tutto ciò che riguarda le acconciature e gli ornamenti degli uomini e delle donne...". Diventò una vera corporazione solo con la riforma del 1776 e Rose Bertin ne fu il primo sindaco. Anche se il loro numero era limitato, nel periodo precedente a questa edificazione ufficiale si assistette al formarsi e al crescere del loro peso, fondamentale nella determinazione e nella diffusione delle mode. Il loro compito era “inventare”à il loro nome deriva dall’oggetto del commercio, vendevano appunto solo articoli di moda. indirizzo)= prima forma pubblicitaria moderna di moda; L’esperimento venne poi ripreso nel 1724 con il “Mercure de France”. “Le Galerie des modes”: mercato di figurini di moda (400 tavole circa con abiti femminili). Dava informazioni sullo sviluppo della moda con figurini e didascalie (se ne occupavano anche disegnatori specializzati) e dettava le regole di comportamento e le occasioni per indossarli. “Cabinet des modes”: editore Buissone e Lebrun-Tossa, prima vera rivista femminile di moda, usciva ogni 10 giorni dal 1785-1793, superò la Rivoluzione e arrivò fino al periodo del Terrore. Due aspetti che ne determinarono il successo: ˇ tecnico : formato maneggevole, immagini curate e periodicità ˇ economico: costava 21 livres, un prezzo piuttosto elevatoà il pubblico era composto da ricchi borghesi e aristocratici (molti fecero un vero e proprio abbonamento) ˇ Ha anche uno scopo pubblicitario e consente di conoscere le principali novità ma anche i modelli di comportamento adeguati. ˇ Trattava temi come filosofia, morale, storia, teatro, musica, politica La rivista nel 1786 si trasformò nella “le Magasin des modes nouvelles, francaises et anglaises”à i probemi sorsero con la rivoluzione e presto l’impresa venne abbandonata. L’apparire rivoluzionario I codici dell’abbigliamento Stati Generali (1789, ultima grande manifestazione dell’Ancien Regime): il marchese di Breze impone delle nuove regole, nelle quali i vestiti devono essere differenziati in base alla classe sociale. à Clero: abiti ecclesiasticiàseta scarlatta per cardinali, tonaca di stoffa per parroci. à Secondo stato, Aristocrazia: marsina e sottomarsina di seta nera o panno con galloni d’oro decorativi, mantello, calzoni di seta nera, calze bianche, cravatta di pizzo, spada e cappello piumato. à Terzo Stato: abito di panno nero, calze nere, mantello coordinato di seta nera, cravatta di mussola a tinta unita, cappello a tricorno nero e privato della spada (non sono gentiluomini, quindi non ne hanno diritto). Regolamento disatteso (non piace la discriminazione vestimentaria) e abolito nell’ottobre 1789. Dopo la Rivoluzione l’abito assume nuovi significati per il popolo di Parigi: libertà, uguaglianza, nazionalismo e poi repubblica. La nuova Francia si rappresenta con il tricolore francese, che diventò poi una coccarda da applicare su vestito e tessuto (unico capo obbligatorio perché distingueva i cittadini francesi) e fogge militaresche (per uomini e donne). Uguaglianza Contrapposta al lussoàvengono introdotti i lacci invece che le fibbie nelle scarpe, fermagli politici, gioielli con pezzi del muro della Bastiglia, tessuti di cotone e lana, acconciature con taglio corto e non si usa la cipria. L’abito borghese o operaio diventa di riferimento. L’abbigliamento maschile trae ispirazione ˇ dalla moda borghese inglese àtessuti di lana con colori sobri, cappelli rotondi e non decorazioni lussuose ˇ dalle divise dei lavoratoriàsanculotto: pantaloni lunghi informi, carmagnola, zoccoli da contadino e pipa. L’abito diventa lo specchio delle idee politiche. L’Abbigliamento femminile: gonna, caraco e fichu con acconciature con cuffie e nastri (semplicità popolare), abiti fatti per camminare in città, riprendono segni maschili come i capelli corti à la titus e i pantaloni in una prima fase protofemminista poi repressa. Durante il periodo del Terrore (1793) Jaques Louis David fu chiamato a creare costumi per una società di uguali, ma egli stesso non risuci a trovare uno scenario sociale capace di fornirgli l’ispirazione (sembravano più costumi teatrali e non hanno applicazione pratica). Uguaglianza: dogma filosofico, poi la società borghese provvede a una differenziazione tramite l’abito. Libertà Il 29 Ottobre del 1793 fu decretata la libertà totale di abbigliamento. A parte la coccarda (che era obbligatoria) non vi erano regole specifiche. Alcuni simboli rivoluzionari: berretto frigio di panno rosso (nella mitologia giacobina era simbolo della liberazione degli schiavi)+ Iconografia della repubblica romana scelta a volte il gusto neoclassico nelle scenografie. Leader politici con stili molto eterogenei: Robespierre Incipriato, in ordine ed elegante, le sue preferenze andavano all’abbigliamento tradizionale, voleva esprimere una continuità ideale con l’elite borghese (R. era un uomo del popolo) Marat popolano con la camicia sporca, aperta sul pettoà identificazione con la sua missione di ami du peuple, voleva affermare il diritto a un giudizio libero da ogni condizionamento Danton a metà tra popolo e polsini incipriati. Cercava l’eleganza, con bei vestiti, merletti e polsini La libertà vestimentaria contribuiva alla creazione di un personaggio Moda Merchande de modes si riconvertirono alla produzione di vestiti più adeguati alla nuova iconografia. Proposero fibbie per scarpe ‘alla Bastille’, ‘au Tiers Etat’ e ‘a la Nation’ e ‘bonnet a la Bastille’ (pizzi, nastro e coccarda tricolore e abito femminile a righe). Modello ‘a la Costitution’ (mussola bianca con fiori tricolori a piccoli mazzi, fascia in vita, fichu e cappello a demi-casque nero e rosso). Anche completo da amazzone blu e rosso, gilet bianco e cappello nero. ‘Femme patriote’ con redingote di panno bleu de roi bordata di rosso e gonna di lino bianco + Modello a ‘la Contrerevolution’ per uomini. Il lusso fu diffuso a tutti i cittadini e l’uguaglianza fu trasformata con il linguaggio della modaànel 1792 Le Journal de la mode pubblicò il modello ‘a l’egalitè’: cuffia, fichu, corpetto pierrot e gonna di cotone stampato, si utilizzò il panno ma anche seta e mussola. La moda neoclassica Le mode del Direttorio Furono istituiti dal direttorio deste e balli, nonché i Bals de Victimes in onore dei congiunti ghigliottinati durante il Terrore). Vi erano segni vestimentari nella moda femminile per ricordare la paura: acconciature, scialli rossi (come quello di Charlotte Corday), nastro rosso al collo (ricordava la ghigliottina) oppure intorno al busto (‘croisures a la victime’). Abbigliamento maschile: ¨ jeunesse dorée= giovani con moda inglese, capelli lunghi e incipriati come nell’Ancien Regime e bastoni nodosi, no sanculotti e no idee giacobine . i rappresentati del jeunesse di chiamarono gli Incroyables, secondo loro tutti modi di vestire erano ormai antiquati e legati al passato. ¨ Borghesia: abito da lavoro oppure divisa militare. La tunica femminile L’abito fu affrancato dalla politicaà abbigliamento ‘a la victime’ solo in poche occasioni pubbliche e commemorative. Le donne iniziarono ad indossare abiti diritti di mussola bianca che ricordavano i modelli come la ‘Chemise a la Reine’ e tuniche classiche. Vi furono diversi spunti e fonti d’ispirazioni • alle rappresentazioni teatrali con costumi di David • al Neoclassicismoà testi greci riscoperti, scavi di Pompei ed Ercolano, architettura ispirata e oggetti che circolano in Europa. Alla fine del 1700 il Teatro iniziò a influenzare la nuova società, grazie al principio di verosimiglianza dei personaggi, che rendevano la scena più realistica. Sparirono i travestimenti fantasiosi per dare spazio a costumi ispirati alla classicità e ai quadri storici del pittore David. Il riferimento alla cultura e ai valori romani fu più forte durante gli anni della Rivoluzione. Verso il 1795 il grande fenomeno di revival classico si trasformò in un gusto estetico. L’ideale di “semplice bellezza” teorizzata da Winckelmann, i motivi decorativi di Pompei, la grazia delle figure femminili dipinte divennero una fonte di ispirazione per le arti maggiori ed applicate. La donna della nuova borghesia indossava un abito bianco che ricordava la tunica antica ed era avvolta da uno scialle ispirato al mantello delle matrone romane. Questo tipo di abito era già stato proposto verso il 1780, anche grazie alla pittrice Elisabeth Vigèe-Lebrun, che nel 1788 aveva organizzato una festa alla greca, una ricostruzione del simposio (era una moda d’èlite che esplose solo successivamente). Purtroppo la mancanza di riviste di moda, tutte interrotte durante gli anni del terrore, non permise di seguire gli sviluppi del fenomeno. Probabilmente fu uno stile di strada, che prese forma dallo stile delle donne nel periodo del Direttorio, nato dalle proposte delle merchandes de modes. Anche la ritrattistica, che procedette di pari passo con la moda, testimonia questo gusto estetico. “Le Journal des dames et des modes” riaprì nel 1797, iniziando a pubblicare modelli scollati, con maniche cortissime, testimonianza che era diventata la foggia più di moda. Le ragioni di questa “moda” possono essere ricercate nei principi dell’Illuminismo, una concezione nuova del corpo e dell’igiene; Le feste si svolgevano nelle case dei nuovi ricchi e nei luoghi pubblici di incontro, come botteghe, giardini e cafè (non più nelle corti). L’abito femminile si adeguò a tutto questo, eliminando la sottostruttura, si ridusse a una camicia bianca di cotone con la vita alta, con una cintura all’interno che arricciava il tessuto. Le signore indossavano scarpine con i lacci alle caviglie e per portare le cose con loro, non avendo più le tasche degli abiti ampi, adottarono una piccola sacca, la rèticule, detta anche ridiculè per la sua dimensione. Questo nuovo modo di vestire era caratterizzato da trasparenza e semplicità. Questa moda creava nuove distinzioni: l’abito poteva essere di lino o di mussolina indiana (avevano un costo diverso), poteva essere indossato con vari accessori lussuosi e poteva essere cucito in casa o da una sarta. La struttura sartoriale dell’abito era precisa: c’era una specie di corpetto, la schiena era sagomata in modo da essere molto stretta, la gonna era ornata da pieghe che davano ampiezza al dietro. L’abito era completato dalla stola, un oggetto realizzato con tessuti preziosi e motivi classicheggianti. Nel 1798 Napoleone Bonaparte riportò dalla campagna d’Egitto gli scialli di cachemire, tessuti in india con tessuti provenienti dal Tibet, con un caratteristico motivo a palmette. Erano capi costosissimi che ebbero una rapida diffusione in Francia e Inghilterra, divennero subito di moda. Era un indumento obbligatorio anche raccomandato dal “Journal des dames et des modes”. Anche i gioielli tornarono ad essere indossati con forme ispirate all’antichità. Moda e società I nuovi ricchi del Direttorio erano un’èlite lussuosa appena salita al potere, che sfruttava i privilegi appena raggiunti, “una borghesia d’affari, pratica e realista”. Questo cancellò il principio rivoluzionario dell’uguaglianza, con la proclamazione di una nuova costituzione basata sulla proprietà e sul censo. Le nuove signore dei salotti parigini avevano il compito di inventare le novità, le mode leggere. Avevano un modello lussuoso, eccentrico, a volte eccessivo, in linea con il gusto dell’epoca. Le giovani donne per le strade, Marveilleuses, ne seguivano i dettami, le cronache del tempo parlavano di eccessi e follie nel loro modo di vestire, che si diffuse in tutta Europa. Dal 1797 riiniziarono ad uscire le riviste di moda come “Journal des modes”, che usciva ogni 5 giorni. I due intellettuali che dirigevano la rivista, Sellequè e de la Mèsangère, avevano cambiato vita dopo la Rivoluzione. Nella rivista trattavano temi psicologici, storici, biografici, parlavano di libri e teatri, ma non di politica. C’era poi un ampio spazio dedicato alla moda, alle novità e alle infatuazioni passeggere di Parigi. Erano allegati alla rivista anche dei figurini ispirati al modo di vestire del dopo la riduzione delle importazioni fatta da Napoleone, Leroy iniziò un’attività di contrabbando, acquistando questi capi preziosi dall’Inghilterra. Bouchot confronto tra David Leroy Aveva inventato un modello astratto, rispecchiava gli ideali di una nuova società Tradusse l’dea di David in moda, nelle strade e nei palazzi delle città Quando Napoleone divorziò da Josèphine, la nuova giovane moglie Maria Luisa d’Austria doveva essere vestita sempre da Leroy, per non modificare l’immagine pubblica. C’erano altri fornitori della famiglia imperiale, come ricamatori, profumieri, calzolai, che guadagnavano enormi somme di denaro rispondendo alle mode frivole e agli eccessi delle principesse. Alcuni di questi divennero fornitori abituali, come Cop (famoso calzolaio di Parigi). Essi furono coinvolti anche nelle preparazioni delle cerimonie ufficiali. La moda imperiale era però limitata alla corte, al di fuori cresceva lo spirito borghese con una doppia vita: 1quotidiana semplice e 2fastosa delle cerimonie. I l ruolo della donna era sempre più limitato alla famiglia, alla cura dei figli e della casa. Alla fine dell’Impero la morale borghese prese il sopravvento, la crisi economica portò all’abbandono del lusso e alla ricerca di modi per gestire i propri affari. Ritornò la monarchia borbonica in Francia, che aveva spento il sogno imperiale, a causa anche delle potenze straniere che avevano già una società borghese. L’affermazione della moda borghese La nuova cultura del lusso Dopo la battaglia di Waterloo, Napoleone fu sconfitto e si ritornò alla vecchia monarchia dei Borboni. La nuova società che si era sviluppata dalla Rivoluzione all’Impero era rappresentata (come descrive Balzac) da un gruppo in cui la borghesia era predominante. Con la Restaurazione ci furono nuove regole sociali ed economiche. Era necessaria un’eliminazione delle gerarchie sociali à si attuava con la ridistribuzione della ricchezza, per creare poi un’identità sociale basata sull’uguaglianza dei cittadini. Tuttavia questo principio non eliminava le differenze, ma sostituiva quelle antiche, basate sul diritto di nascita. Il denaro divenne così misura del talento individuale, del successo e dell’intelligenza, secondo la mentalità moderna e borghese. La morale e la politica cominciarono ad essere connesse e la ricchezza non fu più uno strumento di consumo, ma qualcosa da reinvestire ed accrescere. Infatti il mondo borghese era fondato sul 1risparmio, 2sul controllo e 3sulla sobrietà. La vita parigina era divisa in sfera pubblica e privata, la città offriva una serie di attrattività aperte a tutti; comparvero anche i primi luoghi di vacanza al mare. Ma tutti gli eccessi e il lusso erano disprezzati, la stessa famiglia reale non si distingueva per un certo tipo di stile di vita. Ormai lo spreco era considerato una colpa, la cultura del lusso era stata abbandonata, perché significava consumare patrimoni faticosamente accumulati con forza e lavoro. Il lusso borghese era l’eleganza e il confort. Il “confort” I viaggiatori che alloggiavano in Inghilterra descrivevano tutti gli oggetti, i dettagli a disposizione dell’ospite nelle piccole locande, che potevano rendere il soggiorno più confortevole. Si trattava di lussi funzionali, resi possibili grazie allo sviluppo della tecnologia con la Rivoluzione Industriale. Infatti nuove merci invasero i mercati e i nuovi lussi delle case borghesi erano: l’acqua corrente, il gas e l’elettricitàà offrivano un livello maggiore di comodità. La sfera del confort diventava utile, abitudine e si presentava come una necessità per il benessere quotidiano. Il mito dell’eleganza In questo periodo anche la teoria sull’eleganza e sul modo di vestire si identificò con gli ideali borghesi. Come scrive Balzac, questa era una teoria adatta all’uomo “che non fa niente”, che si dedica alla propria intelligenza e realizzazione estetica. I borghesi infatti facevano parte della stessa classe sociale e passavano la loro vita a cercare di distinguersi dagli altri. Questa “superiorità morale” si traduceva nell’apparire elegante. Balzac credeva che l’eleganza fosse un sentimento che proveniva da istinto e abitudine: • gli aristocratici nascevano con il sentimento dell’eleganza, favorito dal l’ambiente nobile e dall’educazione, erano abituati. • I nuovi borghesi invece potevano avere l’intelligenza e un gusto innato. Queste erano le due vie per raggiungere una vita elegante e distinta. A volte il rischio era che i nuovi ricchi cercavano di imitare i nobili dell’Ancient Regime, adottando però uno stile di vita che non gli apparteneva. La nuova società infatti era diversa dal Settecento, non amava lo spreco e far vedere la propria ricchezza, ma aveva le caratteristiche di sobrietà, semplicità, naturalezza; che si potevano mostrare nel modo di vestire. L'abito della borghesia L'essere umano sottomette tutto all'influenza del costume. L'abito che indossiamo identifica, in un qualche modo, la nostra personalità. Lord Brummel, nel trattato di Balzac, sosteneva che una donna diventa completamente un'altra persona in base a se questa si trovi in veste da camera o con addosso un abito da balloàgli abiti comunicavano in modo diretto e veritiero la posizione sociale dell'individuo che lo indossa determinandone anche il comportamento. L'uomo che lavorava adottò la divisa di Lord Brummel ma senza la sua raffinatezza, riprendendone soprattutto la semplicità. I colori ammessi nella vita pubblica per gli uomini borghesi erano solamente il nero e il bianco, per questo motivo Baudelaire definirà i suoi contemporanei "Becchini". La scelta limitante di tali colori era stata fatta per seguire un principio egualitario che prevedeva una divisa che non portasse con sè nessuna differenza gerarchica. L'unica distinzione stava nei particolari: il nodo alla cravatta, il tipo di tessuto utilizzato per i capi, il bastone ecc. Per quanto riguarda, invece, l'abito femminile della borghesia, questo doveva comunicare la virtù della donna. La donna non aveva alcun tipo di spazio pubblico, il suo ruolo era limitato alla casa e alla famiglia, dovevano essere figlie virtuoso e caste per poter diventare mogli semplici ed econome, così da non mettere in crisi il patrimonio della famiglia. La donna era il solo lusso che quell'epoca di austerità si permettesse. Ciò avvenne attraverso l'irrigidimento dell'abito femminile. La gonna aveva una forma a campana, prima realizzata attraverso una serie di elementi decorativi imbottiti e applicati sull'orlo. Successivamente, dagli anni venti in poi, si adottarono sottovesti inamidate. Il punto vita rimase alto fino allo stesso periodo, dopo riprese la posizione normale. Le scollature erano usate solo negli abiti da sera. La vera novità della moda di questo periodo furono le maniche, queste iniziarono ad impreziosirsi e a gonfiarsi. Si tentava non solo di coprire il corpo delle donne, ma di cambiarne totalmente la siluette. Il culmine avvenne negli anni trenta quando si fece assumere al corpo femminile la forma di tre triangoli: testa, torace, gonna. Le acconciature consistevano in boccoli e coronamenti posticci decorati con nastri e gioielli. La linea delle spalle era esagerata da colletti, cappe, giacche senza maniche. Le maniche presentavano enormi rigonfiamenti che potevano essere collocati in vari punti del braccio. Si indossava un corsetto per enfatizzare la vita, la gonna veniva irrigidita in una forma arrotondata. La vanità femminile divenne un modo per la società borghese ostentare potere e ricchezza. Ampiezza, scomodità ed eccesso di decorazione divennero le caratteristiche fondamentali dell'apparire femminile per numerosi decenni. Tutti aspetti che simboleggiavano una ricchezza e uno stato sociale altrimenti non evidenti. Le donne erano l'unico modo consentito all'uomo per mostrare la propria ricchezza, tramite balli, uscite a teatro e feste: questo era l'unico luogo pubblico che la borghesia affidava alla donna. La moda femminile era un modo perfetto per rappresentare le distinzioni sociali senza intaccare in alcun modo il modello etico dell'apparire maschile. Allo stesso tempo assecondava il desiderio di emulazione e di ascesa insito in tutti i nuovi gruppi sociali. Nacque di conseguenza un meccanismo che vedeva una piccola èlite riconosciuta che proponeva le novità e, nell’arco di poco tempo, essa si affermava nella società "bene" per poi estendersi a tutti gli stati sociali. La moda del revival La struttura simbolica che gli abiti dovevano comunicare era perennemente arricchita da significati aggiunti, delegati a materiali, decorazioni e accessori. Erano rari i casi in cui il cambiamento coinvolgeva la linea dell'abito. Nella prima metà del secolo il movimento romantico diffuse, nella cultura borghese europea, una moda storica che si manifestava attraverso la letteratura, il teatro o l'opera. Tutto, dal Medioevo al Rinascimento, era diventato un enorme bacino di fonti d'ispirazione per la creatività. A volte la ripresa nella moda di tali ispirazioni fu ¨ Diretta: come nel recupero delle maniche a gigot ¨ Indiretta: riprendendo caratteristiche di vicende letterarie, come nel caso degli abiti all'esmeralda, ripresi dal personaggio femminile de "Il gobbo di Notre dame" di V.Hugo. L'esempio di maggior successo, anche in termini di durata, fu quello dell'abito aristocratico per eccellenza, con il torace modellato dal busto e la gonna ampia sostenuta da strutture rigide. Nel 1845 venne introdotta la crinolina, una sottoveste, confezionata con stoffe di cotone o lino, resa rigida da una trama di crine. La liberazione del corpo femminile aveva avuto una durata estremamente limitata, legata solo al breve periodo del sogno rivoluzionario. Questa moda, ispirata anche dalla storia e, quindi, da ciò che si poteva ammirare nei musei, era il desiderio di possedere il lusso di cui si era stati a lungo privati e, allo stesso tempo, era la fierezza dei vincitori che si decoravano con le spoglie dei nemici sconfitti. Il revival e il kitsch caratterizzano gran parte dei manufatti di questo periodo, indicando una vera e propria negazione dell'eleganza di Brummel e Balzac. Ma la borghesia, nonostante ciò, aveva scoperto anche in questo cattivo gusto una fonte di ricchezza per la produzione industriale. Il cattivo gusto era uno dei tanti effetti della democrazia: la società borghese non era composta da una piccola élite che si autoproduceva, ma, al contrario, era un gruppo sociale allargato. Una forma primitiva di società di massa. L'avanzamento della cultura capitalista stava creando una situazione di benessere improvviso, che non aveva dato tempo alla fascia medio borghese di educarsi al buon gusto. Ci si lasciò andare al piacere del "fare troppo", del possedere cose mai avute prima. Più gli oggetti ricordavano il lusso del passato, più erano ambiti e desiderati. Iniziano ad essere molto in voga copie, falsi e riproduzioni. Lo spazio casalingo tentava di diventare una specie di sscenografia teatrale. Erano in voga arredi Gotici, sale da pranzo rinascimentali, ecc... Le sarte parigine continuavano ad essere l'unico riferimento per la moda internazionale e seppero a lungo imitare le ispirazioni storiciste inserendole nelle loro creazioni. Magasins de nouveautes Nel periodo napoleonico si era sviluppato il commercio degli articoli di moda. Alle Merchandas de modes si erano sostituiti i più impersonali magasins de nouveautès, un termine che comprendeva tutti i settori e gli articoli d'abbigliamento e i suoi accessori; esponevano la merce in modo che fosse facilmente visibile anche all'esterno, così da attrarre la clientela. Spesso tali megasins erano presenti nei passages, delle gallerie dedicate al passeggio e al commercio. Nelle riviste di moda iniziarono ad essere presenti anche volantini e piccoli manifesti con scopo pubblicitario. Dagli anni quaranta l'organizzazione divenne più razionale e modernaà nel 1844 il Petit Saint-Thomas pubblicò un catalogo delle merci da distrubuire al pubblico. Nel catalogo era descritta la suddivisione della struttura commerciale in reparti omogenei: ogni tessuto aveva il proprio banco di vendita, esisteva anche un banco dedicato alle confezioni e in totale si contavano 21 banchi di vendita che comprendono anche quelli legati alla casa, al mobilio o ai tappeti. Nello stesso periodo iniziò a variare anche il rapporto con la clientela. Nel 1841, per pubblicizzare l'associazione di Des Champs Concollinet venne pubblicata una sorta di dichiarazione d'intenti relativa al nuovo sistema che si voleva seguire: * guadagnare poco su ogni cosa per vendere di più "realismo idealizzato", cioè di un realismo fiabesco, caratterizzato da colori tenui e contorni artefatti, che presentava alle donne un mondo di signore per bene, in linea con quanto la società si aspettava da loro. Raramente venivano rappresentati i veri consumatori della moda, vale a dire i dandy e le cortigiane, perchè ritenuti personaggi che potevano minare la serenità della società. La capacita' di scegliere I grandi magazzini nacquero come estensione permanente delle Esposizioni universali, con le quali condividevano l'utopia di attirare uomini e donne di tutte le classi sociali per ammirare e comprare le merci. Per rispondere alle diverse esigienze di gusto e di vita della società, i grandi magazzini cominciarono a selezionare le loro offerte in base a tipi omogenei di clientela, specializzandosi. à i Grands Magasins du Louvre si rivolgevano alla buona borghesia con una moda lussuosa e conformista; à il Bon Marchè aveva un carattere più provinciale à il Printemps si rivolgeva ai giovani; à il Samaritaine ad una clientela popolare. Continuarono ovviamente anche ad esistere le sartorie di lusso e le maison di moda, rivolte a una clientela più importante e raffinata, vale a dire la nobiltà e l'alta borghesia sia francese sia internazionale; si erano però adattate ai tempi e avevano adottato il moderno stile di esposizione e vendita dei grandi magazzini. In questo modo il commercio di moda era in grado si rispondere alle esigenze dell'intero mercato borghese e con una modalità che appariva all'esterno assolutamente democratica; infatti, tutti potevano accedere alle merci, a prescindere dalla posizione sociale. La diffusione della classe borghese agiata, che si circondava di beni materiali per mostrare il proprio stato sociale, aveva dato vita ad un mercato cui la nuova categoria di commercianti offriva semplicemente soddisfazione. Le preferenze dell'acquirente verso una merce piuttosto che un'altra rivelavano il gusto di quest'ultimo e lo scopo che egli si prefiggeva. Nel campo dell'abbigliamento femminile questo aspetto divenne fondamentale: i vari settori dei magazzini offrivano porzioni o singoli elementi di un intera parure. Le signore dovevano combinare le varie parti in un insieme che comunicasse significati comprensibili e adeguati alla rispettiva personalità e allo stato sociale, seguendo sempre secondo linee guida sobrie e decorose, questo perchè la borghesia temeva l'eccentricità. Vi era sempre, accanto al desiderio di mostrare il proprio livello sociale tramite accessori e quant'altro, la paura di cadere nell'ostentazione. Charles Frederick Worth (1825-1895) Charles Frederick Worth era nato in Inghilterra nel 1825 in una famiglia borghese. Si recò a Parigi nel 1845 dove lavorò prima come commesso a La Ville de Paris, poi come assistente alle vendite da Gagelin, uno dei più importanti magasins de modes della città. Presto fu incaricato di occuparsi del reparto “scialli e mantelli” e qui cominciò introdurre la prima innovazione: quella di presentare i capi utilizzando come modello una commessa del reparto, Maria Augustine Vernet, che sarebbe diventata poi sua moglie. Probabilmente per fare risaltare maggiormente gli scialli proposti, realizzò per Marie semplicissimi abiti con la crinolina che le clienti notarono e richiesero: anche le signore dell’alta società cominciavano a essere attratte dall’idea di acquistare indumenti già fatti, purché fossero alla moda e lussuosi come quelli che ordinavano dalle loro sarte. Presto nei reparti del magazzino fecero la loro comparsa le prime nouveautés confectionnées. All’Esposizione universale di Londra del 1851 la Maison Gagelin fu la sola ditta a presentare una produzione di capi pronti, mantelli e mantelet. Vinse la medaglia di prima classe solo per una delle sete ricamate. All’Esposizione di Parigi del 1855, invece, la medaglia fu assegnata a Gagelin nella sezione “Confezione di articoli di abbigliamento. Fabbricazione di oggetti di moda e di fantasia” per un manto di corte di seta ricamato in oro che si appoggiava alle spalle, contrariamente all’uso ormai codificato di applicarlo in cintura. Dal 1853 Worth era entrato in società con il nuovo proprietario, Octave-François Opigez-Gagelin. I soci cominciarono ad avere divergenze e il 1° luglio 1858 il sodalizio si sciolse. Worth aveva creato una nuova società insieme a Otto Bobergh, uno svedese. La nuova Maison offriva servizi diversi: vendeva stoffe, ma soprattutto proponeva abiti esclusivi progettati da Worth, anche con varianti di colori e tessuti, che venivano confezionati su misura secondo le modalità imposte dalla creatività del couturier. Fu questa la nascita dell’ haute couture. La scelta non competeva più a una confusa signora, molto ricca di denaro e di obblighi sociali, ma veniva delegata a qualcuno che, per investitura professionale, si accollava questo compito. La società del Secondo Impero: Il mondo che cominciò a rivolgersi a Worth era quello del Secondo Impero, ruotava intorno alla nuova corte e ai gusti dell’imperatrice Eugenia. Questa società ricca, opulenta e amorale cercava di dare al proprio denaro un’immagine che fosse capace di rendere visibili innanzitutto i propri trionfi, ma anche l’adozione di un modello politico e sociale conservatore, il più possibile lontano da sospetti rivoluzionari. Il colpo di Stato del 1851, che aveva abbattuto la Repubblica nata dalla rivoluzione del 1848, aveva trasformato un “socialista” in imperatore e, con lui, aveva portato al potere un’intera classe dirigente che per l’occasione aveva barattato la rappresentatività repubblicana con la monarchia. Il tipo di borghesia che essi guidavano era affamata di ricchezza e di lusso. L’imperatrice, una contessa di origine spagnola, aveva un mito che poteva essere adottato e pubblicamente enfatizzato come modello estetico e di comportamento: l’ultima fase dell’Ancient Régime prima della Rivoluzione e l’”infelice regina” Maria Antonietta, nelle cui vesti Eugenia si era fatta raffigurare da Winterhalter, il pittore di ritratti più in voga delle corti europee. Anche la moda, evidentemente, si adeguò a questo gusto e per tutti gli anni Cinquanta s’impegnò a segnalare il lusso e la ricchezza. La crinolina assunse proporzioni sempre più esagerate per adeguarsi al desiderio di revival (e di ostentazione) che percorreva la società parigina e la quantità di stoffa necessaria per confezionare un abito alla moda in pochi anni raddoppiò. La moda di Worth. Worth si inserì in questa moda senza cambiarne la foggia, ma proponendo vestiti più semplici rispetto a quelli che uscivano dalle mani delle couturières di lusso. Le sue esperienze nella sartoria furono le basi di abiti in cui tessuto e forme erano sempre strettamente correlati e il taglio si incaricava di costruire una struttura perfetta, su cui poteva essere applicata ogni sorta di decorazione senza intaccare la vestibilità del capo. La sua fama iniziale derivò anche da un modello da sera dall’aspetto lieve e di un romanticismo particolare: il tessuto pesante con cui era realizzata la gonna era coperto di tulle di seta. L’abito risultava ancora più lussuoso per il raddoppiamento del tessuto necessario, ma suggeriva quell’idea di frivolezza che caratterizza la pittura del 700. L’ingombro del vestito veniva mascherato e la sua pesantezza annullata da questa nuvola leggera da cui le “bianche spalle delle signore” emergevano in modo conturbante come da una scultura di zucchero filato, resa ancora più impalpabile per il colore candido con cui veniva normalmente realizzata. Il successo in una ristretta cerchia di clienti della borghesia non era però sufficiente perché il nome di Worth diventasse sinonimo di moda. Per raggiungere questo risultato era necessario conquistare l’imperatrice e le sue dameàL’obiettivo fu raggiunto nel 1860, quando Marie Worth, vestita con un abito del marito, fu mandata a sottoporre i figurini di un album di modelli a una vera aristocratica, la principessa Pauline von Metternich, moglie dell’ambasciatore austriaco. Pauline ordinò due modelli: un completo da giorno e un abito da sera in tulle di seta bianco e argento, con cui si presentò a corte. L’interesse da parte dell’imperatrice nella maison segnò il suo definitivo successo. Raggiunta la fama voluta, Worth cominciò ad apportare i primi cambiamenti alla foggia dell’abito femminile. Utilizzando la nuova “vetrina” costituita dalle corse dei cavalli a Longchamp e la moglie come modella, presentò un nuovo coprispalle in merletto di dimensioni ridotte al posto dei lunghi e avvolgenti scialli che in quel periodo coprivano gli abiti, e un cappello che lasciava vedere l’acconciatura, eliminando l’ormai tradizionale bavolet. Presto, sia le corti europee sia la ricca borghesia americana cominciarono a ordinare toilettes per ogni occasione e le riviste femminili documentarono la diffusione delle sue proposte. Le testimonianze concrete degli abiti realizzati da Worth negli anni 60 sono quasi inesistenti; è però possibile seguire le sue idee attraverso i ritratti di corte di Winterhalter, le mode che egli stesso assecondò o trasformò e le traduzioni dei suoi modelli realizzate dalle altre sartorie, ormai coinvolte in un meccanismo di copia delle sue proposte. Il 1864 fu l’anno dell’affermazione: Worth divenne fornitore ufficiale degli abiti da sera e di rappresentanza dell’imperatrice. A questo punto poteva permettersi di uscire con proposte davvero innovative. La prima venne creata appositamente per Eugenia, la cui passione per le passeggiate era messa in difficoltà dalla lunghezza e dall’ingombro delle gonne alla moda: Worth crea un abito il cui orlo si ferma alla caviglia. Il modello era costituito da una sottoveste “corta” e una sopravveste drappeggiata. La seconda proposta ebbe un grande peso nello sviluppo della moda: Worth intervenne sulla forma della crinolina, la ridusse drasticamente sul davanti, spostando l’ampiezza sul dietro che assunse la forma di un breve strascico. La diminuzione di tessuto nella gonna, però, fu immediatamente compensata con l’adozione di un elemento decorativo: una sopragonna lunga fino al ginocchio, che fu chiamata “tunica”. Il raddoppiamento consentiva di introdurre soluzioni estetiche nuove operando sul drappeggio di questo elemento e sul contrasto di tessuto e di colore fra le due sottane. Nel 1869 la mezza crinolina si ridusse ulteriormente trasformandosi in un sellino di crine rigido, la tournure, che sosteneva solo la parte alta del dietro della gonna in modo da creare un effetto di ricaduta verso il basso. Il suo risultato fondamentale fu quello di modificare la silhouette femminile: il davanti cominciava ad aderire al corpo e il dietro si avviava ad assumere e sostenere forme decorative sempre più complesse. Anche in questo caso si trattava di un revival, ma il riferimento si spostava alla corte di Luigi XIV e al manteau degli anni 1680-90. Dal Secondo Impero alla Terza Repubblica. La proposta di Worth divenne vincente negli anni Settanta, quando il panorama politico francese mutò. La vecchia classe dirigente venne spazzata via dalla guerra prussiana e Parigi fu sottoposta a un duro assedio e all’esperienza della Comune. In questa situazione, Worth chiuse la Maison, ma la parentesi fu breve. La borghesia che uscì da questa esperienza non era cambiata: semplicemente chiedeva di trovare nuove forme di lusso per esibire il denaro conquistato e altri revival per collegare in modo sempre più stretto ed evidente il potere raggiunto con le immagini grandiose dell’antica aristocrazia. Il passato diventò sempre più di moda. La posizione di Worth divenne ancora più centrale e assoluta: a questo punto anche la guida della corte era venuta a cadere e il couturier assunse il compito di arbitro unico del gusto e della moda. La riduzione del diametro delle gonne in favore di drappeggi e di decorazioni rappresentò il passaggio fra il Secondo Impero e la Terza Repubblica. L’eccesso di tessuto necessario per decorare una signora trovò ora anche una giustificazione “patriottica”: venne considerato indispensabile per l’economia della nuova Francia borghese. L’abito doveva mutare foggia per assecondare l’evoluzione sociale, ma doveva anche continuare a richiedere metri e metri di tessuto, di nastri, di passamanerie. Worth ridusse il busto con un effetto di vita alta, definito “Joséphine”, a favore della gonna e delle sue decorazioni. La tunica/sopragonna si avvolse con vari effetti di drappeggio intorno ai fianchi e fu decorata con applicazioni di fiori, balze, frange, nastri, ecc. Worth propose anche un tipo di abito totalmente nuovo, in cui poteva mettere in luce pienamente la qualità del suo taglio: il modello, chiamato princess, era realizzato in un solo pezzo. Eliminando la divisione fra gonna e corpetto, fu necessario strutturare l’intero indumento in modo da seguire le forme del corpo nella parte alta e allargare la gonna verso l’orlo. Negli anni 70, però, il successo della princess si limitò all’ambito degli abiti da casa, quelli che le signore indossavano per ricevere le rituali visite pomeridiane e che si collocavano in uno spazio intermedio tra la costrizione artificiale a cui veniva sottoposta la figura femminile per apparizioni in pubblico e la relativa libertà che si usava in ciò, prima Jean-Philippe e in seguito suo nipote Jean-Charles le conservarono una posizione di preminenza nel panorama dell’haute couture almeno fino alla fine degli anni Venti del Novecento. Sparì nei primi anni Cinquanta, inglobata dalla Maison Paquin cui l’ultimo erede della dinastia, Jean- Charles, la vendette. Il ruolo del “couturier”. Dal 1870-1871 Worth diresse da solo la sua Maison. Già nella seconda metà degli anni ‘60, però, era coinvolta nell’azienda i figli, in modo da garantire continuità e futuro. Worth riuscì a ricoprire il ruolo di couturier per eccellenza perché riuscì a costruirsi un personaggio “rispettabile”. Adesso operato con impegno, consapevolezza e sapienza, non solo realizzando abiti perfetti sia dal punto di vista del gusto e della confezione, ma anche costruendo dal nulla il personaggio del couturier. Già nel 1871 egli stesso diceva di sé: “Le donne che vengono da me vogliono chiedere la mia idea, non eseguire la loro. Si affidano a me con fiducia”. Un tale risultato non era stato raggiunto per caso. Worth conosceva da sempre il senso del suo lavoro nella moda. Ma questo ruolo completamente nuovo aveva bisogno di essere riconosciuto e riconoscibile. Worth scelse di comunicarlo utilizzando i segni che caratterizzavano altri professionisti dell’estetica e del gusto: gli artisti. Non i bohémiens scapestrati che affollavano i café di Parigi, ma i grandi e adulati artisti del passato, le cui vite rossa demitizzare della storia dell’arte e della letteratura ottocentesca. Per questo egli trasformò il proprio aspetto in modo eccentrico e si atteggiò a tiranno delle sue clienti. Felix Nadar lo fotografò, già anziano, in abbigliamento ispirato agli autoritratti di Rembrandt. Il “travestimento” non era casuale. Era finalizzato a rafforzare l’idea di originalità del prodotto e, di conseguenza, di proprietà intellettuale del creatore in un ambito in cui la pratica andava in direzione opposta. Con l’affermarsi di una figura professionale incaricato di produrre non generiche tendenze, ma creazioni esclusive diventava autentico solo l’abito cucito all’interno della Maison e corredato dall’etichetta corrispondente che determinava autenticità, che costituiva forse la parte più importante del valore dell’oggetto. Ciò si contrapponeva a una pratica tradizionale, cui la metà dell’Ottocento davano sostegno anche le riviste di moda, che proponevano al pubblico, figurini e spiegazioni affinché le nuove toilettes potessero essere copiate nelle sartorie e persino in casa. Worth scelse volontariamente di sottrarre le proprie creazioni a tale pratica per introdurre la novità di un diverso statuto professionale del sarto di moda. Il couturier non era più un semplice artigiano, ma rivendicava un ruolo da lavoratore intellettuale o artistico, che aggiungeva alla sapienza del mestiere la propria creatività, di cui chiedeva un riconoscimento specifico. “Io sono un artista. Ho il colore di Delacroix: io creo. Un vestito vale un quadro.” La Maison non era, almeno apparentemente, aperta a tutti e si doveva essere presentati da una cliente per potervi accedere. Worth si era reso conto che la semplice clientela borghese che lo aveva seguito nella nuova avventura non sarebbe stata in grado di garantirgli il successo che egli cercava. Solo le dame dell’aristocrazia, quelle che si erano rivolte a lui per emulare Pauline von Metternich e l’imperatrice Eugenia, potevano operare il miracolo. Aristocrazia e alta borghesia costituivano i modelli di riferimento di gusto cui l’intera società guardava: il demi monde, invece, s’incaricava di lanciare le ultime novità e le proposte più eccentriche. Worth, in nome del buon gusto, riuscì a coordinare le loro esigenze e utilizzando in maniera estremamente oculata gli strumenti che la modernità offriva: da un lato la vendita in esclusiva dei modelli da realizzare all’estero, dall’altro la comunicazione attraverso le riviste di moda. Le Clienti Della Maison Worth. Gran parte dell’aristocrazia europea si servì da lui. In realtà il successo della Maison non dipese tanto dal fatto di essere fornitrice ufficiale di varie case regnanti, ma dal vestire quelle nobildonne molto in vista cui nei diversi paesi era riconosciuto il ruolo di leader nella moda e nell’eleganza. In ugual misura fu curato il mondo dello spettacolo e della mondanità, che offriva possibilità straordinaria per far conoscere le nuove mode anche al di fuori della cerchia della clientela diretta. Attrici, cantanti e cortigiane di successo furono un tramite indispensabile con il grande pubblico, attraverso il loro semplice apparire in occasioni di grande visibilità e nelle cronache mondane di giornali e riviste. Worth cominciò a presentare i propri modelli sulle pagine di “L’Art de la mode” (che diventerà dopo pochi numeri “L’Art et la mode”). Fino a quel momento aveva seguito una stretta regola di segretezza, in parte temendo che i disegni divulgati sulle riviste di moda favorissero la copia dei suoi abiti. “L’Art de la mode” era la prima testata che sceglieva di rivolgersi a una élite pubblicando, oltre alle notizie di moda, i resoconti degli eventi mondani più rilevanti dal punto di vista internazionale. Worth aveva sempre una parte fondamentale in questi resoconti, come creatore delle toilettes più ammirate. Questa forma di garanzia gli era indispensabile anche per conservare e accrescere la clientela più importante della sua Maison: quella americana, costantemente attratta dalla cultura europea. Recarsi a Parigi a rinnovare il guardaroba divenne un’abitudine diffusa fra le signore delle più importanti famiglie che costituivano l’altissima borghesia di New York e Boston. I magazzini di moda americani e inglesi acquistavano a Parigi abiti destinati a essere copiati. “L’Art et la mode”: la Maison le utilizzò per pubblicizzare i propri modelli, che molto spesso avevano l’onore della copertina. A questo punto parve non aver più bisogno dell’intermediazione dell’aristocrazia europea. La diffusione si era completata, anche se l’ormai anziano couturier interveniva sempre meno nella decisione delle linee creative della Maison. Dopo la sua morte la Maison cominciò a comparire regolarmente sulle pagine delle riviste più qualificate insieme alle più importanti case di haute couture parigine. Antimode e abiti d’artista I movimenti Reform Il ricco stile di vita della borghesia ottocentesca trovò al proprio interno molte critiche e oppositori. Gli artisti e gli intellettuali erano preoccupati dal processo di omologazione che era in atto e dal meccanismo in virtù del quale la moda distruggeva appena nate le proprie creazioni; loro infatti tentarono di frenare l’estetica dell’effimero proponendo modelli culturali alternativi. Gli oggetti esposti a Londra nel 1851 avevano suscitato critiche pietose in quanto la bruttezza delle falsificazioni industriali di oggetti antichi era dannosa per lo sviluppo estetico ed economico della società che li produceva. Anche la moda femminile aveva una considerazione negativa, infatti era considerata troppo artefatta e artificiale, scomoda, eccessivamente decorata. Inizialmente queste reazioni avevano la forma di richiami ai principi originari della cultura borghese: la sobrietà, la funzionalità, il modello di vita operoso, ma anche gli albori del femminismo. Alla fine degli anni 40, negli Stati Uniti, Amelia Bloomer aveva fondato una rivista, “The Lily”, in cui diffondeva le idee di un movimento che guardava agli interessi delle donne. Nel 1851 Amelia Bloomer decise di adottare un abbigliamento più pratico delle gonne con la crinolina e cominciò a indossare dei gonnellini corti con pantaloni alla turca; i giornali americani ed europei crearono un vero scandalo intorno alle eccentricità delle donne in pantaloni che minacciavano la supremazia maschile. Il suo modo di vestire non si discostava per nulla dalle norme del pudore e rispettava anche la linea di moto della metà del secolo: il corpetto prevedeva il busto, anche se non del tutto rigido, la gonna era ampia. La novità consisteva nella sottana che si fermava per lasciar vedere la parte inferiore dei pantaloni alla turca che coprivano le gambe fino alla caviglia. Il problema stava proprio nei pantaloni: l’Occidente non poteva accettare che una donna indossasse l’indumento simbolo della mascolinità, così Amelia Bloom Hair dovette tornare all’abbigliamento tradizionale. L’idea fu ripresa nel 1881 dalla viscontessa Haberton, che fondò in Inghilterra The Rational Dress Society, un movimento che si preoccupava della salute della donna e della sua igiene e dunque interveniva sull’abito femminile proponendo l’uso di pantaloni alla turca o di gonne-pantaloni. L’ora per questa rivoluzione non era ancora giunta, ci si doveva limitare a ragionare intorno all’abito intero che non stringeva troppo la vita e che si appoggiava sulle spalle. Le esposizioni promosse nei primi anni 80 dalle due associazioni, mostrarono una serie di soluzioni di vestiti alternative, che però ebbero un certo successo solo nei primi indumenti sportivi riservati alle donne. I due movimenti volevano legare la riforma dell’abbigliamento femminile al processo di emancipazione della donna; questo consentì la diffusione delle idee dei gruppi inglesi all’estero specialmente in Germania, dove venne creato il movimento della Reformkleidung, che sosteneva la lotta contro gli abiti antigienici. Il Congresso internazionale che si tenne a Berlino nel 1896, discusse molto di questi temi, considerati strettamente connessi al problema generale della lotta per l’emancipazione femminile. Una nuova concezione dell’igiene combatteva il busto per il timore che la sua azione pregiudicasse la gravidanza e questo timore poteva essere condiviso dalla società borghese, che vedeva nella maternità il solo status possibile di un’esistenza femminile. Al contempo l’allontanamento della donna da ogni attività e ruolo sociale e la sua segregazione nella famiglia erano stati simboleggiati da questo strumento ortopedico, in quanto esaltava artificialmente le forme e rendeva evidente l’incapacità della donna ogni sforzo produttivo e quindi al lavoro. Questa era l’ennesima eredità aristocratica che la borghesia faceva propria, nell’Ancien Régime infatti, gli uomini indossavano indumenti adatti all’attività fisica. La paura che il busto, l’oggetto simbolo di questa metamorfosi, potesse spezzare il vero legame tra la donna e la famiglia, la maternità, e dare libero sfogo alle pulsioni erotiche dell’inconscio femminile, permise ai medici di essere ascoltati anche dalla cultura borghese. I preraffaelliti Già alla fine degli anni 40 i preraffaelliti avevano creato abiti adatti al loro tipo di pittura. Le donne della confraternita prerafaellita venivano ritratte con i capelli sciolti e con vestiti che non richiedevano più né busto né crinolina. Il movimento Arts and Crafts aveva lo scopo di ridiscutere alla base il gusto delle arti decorative del modello di produzione capitalistica: proponeva il ritorno al lavoro manuale, per combattere la spersonalizzazione della nuova forma lavoro, riproponeva un ideale di gusto elaborato sulla base di un Medioevo fantastico. In tutto questo l’artificialità dell’abito femminile, costruito per mostrare le differenze sociali, era privo di significato. Morris nel suo unico quadro “La belle Iseult” (1), Egli dipinse la protagonista con i tratti della futura moglie e con una veste medievale, in un interno in cui comparivano tutti quegli oggetti estetici che le botteghe del movimento avrebbero dovuto produrre. Negli anni seguenti, la ricerca di un nuovo canone cui ispirare l’abbigliamento femminile si intrecciò con la scoperta della cultura giapponese, con la moda che ne seguì. James McNeill Whistler, pittore, rimase talmente affascinato dalle raffinatezze nipponiche che vestì le sue modelle con kimono; l’abito divenne una specie di segno di riconoscimento delle signore della società intellettuale. Il successo del magazzino Liberty’s ebbe origine dalla vendita di sete e tessuti orientali o artistici con cui venivano realizzati i nuovi indumenti. Il kunstlerkleid Il progetto di una riforma del modello culturale borghese si diffuse in tutta Europa e nei paesi si formarono gruppi di artisti che perseguivano questa utopia di cui il vestito estetico, divenne una sorta di simbolo. Il progetto di un modello di bellezza che rivoluzionasse innanzitutto lo spazio della vita quotidiana, era finalizzato a una sorta di missione educativa di cui gli artisti si incaricarono: si voleva modificare la forma degli oggetti in chiave estetica e ciò significava indurre l’abitudine a un gusto più colto e raffinato e quindi costringere la società borghese a fare un salto culturale. Questa educazione al gusto avrebbe portato a una trasformazione nella forma e nella funzione degli oggetti d’uso e a una messa in discussione del modo di produrli. L’idea, di cui Morris era stato promotore, si diffuse presto nei paesi di area tedesca e provocò la nascita di diversi movimenti secessionisti. Si cercavano dei modi attraverso cui l’arte poteva integrarsi nella vita quotidiana, l’abito rientrava nel progetto con la stessa dignità dei mobili. Per questo Friederich Deneken organizzò nel 1900, in della prima ondata di esuli aristocratici, molti dei quali trovarono una collocazione nel mondo della couture. Dopo il riconoscimento dell’Unione Sovietica da parte della Francia, gli scambi aumentarono. Gli artisti e la moda parigina degli anni '20 La ww1 portò una rivoluzione nell'abbigliamento femminile: le gonne si accorciarono, la linea si fece sempre più diritta, il taglio si semplificò in modo deciso. Le nuove forme d'arte e il gusto déco, che si diffuse con grande rapidità, erano in grado di mettere a disposizione della moda una nuova concezione della decorazione dell'abito, perciò molte case di moda ricercarono il contributo degli artisti (ad esempio Goncharova e Zdanevic). Thayaht, la tuta e Madeleine Vionnet Thayaht, nel corso della sua vita, intraprese viaggi e frequentazioni che diedero forma a una creatività poliedrica (il bisnonno era uno scultore, la madre era anglo americana e il padre svizzero). Nel 1920 propose la tuta: un indumento intero composto da camicia e pantaloni, abbottonato sul davanti e trattenuto da una cintura. Questo tipo di indumento era già diffuso come capo di biancheria, da lavoro e da aviatore. La novità fu che, oltre alla versione maschile, egli propose una tuta da donna: una camicia da uomo allungata, con una parziale abbottonatura sul davanti e le maniche corte, da indossare con la cintura stretta in vita. La tuta femminile era molto coerente con il nuovo modo di vestire che le donne avevano adottato dopo la ww1. Nel 1922, la sarta parigina Madame Madeleine e Thayaht iniziarono a lavorare sulla forma della tuta femminile, il cui modello fu brevettato e depositato dalla Maison Vionnet. Il momento storico era perfetto, perché erano stati eliminati i busti, le gonne lunghe, i sostegni, e le donne ricercavano maggiore libertà nei movimenti. Il compito dell'haute couture era ora creare un nuovo linguaggio dell'eleganza. Questa tuta, prima pensata come robe d'aviation e poi come abito da tennis, venne presentata con tessuti esclusivi come la flanella, l'alpaca e il cammello. Sonia Delaunay Artista russa, trasferitasi in Germania e poi a Parigi, che aveva sposato l'artista Delaunay, con cui si era dedicata al cubismo, all'arte astratta e alla ricerca di colori simultanei, secondo le teorie di Chevreul. Il suo incontro con i tessuti e con la moda ebbe inizialmente un carattere privato, poi, dopo un lungo soggiorno in Spagna per sfuggire alla guerra, aprì a Madrid "Casa Sonia" dove disegnava, fabbricava e vendeva vestiti e tele simultanee. Tornata a Parigi, iniziò a realizzare abiti simultanei per una ristretta élite, dopodiché fu contattata da un produttore di sete che le commissionò 50 disegni. L'anno seguente aprì l'Atelier Simultané, partecipò all'Esposizione Internazionale di Arti Decorative, in cui espose i tessuti, gli abiti e gli accessori. Il tessuto era la sua vera forma espressiva, la superficie piana su cui svolgeva la sua ricerca sui colori, esattamente come fosse stata un quadro. La forma diritta e semplificata dell'abito degli anni '20 era perfetta per questo tipo di lavoro. La novità rappresentata da Sonia Delaunay riguardò solo parzialmente l'abbigliamento, la cui produzione veniva definita modesta. Fu invece significativa la sua ricerca sulla decorazione tessile, che modificò i disegni e i colori di indumenti e oggetti di arredo, principalmente attraverso la stampa, ma anche attraverso il ricamo. Paul Poiret Agli inizi del '900 l'haute couture rappresentava il modello produttivo di punta della moda parigina. All'Esposizione Universale di Parigi del 1900 esposero 10 maison di ottima qualità, e molte altre. Poiret era figlio di un commerciante di tessuti e aveva manifestato fin da piccolo una forte propensione per il disegno e le arti figurative. Tuttavia, era stato costretto dal padre a produrre ombrelli, tanto che lui progettava abiti per noia (era abitudine comune che disegnatori e artisti cercassero di arrotondare i propri guadagni vendendo figurini e idee di moda alle sartorie). Poiret mostrò i suoi lavori alla direttrice della Maison Raudnitz, che li comprò e lo spinse a continuare. Egli cominciò a visitare le case di moda più importanti di Parigi, tanto che Doucet gli propose di lavorare in esclusiva per lui. Qui imparò il mestiere del couturier di lusso e l'arte del dettaglio. Fu incaricato di dirigere la sezione di taglio, poi di lavorare per alcune attrici clienti della maison. Quando venne licenziato, Poiret partì per il servizio militare e, al suo ritorno, trovò lavoro da Worth. Dopo la morte di Frederick, ci si stava rendendo conto che gran parte della clientela era invecchiata e costringeva la Maison a uno stile non più alla moda. L'impegno affidato a Poiret era quello di rinnovare l'immagine della Maison con creazioni più giovani e adatte alle signore del nuovo secolo. Egli tentò con un tailleur dalla linea molto semplice e con un mantello a kimono di panno nero, ma la clientela era troppo affezionata al gusto vistoso e ai grandi ricami per accettare la novità. Maison Poiret Nel 1903 Poiret aprì la sua prima Maison. Nonostante le esperienze precedenti, egli non aveva una fama personale. Doveva quindi attirare l'attenzione delle possibili clienti ricorrendo a mezzi che non dipendessero dal sistema codificato della moda: utilizzò la vetrina di cui era dotato l'atelier per creare esposizioni spettacolari, che presto furono talmente note da diventare uno dei luoghi canonici delle passeggiate parigine. La sua moda nacque sotto il segno della semplificazione e della innovazione delle linee. Realizzò un mantello-kimono che fu pubblicato sulle riviste di moda con il nome di "Reverend" (un grande rettangolo di panno bordo usato in senso orizzontale e ripiegato ai lati in modo da formare un dorso e due davanti simmetrici, aperto alle spalle lungo la cimosa del tessuto. Un medaglione dello stesso tessuto applicato, con una decorazione di ispirazione cinese, delimita su ciascuna delle spalle due spacchi di lunghezza diversa. Due altri medaglioni sono applicati sul davanti sulla fodera di seta.) Sicuramente il modello di Poiret si inseriva nella voga del giapponesismo che in quegli anni aveva invaso Parigi, ma egli ne propose una trasformazione, rompendo con la silhouette femminile di quegli anni e dando inizio a un esotismo che mescolava culture diverse. Nel 1905 sposò Denise Boulet, che diventò la sua musa ispiratrice e una delle donne più eleganti di Parigi. Nel 1906, l'atelier divenne troppo piccolo e il trasferimento permise di riorganizzare il lavoro per reparti specializzati. Poiret mise a punto la sua prima vera sfida, eliminando il busto che costringeva il corpo femminile ad assumere la linea a S e sostituendolo con una cintura rigida e steccata, la quale era cucita alla gonna. Il primo abito senza corsetto, denominato "Lola Montes", fu indossato da Denise. Fu anche molto importante la conseguente eliminazione di quasi tutta la biancheria che fino ad allora si collocava sotto le gonne, sostituita dalla semplice camicia. L'ispirazione neoclassica Egli si ispirava alla moda neoclassica degli anni del Direttorio, ma il percorso creativo fu più complesso rispetto a un semplice revival: si concentrò sulla struttura di quel modello vestimentario, cercando di coglierne gli elementi fondamentali, ottenendo come risultato un modello diritto, a vita alta, in cui la tradizione settecentesca fu abbinata a suggestioni che venivano da fonti orientali e etniche, il tutto realizzato con materiali innovativi e un'attenzione verso la pittura dei fauves. Esempi: • "Josephine" à dichiarava esplicitamente l'ispirazione impero, ma la sopravveste di rete nera ricamata in oro e la rosa appuntata sotto il seno gli toglievano ogni rigore filologico. • La tunica "Cairo" à riprendeva nei ricami idee prese dal folklore Mediterraneo • "Eugenie"à accostava la linea impero a una sfolgorante garza di cotone rossa broccata a pois dorati molto probabilmente di provenienza indiana • Il mantello "Ispahan"à di velluto di seta. A questo punto, Poiret doveva trovare un mezzo adatto per comunicare la trasformazione dei suoi abiti. Decise di agire da solo trovando un artista adatto alle sue necessità e pubblicando le immagini delle sue creazioni come voleva che fossero colte dal pubblico. Nel 1908 uscì "Les Robes de Paul Poiret racontees par Paul Iribe", un album contenente 10 tavole a colori realizzate à pochoir, pubblicato in 250 copie numerate, in cui l'artista metteva a confronto la novità dei modelli con il punto d'ispirazione, utilizzando un linguaggio grafico molto simile alle stampe giapponesi bidimensionali. I disegni rappresentavano figure femminili collocate in ambienti definiti, con mobili, oggetti, quadri che richiamavano il periodo impero. Il colore, piatto e uniforme, era riservato alle figure femminiliàerano diverse dal solito: alte, sottili, senza forme evidenti o accessori eccessivi. L'immagine Poiret Egli incaricò Iribe di progettare il marchio a forma di rosa. La maison, nel 1909, si trasferì in un hotel del XVIII secolo. L'interno venne ristrutturato e arredato in maniera da diventare l'adeguata cornice dei modelli che il couturier presentava le sue clienti. Il parco divenne una specie di secondo marchio della maison con cui decorare i coperti delle scatole, lo sfondo delle sfilate, il luogo delle sue feste mirabolanti. L'orientalismo Fra il 1909 al 1910 iniziò a Parigi la stagione dei Balletti Russi, che fece della capitale il centro delle ricerche nel campo della danza e della musica. La danza classica si apriva alla sperimentazione di altri modi di sentire e di raccontare. Ma ciò che colpì maggiormente gli spettatori occidentali fu la rivoluzione effettuata nella presentazione dei balletti: fino a quel momento, infatti, la danza classica era vestita in tutù e calzamaglia e le scene erano estremamente semplificate. Benois e Bakst vestirono i danzatori con costumi incredibili e li fecero muovere in scene elaboratissime e colorate. Tutti notarono una somiglianza fra i costumi dei nuovi balletti e i modelli di Poiret, anche se lo stilista negò. Il punto di passaggio fu rappresentato dalla "Jupe entravée", una gonna lunga e diritta che veniva serrata con una specie di cintura sotto le ginocchia, con il risultato di impedire il passo e di costringere chi la portava a procedere pattinando o piccolissimi movimenti. Sembra la negazione di tutto quello che il sarto aveva realizzato prima, ma probabilmente si trattava solo di un esperimento. La donna che Poiret aveva in mente era una femme fatale, circondata da un alone di erotismo misterioso( l’iconografia era stata già presentata dall'Art Nouveau) L'immagine di donna che il sarto sognava venne esplicitata quando egli presentò la prima "Jupe- culotte", creando uno scandalo: la realizzazione di pantaloni per le donne non passò inosservata, anche se la sua proposta non voleva essere rivoluzionaria; al contrario, si trattava di un paio di pantaloni da portare come abito da casa, sotto una tunica che arrivava al polpaccio. Egli realizzò un nuovo album, che mostrava perfettamente il contatto con l'Oriente. Fu affidato a Lepape, un giovane disegnatore, e fu pubblicato con il titolo de "Les Choses de Paul Poiret vues par Georges Lepape". Lepape aveva uno stile diverso da Iribe, molto più sensibile al colore, agli elementi di ambientazione alla pittura giapponese, e interpretò perfettamente lo stile di vita che Poiret intendeva proporre: le esili figure femminili conducono una vita pigra, circondate da cuscini e tende colorate. L'uscita dell'album venne accompagnata dal completo rinnovamento dell'immagine di comunicazione coordinata che Lepape progettò in stretta relazione con le tavole pubblicitarie. Questo però fu l'ultimo album prodotto direttamente da Poiret, perché in seguito Vogel convinse alcuni couturiers a finanziare una rivista di moda da vendere in edizioni limitate, "La Gazette du Bon Ton". Poiret organizzò la festa della "Milleduesima notte" nel giardino della sua Maison, nella più folle coerente messa in scena pubblicitaria che si potesse immaginare. Egli voleva presentarsi alla società come un artista e un uomo di mondo, che amava circondarsi della stessa bellezza che offriva alle donne attraverso i suoi abiti. Ricercò l'amicizia di pittori come Derain e Vlamink, collezionò opere d'arte moderna, aiutò tanti giovani talenti come Man Ray, Dufy, Elsa Schiapparelli. La secessione viennese e l’Atelier Martine pubblicazione maggiore venne dai cappelli indossati da Gabrielle Dorziat sulle scene del teatro Vaudeville. L’attrice era considerata una specie di arbitro della moda parigina e Chanel fece di tutto per fornire i copricapi e realizzò due paglie e pennacchi che vennero immediatamente riprese dalle riviste di costume. A Parigi non esisteva però solo questo genere di eventi, Chanel scopri’ infatti l’esistenza di una produzione artistica d’avanguardia che stava distruggendo il modello culturale ottocentesco alla prima di un balletto che fece scandalo. Vide per la prima volta una forma espressiva che la lasciò sbalordita: i capelli corti inalberati da Caryathis, l’amica con cui era andata a teatro, anche se Coco impiegò tre anni per decidersi allo stesso grande passo. Nell’estate del 1913 si recò in vacanza a Deuville, cittadina di mare frequentata per villeggiatura da parigini e londinesi. I passatempi andavano dai casinò ai cavalli, fino alle barche a vela, anche se non mancavano passeggiate o incontri per il tè. Gabrielle e Boy Capel intuirono che poteva essere li il luogo dove iniziare una vera attività di moda. Boy finanziò infatti l’apertura di una boutique nella via più elegante della città. Le signore erano le stesse di Parigi ma le loro esigenze erano un po' diverse, inoltre l’aria di vacanza e il contatto con le più spigliate donne inglesi facevano desiderare un abbigliamento un po' più confortevole. I cappelli semplificati di Chanel conquistarono anche qui il bel mondo ma modificare i copricapi e lasciare inalterato l’abbigliamento non le sembrò sufficiente. Per apportare un cambiamento alla moda femminile del periodo Chanel si rivolse ancora una volta all’abbigliamento maschile, vedendo da Boy degli indumenti pensati apposta per lo sport e le situazioni non formali. Inoltre prese ispirazione anche dalla vera gente di Deauville, quelli che lavoravano in mare e indossavano ad esempio maglioni o pantaloni comodi. Chanel provò a realizzare innanzitutto capi di maglia diritti e comodi e cosi si fece fotografare in giro per la città. Poi cominciò a produrre abiti da vendere nella boutique: marinare in maglia, pullover sportivi e blazer di flanella, ispirandosi come abbiamo detto ad abiti di Boy. Era la sua prima esperienza ufficiale di sarta ed ebbe un successo immediato, successo cui la guerra contribuì in modo fondamentale. La Guerra Il 28 Giugno 1914 a Sarajevo venne assassinato l’arciduca Francesco Ferdinando e a un mese di distanza la Prima Guerra Mondiale era scoppiata. Deauville si svuotò: tutti tornarono a casa tranne Chanel che rimase in attesa degli eventi e fu per lei una buona scelta visto che alla fine del mese i tedeschi cominciarono l’invasione della Francia e furono fermati poco lontano da Parigi. Deauville divenne la meta di fuga dalla capitale. Le signore per affrontare la nuova situazione un po' anomala iniziarono a rifarsi il guardaroba da Chanel per adattarsi alle attività quotidiane e alle camminate a piedi. Gli alberghi della città vennero poi trasformati in ospedali vista la situazione e le divise per le infermiere vennero affidate a Chanel che le adattò alla nuova necessità. Passata poi la paura che l’invasione tedesca facesse crollare tutte le difese alleate Gabrielle tornò a Parigi insieme al bel mondo che era fuggito a Deauville mesi prima. La vita nella città dopo gli avvenimenti della guerra si riorganizzò ed in particolare per le donne si apri’ la possibilità di fare cose fino ad allora non consentite e a impegnarsi in attività necessarie: lavoro e volontariato patriottico e altre libertà furono concesse come frequentare i bar degli hotel per sopperire al freddo delle case. C’era però un altro luogo in quel periodo che la società di lusso aveva scoperto, e si trattava della città di Biarritz al confine spagnolo dove per l’appunto c’era anche la buona società spagnola in vacanza. Boy e Coco decisero di aprire una vera e propria maison de couture in un punto strategico della città e la rifornirono direttamente da Parigi. La clientela aumentò sempre di più anche nel fronte spagnolo, decretando il successo della nuova moda. L’impresa Chanel nel 1916 contava 300 lavoranti: un’espansione travolgente che dà anche la misura del peso economico che la moda francese rivestiva in quel momento. Fu infatti proprio la crisi economica ad attribuire un importante ruolo sociale all’industria di alta moda francese. Il mercato americano venne salvaguardato con ogni mezzo ma il problema era rappresentato dai materiali indispensabili per confezionare abiti. Chanel pensò di proporre modelli realizzati a tricot e per procurarsi la lana acquistò interi stock di jersey da Rodier, uno degli industriali tessili più importanti di Francia specializzato in stoffe per l’haute couture. Chanel capì che quel materiale così sobrio color nocciola poteva diventare un nuovo modello di eleganza caratterizzato da semplicità. Chanel proponeva abiti semplici e funzionali ispirandosi alla propria esperienza personale dove aveva dovuto organizzarsi una personale autonomia con ogni mezzo; lavorò e creò abiti dove l’eleganza veniva proprio dalla funzionalità e dall’adeguatezza della situazione, abbandonando ormai i vecchi modelli fatti da corsetti, ricami, piume e simili. Nel 1916 la stampa si accorse di lei e cominciarono ad essere pubblicate sue creazioni. Dal 1917 invece i suoi modelli cominciarono ad essere pubblicati con regolarità mantenendo la sua linea di semplicità e rigore, restando distanti dai revival settecenteschi che invece circolavano in quel periodo. Chanel aveva senza alcun dubbio raggiunto anche il mercato americano, con una parte di clientela proprio statunitense. La moda del dopoguerra La fine della guerra fu contrassegnata da un arricchimento della sua produzione: ai modelli in jersey cominciarono ad aggiungersi abiti da sera più fantasiosi realizzati in tessuti usuali e femminili come raso, velluto e pizzo Chantilly. Anche le decorazioni si adeguarono al ritmo di vita più euforico e festoso del dopoguerra. Ma la fine del conflitto rappresentò per Chanel anche la fine di una fase della sua esistenza, ovvero la sua relazione con Chapel che morì poi nel 1919. Gli artisti e le avanguardie. Intorno al 1920 cominciò a frequentare l’ambiente degli artisti avendo come guida Sert, un pittore spagnolo di grande fascino. Altra sua guida fu poi Misia Godebska che aveva sposato il fondatore di una delle più importanti riviste d’avanguardia di fine Ottocento. Con queste guide Chanel si trovò al centro della società degli artisti internazionali che animavano Parigi e cominciò a capire le loro idee e quello che stavano facendo per rinnovare la cultura occidentale. Un ambiente che l’aveva sempre affascinata e a cui si avvicinò proprio in quel periodo fu il teatro, per cui realizzò dei costumi in diverse occasioni per gli spettacoli di Jean Cocteau con cui collaborò per molti anni. Il rapporto con gli artisti d’avanguardia non impedì però a Chanel di essere al centro anche della società alla moda che nel periodo del dopoguerra stava cambiando le abitudini. Parigi era diventata un punto di riferimento: la sua cultura si stava americanizzando e si aveva anche l’impressione che il mondo moderno stesse prendendo forma. Qui era possibile incontrare e mettere a confronto le esperienze culturali e sociali più diverse. Il profumo e l’influenza russa. Fu in questo contesto che Chanel conobbe il granduca Dimitrij con cui visse per un anno. Grazie a lui Chanel entrò in un ambiente ignoto, con regole e modelli culturali affascinanti da cui trasse ispirazione per il suo lavoro. Innanzitutto scoprì il profumo e quindi il mondo della profumeria. Fu fin questo ambiente che conobbe il chimico Beaux con cui collaborò nella produzione del profumo che divenne il più famoso del XX secolo. Il chimico elaborò il metodo di fabbricazione, mettendo insieme essenze naturali e componenti sintetiche per stabilizzare la fragranza e farla durare nel tempo, mentre Coco scelse tutto il resto. Il suo profumo era del tutto nuovo e gli diede il nome di N°5. La confezione era trasparente con un’etichetta bianca con la scritta nera, questo insieme costituiva una novità assoluta carica di una grande forza d’avanguardia. Chanel N°5 fu la prima realizzazione ad imboccare la strada dell’industria, infatti nel 1924 Coco stipulò un contratto con i Wertheimer, proprietari della più grande casa francese di cosmetici per creare una nuova società incaricata della produzione e della distribuzione. L’influenza russa esercitata dal granduca Dimitrij e dal gusto che alcune artiste slave che si occupavano di moda stavano diffondendo a Parigi si vide soprattutto negli abiti che Chanel propose in quegli anni. Fu un indumento ad attirare la sua attenzione: la roubachka, un camiciotto con la cintura che faceva parte dell’abbigliamento tradizionale dei contadini russi. Era allo stesso modo rimasta affascinata dai ricami che scoprì sugli indumenti del suo amante (che le avanguardie avevano portato a Parigi): erano disegni a motivi geometrici che venivano dalla tradizione popolare e avevano un’aria un po' barbarica. La collezione che presentò nel 1922 era incentrata su questi due temi di lontana derivazione contadina ma traducendoli in un linguaggio che piaceva alle signore di alta società. Nelle collezioni successive l’influenza russa si fece sentire nella produzione di pellicceria. Chanel provò a tradurre le fodere e gli ampi bordi di volpe o di cincillà nel linguaggio occidentale dei mantelli per il giorno e per la sera. Quello che cambiava erano il tessuto e gli accessori: * per la sera utilizzò seta e lamè * per il giorno impiegò la lana con alcuni accorgimenti. I n sintesi tutte le citazioni e i riferimenti maschili che Chanel aveva usato come ispirazione spariscono a favore di un modello assolutamente femminile e coerente con la moda parigina. Coco Chanel era una delle rappresentanti dello stile à la garconne ma la sua ricerca non era finalizzata a uno schema decorativo: il suo oggetto era un abito funzionale alla vita moderna e questo la portò al massimo dell’astrazione. Nel 1926 presentò un abitino nero che poteva essere indossato in qualsiasi occasione, contravvenendo alla regola tradizionale di realizzare capi diversi per le diverse situazioni sociali. La destinazione dell’abito era poi indicata dagli accessori con cui veniva accoppiato. Stile inglese, gioielli e bijoux. Oltre all’abito nero prima nominato, Chanel negli anni successivi si concentrò sui tailleur e sull’abbigliamento formale. Lo spunto venne ancora una volta dal guardaroba di un suo amante: il duca di Westminster. Attraverso lui Chanel aveva sperimentato lo stile di vita dell’aristocrazia inglese, le sue abitudini apparentemente dimesse e la bellezza austera delle sue dimore. Le collezioni tra il 1927 e il 1930 si specializzarono nei completi composti da giacca diritta di modello maschile, gonna e blusa coordinata, cui si aggiunsero gilet a righe e cappotti sportivi ispirati alla sartoria inglese. E soprattutto si arricchirono dei tweed che Chanel fece tessere in Scozia. E’ importante evidenziare come le creazioni di Chanel, nonostante l’ispirazione maschile, erano sempre rigorosamente femminili, pur rispondendo alla filosofia vestiaria maschile caratterizzata da comodità, semplicità e tessuti morbidi. E quando il suo modello ebbe raggiunto il suo assoluto rigore, allora Chanel cominciò ad adottare gioielli sempre più vistosi. Per Chanel i gioielli però avevano una funzione nuova: servivano a decorare e rendere femminile l’abito e a individualizzare il modo di portarlo, a consentire uno spazio di fantasia alla donna che lo indossava, che in questa maniera personalizzava un modello molto uniforme. Non doveva inoltre essere necessariamente un gioiello prezioso. Nel 1924 Chanel apri’ un laboratorio per produrre gioielli falsi, bijoux copiati da quelli veri ma esagerando le proporzioni e i colori. Lo stile degli anni Venti. Alla fine degli anni Venti lo stile Chanel era stato raggiunto: abiti dritti e semplici, giacche e blazer sportivi, colori neutri, materiali morbidi e gioielli finti. Il suo stile si era andato costruendo nel tempo ed il risultato era un’uniforme per la donna borghese moderna. Per arrivare a essa, Chanel si era comportata come una cavia, facendo filtrare dentro di sé tutti gli stimoli che la società esterna le offriva e sperimentando in prima persona tutte le soluzioni che le venivano in mente. La sua ricerca di un’identità individuale s’incontrò con la ricerca d’identità sociale che le donne cominciarono a compiere nello stesso periodo, un processo che ebbe un’accelerazione nella guerra. Le chiavi di volta di tale processo erano l’autodeterminazione affettiva e l’autonomia economica derivata dal lavoro. La parità di genere poteva essere raggiunta solo nel momento in cui fosse diventato socialmente accettabile il fatto che le donne avessero gli stessi comportamenti degli uomini. Queste libertà dovevano diventare diritti individuali ed essere sottratti al potere decisionale dell’autorità paterna. In questo campo Chanel si trovava in una situazione talmente disgraziata da essere privilegiata ed essendole preclusi i comportamenti femminili, non poteva fare altro che adottare regola di vita maschili. Il compito che affidò al suo lavoro fu inventare un abbigliamento femminile che andasse bene a quelle che, come lei, si vestivano per lavorare e vivere insieme agli uomini, senza pensare di poter usare gli abiti per affascinare mariti e ancor meno per diventare espositori dello stato sociale della famiglia di appartenenza. La seconda guerra mondiale e la chiusura della maison 2 settembre 1939 Francia e Inghilterra dichiararono guerra alla Germania. Tre settimane dopo Chanel chiuse la maison, lasciando aperta solo la boutique di profumi; le lavoranti, licenziate in massa, ricorsero al sindacato (lavoravano circa 4000 operaie e realizzavano circa 28.000 capi all’anno). Coco disse: “non è tempo da vestiti” à si accorse che non aveva più nulla da dire nella moda, la società aveva assunto una forma che lei non riusciva più a far combaciare con il suo modo di pensare Negli anni della guerra Coco visse al Ritz, dove ebbe la sua ultima storia d’amore con un ufficiale nazista molto più giovani di lei intento in un’operazione di spionaggio(Forse voleva sfruttare le conoscenze di Chanel per arrivare al governo tedesco e Churchill) Nel settembre 1944 fu arrestata dal comitato depurazione e interrogata; tre ore dopo fu rilasciata e partì della Svizzera in un volontario esilio dove trovò solo solitudine. A Saint Moritz conversò a lungo con Paul Morand, anche lui esiliato. Nel 1976 uscì un libro dove Chanel parla in prima persona, Il testo uscì anche a puntate su “Jours de France” nel 1971 e pubblicato solo nel 1999, ma il manoscritto ricevette poco successo Il ritorno alla moda Nel 1946 sarebbe comparsa Dior con il New Look, l’esatto opposto di quello che la stilista aveva sempre ricercato. Nel dopoguerra le povere donne erano impazzite per le gonne lunghe, i tacchi alti, i cappelli minuscoli. Le uniche cose che resistevano della stilista erano i tessuti e il suo profumo; Nel 1953 le vendite calarono in modo vistoso Tornata a Parigi, decise di riaprire l’atelier. Nel 1953 mandò a Carmel Snow, redattrice capo di “Harper’s Bazaar” una lettera: ”mi sono convinta che sarebbe divertente rimettermi a fare il lavoro che è tutta la mia vita” Il suo obiettivo era quello di trovare un fabbricante americano che producesse una linea di pret-à- porter su una base di royalty: Wertheimer sostenne metà dei costi della collezione di riapertura, che fu di alta moda e non pret-à-porter La sfilata avvenne il 5 febbraio 1954: Compratori, fotografi, giornalisti, celebrità non capirono la sfilata, pensando che fosse una semplice riedizione della moda degli anni 20; la stampa reagì in modo impietoso con articoli durissimi à a 71 anni Coco incassò il colpo, ma decise di continuare A maggio la società dei profumi acquistò tutto, dalla Chanel Couture agli immobili in Rue Cambon, Gabriella conservò solo la royalty dei profumi. La prima reazione positiva venne dagli Stati Uniti: I modelli della prima collezione vennero venduti molto bene; “Life” dedicò 4 pagine al suo rientro spiegando che la stilista stava portando una rivoluzione. L’obiettivo di Coco era creare uno stile immediatamente riconoscibile Il tailleur Chanel Il suo proposito era costruire una divisa o una macchina perfetta per vestire il corpo femminile; Doveva rispondere a diverse esigenze: 1il movimento, 2l’eleganza, 3la duttilità. - Vi erano modelli da sera e da giorno - Diversi materiali: jersey, velluto, merletto, mussola, lamè + tweed: il tessuto che passerà alla storia à morbido, a trama larga, tessuto con fili di fibra di torsione in modo da ottenere un effetto elastico e spugnoso Il completo era composto di tre pezzi: 1una giacca, 2una gonna o un vestito senza maniche, 3una blusa. Spesso veniva introdotta una catenella che assicurava una verticalità irreprensibile all’insieme; In fondo alle maniche erano piazzati dei polsini staccabili, facilitavano la manutenzione. Le rifiniture della giacca erano ottenute con bordi ricamati a sfilatura e venivano intrecciati con fili di colore contrastante. Coco, ormai vecchia, capì che stava nascendo un’epoca che aveva gli stessi gusti degli anni 20; Si concentrò quindi sulla realizzazione di un oggetto difficilissimo: il vestito perfetto: le prove furono molte, ogni volta ricominciava da capo,provando e riprovando sulla modella; voleva creare una specie di seconda pelle sulla modella nonostante il modello fosse semplice e sempre uguale. Il tessuto era composto di materiali morbidi come il tweed o il jersey. L’obiettivo era creare un perfetto oggetto di design, espressione di una cultura e dello stile di vita. Chanel riprese anche: ¨ La produzione dei suoi bijoux limitando la gamma tematica alle catene e alle perle: Cinture dorate, orecchini con la grande perla barocca, le collane, I bracciali, I gemelli per le camice, I bottoni, spille(ridusse i fiori alle camelie bianche)) ¨ I cappelli: 1la marinara, 2la cloche a tesa larga e abbassata, 3il tamburello ¨ Nel 1955 la borsetta 2. 55 di pelle impunturata sostenuta da una catena dorata ¨ I sandali con la punta di colore contrastante Coco aveva una necessità economica, comprese che non avrebbe potuto continuare se non fosse stata appoggiata economicamente dalla vendita di accessori e profumi. Tutte le donne eleganti del mondo avevano almeno un suo tailleur nel guardaroba; Jacqueline Kennedy diventò un “involontaria testimone”: al momento dell’assassinio del marito indossava il tailleur rosa della stilista. Nel 1955 Marylin Monroe dichiarò di dormire indossando solo cinque gocce di Chanel n.5 con un estremo effetto pubblicitario. Chanel morì il una domenica 10 gennaio 1971 al Ritz. Madeleine Vionnet (1876-1975) Il lavoro di prèmiere. Nasce nel 1876, viene allevata dal padre a Aubervilliers e frequenta la scuola con risultati brillanti; a 11 anni abbandona gli studi per andare a imparare il mestiere di sarta. Nel 1893 trovò lavoro nella Maison Vincent a Parigi, dove diventò première due anni dopo. Si sposò ed ebbe una figlia che morí per un incidente nell’agosto 1952: divorziò dal marito e partí per l’Inghilterra. Ricominciò da capo la sua vita Londra iniziando a lavorare nell’Atelier di Kate Reily, un’importante sartoria specializzata in capi da giorno. L’Inghilterra stava attraversando un intenso dibattito culturale che impegnava artisti e medici sul modo di vestire le donne; La national Dress society aveva sostenuto la necessità di trasformare l’abbigliamento femminile per motivi igienici: corpo l’abito erano diventati il centro del dibattito Tornò a Parigi dove era stata assunta dalla Maison Callot Soeurs come première di madame Marie; il suo compito era realizzare modelli in tela degli abiti che madame Marie ideava e drappeggiata su manichini, MM non si faceva carico del lato pratico delle cose Nel 1907 lasciò le sorelle Callot per diventare modellista alla Maison Doucet: il couturier le aveva chiesto di ringiovanire la sua produzione e Vionnet creò una collezione molto innovativa ispirata alla performance di Duncan presentata a Parigi l’anno prima. I suoi modelli non prevedevano l’uso del busto (“Il corsetto è una cosa ortopedica”). L’unico campo in cui le fu lasciato un vero spazio fu quello dei deshabilles: Nel corso dell’800 era indossato a casa per ricevere visite e prendere il tè; Alla fine del secolo era considerato un capo d’abbigliamento che si poteva indossare anche a cena con la propria famiglia L’atelier Nel 1912 Vionnet aprí il suo primo atelier alle 222 di Rue Rivoli sostenuta da Lantelme, una delle poche clienti di Doucet che aveva apprezzato il suo stile, quindi si era proposta come socio finanziatore. Lantelme morí improvvisamente e cedette il suo posto a Germaine Lillaz, che mise a disposizione 2/3 dei 300.000 franchi necessari à singolare storia di donne che tempo un’operazione da uomini: diventare imprenditori di un’idea. Si uní al gruppo Marcelle Chaumont, la collaboratrice più importante di V. Spiegò la stilista che all’inizio ebbe paura: creava agli abiti per se stessa, li indossava perché era una mangiona e voleva essere comoda L’ispirazione era stata presa dal kimono, che nel corso degli anni era diventato un oggetto di moda. V. era interessata alla semplicità della sua struttura sartoriale 1914: allo scoppio della guerra V. chiuse l’atelier e partí per l’Europa (soggiornò a Roma a lungo) Lo sbieco e la geometria Riprese l’attività fondando la società Madeleine Vionnet et Cie; Si ripresenta a Parigi con abiti in sbieco Quando i suoi vestiti comparvero si inziò a parlare di robe a la greque Come Chanel voleva ricercare un modello su cui elaborare l’abbigliamento della donna moderna,autonoma Chanel aveva scelto il modello maschile Vionnet tornò alle origini Uno dei suoi primi modelli era composta di 4 quadrati di tessuto utilizzato in diagonale e sospesi alle spalle con uno spigolo per ciascuno. 4 cuciture e per tenere insieme una cintura annodata in vita Il taglio in spieco prevede l’uso della stoffa in obliquo V. me ha negato più volte di essere stata l’inventrice di questo taglio: era già stato sperimentato nell’800 per indossare scialli quadrati ripiegati a triangolo. La stilista si è ispirata alle classicità greca: * statue classiche avvolte in Pepli, chitoni e tuniche visti a Roma * figure dipinte sui vasi greci al Louvre à la toga (l’indumento che si avvolge diagonalmente intorno alla figura) La chiave segreta dei suoi modelli era la geometria: Le spalle diventarono il supporto di indumenti diritti § La vestibilità era perfettamente coerente con la tridimensionalità del corpo § Il modo di tagliare il tessuto era costituito solo da figure geometriche piane Gli abiti venivano progettati lavorando il tessuto su un corpo particolare: V. usava manichini in legno da “artista” alto 80 cm su cui costruiva una specie di miniatura del modello finito. Solo alla fine schizzi e figurino erano realizzati dalla disegnatrice à a partire dal 1924 fu Muguette Buhler Era un modo di procedere apparentemente contraddittorio àlavorare su un abito concepito come piatto che solo sul corpo avrebbe avuto una resa tridimensionale. La ricerca dell’armonia. Proporzione, armonia, perfezione erano gli obiettivi finali di un lavoro che usava il tessuto come materia scultorea. Questa concezione progettuale veniva sicuramente dall’osservazione diretta del comportamento dei tessuti usati in sbieco, ma il metodo che Vionnet elaborò aveva fortissime connessioni con la cultura artistica degli anni Dieci. Nel 1912 fu organizzata a Parigi una mostra di pittura cubista intitolata “La Section d’Or”, un titolo che faceva riferimento alla più importante forma proporzionale utilizzata nelle arti figurative dal mondo greco in poi. In tutti i movimenti d'avanguardia che si ponevano come obiettivo quello di rappresentare la costruzione nascosta e razionale del reale, come il futurismo, il cubismo e l'astrattismo, era presente lo studio di una struttura geometrica armonica che restituisse all'arte il suo compito di ricerca della perfezione e non di semplice imitazione dei fenomeni visibili. Dopo la guerra Madeleine Vionnet scelse collaboratori che venivano dal mondo dell'arte, come Thayaht (Ernesto Michahelles), un giovane fiorentino di grande talento, e come Marie-Luise Favot, che si era formata all’École des Arts Décoratifs e che si specializzò nell’invenzione di disegni per il ricamo. Questo fa pensare che la couturière fosse molto interessata alle innovazioni che il decennio appena finito aveva portato al linguaggio figurativo e in particolare alle ricerche sulla geometria e le proporzioni. Solo così si giustifica la decisione di affidare a un giovane sconosciuto come Thayaht la realizzazione di tutta l'immagine grafica dell'azienda, dalla carta di imballaggio agli inviti, alle intestazioni delle fatture e del logo della griffe, composto da una colonna ionica sormontata da un tondo che incornicia una figuretta che sostiene con le due mani le spalline di un abito. Seguì un contratto che richiedeva all'artista l'esecuzione delle tavole pubblicitarie per “La Gazzette du Bon Ton”, ma anche un contributo alla fase progettuale delle collezioni. Fu da tale sodalizio che nel 1922 nacque la versione haute couture della tuta femminile che Thayaht aveva “inventato” due anni prima. elegante magazzino. Saul Singer aveva firmato un accordo con la Vionnet et Cie per la produzione in esclusiva dei modelli della Maison, ma soprattutto si era formata una nuova società, Madeleine Vionnet, Inc., finalizzata alla vendita di abiti “one-size-fits-all”, cioè taglia unica, un’assoluta novità nel settore dell’alta moda. Nei mesi successivi fu pubblicizzata sui giornali di moda l'apertura di una Boutique Vionnet in Fifth Avenue. Nonostante il successo ottenuto, l'esperimento non proseguì oltre i sei mesi; probabilmente la clientela di élite preferiva acquistare i Vionnet di haute couture a Parigi o nei magazzini di lusso, mentre quella meno facoltosa si accontentava delle copie a poco prezzo. Nel 1926, Vionnet tentò un secondo esperimento nel settore del prêt-à-porter con un altro socio americano, lo store John Wanamaker’s, realizzando quaranta capi, che vennero venduti in tre taglie, griffati con l'etichetta della Maison. Anche in questo caso, però, l'impresa non ebbe successo, i tempi non erano ancora maturi perché l'alta moda potesse fare il proprio ingresso nel mercato del ready- to-wear. Nel 1925 fu realizzato il profumo, ma non divenne mai un vero fatto pubblico; veniva venduto sola nella Maison parigina ed esclusivamente a chi lo richiedeva. Stile anni Venti. Verso il 1925 i suoi modelli si semplificarono: la linea si fece più squadrata, ma soprattutto gli elementi di decoro si ridussero. Scomparvero le sovrapposizioni, i petali, e tutto quello che aumentava il volume dell’abito in favore di singoli elementi di ricamo o di asimmetria. In quel periodo però, gli Stati Uniti gettavano le basi del nuovo ideale di bellezza femminile, e Vionnet non seguì la tendenza, ma la interpretò a modo suo ammorbidendo il parallelogramma con lo sbieco, giocando con i ricami, ecc. Indubbiamente le sue realizzazioni non riproducevano le forme anatomiche; erano sempre più studiate in modo che l’architettura del vestito poggiasse sulla struttura portante del corpo per evidenziare la naturale armonia. Vionnet era “la moda”, visto il successo che le sue creazioni avevano presso un pubblico vastissimo. Ma la verità era che lei non era di moda nel senso che non faceva nulla per essere un personaggio alla moda. Non frequentava il gran mondo, non conduceva una vita pubblica, non compariva mai e non si faceva vedere nemmeno dalle clienti. Lavorava isolata nel suo grande studio al primo piano della Maison, circondata dai suoi manichini di legno. Quando nel 1929 il mondo venne travolto dalla crisi di Wall Street e rapidamente cambiò lo stile di vita, Vionnet assunse ancora di più la funzione di punto di riferimento. Gli anni Trenta. Quello che stava per accadere era che, nella società occidentale e nella moda, l’adolescenza lasciava il posto ad una giovinezza più matura, e il lusso nascosto sotto il pauperismo chic degli anni Venti stava per essere sostituito da quello vistoso delle dive del cinema hollywoodiano. Le arti visive abbandonarono lo stile di rottura delle avanguardie storiche e si dedicarono a nuove ricerche che furono spesso indicate con il termine “neoclassico”. Anche la moda adottò un linguaggio “classico”: il fisico modellato dallo sport durante gli anni 20 venne preso a simbolo di una bellezza statuaria, sinuosamente accarezzato da abiti bianchi che ne valorizzano il naturale sex appeal. Le immagini di Vogue presentavano mannequin in pose ieratiche da statue greche vestite di leggeri tessuti dal colore del marmo pentelico. Il metodo Vionnet diventò di moda: era il sistema più adatto per sottolineare il corpo senza costringerlo in forme precostituite dal taglio. Tutti o quali si cimentarono con lo sbieco, ma i modelli di Madeleine Vionnet erano gli unici ad avere un aspetto sciolto, naturale e molto revival. La gonna ampia. Nel 1934 ci fu una svolta nella produzione. Quindici giorni prima della presentazione della collezione invernale, la couturière decise che era ora di cambiare. Quando “Vogue” pubblicò la moda della nuova stagione, rappresentò lo stile Vionnet attraverso un vestito dalla gonna larga coperta da file di volant, certamente ispirato all'Ottocento più romantico. Da quel momento, il modello scivolato sul corpo e quello con la gonna ampia precedettero in parallelo. Negli anni successivi gli abiti si fecero più lussuosi e sensibili al gusto hollywoodiano. La vita segnata, spesso alta, dallo spazio al lardo e gonne che poi devono essere sostenute utilizzando diversi accorgimenti tessili. Tessuti nuovi, come il crêpe Rosalba di Bianchini-Férier, o antichi, come il crêpe romain o quello broccato aux tonnaux, divennero quasi simbolo della Maison. Si sperimentò anche il materiale alla moda: il merletto, usato per confezionare gli abiti, sia per cappe, maniche e sopravvesti. Vionnet inventò nuove tecniche di decorazione. Furono creati inediti effetti di contrasto applicando mille materiali diversi sui tessuti dei vestiti. Furono reinventati procedimenti di tintura usando pannelli di differente intensità di colore per le diverse parti dell’abito o togliendo i figli del ricamo dopo la tintura così da ottenere un effetto “a riserva”. Nel campo dei modelli aderenti Vionnet sperimentatò la pieghettatura in rilievo su un taglio circolare: il risultato assimilava la figura femminile ad una colonna scanalata o alle antiche statue che segnalano la presenza dell’abito solo attraverso le sottili linee in rilievo che percorrono il corpo rappresentato. La collezione della primavera 1939 vide tutte le clienti più importanti presenti alla sfilata e tutte vestite Vionnet. Ma sarebbe stata l'ultima. Quella del 2 agosto 1939 fu solo un addioàIl 15 giugno, infatti, la Madeleine Vionnet et Cie era stata messa in liquidazione. A settembre scoppiò la Seconda guerra mondiale e nel giugno 1940 la Francia fu occupata dai tedeschi. Fu venduto tutto quello che l’atelier conteneva. Nel 1952 Vionnet donò all’Union française des arts et des costume, che ora fa parte del Musée de la Mode ett du Textile di Parigi, quello che le era rimasto dal suo lavoro. Morì nel 1975 a 99 anni. Elsa Schiapparelli Una giovinezza inquieta. Le donne che crearono la moda fra le due guerre avevano origini completamente diverse: Chanel proveniva dal sottoproletariato dei venditori ambulanti e degli orfani Vionnet dalla piccola borghesia più modesta e provinciale Elsa Schiaparelli aveva alle spalle una situazione familiare estremamente privilegiata Nonostante questo, la sua vita non fu tranquilla: essere una donna emancipata nei primi decenni del secolo comportava scelte che neppure la condizione sociale di partenza poteva consentire di evitare. Era nata a Roma in una famiglia di intellettuali piemontesiàIl padre, nel 1875, era stato nominato direttore della biblioteca dell’Accademia dei Lincei da Vittorio Emanuele II e aveva preso alloggio a palazzo Corsini. Nel 1903 la famiglia si trasferì in un più borghese appartamento in piazza Santa Maria Maggiore. La madre proveniva da una famiglia dell’aristocrazia napoletana. Elsa avrebbe voluto fare l’attrice, ma la posizione sociale della famiglia non poteva consentirle di salire su un palcoscenico. Scrisse poesie in uno stile vagamente dannunziano e le pubblicò con il titolo di Arethusa. Elsa cominciò uno sciopero della fame che convinse i genitori a recedere dalla decisione (non riusciva a trovare strada). Un’amica della sorella, un’“intellettuale avanguardia” cominciò a occuparsi di bambini orfani e chiese informazioni a proposito di una ragazza che potesse aiutarla nell’impresa. Elsa decise di cogliere l’occasione. Partì accompagnata da amici di famiglia alla volta di Londra passando per Parigià primo approccio con la “sartoria”: a un ballo realizzò il suo primo abito da sera tenuto insieme con gli spilli. A Londra conobbe il conte William de Wendt de Kerlor che praticava e predicava le nuove dottrine filosofico-religiose di ispirazione orientale. Si sposarono pochissimo tempo dopo, all’inizio del 1914. Allo scoppio della guerra si trasferirono a Nizza, ma nel 1919 ripartirono, questa volta per gli Stati Uniti. Nel giro di un anno anche tutta la sua vita privata doveva cambiare: Elsa ebbe una figlia, ma il matrimonio si rivelò un disastro e il marito se ne andò. Nello stesso periodo morì suo padre. Schiaparelli si trovò sola a New York, con una bimba dalla saIute molto cagionevole da allevare, senza il sostegno economico della famiglia origine. Conobbe Gabrielle Buffet, la poetessa dadaista ex moglie di Francis Picabia, che si offerse di occuparsi della bambina mentre cercava lavoro e che la coinvolse in un tentativo di vendita diretta di biancheria portata Parigi per questo scopo. Ma la merce scelta si rivelò inadatta al mercato americano e l’esperienza fallì immediatamente.Gabrielle le permise di inserirsi nella vita di New York e frequentare un gruppo di artisti dada e di fotografi d’avanguardia come Man Ray, Marcel Duchamp. All’inserimento di Elsa contribuì anche l’amicizia con Blanche Hays, la moglie di un famoso avvocato americano. La sua vita sembrava destinata a svolgersi fra lavori saltuari. Sua figlia Gogo si ammalò di poliomielite. Blanche Hays, che aveva una storia matrimoniale ormai deteriorata e una figlia, le propose di trasferirsi entrambe a Parigi. Partirono nel giugno 1922. Gaby Picabia, che nel frattempo era tornata nella capitale francese, la ospitò a casa sua. La bambina fu ricoverata in una clinica ed Elsa trovò lavoro presso un antiquario. Il clima culturale e mondano della capitale francese era vivacissimo. Gaby introdusse Schiaparelli nel gruppo dada che s’incontrava, come tutta la Parigi che contava, in un locale di Montmartre, il Boeuf sur le toit. Tutto sembrò ricominciare come a New York, fra lavori saltuari, amicizie anticonformiste. Fu in questo perché avvenne l’incontro che, secondo le sue affermazioni, segnò il suo destino “Un giorno, accompagnai una ricca amica americana nella piccola e coloratissima casa di moda che Paul Poiret aveva in Saint-Honoré. Era la prima volta che entravo in una maison de couture. Provavo gli abiti in silenzio. Indossai un cappotto dal taglio largo, morbido.‘Perché non lo prendete, mademoiselle? Sempre fatto apposta per voi.’ Poiret in persona mi stava guardando. ‘Non posso permettermelo – dissi – È senz’altro caro e, inoltre, quando potrei indossarlo?’ ‘Non vi preoccupate per il denaro – disse Poiret – e voi potete indossa qualunque cosa in qualunque situazione.’ Nelle sue memorie, Elsa non ha scritto del ruolo che quello che lei stessa definì il ‘Leonardo della moda” ebbe nella sua decisione di tentare una nuova avventura in questo settore, ma non si dimenticò di lui. Fu in quel periodo che cominciò “a inventare abiti” e il colore e il ricamo, due caratteristiche dello stile di Poiret sempre fra i segni distintivi delle sue creazioni. Scelse un settore che negli anni Venti stava aprendosi per assecondare la crescente partecipazione femminile agli sport. Lo sport e la maglia. Già dalla fine dell’800 le donne avevano cominciato a praticare alcuni sport, ma fu negli anni 20 che la cultura del corpo e l’attività sportiva divennero una moda diffusa, tanto da giustificare l’invenzione di un abbigliamento specifico.L’esplosione dell’eleganza sportiva trovò il suo modello in Suzanne Lenglen, la famosa tennista che aveva aggiunto un tratto atletico alla silhouette sottile, di Madame Poiret. Con grande scandalo, Suzanne entrò nei campi da gioco più esclusivi indossando un completo di Patou, composto da una gonna a pieghe senza sottovesti e una corta blusa derivata dal gilet maschile, delle calze di seta bianca e una fascia colorata intorno alla testa. Elsa capì che questa poteva essere una strada di sicuro futuro e cominciò a realizzare dell’abbigliamento sportivo. Nel 1925, sostenuta dal finanziamento di un’amica americana di Blanche, Mrs. Hartley, acquistò Maison Lambal. Quando Mrs. Hartley si ritirò dalla società, Elsa aveva avuto un certo successo personale e riuscì a trovare un altro finanziatore Alphonse Kahn. La prima vera collezione fu presentata nel gennaio 1927 in un minuscolo appartamento in Rue de l’Université, dove Schiaparelli abitava. Si trattava soprattutto di maglieria dai brillanti colori, che si ispirava al futurismo sia a Poiret ed era realizzata anche con materiali nuovi, come il kasha, un tessuto di cachemire particolarmente morbido ed elastico prodotto da Rodier. Il gioco dell’accostamento dei colori materiali prevedeva cardigan abbinati con gonne in crêpe de Chine, ma ha anche calze e sciarpe coordinate. Il golf “armeno”. à Jean Schulemberg produsse dei bijoux. à Dalì, Cocteau, Giacometti, Léonor Fini e Christian Bérard e fotografi come de Meyer e Man Ray che aveva conosciuto a New York ma anche Hoyningen-Huene, Horst, Beaton, fino alla scoperta di Avedon negli anni del dopoguerra. Nel 1933 aprì una sede a Londra al 36 di Upper Grosvenor Street ma fu chiusa nell’estate del 1939. Negli anni seguenti, Schiapparelli continuò a lavorare sulla stessa silhouette, variandone però costantemente l’immagine e la logica decorativa. Nel 1933 propose la linea “a scatola” con cappe che scendevano diritte dalle spalle formando angoli retti. L’anno dopo comparve la linea “cono” con sontuosi pijama da sera, e poi la linea “uccello”: “berretti alati, ali in spalla abbastanza grandi per volare, cappe alate su giacche da indossare di giorno e di sera, risvolti ad ala, coda ad ali, le esotiche colorazioni dei mari del Sud e, come decorazione, le piume di fenicotteri, pappagallini verdi e canarini. Nello stesso periodo sperimentò una grande quantità di materiali, naturali, artificiali, sintetici o rielaborati chimicamente. Le accadeva di trovare ispirazione negli scarti di fabbrica. Nelle sue mani, le stoffe diventavano chic. Valorizzò i crêpe di rayon facendone delle stoffe solide e rugose con motivi a rilievo e fu la prima a utilizzare il rayoyn tessuto con il latex.Fu sempre lei a servirsi per prima dei velluti spessi, dei velluti trasparenti impermeabili e delle lamine di cellophane. Alcuni dei rayon vegetali che lanciò nel maggio 1933 erano esclusive della sua Maison e portavano spesso il suo nome: Rayesca, Elsacioc e Jeresca. Le collezioni a tema. Nel 1935 la Maison fu trasferita al 21 di Place Vendòme, in uno dei palazzi secenteschi realizzati da Mansart per Luigi XIV. La Boutique Schiap, che apriva le sue vetrine al piano terra, diventò l’ingresso attraverso cui passava anche la clientela dell’atelier. La sua produzione non si limitò alla sartoria, ma spaziò dai profumi agli accessori, dai bijoux agli indumenti sportivi e a quelli che non avevano bisogno di essere realizzati su misura. L’idea era offrire alle clienti sia la possibilità di vestire Schiaparelli dalla testa ai piedi, sia di scegliere anche un solo particolare estroso da aggiungere alla propria ‘divisa’ quotidiana. La nuova sede rappresentò una svolta anche la sua attività creativa. Per l’inaugurazione del nuovo atelier fu creato un tessuto stampato a pagine di giornale che parlavano di Schiaparelli, con cui furono realizzati abiti, bluse, fodere, accessori. C’erano anche cappelli da spiaggia ispirati al copricapo di carta che una venditrice di pesce incontrata a Copenaghen usava per ripararsi dal sole. L’idea poteva avere origini più colte ma era stata l’immagine della pescivendola a colpire la sua fantasia e a suggerirle questa soluzione così particolare e ironica. La vera novità riguardò le collezioni dal 1935 ebbero una cadenza stagionale e estremizzando un metodo che Elsa aveva già adottato negli anni precedenti e scoprì seguendo questo metodo riusciva a progettare non solo l’abito, ma un’intera immagine femminile armonizzata in tutte le parti. La collezione estiva propose abiti da sera ispirati all’Oriente più esotico, con pantaloni da harem, sari, piume colorate, drappeggi, grandi cappe. Non mancarono quegli elementi di eccentricità̀ e di ricerca sui materiali che erano diventati un segno di riconoscimento della sua moda. In mezzo agli abiti esotici c’erano oggetti d’avanguardia come la cosiddetta cape de verre, un corto mantello da sera realizzato in Rhodophane, un materiale trasparente e molto fragile che somigliava al vetro e che Schiaparelli utilizzò in mille soluzioni diverse. La collezione dell’autunno 1935 affrontò l’attualità. Si chiamava “Fermati, guarda, ascolta” e s’ispirava a fatti e personaggi reali affinché le donne potessero “vivere l’atmosfera d’incertezza politica dell’epoca”. Così al giubileo di Giorgio V d’Inghilterra erano dedicati abiti blu reale e viola imperiale, alla Sinistra francese cappe e mantelli color rosso ‘rivoluzionario’ e cappelli che inalberavano vistose creste di gallo. Il conflitto italo- etiopico era rappresentato da un modello da sera composto da un abito nero ispirato alla tunica dei guerrieri etiopi e un paio di pantaloni porpora: omaggio all’imperatore Hailè Selassiè. La novità della stagione furono le cerniere, erano dappertutto, su tutti i vestiti della collezione. Realizzate in colori contrastanti rispetto al vestito così da accentuare la loro visibilità, esse furono un vero successo di vendite. In ottobre presentò la collezione “Eskimo” basata sull’uso d’inserti di pelliccia decorativo. La parte alta delle braccia era protetta da mezze maniche di husky o ricamata con lana e velluto in stile peruviano, le mani erano scaldate da guanti foderati di pelo: il risultato era allargare la arte alta del corpo in modo esagerato con effetti presi più dal mondo del lavoro che dalle raffinatezze della pellicceria. Nel dicembre 1935 Schiaparelli andò a Mosca per rappresentare la couture frane Prima fiera internazionale sovietica. Il motivo del volo e dei nuovi mezzi di trasporto che cominciavano a solcare i cieli, comunque, fu alla base di entrambe le prime sfilate del 1936: in febbraio si materializzò nella silhouette “stratosferica e aeroplano”, esemplarmente rappresentata da una cappa di lana viola porpora con un colletto di astrakan che mimava le ali di Icaro. Nella stagione successiva nacque la linea “Parachute”, “piccoli busti con gonne che si gonfiavano in spicchi, proprio come un paracadute”. La collezione dell’inverno 1936-1937 adeguò alla moda che tutte le case parigine stavano proponendo: gli abiti bianchi, in sbieco, scivolati sul corpo, ispirati all’abbigliamento delle statue greche. Schiaparelli interpretò a suo modo l’idea della linea “Neoclassique” e realizzò sia abiti morbidi di raso sia modelli più vicini al suo stile, decorati da un motivo, probabilmente ripreso da una tappezzeria del primo Ottocento, costituito da un nastro che si appoggiava sugli indumenti ripiegandosi: sé stesso durante il percorso. Ancora una voIta, quindi, interveniva il meno possibile sulla silhouette, ma suggeriva il tema di moda attraverso un elemento decorativo neoclassico da usare in collocazioni e maniere diverse: fu ricamato da Lesage, divenne un’alta cintura da stringere in vita, fu applicato su capi e accessori. E poi, nella stessa collezione, presentò un cappello che aveva il significato di una presa di posizione a favore del Fronte popolare: una versione haute couture del berretto frigio che era diventato il simbolo degli scioperi che avevano sconquassato la Francia e le sartorie di alta moda. Il rapporto con il surrealismo. Dal 1936 cominciò un periodo particolare nella ricerca di Schiaparelli: fu come se a questo punto Elsa avesse sentito il bisogno di chiarire a sé culturali del lavoro che stava facendo sul linguaggio dell’abito, cercando di approfondire la riflessione sul corpo e sul rapporto soggetto e indumento. Voleva che le donne fossero sé stesse, osassero essere femminili, fantasiose ed estrose, comunicassero agli altri la propria individualità e la propria forza sfrontata. La sua moda non si era limitata a intervenire sulla linea dei vestiti ma quello che stava facendo agiva sulla cultura dell’apparire, sul significato dei segni vestimentari e corporei tradizionali che venivano stravolti, irrisi, usati fuori del loro contesto. C’era qualcosa nella sua maniera di fare moda che somigliava al sovvertimento delle regole dell’espressione e della comunicazione messo in atto dagli artisti dada e surrealisti che Schiaparelli aveva frequentato prima a New York e poi a Parigi. Forse per questo si rivolse a due di loro per capire meglio, quanto il segreto ‘linguaggio’ dell’inconscio potesse modificare il ‘linguaggio’ degli abiti e come una nuova logica decorativa potesse interpretare le nascoste pulsioni del soggetto. Le collezioni, a partire dall’autunno 1936, si articolarono tutte su doppi filoni: ¨ si concentrò sull’elaborazione di alcuni temi decorativi specifici attorno ai quali sviluppare l’intera collezione, dall’altra Cocteau e Dalì crearono singoli capi attraverso i quali doveva emergere il nuovo rapporto tra abito, corpo, pulsioni inconsce.Per l’autunno 1937, Cocteau lavorò sul ‘doppio’ e l’ambiguità: una giacca di lino fu ricamata con la silhouette di una donna virtuale a grandezza naturale che si appoggiava al petto di quella reale che indossava l’indumento Un mantello da sera di jersey di seta blu portava sulla schiena un tradizionale schema di ambiguità visiva: un vaso contenente fiori applicati a rilievo, appoggiato su una colonna. ¨ Dall’inverno 1936-1937 Dalì rielaborò invece il tema del richiamo sessuale nascosto nella fascinazione vestimentaria. Tradusse in tessuto un soggetto che aveva già sviluppato: la dissacrazione della classica bellezza femminile rappresentata dalla Venere di Milo; i cassetti con cui aveva sondato i segreti erotici diventarono tasche con pomello ben evidenziate su un cappotto e una giacca. Da questo “frugare” all’interno della donna emerse l’aragosta che nell’estate del 1937 fu dipinta sulla gonna di un abito, circondata da ciuffi di prezzemolo. Verso la fine del 1937 nella collezione invernale venne presentato un tailleur di crepe nero con le tasche rifinite da bocche femminili rosse, completato da un cappello a forma di scarpa con il tacco rosso. Il cappello femminile progettato da Dalì e rielaborato da Schiaparelli inalbera un vistoso tacco colorato di rosa shocking. La conclusione a cui sembrava essere giunto Dalì era che, per la cultura occidentale, il corpo femminile è un artificiale insieme di simboli e, scomparsa definitivamente ogni illusione di naturalità la struttura anatomica della donna non era altro che un ‘busto da sarta’ da vestire per comunicare con gli altri e da adattare all’ideale di bellezza che di volta in volta la moda indicava attraverso manichini e dive dello schermo. Nel 1937 Schiaparelli comunicò questa ‘scoperta’ per l’Exposition des Arts et des Techniques, inaugurata a Parigi il 24 maggio per cui realizzò un allestimento in cui il manichino fu adagiato nudo, e quindi capace di comunicare, su un prato e i suoi abiti furono appesi ad un filo, come in un bucato. In secondo luogo, il nuovo profumo, che si chiamò shocking venne commercializzato in una boccetta, disegnata da Léonor Fini, che aveva le forme del busto di Mae West e il tappo coperto di fiori, ancora una volta ispirato a Dalì. Il marchio era iscritto su un metro da sarta che passava intorno al collo del flacone. Il messaggio era che la moda è un metro e un manichino da decorare; solo l’abito può introdurlo nella comunicazione sociale. La moda, l’inconscio, l’immaginazione poetica Il nuovo ruolo che le donne avevano assunto negli anni trenta doveva essere rappresentato attraverso una struttura sintattica razionale e stabile, come la divisa che lei stessa aveva ‘inventato’ all’inizio del decennio. Era innegabile che il tradizionale linguaggio della moda femminile fosse stato elaborato nel corso del tempo per esprimere fondamentalmente due contenuti: quello erotico/seduttivo e quello sociale. Si trattava di ricorrere ad altri universi linguistici, di adottare altri modelli iconografici per esprimere altri significati e altre pulsioni della psiche femminile. L’obiettivo era liberare l’immaginazione poetica, consentirle di ritrovare la strada del mondo dei sogni: solo attraverso questa rottura dei vincoli razionali sarebbe stato possibile ritrovare la forza interiore del soggetto. Schiaparelli probabilmente scoprì che questo metodo le era congeniale per creare un linguaggio vestimentiario che comunicasse la dimensione interiore della donna e scelse il metodo della liberazione dell’immaginazione su temi specifici che certamente affondavano nella sua infanzia. Capì che quello che la stimolava maggiormente era considerare il corpo della donna e la forma dell’indumento una specie di pagina bianca su cui ‘scrivere’ ciò che sorgeva nel momento in cui si metteva a lavorare su un tema. Quello che ‘vedeva’ erano immagini che nella loro sequenza ricostruivano il suo immaginario sedimentato nel tempo attraverso esperienze diverse. Il problema poteva sorgere nel momento in cui queste immagini dovevano essere accostate alla realtà degli abiti e qui le venne in aiuto, probabilmente, Marcel Duchamp nel metodo del ready-made; le figure si aggregarono sui suoi modelli senza alcun senso preciso che non fosse quello della sua fantasia poetica e quindi non furono più acrobati, insetti o vetrate, ma opere della sua immaginazione e le sfilate cominciarono ad essere messe in scena in modo sempre più teatrale. La prima collezione che seguì fino in fondo questo criterio fu quella della primavera del 1938 dedicata al circo in cui fu coinvolta l’intera Maison: sulla facciata di Place Vendome vennero appoggiate scale che servivano a gruppi di acrobati per fare i loro numeri entrando e uscendo da finestre e vetrine e all’interno attori e pagliacci sbucavano all’improvviso. La sfilata venne organizzata come una parata e molti capi vennero indossati su calzamaglie, mentre le scarpe di Andrè Perugia, con la suola alta copiata dalle antiche cioppine veneziane, costringevano le modelle a incedere come sui trampoli; era la prima volta che una sfilata aveva le caratteristiche di uno iscriversi all’Académie des Beaux-Arts ma la reazione familiare fu durissima e fu avviato alla carriera diplomatica e iscritto all’École des Sciences Politiques; in cambio ottenne di poter approfondire gli studi di musica e composizione. In questo modo nacque l’amicizia con Sauget, un musicista d’avanguardia, e con quelli che sarebbero stati i suoi compagni di sempre. Fra il 1828 e il 1829 tutto questo prese la forma di un’attività concreta: Christian diventò socio di Jean Bonjean nell’apertura di una galleria d’arte che, per espresso desiderio di Madame Dior, non portò il suo nome nell’insegna. Ciò che accomunava gli artisti di punta, tra cui Giorgio De Chirico, era un ritorno al soggetto umano, all’eleganza delle forme, al sentimento e un certo rifiuto per i linguaggi d’avanguardia. Disegnatore di moda Tutto procedeva nel migliore dei modi ma la fortuna si capovolse. Nel 1930 Bernard, il fratello minore di Christian, dovette essere internato in un ospedale psichiatrico, la madre morì di setticemia e gli affari del padre vennero travolti dagli effetti della crisi del 1929 e il fallimento fu inevitabile. Infine, al ritorno da un viaggio in Unione Sovietica, fu informato della rovina economica di Jean Bonjean. Dior si impegnò a vendere i quadri della galleria e poi, con le opere che gli rimanevano, cercò di mettersi in società con Pierre Colle ma i clienti del mercato dell’arte erano scomparsi. Furono anni di miseria, nel 1934 a tutto ciò si aggiunse la tubercolosi e Dior dovette andare a curarsi alle isole delle Baleari. Quando tornò la situazione della sua famiglia si era ulteriormente aggravata ed era ormai necessario che Christian trovasse un lavoro per aiutare il padre e la sorella. L’unico settore che ancora resisteva era quello della moda e fu la che Dior si indirizzò con la speranza di poter utilizzare la creatività che aveva mostrato nell’invenzione dei travestimenti per il passatempo preferito del gruppo: le sciarade in maschera. Per un caso fortunato riuscì a vendere uno dei quadri che gli erano rimasti dalla chiusura della galleria e con il guadagno sistemò i problemi più gravi della sua famiglia e si concesse un periodo di studio in cui imparò a disegnare figurini. Passò il tempo a copiare immagini di moda, a studiare proporzioni, a capire come si interpreta un modello e a imparare a colorare. Riuscì a vendere i suoi primi disegni prima alle modisterie e poi alle Maison, anche le più famose. Infine, Paul Cadalguès gli offrì di collaborare regolarmente alla pagina di moda di “Le Figaro”. Su suggerimento di Piguet, provò a proporre idee originali e ad inventare un suo stile e nel 1938 lo stesso Piguet gli propose di entrare nel suo atelier come modellista e mise in collezione “Café Anglais” un abito pied-de-poule disegnato da lui. Il mondo della moda lo aveva ormai accolto: Marie- Louise Bousquet lo presentò come “promessa” della moda parigina a Carmel Snow, la redattrice di “Harper’s Bazaar”. Nel 1939 Marcel Herrand gli fece progettare i costumi per un’opera teatrale e furono i primi abiti che firmò. Dior, la guerra , l’haute couture Nel settembre 1939 scoppiò la guerra e Dior fu mobilitato nella riserva e occupato a sostituire gli agricoltori impegnati al fronte. Nel giugno 1940, la Francia risultò divisa in due ed egli si trovò nella zona non occupata dai tedeschi, così decise di ritirarsi a casa della sorella, ma la moda si riorganizzò presto e Christian venne interpellato da Alice Chavanne che curava le Pages Feminines del “Figaro”, con la proposta di continuare ad illustrare i suoi articoli. Dal momento in cui la Francia fu occupata dai nazisti, gli Stati Uniti e tutti i paesi alleati cessarono i rapporti con Parigi e la sua moda e il governo vietò le esportazioni. Era la fine di uno dei canali più importanti per l’haute couture, con la conseguenza di un drastico ridimensionamento della sua clientela. La moda rappresentava per la Francia anche un fattore di prestigio e fu questo che dovette attirare l’attenzione del governo di occupazione nazista: gli archivi che contenevano tutte le informazioni anche produttive e commerciali, furono requisiti nel luglio del 1940 e portati in Germania con l’intenzione dichiarata di trasferire nelle nuove capitali del Reich tutta questa attività. Fu per merito di Lucien Lelong, il presidente della Chambre, che la Francia riottenne i propri archivi e la possibilità di continuare a produrre moda a Parigi. Questo consentì di ricominciare a lavorare con una cetra sicurezza, anche se mancavano le materie prime. I modelli per ogni collezione furono limitati a cento, poi a settanta e infine a sessanta, la loro confezione sottoposta a controlli e la loro concezione regolamentata in modo preciso. Anche la stampa passò momenti difficili. “Vogue” francese cessò le pubblicazioni per la presa di posizione politica di Michel De Burnhoff, gli altri ebbero la carta contingentata e furono sottoposti e controlli di censura, inoltre, alcuni passarono direttamente nelle mani dei tedeschi mentre altre uscirono in modo assolutamente irregolare. Nel febbraio del 1943 le autorità proibirono la pubblicazione di fotografie e di modelli di abiti, in questo modo si interrompeva la tradizionale comunicazione tra i creatori di moda e il loro pubblico. Anche la clientela delle case di moda cambiò completamente. Scomparirono quasi tutte le straniere, erano rimaste le francesi, ma questo fece diminuire in modo sensibile il pubblico. La composizione sociale delle signore che frequentavano gli atelier conservava poche tracce dei decenni precedenti, il vero pubblico era rappresentato da due nuove categorie: la prima era composta da mogli, figlie e amanti dei collaborazionisti che avevano bisogno del vestito giusto per partecipare ai ricevimenti tedeschi, la seconda era costituita dai BOF, cioè quelli che con il mercato nero stavano costruendo enormi fortune. Fu in questo contesto che nel giugno del 1941, Piguet invitò Dior a riprendere il proprio posto di lavoro ma l’idea di tornare in città lo riempiva di preoccupazioni e quando si decise ad accettare l’offerta era ormai troppo tardi. Ma Christian non rimase senza impegno: Caldaguès fece da tramite con Lucien Lelong che in ottobre gli propose il posto come modellista nella sua Maison; in dicembre sarebbe stato raggiunto da Pierre Balmain. La nascita di un nuovo mercato per le creazioni esclusive di moda non cancellava però i problemi: da un lato c’era la necessità di confrontarsi con il gusto eccessivo e poco raffinato delle nuove clienti, dall’altro la costante lotta con la mancanza di materiali. La difficoltà del periodo ebbe come risultato che le linee proposte dagli atelier non si differenziarono molto da quelle della moda di strada: gonne corte e spalle larghe, seppur con qualche accorgimento sartoriale in più. A tanta miseria si contrapponeva un elemento di fantasia: il cappello. Dior ricordò nelle sue memorie che si rimediava lo scarso volume degli abiti con i cappelli composti da ritagli inutilizzabili per ogni altro uso che lanciavano una sfida sia alla disgrazia dei tempi sia al semplice buon senso. Rimaneva uno spazio di sperimentazione nella moda del cinema, in particolare nella creazione dei vestiti di scena per i film in costume. Dior si specializzò nei modelli romantici e Belle Époque nei quali ebbe le possibilità di ricercare una silhouette femminile opposta a quella che gli imponeva il lavoro quotidiano nell’atelier Lelong. Il busto che stringeva la vita ed esaltava il seno, le gonne ampie gonfiate con la crinolina o con la tournure, gli strati di tessuto per dare sostegno alle ampiezze e i drappeggi erano cose che lo riportavano ad un tempo lontano. Solo nell’agosto del 1944 si potè cominciare a pensare ad un ritorno alla normalità. Nel marzo del 1945 De Gaulle tracciò un primo quadro della situazione della Francia dopo sei mesi di governo libero e fra i disoccupati di cui parlava c’erano anche quelli della moda. A questo punto risultò chiara a tutti l’importanza del lavoro diplomatico di Lelong, che aveva creato i presupposti per una sua ripresa interamente francese. Dior ricordava che, al momento della liberazione di Parigi, l’atelier stava preparando la collezione invernale e qualche settimana più tardi Lucien Lelong fu in grado di presentare una moda parigina molto vitale. All’inizio del 1945 uscì il primo numero del dopoguerra di “L’Officiel de la couture”. Il “Théatre de la Mode” Nell’autunno del 1944 Raoul Dautry, presidente dell’Entraide francaise, propose di organizzare una manifestazione a sostegno del programma di aiuti che mostrasse la vitalità presente nelle industrie della moda e della couture e che provasse che queste industrie erano molto preoccupate per la sorte delle persone sfavorite ed erano disposte a fare un grande sforzo per aiutarle. La Chambre accolse la proposta e ne affidò la realizzazione a Robert Ricci e Paul Caldaguès, che progettarono una mostra di bambole vestite dai sarti parigini. L’obiettivo era trovare una soluzione al problema della carenza di tessuti e creare modelli nuovi senza impiegare tutto il materiale necessario per vestire una persona in carne e ossa. Ricci incaricò Eliane Bonabel di progettare le bambole: manichini alti circa settanta centimetri. Tutte le Maison e tutti gli artisti che in quel momento erano a Parigi parteciparono all’impresa realizzando i manichini, gli abiti e gli accessori per vestirli, gli scenari in cui inserirli. Era il “Théatre de la Mode”, che fu esposto al Pavillon Marsan e inaugurato il 27 marzo 1945. Il successo fu enorme e si era ottenuto il risultato di riunire l’industria della moda intorno ad un progetto volto al futuro e alla ripresa. La mostra venne portata a Londra, Copenaghen, Stoccolma, Vienna e infine negli Stati Uniti ma con abiti di una nuova collezione. Anche Dior aveva partecipato all’impresa: molto probabilmente i modelli presentati sotto il marchio di Lucien Lelong erano i suoi ed erano decisamente più fantasiosi di quanto non fosse la produzione che fino a quel momento veniva realizzata per le clienti. Ma il “Théatre de la Mode” rimase soltanto una grande operazione di promozione e non fu attraverso le sue bambole che si diffusero le novità in quanto con una situazione tragica come quella dell’Europa non era ancora possibile che le donne fossero in grado di trovare il tessuto e i complementi necessari per rifarsi il guardaroba. Nonostante questo, esso fu importante come segno che i tempi stavano cambiando e la produzione doveva riprendere, anche per rimettere in moto la normale macchina dell’economia. Dior e Boussac Le case di moda che avevano chiuso nel periodo bellico avevano lasciato dei vuoti. Dior e Balmain colsero il cambiamento e si misero in società per fondare un atelier, l’iniziativa però abortì per l’indisponibilità della sede che i due avevano scelto. Balmain iniziò da solo aprendo una Maison in Rue François I dove il 12 ottobre 1945 fece sfilare la sua prima collezione. Dior rimase a lavorare da Lelong in attesa di un’occasione migliore, la voce si sparse e presto l’occasione si presentò. Suzanne Lemoine Luling, un’amica, seppe che George Vigoroux stava cercando di rilanciare la Maison Gastone et Philippe. L’impresa era finanziata da Marcel Boussac, il più importante industriale cotoniero di Francia, ma non avevano un modellista, dunque fu immediato il suggerimento di Dior. Boussac aveva valutato che il momento era propizio per investire in questo settore e i guadagni fatti con il cotone e con la produzione tessile a basso costo gli davano la possibilità di tentare di rilanciare la grande sartoria francese. L’assunzione di Dior non fu gestita dal responsabile della Maison Gastone et Philippe ma da Henri Fayol, il direttore generale delle imprese di Boussac. Fayllon si rese conto che si poteva usare la risorsa Dior per tentare qualcosa di diverso dal “resuscitare dai morti”, qualcosa che fosse più in sintonia con un immaginario collettivo. Fu organizzato quindi l’incontro tra Boussac e Dior, che espose il proprio progetto: creare una maison innovativa nel gusto e nell’aspetto, piccola ed elitaria, capace di produrre uno stile diverso ma in cui lavorare secondo le più raffinate tradizioni dell’artigianato di qualità. I mercati stranieri reclamavano modelli nuovi, bisognava tornare alla tradizione del grande lusso della couture francese. L’immagine era tutto ciò che una Maison doveva rappresentare: il gusto, la ricercatezza, la perfezione artigianale, il lusso, l’esclusività, l’eleganza. Una maison di Houte couture poteva essere il centro di un modello di raffinatezza da estendere ad una società più allargata. Boussac impegnò nell’impresa sei milioni di franchi e un credito illimitato. Dior ebbe uno stipendio, un terzo dei guadagni e l’incarico di direttore della SARL Christian Dior. L’impostazione dell’impresa passò nelle mani del couturier che cominciò a dare forma al proprio progetto costituendo la squadra con cui lavorare, perché era solo sulla professionalità dei collaboratori che poteva fondarsi il suo successo, e ricercando la sede adatta per la Maison, perché l’edificio scelto e il modo di arredarlo potevano costituire un veicolo attraverso cui comunicare il gusto della moda Dior. La prima collaboratrice fu Suzanne Luling, a cui fu affidata la direzione dei saloni e delle vendite, si occupò anche della promozione. Accanto a lei venne collocato un giovane americano, Harrison Elliott, come responsabile dell’ufficio stampa. Lo staff operativo venne formato da Raymon de Zehnacker, che ricoprì il ruolo di direttrice dello studio, e da Marguerite Carrè, che divenne direttrice dama. L’immagine di moda non doveva più essere una semplice informazione, al contrario doveva passare il messaggio che la couture aveva il potere di trasformare qualsiasi donna reale nella ‘Donna’. In pochi mesi lo stile Dior fu tramutato in un linguaggio fatto di segni precisi immediatamente riconoscibili e facilmente comunicabile alle lettrici delle riviste di moda. Gonna a carolla, cintura stretta, cappello minuscolo, scarpe con il tacco, pennacchio e spilloni, questi erano gli elementi imprescindibili della nuova moda indicati dal Point de vue di “Vogue” francese. Nelle stagioni successive il riferimento storico divenne ancora più esplicito e sapiente: le linee delle collezioni presentate tra il 1948 e il 1949 erano definite con termini di tipo grafico e dinamico, come “Zig-zag”, “Ailèe”, “Envol”, “Cyclone”, “Trompe l’oeil”, che evidenziavano da un lato l’ispirazione che Dior aveva seguito nel disegnare i modelli e dall’altro l’effetto che il vestito sviluppava attraverso il movimento. Gli abiti avevano strutture asimmetriche o effetti di sovrapposizione geometrici attraverso cui venivano restituite e suggerite le linee costruttive dei modelli di fine ottocento. La collezione “Milieu de siècle”, per l’autunno inverno 1948-50, rappresentò l’apoteosi del modello Dior: non più una sola linea, ma un’infinita variazione su tutti i temi “a seconda dei modelli”, alternando i tessuti per ottenere effetti asimmetrici a forbice e a mulino a vento, i grandi colli a coup de vent, le aderenze morbide, le gonne a campana, i drappeggi ecc. I simboli della collezione, non a caso dedicata a Venere e Giunone, presentavano la gonna o lo strascico a balze sagomate punteggiati di paillettes, piume e strass. Persino il modello da sposa, chiamato “Fidelitè”, recuperava la sua matrice ottocentesca: composto da un casto abito di raso con colletto, maniche lunghe e sopragonna drappeggiata su un enorme sottana di tulle di seta. La donna Dior Gli abiti di Dior potevano servire solo ad un certo tipo di vita: quella del ‘bel mondo’ o della Cafè Society, che aveva ripreso a pieno i riti anteguerra, con la richiesta di guardaroba estremamente vari per le diverse occasioni della giornata. Questo mondo fatto di divi hollywoodiani, playboy ed ereditiere, finanzieri e vecchia aristocrazia, a cui si aggiungeva un pizzico di intellettuali alla moda, aveva una funzione mediatica. Era l’oggetto privilegiato dell’attenzione delle riviste di costume, attraverso cui tutti seguivano le feste, vacanze, matrimoni, amori, dolori della giovane principessa. Un universo che serviva a far dimenticare la realtà. Le attrici diventavano sempre più ideali di moda e di successo. Dior vestì questo mondo del sogno e nessuno dei protagonisti si sottrasse al suo potere. Le caratteristiche dei suoi capi erano pensate per comunicare l’idea di uno stile di vita lussuoso ed elitario. Erano difficili da indossare, quindi richiedevano la presenza costante di una cameriera che aiutasse la signora ad infilarli e sfilarli: erano pesanti e ingombranti. Questo però non costituiva un ostacolo, al contrario diventava un elemento di fascino. La Cafè Society era desiderosa di apparire, non aveva la necessità di agire. Nel corso della sua carriera Dior realizzò costumi per molti film, francesi e americani. Questo ‘bel mondo’ lo considerava il perfetto interprete del rito dell’eleganza. L’America Dior nel settembre 1947 si recò negli Stati Uniti a ritirare il Neiman Marcus Award for Distinguished Service, l’Oscar della moda che il grande magazzino Dallas assegnava ogni anno a professionisti del settore. L’accoglienza che Dior trovò al suo arrivo fa pensare che i media avessero preparato con cura l’evento, montando un caso di costume intorno all’allungamento delle gonne. Negli Stati Uniti si era formato un club di donne contrarie al New Look. L’arrivo del couturier, le sue conferenze stampa, il giro di visite che erano state organizzate per lui diventarono l’occasione per manifestazioni con cartelli e picchietti che furono riprese ed enfatizzate dai mass media. Era difficile pensare che qualcuno dovesse imporre alle donne americane, che avevano conquistato il diritto di votare, di guidare e di lavorare, delle gonne dalla circonferenza di venti metri, dei vestiti sostenuti con stecche di balena, dei cappelli che passano appena dalle porte, dei guanti lunghi e dei fili di perle, tutte cose più adatte per passeggiare che per sedersi al volante di una macchina. Era come tornare indietro di mezzo secolo. Chi aveva organizzato il viaggio di Dior aveva uno scopo preciso che nasceva dall’abolizione della legge L-85, che durante la guerra aveva regolato la produzione vestimentaria negli Stati Uniti. Si trattava di una legge che interveniva al livello della produzione, limitandola sia dal punto di vista della qualità sia da quello della varietà, così da diminuire le occasioni d’acquisto di un pubblico ormai abituato a comprare abiti già pronti. Dior era l’elemento di novità che avrebbe potuto provocare l’inversione di tendenza del mercato e il tour era stato pensato con questa finalità: promuovere il New Look attraverso il suo creatore. In novembre Dior ripartì, negli Stati Uniti tutti avevano sentito parlare di lui e in qualche maniera avevano dovuto prendere una posizione nel dibattito gonne corte/gonne lunghe. Il risultato fu che non solo i grandi magazzini di lusso imboccarono la strada del New Look, ma anche l’industria di confezione potè concentrarsi sulla nuova linea. Dior però aveva capito che la scelta stilistica della scomodità aveva rischiato di mettere in crisi la diffusione del New Look e dal 1948 nelle press release delle collezioni si cominciò a insistere su caratteristiche come la morbidezza, l’ampiezza che lasciava all’andatura tutta la sua spigliatezza senza mai ingombrarla. Il mercato della moda L’America rappresentava per la moda un mercato straordinario, molto più ampio e ricco di quello europeo. Nel 1940 gli Stati Uniti avevano interrotto i legami commerciali con la moda francese e si erano dedicati alla creazione di una moda americana ben organizzata e progettata da designer di altissima qualità. Nel 1945 i fili interrotti cominciarono a riannodarsi, forse in ossequio al fascino che lo stile francese aveva sempre esercitato sul pubblico oltreoceano. Le toilette di alta moda avevano sempre avuto una sola destinazione d’èlite: poche donne che potevano spendere cifre da capogiro. Questo ristretto gruppo continuava a esistere, ma accanto ad esso c’era chi cercava una moda più abbordabile. Il boom economico di cui godette l’America avvicinò all’acquisto di moda fasce di pubblico sempre maggiori. Rimanevano sia la ridotta élite dell’haute couture, sia la grande massa che cercava un prodotto a basso prezzo, ma in mezzo ai due poli si configurava uno strato sociale che non voleva rinunciare all’abito confezionato, ma chiedeva qualcosa di raffinato, ben fatto ed esclusivo. Tutto questo offriva alla Maison Dior la possibilità di sperimentare qualcosa di nuovo, che avesse il marchio del couturier ma senza avere costi e rituali dell’alta moda. La risposta non poteva che essere il pret à porter di lusso. Alla fine del 1947 quando Dior tornò in Francia tutto il gruppo cominciò a lavorare intorno all’ipotesi di aprire a New York una “casa di confezioni di grande classe” e Boussac finanziò l’iniziativa. La sede fu collocata al 730 di Fifth Avenue. La prima collezione sfilò l’8 novembre 1948. Nel frattempo era iniziato anche un lavoro sulle licenze. La prima licenza: dal 1949 Kayser cominciò a produrre per il mercato statunitense le calze Christian Dior sotto stretto controllo della Maison francese. Furono vendute in scatole grigie su cui campeggiava il medaglione della griffe, avvolte in carta di seta e con il nome del couturier ben visibile sulla cimosa. La seconda licenza del 1950 riguardò un prodotto maschile: le cravatte, la cui fabbricazione era gestita dalla società Stern, Merritt & Co. A Dior toccò dal trenta al quaranta percento delle royalty. Da quel momento l’organizzazione commerciale assunse del tutto nuova. Pret à porter di lusso e licenze dovevano soddisfare completamente il mercato internazionale. Nel 1952 si giunse alla conclusione che era preferibile concentrare a Parigi la creazione di tutte le collezioni, anche quelle americane, in modo da evitare i trasferimenti stagionali dello studio Dior. Si decise di rendere usuale una pratica che al momento si seguiva solo in alcuni casi: vendere i modelli degli abiti delle collezioni. Jaques Rouet mise a disposizione dei buyer due possibilità: il modello in tela, corredato di tessuto originale, modello dei bottoni, fodere ecc., e quello in carta, che lasciava la scelta dei materiali e accessori al fabbricante. Solo nel primo caso era possibile utilizzare la doppia etichetta con la griffe. Nel 1954 Christian Dior rappresentava il quarantanove per cento delle esportazioni di couture verso gli Stati Uniti. L’immagine dell’haute couture Era necessario che l’haute couture continuasse il suo spettacolo, creando ad ogni uscita un clima di attesa cui rispondere con una rappresentazione teatrale adeguata. Gli elementi dello spettacolo su cui si concentrò l’attenzione della stampa erano due: la lunghezza delle gonne e la linea. Fin dalla prima collezione era stato evidente che la novità era l’allungamento delle gonne, ciò era il segno simbolo del New Look e Dior lo utilizzò nelle stagioni successive. Dior scelse di sviluppare in ogni collezione solo due temi, cui venivano attribuiti nomi che riassumevano le caratteristiche fondamentali della silhouette. Le denominazioni scelte avevano lo scopo di suggerire immagini grafiche o dinamiche cui collegare, le complesse strutture sartoriali degli abiti: “Zig-zag”, “Verticale”, “Ovale” ecc. La rappresentazione teatrale della sfilata era preparata con metodo e seguendo un rituale che vedeva Dior al centro dell’intero progetto. L’ideazione dipendeva solamente da lui, dal suo gusto, dalla sua capacità evocativa. Il lavoro creativo si svolgeva nella casa in campagna con i suoi più stretti collaboratori. La prima fase, consisteva nel buttare giù idee di ogni tipo e ciò doveva servire al couturier per identificare il tema che lo interessava. A questo punto, da solo, lasciava che le idee si sviluppassero intorno al primo spunto in un gioco di variazioni da schizzare senza limiti, seguendo il metodo delle associazioni libere. Terminata la fase progettuale, iniziava la selezione dei disegni, solo i modelli scelti venivano poi sviluppati in tela per poi passare alla fase della realizzazione negli atelier della Maison. Soltanto ai prescelti veniva attribuito l’onore di essere denominati. La composizione della sfilata teneva conto dello spettacolo finale e della sua regia. Ogni collezione comprendeva dai centosettanta ai duecento modelli ed era essenziale che essi colpissero il pubblico nel loro insieme. La sua riuscita era essenziale, perché su questo spettacolo si giocava ogni volta il nome della griffe. La composizione del pubblico della sfilata garantiva che dal giorno dopo i quotidiani cominciassero a raccontare, discutere, enfatizzare l’evento della nascita di una nuova linea e che dal mese successivo le riviste di moda ne pubblicassero fotografie e disegni accompagnati da professionali commenti. Lo stile Dior Il New Look durò 7 anni. Ebbe il suo culmine della “Ligne Muguet” per la primavera 1954 e venne cancellato dalla linea “H” della stagione successiva. L’immagine di donna-fiore che la moda aveva coltivato stava per essere accantonata. Era poi accaduto un fatto: Chanel era tornata dall’esilio e aveva presentato una collezione rivolta a una donna moderna e occupata in cose più interessanti che inseguire i minimi cambiamenti delle mode. Le intenzioni di Chanel contenevano un fondo di verità di cui Dior prese atto: il New Look era finito e anche il modello femminile stava cambiando. La press release della collezione autunnale 1954 affermava: “E’ suonata l’ora H di una linea del tutto diversa basata sulla lunghezza e l’assottigliamento del busto. E’ sulle parallele che formano la lettera H che si costruiscono abiti, tailleur e mantelli. Una rivoluzione. Nelle collezioni successive il nuovo modello ‘diritto’ venne riproposto in variazioni che continuarono la serie delle lettere dell’alfabeto: “A” e “Y”. Dior, però, non abdicò mai dal suo gusto per assumere quello degli altri e continuò a vestire una figura femminile che ostentava le curve del suo corpo, che amava le gonne larghe e i ricami fioriti. L’innovazione era stata creata senza cancellare del tutto quella che ormai era l’immagine Dior. E la linea “A” del 1955 ebbe un successo strepitoso negli Stati Uniti. La Maison Dior aprì un dipartimento di pret à porter e inaugurò in Rue François la grande boutique. Nel 1957, a dieci anni dalla prima collezione, la fama di Dior era giunta al culmine e la sua azienda era un impero valutato sette miliardi di franchi. Persino “Time” gli dedicò una copertina. Ma il 27 ottobre Dior morì improvvisamente mentre era in vacanza a Montecatini. Poteva essere la fine di tutto. Il 15 novembre, Rouet convocò una conferenza stampa per comunicare la decisione sul futuro dell’impresa: La Maison Dior continua. Era stato creato uno stile, un gusto, una tecnica, un’organizzazione che caratterizzano la Maison e tutte le sue creazioni. Per non rompere la tradizione, la creazione resterà nelle mani dell’equipe costruita da quattro persone, creata e formata da Monsieur Dior: Madame Raymonde Zehnacker, la più vicina e intima collaboratrice di Monsieur Dior; Madame Marguerite Carrè; Monsieur Yves- Mathieu Saint Laurent; s Hubert Bricard. Ciascuno svolgerà il ruolo a cui Dior lo aveva allenato e preparato. Si trattava di una gestione collegiale, ma l’immagine Dior da questo momento sarebbe stata legata al nome Yves Saint Laurent, che era entrato alla Maison come assistente allo studio solo il 20 giugno 1955. Nel 1957 Dior aveva detto a Rouet: “Yves Saint Laurent è un giovane, ma ha un immenso talento.” La responsabilità che Saint Laurent si trovò ad affrontare nell’inverno 1957 era enorme. La questione in oggetto non era solo l’impero Dior, ma tutta la moda francese. Tessuti italiani La stoffa era l’unica merce del settore moda che veniva prodotta in modo industriale in distretti che si erano specializzati già alla fine dell’Ottocento: la seta prevalentemente in Lombardia, il cotone, la lana e poi gli artificiali e i sintetici in Lombardia, Piemonte e Veneto. In particolare il comparto delle fibre chimiche sostenuto dal fascismo presentava caratteristiche di grande industria moderna. Gli aiuti si concentrarono sulla fornitura di materie prime e con il piano Marshall vennero messi a disposizione i mezzi necessari per rinnovare i macchinari e grazie all’impegno e agli investimenti dei singoli imprenditori le attività vennero rinnovate e la produzione divenne di qualità e presto sarebbe entrata in competizione con concorrenti stranieri. Dai primi anni Cinquanta alcuni imprenditori di Como strinsero rapporti con Andrèe Brossin de Mèrè, la creatrice di tessuti svizzera che aveva iniziato un’attività di converter e ciò consentì di produrre stoffe per i grandi couturier parigini. Ruolo fondamentale fu quello svolto dalla SNIA Viscosa sotto la direzione di Franco Marinotti che aveva iniziato a promuovere l’organizzazione di sfilate di moda a Venezia: al centro del progetto c’era la stoffa, in quanto la moda era il veicolo promozionale dei nuovi tessuti artificiali. Le sfilate che si tennero a Venezia vedevano le sartorie italiane presentare modelli confezionati con le sete artificiali realizzate dalla SNIA Viscosa e pubblicizzate dalle riviste con questo marchio. Venezia divenne centro per la cultura e la promozione della moda e della produzione tessile e ciò si consolidò con l’acquisto di Palazzo Grassi e la fondazione nel 1951 del Centro internazionale delle arti e costume. Nel 1953 fu concluso un accordo che prevedeva la creazione di un rapporto fra ogni casa di moda e un’industria tessile: Veneziani con Bemberg e Lanificio Rivetti, Antonelli con Edoardo Stucchi, Carosa con S.A.N.E.T., Ferdinandi con Tex Winner, Vanna con G.L. Tondani, Marucelli con Italviscosa, Carosa e Brioni con Tessiture Costa. L’idea era favorire il dialogo tra i due settori dal punto di vista tecnico e creativo. Questa collaborazione interveniva su un nuovo ambito di ricerca che caratterizzava un’èlite di tessutai che puntavano sulla novità, sulla bellezza, sulla perfezione. Il connubio con le case di moda fornì spunti creativi nuovi a entrambi i settori. I sarti potevano lavorare con materiali esclusivi di prima qualità ed inoltre avevano sostegno finanziario per l’investimento della collezione. Tessutai e stampatori potevano partecipare all’invenzione della moda senza il timore dei costi Inoltre gli italiani iniziarono ad acquistare pagine sulle riviste per presentare i modelli di sartoria con l’indicazione del marchio del tessuto utilizzato e l’industria si faceva carico dei costi di questa pubblicità. Una forma di comunicazione rivolta ai consumatori di stoffe presenti sul mercato della moda: l’industria del ready-to-wear americano e dei paesi più moderni e industrializzati e le sartorie in Italia e in Europa. La promozione della moda italiana L’inventore del sistema che mise in relazione in modo organizzato e professionale la creatività italiana e il mercato americano fu Giovanni Battista Giorgini; egli era un commissionario di Firenze che comprava il meglio della produzione artigianale italiana per i grandi magazzini dislocati sulle due coste degli Stati Uniti. Tra le due guerre mondiali Giorgini e i colleghi delle Case di Acquisto avevano reperito ed esportato in America e in Nord Europa le collezioni di biancheria femminile e per la casa, abiti ricamati per l’infanzia, ceramiche, cesterie, accessori per l’arredamento e l’abbigliamento, così era conoscenza della realtà di entrambi i paesi. Il 12 Febbraio 1951 organizzò la prima manifestazione internazionale di moda italiana a casa sua, villa Torrigiani. Di fronte ai Buyer di 4 magazzini americani e ad alcune giornaliste sfilarono dieci firme di alta moda e quattro per la boutique. Il successo ottenuto spinse a continuare l’esperimento: per le due edizioni successive venne utilizzato il Grand Hotel di Firenze. La moda italiana però era una realtà concreta e aveva bisogno di presentarsi con un’immagine forte radicata nella tradizione culturale del paese: il 22 Luglio 1952 si svolse la prima sfilata nella sala Bianca di Palazzo Pitti che divenne la sede ufficiale della passerella del made in Italy. Tre anni dopo la manifestazione occupò anche palazzo Strozzi dove ci furono stand che consentivano contatto diretto tra aziende e compratori. Nel 1952 però alcune sartorie romane decisero di presentare le collezioni stagionali nella propria città dando vita a un nuovo polo. Le sfilate della sala Bianca erano collettive: case di moda si susseguivano sulla stessa pedana con diciotto capi ciascuna secondo un calendario tematico. L’alta moda, la boutique dell’artigianato di lusso, le linee sport delle sartorie romane e milanesi. Avevano iniziato Veneziani, Vanna e Simonetta e poi l’idea si estese. La comunicazione Il confronto, la concorrenza fra le case di moda, la necessità di comportamenti professionali adatti a un mercato internazionale e le richieste precise dei consumatori americani portarono sarti e artigiani a essere creativi e a caratterizzare le collezioni attraverso temi o linee guida commentate poi da riviste o giornali. Firenze divenne meta per buyer, giornalista di moda italiani ma anche stranieri soprattutto statunitensi. Nel numero di metà Agosto 1951 “Life” dedicò un servizio alla seconda sfilata e nell’Aprile successivo mise la moda italiana in copertina. Le novità italiane iniziarono a comparire anche sulle riviste specializzate come “Vogue” e “Harper’s Bazaar”. Dalla Primavera 1953 il periodico di Condè Nast inaugurò l’abitudine di consacrare un’uscita all’International Fashion, in cui oltre all’America trovarono posto Parigi, Londra, Italia e Spagna. La moda ormai era un sistema produttivo complesso che richiede una comunicazione adeguata. L’Italia offriva riviste di grandi qualità come “La donna”, “Bellezza”, che rinnovarono la loro veste editoriale. “I tessili nuovi” finanziata dalla SNIA Viscosa fu trasformata in “Linea”. Nacque poi “Novità” che sotto la direzione di Bebe Kuster Rosselli che si pose l’obiettivo di raggiungere un pubblico borghese colto interessato alla moda, design, arti figurative, teatro e letteratura Le riviste femminili quali “Grazia” o “Annabella” diedero sempre più spazio alla moda ma anche i settimanali sempre più impegnati. L’Europeo si affidò a firme come Maria Pezzi e Camilla Caderna coinvolgendo anche Dino Buzzati, Gian Carlo Fusco. Una vera comunicazione di moda, che potesse stare al pari con quella fornita dalle grandi riviste internazionali necessitava dei professionisti, in quanto disegnatori come Maria Pezzi o Brunetta non erano più sufficienti, ma la pubblicità e i servizi di moda richiedevano un uso della fotografia intensivo e specializzato. Alla domanda risposero una nuova generazione di fotografi che si dedicò a questa specialità: da Pasquale De Antonis a Gianni Della Valle, da Federico Garolla a Elsa Haertter, da Federico Patellani e Regina Relang. Emersero poi le modelle professioniste che sostituirono le nobildonne (cui la moda italiana all’inizio era ricorsa per presentare i propri modelli). La promozione della moda italiana all’estero coinvolse oltre alla stampa, enti statali o di categoria che organizzarono fiere e presentazioni: nel Maggio 1952 ci fu la New York Fair of Italian Manufacturers, nel Febbraio 1956 il Centro per la moda italiana e il turismo di Firenze organizzò una crociera a NY sulla Cristoforo Colombo cui parteciparono case di moda milanesi e romane; gli abiti furono presentati a un party sulla Cristoforo Colombo, in altri eventi di gala e in televisione. Nel 1958 il Centro Italiano della moda di Milano fu incaricato di coordinare una manifestazione promossa dal Ministero del Commercio con l’Estero che prevedeva presentazioni a New York, Chicago, San Francisco, Los Angeles, Dallas, Washington, Boston. Forma di comunicazione più spettacolare fu quella offerta da Cinecittà fondata dal regime fascista nel 1937, rimessa in funzione nel dopoguerra e che divenne fondamentale per il cinema degli anni cinquanta. Venne utilizzata dalle major americane per una serie di film ed ebbe importanza nella produzione italiana di quel periodo. Roma divenne una delle capitali dell’industria cinematografica mondiale. Negli anni Cinquanta i divi del cinema furono modelli di riferimento per quanto riguarda il modo di vestire e per gli stili di vita, così le case di moda romane utilizzarono le loro celebrità per pubblicità. Le Sorelle Fontana furono le più abili nel servirsi di questo potenziale: dall’abito di nozze di Linda Christian per il matrimonio con Tyrone Power fino ai modelli per Ava Gardner che riempiva le cronache rosa anche con le sue storie d’amore con Franck Sinatra e poi con Walter Chiari. Inoltre molti film che ebbero a che fare con una sartoria di moda videro e le sorelle colsero l’occasione per aprire le porte del loro atelier e recitare la parte di sé stesse come in “Le ragazze di piazza di Spagna” di Luciano Emmer (1952). Emilio Federico Schuberth vestì le nuove dive italiane come Sophia Loren e Gina Lollobrigida e dal suo atelier uscirono anche abiti commissionati dalle più famose soubrette dell’epoca. Fernanda Gattinoni si occupò di costumi cinematografici come quelli per Audrey Hepburn in “Guerra e Pace” sia quelli per Ingrid Bergman in “Viaggio in Italia” Il sodalizio con il cinema permise alla moda italiana di raggiungere un pubblico vasto e una grande popolarità mai raggiunta. Pret à porter La fine della guerra per un nuovo capitolo nel mondo di investire l'intera Europa occidentale. Il vecchio continente comincia guardare gli Stati Uniti come un modello su cui plasmare il proprio futuro Tradizioni vecchie di decenni o secoli furono spazzate via per essere rapidamente sostituite con un modo di vivere che aspirava a una più democratica società dei consumi. Origini del pret-à-porter La parziale riapertura delle frontiere commerciali degli Stati Uniti forni l'occasione per organizzare una serie di scambi culturali che portarono gli imprenditori europei a visitare l'azienda americana fu così che il settore della moda scopri il ready-to-wear , non era la confezione che si conosceva in Europa limitata alle fasce più alte o più basse del mercato ma un vero e proprio sistema di moda progettato da designer che nulla avevano da invidiare a gli stilisti parigini. Alla fine degli anni 40 la società europea comincia ad adottare il modello di consumo che arrivava dal l'oltre oceano cancellando definitivamente quella struttura sociale gerarchica che faceva parte della sua storia e adottando i caratteri tipici di una civiltà di massa poiché l'adozione di un abbigliamento informale e almeno teoricamente alla portata di tutti esprimeva la messa in crisi a livello individuale sia dei tradizionali modelli di comportamento e di bon-ton sia dei rituali di diffusione delle nuove mode. Fu un processo graduale che richiede più di un decennio poiché si dovevano cambiare abitudini secolari e soprattutto fornire alternative di consumo. La strada più rigorosamente industriale fu adottata dalla Francia che aveva un'antica tradizione nella confezione popolare e di lusso è una buona rete di distribuzione. L'obiettivo che si posero gli imprenditori francesi può creare un prodotto di moda che fosse alternativo all' haute couture. Dopo il viaggio negli Stati Uniti organizzato nel 1948 dalla chambre syndacale de la confection e guidato da Albert Lemprereur, Robert Weill decise di perseguire questa strada e di investire sulla percezione che il pubblico francese aveva della moda cambiandogli il nome. Difatti non solo riconosciuta da tutti i francesi ma conquistato il mondo intero difatti anche gli anglosassoni finirono più o meno per adottarla e l'emblema il segno della democratizzazione della moda della possibilità che per tutte le donne di accedere a questo mercato una volta privilegio di una piccola Elite La relazione diretta tra produzione pubblico era assolutamente fondamentale poiché bisognava guidare le donne verso un altro gusto diverso da quello elitario e fantasmagorico dell’haute Couture su cui erano abituati a sognare è più vicino al loro standard di vita quotidiano. Della delegazione inviata negli Stati Uniti nel 1948 facevano parte due firme del mensile l ma nel 1955 la partecipazione a una seconda missione di studi fu estesa alle giornaliste di moda per coinvolgere la stampa nel progetto di promozione della moda industriale. Relatrice specializzate cominciarono a creare mode scegliendo con grande libertà fra le diverse proposte delle aziende o promuovendo direttamente vere e proprie tendenze poiché bisognava abituare le lettrici a un'offerta nuova nel gusto, nella concezione e nella distribuzione. allungarsi rispetto al taglio vagamente militare diffuso e gli indumenti si colorarono diventarono più fantasiosi e vari. quella fu definita la rivoluzione dei pavoni aveva le caratteristiche di una scoperta d'identità da parte di un gruppo sociale nuovo . Seguendo due corsi diversi Inghilterra e Francia colsero la sfida della cultura d'avanguardia e adeguarono le proprie offerte alla nuova domanda attraverso un sistema distributivo fatto di boutique ognuna delle quali l identificata da una precisa proposta. Nel Febbraio 1962 la copertina del primo numero del Sunday Times colors magazine offrire ai lettori l'immagine di Jean Shrimpton con un abito grigio di Mary Quant. Londra era diventata il centro internazionale della cultura giovanile è una nuova generazione di stilisti diplomati a Royal college of art o al Golden Smith college stava creando una moda che veniva venduta in negozi esclusivi concepiti per un pubblico di adolescenti. La minigonna nacque come divisa di una ragazzina che rifiutava di crescere e che voleva differenziarsi dal modello adulto delle madri, non aveva implicazioni erotiche, ma comunicava invece insieme i pantaloni EI collant la voglia di non avvilire un corpo adolescente in indumenti non pensati per esso e di esprimere attraverso i colori la propria voglia di vivere. La tendenza più nostalgica alla fine del decennio fu rappresentata da Barbara Hulanicki dopo il successo ottenuto con la vendita per corrispondenza i propri modelli più economici ma pur sempre in serie limitata ,il suo stile aveva un aspetto più decisamente revival e anche il negozio si presentava con un insieme di arredi che andavano dal Vittoriano al liberty all'art déco. Il progetto è chiaro a partire dalla presenza di una nuova clientela di adolescenti con esigenze alternative rispetto alla corrente produzione di abbigliamento e lanciare mode selezionando le proposte più innovative e stilisticamente più consone al gusto di un tale pubblico .limone non potevano trarre ispirazione che dagli stili di vita dei teenagers dei loro miti musicali e/o cinematografici modificandoli secondo un progetto di gusto commercializzabile. Ripetendo un percorso che negli Stati Uniti si era verificato negli anni 30 anche l'Europa stava arrivando a una nuova concezione della moda non più creata su misura per una ristretta clientela d’elite ma confezionata in serie magari limitata per un pubblico democraticamente allegato, si trattava della traduzione europea del modello di consumo americano era stato necessario il salto di una generazione perché la confezione prendesse la connotazione negativa che le aveva spesso accompagnata perché sparisse la cultura dell’abito buono da affidare alle cure di una sartoria e perché subentrasse un'allegra logica consumistica che mescolava gli indumenti a piacere e accordava ogni modello la vita di una stagione. Il nuovo sistema di creazione distribuzione della moda però riguardo anche gli Stati Uniti dove paraphernalia , serendipity e tiger morse’s teeny weeny Catalizza rono l'attenzione dei giovani di New York e non solo. alla metà del decennio anche il tour cambia radicalmente e propose uno stile ispirato all' era spaziale il cui mito stava invadendo l'occidente. La geometria imperava rivestiva un corpo femminile asciutto androgino e vagamente infantile la raffinata signora degli anni 50 era stata abbandonata in favore di una ragazza spigliata proiettata nel futuro . fondamentale in questo processo di rinnovamento fu il pret a porter che assunse un ruolo paritario o complementare alla sartoria su misura. Infatti l'alta moda non rappresentava più lo strumento principale per diffondere le nuove idee , la sua parabola aveva cominciato a scendere e i risultati diminuivano stagione dopo stagione. Il percorrere la strada di una linea pronta accompagnata da boutique monomarca o punti vendita controllati sempre più diffusi fu Pier cardin nel 1959 Seguito poi da tutti gli altri come yves saint laurent, rive gauche o miss dior. Il risultato fu una totale rivoluzione della figura professionale dello stilista che trovo nel nuovo sistema produttivo un'alternativa per esprimere la propria creatività meno legato alla perfezione dell'oggetto e più vicino alla cultura moderna. Yves saint laurent Danno un nuovo significato a pret a Porter ,scopre che il lavoro della cultura solitario alla ricerca costante della perfezione immediata e consumabile e in sostanza meno creativo di quello del pret a Porter. la distribuzione avvenne attraverso boutique monomarca prima a Parigi e poi nelle più importanti città del mondo rifornite attraverso modi di produzione diverse. solo balenciaga non accetta il cambiamento che gli sembra uno svilimento della professione infatti le sue creazioni continueranno a rappresentare un punto di riferimento nella moda francese EA suscitare l'ammirazione che di solito circonda le grandi opere d'arte. Nei primi anni 70 il pret a Porter aveva completamente conquistato il pubblico, la moda era ormai guidata dai giovani stilisti che avevano raggiunto una notorietà pari a quella dei degli stilisti più importanti di Francia, dove ora molti erano usciti dall anonimato e firmavano collezioni proprie come Kenzo, Emmanuelle Khan e Sonia Rykiel, Oppure lavoravano per marchi che riconoscevano esplicitamente il loro apporto creativo come Lagerfeld con Chloe nel 1964. Era quindi giunto il momento di ratificare il cambiamento consolidandosi la professione di creatore di moda sia il suo risvolto produttivo, d'altro canto le somiglianze tra il lavoro degli stilisti e quello dei courtier che firmavano pret a Porter si facevano sempre più evidenti tanto da indurre un avvicinamento formare tra le due professioni attraverso la creazione della chambre syndicale du pret a porter des coutiers et des createurs de mode, Con il compito di organizzare manifestazioni unitarie dei due settori. le iniziative corrispondevano alle due facce della nuova moda francese e al loro difficile rapporto reciproco e questo evidentemente creava una situazione di ambiguità che mi fu mai chiarita. Il pret a porter italiano Anche l'Italia rispose alla nuova domanda di moda creando nuove strade, la grande industria di confezione non era attrezzata per affrontare un così repentino mutamento di gusti di consumi e l'unica azienda che ne seppe trarre vantaggio fu Max Mara creando prima una collezione e poi una linea specificatamente pensata per i giovani. la sartoria cercò di seguire il modello francese creando linee di pret a porter di lusso che però continuavano ad essere semplici riduzioni delle collezioni su misura. intanto però il nuovo aveva iniziato la sua strada seguendo i modelli inglesi e francesi , nelle grandi città e nei luoghi di vacanza si moltiplicarono le boutique che mescolavano abiti di importazione con piccole collezioni prodotte direttamente. A Milano e si aprirono in un quartiere che sarebbe diventato in seguito il cosiddetto quadrilatero della moda. Nelle grandi città e nei luoghi di vacanza, iniziarono a moltiplicarsi le boutique che mescolavano abiti di importazione con piccole collezioni prodotte direttamente. A Milano venne circoscritto un quartiere che sarebbe diventato in seguito ‘quadrilatero della moda’. Nel 1963 in via della Spiga aprì Cose, con un’offerta di maglieria e qualche abito di propria produzione, presto estesa alla nuova moda francese e inglese. Questo è solo un esempio delle numerose boutique e negozi che aprirono all’epoca per lanciare nuove mode. Fu intorno a queste iniziative, che il sistema produttivo del settore moda prese a trasformarsi, all’inizio i fabbricanti erano laboratori artigianali e realizzavano sempre capi di maglieria. Si trattava di creare costantemente abiti alla moda per un mercato disposto a cambiare la propria immagine in continuazione, era quindi indispensabile che la figura che creava le novità fosse omogenea al pubblico e avesse un gusto che caratterizzava universalmente tutte le manifestazioni culturali giovanili. In quel periodo, molti giovani stilisti francesi operarono in Italia, lavorando anche per più aziende nello stesso periodo, offrendo competenze e creatività a più committenti. Nel giro di una decina d’anni il classico mercato, composto da mercerie, negozi di tessuti e di biancheria che facevano da supporto ad una rete artigianale, si arricchì accogliendo i nuovi prodotti sia negli spazi tradizionali, sia nelle boutique specificamente rivolte al mercato giovanile. La nuova moda aveva un forte potere che non tardò ad attirare l’attenzione del sistema ufficiale: Giorgini nel 1965 colse l’importanza del fenomeno e l’anno successivo a Firenze si organizzò per dare spazio nel proprio calendario delle sfilate alle aziende che producevano questo tipo di confezione (prêt à porter). La professione di stilista: Walter Albini. Il primo a cogliere l’eccezionalità della situazione fu Walter Albini, egli capisce di dover essere il creatore di un contenuto che non passasse in secondo piano rispetto alla qualità dei capi, cosa che stava succedendo in quel periodo. Nel 1968 Albini era sulla passerella di palazzo Pitti come progettista di cinque collezioni ma venne nominato solo in una di queste. Fare emergere il nome dello stilista significava ratificare l’esistenza di un terzo polo all’interno del sistema di produzione, un polo che prevedeva una produzione industriale di piccola serie progettata e seguita da un ‘creativo’ che adottava metodiche completamente diverse rispetto al passato, poiché doveva dare uno sguardo al futuro progettando capi all’avanguardia. Per raggiungere questo obiettivo le strade erano due: una di tipo contrattuale e una di tipo estetico, Albini raccontò di averle sperimentare entrambe. Il nuovo modello che si stava imponendo non aveva bisogno di legami con passati nazionali illustri; cercava di utilizzare uno strumento moderno come la produzione industriale per rivolgersi a un mercato di massa che stava articolando il proprio gusto. Albini intuì che era giunto il momento di separarsi dal vecchio e prendere una strada nuova, che comunicasse modernità, internazionalità, futuro. Per fare tutto ciò, Albini assieme a Ferrante, Tositti e Mondi, decise di spostarsi a Milano, una città differente da Firenze che non era attaccata al passato e alle proprie tradizioni e aveva un occhio di riguardo verso le boutique più giovani. Negli anni ’60 Milano era stata la città delle avanguardie nel campo artistico, del design e anche della contestazione. Puntarono su una città italiana che non si faceva trascinare dai fasti del passato, ma che cercava uno spazio attivo nella modernità. Albini in seguito comprese anche che il compito dello stilista non poteva essere quello di progettare singoli capi di abbigliamento, ma un clima di gusto in cui il compratore potesse riconoscersi. Questo era possibile solo controllando una collezione completa, cioè tutti gli indumenti e gli accessori necessari ad accontentare le richieste di un ipotetico compratore per un’intera stagione. La figura dello stilista come creatore e garante unico di un’immagine complessiva non era giunta a maturazione e per il omento gli si riconosceva solo quella di coordinatore stilistico di produzioni diverse. Il rapporto tra stilista e azienda invece era ancora irrisolto e Albini, ancora una volta fece da battistrada: nel 1972 a Londra presentò una collezione di soli abiti che portavano come marchio le iniziali del suo nome ‘WA’. Il percorso seguito da Albini fu tortuoso e determinato dai tempi: nessuno aveva ancora chiaro il ruolo dello stilista poiché non c’erano figure primarie da seguire e da cui ispirarsi se non i diversi couturiers francesi, egli però perseguì una strada di differenziazione dal prodotto industriale. Come aveva fatto opponendo Milano a Firenze, ora andò alla ricerca di scenari adatti a comunicare il senso della propria proposta di stile, fino a chiudere il cerchio attraverso il confronto diretta con la couture. I risultati non furono quelli sperati però. Lo stile. Lo stile fu il secondo obiettivo con cui i nuovi professionisti avevano a che fare, dovevano presentarsi ad un pubblico ormai diverso, un pubblico giovane che seguiva mille filoni d’interesse e ormai stava operando grandi trasformazioni nel tessuto sociale e negli standard di vita tradizionali. Ogni creatore di moda adottava uno stile ben riconoscibile perseguendolo nel tempo, cercando di differenziarsi dagli altri: Missoni scelse di differenziarsi nei colori e sui materiali della maglieria, Krizia anche diede uno sguardo al futuro dopo essersi servito della collaborazione di Albini e Lagerfeld. Tutti quanti puntavano sulle mode che stavano nascendo sul periodo e soprattutto seppero elaborare uno stile ironico ed eccessivo, rivolto ad una donna giovane, disinibita e molto sicura di sé. Albini scelse la strada del revival, costruendo una versione moderna delle atmosfere aristocratiche che aveva scoperto nei figurini dei primi decenni del secolo. Ci furono diversi eventi tra Milano e Parigi che scatenarono un fenomeno di gusto che si estese all’abbigliamento, ma in tutto Il successo del made in Italy Armani, Biagiotti, Cover, Fendi, Ferré, Krizia,Moschino, Soprani, Valentino, Versace, Gigli e Dolce & Gabbana diventano i guru del gusto. La loro firma stabilisce ciò che è di moda e ciò che non lo è, ciò che deve essere acquistato, ciò che fa’ status symbol e ciò che non lo fa’. Nel 1968 alcuni stilisti si avvicinano all’alta moda e contemporaneamente si diffonde un casual firmato che segue la logica del look totale. Una riflessione su quello che sta accadendo è fatta da Moschino attraverso le sue collezioni e le sue ironie dadaiste. Cambiamenti: ˇ scompare il modello secondo cui le nuove tendenze erano create per una ristretta élite, per poi essere riprese e diffuse da sistemi meno costosi. La fascia più alta della produzione ora è accessibile anche a un ceto medio molto allargato. ˇ Lo stilista sostituisce il couturier. Ora è lui a trasporre i cambiamenti culturali e sociali nei prodotti, nei tessuti e nei modelli proposti alla nuova clientela,ampia e internazionale. ˇ L’atelier del couturier è sostituito dalla boutique monogriffe. ˇ Ogni griffe crea una propria immagine con modelli e stili di abbigliamento abbastanza diversificati tra loro e facilmente riconoscibili: * Armani: abbigliamento funzionale e discreto; * Ferré: immagine di una donna al limite, elementi etnici + effetti di haute couture, sperimentazione sui materiali; * Versace: abbigliamento aggressivo e provocatorio, ispirato agli eccessi dello spettacolo. ˇ Le richieste del mondo americano, i modelli comportamentali dei nuovi serial televisivi, il successo delle star musicali spingono la ricerca verso la vistosità e lo spettacolarità. Gli stilisti e le modelle si atteggiano a divi, le sfilate si avvicinano sempre più a show ideati per stupire attraverso i modelli opulenti ed eccessivi. ˇ L’immagine delle griffe è sostenuta con tutti gli strumenti di comunicazione disponibili, dalla pubblicità alle pubbliche relazioni. ˇ Le classi medie e alte degli anni 80 adottano le creazioni degli stilisti come segno visibile del proprio potere e del ruolo centrale che hanno nella società ( Cfr. ai tempi di Napoleone III, in cui la moda mostrava il proprio stato sociale). Mode di strada, ricerca di avanguardia, produzione industriale Il prêt à porter è diventato la moda, ma dopo aver eliminato l’idea che ci possa essere un unico centro di creazione e una ristretta élite di riferimento. Questo significa che possono cominciare a coesistere stili differenti i cui pubblici diversi possono identificarsi e che i centri di creazione delle nuove mode possono moltiplicarsi. Alla tendenza che rappresenta la nuova società degli anni Ottanta si aggiungono altre proposte estetiche e culturali che rispondono a esigenze di specifici gruppi sociali. ¨ Moda di strada. A Londra, Jean Paul Gaultier e Vivienne Westwood portano sulle passerelle le mode di strada e la rivoluzione nell’abbigliamento dei gruppi giovanili. La Westwood inizia la sua attività all’interno del movimento punk e rappresenta un momento di svolta e di rinascita creativa della moda inglese. Londra assume il ruolo di centro della ricerca più radicale ed eccentrica. ¨ Minimalismo. Arriva dallo sportswear americano. Si caratterizza per la purezza dei tagli, per la quasi totale assenza di colori e per i tessuti ricercati. È la risposta bon ton e puritana alla divisa da manager e alla vistosità delle classi emergenti. La nuova moda si rivolge ad un’aristocrazia del gusto, che manifesta il proprio potere e lo stato sociale attraverso un modo di vestire che recupera la filosofia dei dandy ottocenteschi. Si serve di capi più vicini alla confezione che alla moda, sobri e realizzati in raffinati materiali preziosi. Zoran e Donna Karan negli USA, Jil Sander in Germania, Prada e Helmut Lang. ¨ Stilismo nipponico. Compare in Francia nel 1970 con Kenzo e nel 1973 con Issey Miyake. La proposta si diffonde nel 1981. Non si tratta più di esotismo, ma di un altro modello culturale e vestimentario. I modelli uniscono la tradizione orientale con i capi occidentali. Il risultato è l’introduzione di nuovi principi come l’imperfezione studiata, la ricerca sui materiali poveri, sui colori, sulle proporzioni e un modo diverso di intendere il corpo femminile e l’erotismo. Lo stilismo nipponico affascina la fascia di pubblico più intellettuale. ¨ Avanguardia belga. La proposta giapponese concorre alla nascita di un’avanguardia europea, di cui il gruppo di stilisti formato all’Accademia delle Belle Arti di Anversa è la forma più avanzata. Il gruppo propone una nuova estetica, derivata dalla decostruzione dei capi e dalla sperimentazione più radicale, fino al tentativo di sottrarsi dalla logica della griffe utilizzando delle etichette bianche come ne l caso di Martin Mariangela. ¨ La moda italiana. Sceglie uno stile “massimalista”: abiti opulenti, ricercati, ricchi di effetti revival barocchi e rococò. Tanto lusso però è più vicino al sistema dell’alta moda, per pochi e che non bada ai costi, piuttosto che al prêt à porter. Infatti le vendite cominciano a calare. Pochi stilisti del made in Italy restano fedeli al proprio ruolo legato all’industria: Armani e Moschino. Fra il 1989 e i primi mesi del 90 il luogo del confronto si sposta a Parigi, dove si approdarono Valentino, Ferré (chiamato da Dior)e Versace. La morte di Moschino nel 1994, l’assassinio di Versace nel 1997 e molti altri problemi accelerano la flessione/ crisi della moda italiana. L’importanza di Milano nel mercato del prêt à porter sopravvive solo grazie alla qualità dei prodotti. Tra le poche eccezioni che brillano per innovazione c’è Antonio Marras, con il recupero delle tradizioni culturali e artigianali sarde e con il contenuto poetico nei suoi modelli. Fra i grandi degli anni Ottanta solo Armani e Dolce & Gabbana mantengono inalterata la propria posizione internazionale adeguando con estrema intelligenza le scelte ai cambiamenti di mercato. Un esempio è la linea di haute couture Armani Privé, inaugurata nel gennaio 2005, per collocarsi nell’industria del lusso. In generale, comunque, il successo del made in Italy è sempre affidato a marchi capaci di gestire in modo professionale il rapporto fra marketing e cratività ( Max Mara), o fra abbigliamento e accessori (Prada). Vecchi marchi e industria del lusso Nella storia della moda degli ultimi decenni, un ruolo particolare è stato rivestito dalle operazioni di rilancio di vecchi brand come Pucci o Gucci, condotte da proprietà straniere e affidate a direttori artistici francesi o americani. Nel 2000 Il gruppo LVMH acquista la maggioranza della Emilio Pucci e decide di riproporla sul mercato utilizzando sistemi basati sulla comunicazione, il marketing e la creatività. Il continuo e ravvicinato susseguirsi di direttori creativi però non ha garantito una continuità alla nuova immagine che si voleva dare al marchio. Il Caso Gucci. Dal 1990 l’azienda deve affrontare grandi difficoltà, siccome la sua immagine di marchio di lusso è stata distrutta da una commercializzazione troppo spinta, dalla banalizzazione del prodotto e dalla mancanza di una vera guida aziendale. Dopo un primo periodo, in cui il compito di rinnovare l’immagine e il prodotto è affidato a Dawn Mello, il direttore della Gucci America Inc. Domenico de Sole nomina Tom Ford responsabile sia delle collezioni di abbigliamento e accessori per uomo e donna sia della comunicazione. 1) Conoscenza del passato dell’azienda. Nella strategia di Ford, per ricostruire il significato sociale e commerciale del prodotto Gucci si devono individuare, isolare, attualizzare e riproporre i segni che lo avevano caratterizzato. Si comincia quindi a costruire un archivio di modelli, immagini di riviste, pubblicità, fotografie, scene di film,… 2) Abbigliamento. Per sostenere l’immagine degli accessori che caratterizzavano la produzione Gucci, Tom Ford punta sull’abbigliamento, un settore che la casa aveva sempre considerato marginale. Il Nuovo corso: collezione autunno-inverno 1995-1996 § Tema: rivisitazione anni Settanta. § Location: lo Studio 54, il locale di New York che aveva segnato l’inizio della dico music, della cultura dell’erotismo ostentato, dell’edonismo, dell’eccesso vitalista. § Collezione: figure smilze, unisex, caratterizzate da colori incandescenti e tessuti lucenti. Look lussuoso, ricco, aggressivo e molto sexy. § Sfilata: regia affidata a Kevin Krier. Sfilata al buio in cui le modelle incedono come dive, illuminate da un riflettore. § Campagna pubblicitaria: Mario Testino. Nel suo raffinato linguaggio di ritrattista alla moda, traduce l’idea di un modo di vestire sexy, che ostenta ricchezza e sicurezza. § Immagine: la nuova immagine del marchio collega la G a un’idea di lusso, bellezza e sesso ostentati e levigati. Uno stile di vita prima ancora che di abbigliamento. § Segni tipici: scarpe a punta di vernice con tacchi a stiletto di metallo. La staffa, il bambù, i morsetti sono ingigantiti sui modelli dalle forme storiche. § Cornice: design moderno, sia per il set fotografico ( foto di Testino), sia per riprogettare i negozi ( compito affidato a Bill Sofield) Nel 1999 l’intero pacchetto azionario di Gucci è acquistato da Pinault-Printemps-Redoute, che non rinnova il contratto né a de Sole né a Tom Ford. È la fine della stagione d’oro di Gucci. Nuove forme di consumo Alla fine del XX secolo l’intero sistema del consumo e della fabbricazione di abbigliamento sta cambiando in modo radicale. Un nuovo modello di grande distribuzione, che si basa su una produzione decentrata in paesi a basso costo di manodopera, comincia a offrire una moda di buon gusto, qualità accettabile e prezzi bassi. I consumatori sono sempre meno attratti dal capo status symbol che dura nel tempo. Al contrario sono affascinati dall’idea e dal piacere di cambiare continuamente il proprio aspetto seguendo tendenze anche molto brevi. Ciò determina il successo di catene come Gap, Zara o H & M. È l’era della confezione in serie per il mercato di massa globale, progettata attraverso ricerche di mercato, analisi dei consumi, marketing e retail. Haute couture e industria del lusso: Chanel Apparentemente, nell’haute couture nulla è cambiato: “le case di haute couture continuano a presentare creazioni sontuose due volte l’anno a Parigi davanti alla stampa internazionale, godono tuttora di gran fama e possono vantare un volume d’affari complessivo in crescita costante”. Tutto questo però è solo la superficie. Nel 1987 Gilles Lipovetsky inizia il terzo capitolo di un suo famoso libro con una specie di orazione funebre dell’haute couture. Le ragioni sono le seguenti: • Nessuno si rivolge più all’haute couture per comprare creatività: l’industria del prêt à porter ha già i suoi stilisti, quindi non c’è più il bisogno di andare a Parigi ad acquistare i modelli da copiare. • I buyer dei department store di lusso non scelgono più i capi da sfilata da realizzare su misura per la clientela d’élite. Quei reparti sono stati sostituiti con il prêt à porter. • La clientela privata che frequenta gli atelier di Parigi è ridotta nel numero e nelle richieste. È composta da poche persone alla ricerca del prestigio della tradizione del lusso e della perizia professionale. • Il vero volume d’affari delle maison è rappresentato dalla profumeria, dalle licenze e dal prêt à porter, spesso inadatto a fare concorrenza a quello creato dagli stilisti. • Le collezioni comprendono solo, o quasi, capi da sera o da gran sera da sogno. Restano comunque abiti “straordinari, unici, sontuosi, capolavori di esecuzione … museo dell’estetica pura, libera dai vecchi obblighi commerciali”. Attorno alle passerelle continua ad accorrere un pubblico composto da pochi clienti o invitati e da una moltitudine di giornalisti di tutti i media internazionali. Tanto interesse testimonia che il potenziale dell’haute couture non è completamente esaurito. Se ne rendono conto alcune maison parigine che negli anni ottanta iniziarono a riconsiderare il tema del lusso. Un lusso nuovo, non così esclusivo come nei decenni precedenti, guidato dalle logiche del marketing orientate al mercato di massa, ma ancora una volta finalizzate a creare status symbol. Il nuovo corso comincia con Chanel. Karl Lagerfeld e la Maison Chanel del decennio successivo: “il rifiuto dell’evoluzione”. Alla fine degli anni sessanta, Gabrielle Chanel aveva trasformato i suoi gusti personali in un vangelo dell’eleganza. Ciò da un lato l’aveva fatta diventare fuori moda agli occhi del pubblico, dall’altro aveva testimoniato la sua sete di potere e di dominio nel mondo della moda. Nonostante questo bilancio, non è messo in dubbio il peso fondamentale che Chanel ha avuto nella storia della moda del Novecento. Ha posseduto la capacità di vivere i cambiamenti culturali e di trasformarli in mode e“Il suo più grande merito è stato quello di vestire la donna dei suoi tempi, anche se questa donna le è sfuggita a più riprese”. Il punto centrale proposto da Lagerfeld è questa filosofia del cambiamento, del saper evolvere interpretando i tempi e i desideri delle donne. Secondo il parere di Karl Lagerfeld, la Maison Chanel è dotata di un “patrimonio spirituale” che le consente di adattarsi alle mode più diverse. Per individuare tale patrimonio fa un’approfondita ricerca e il risultato di questo lavoro è mostrato in un gruppo di disegni, datati 1991, che prima sono stati allegati alle cartelle stampa delle sfilate e poi pubblicati. Una prima serie di disegni ripercorre la storia di Chanel: a ogni decennio è dedicata una tavola sulla quale sono schizzati alcuni modelli ( massimo 5) accompagnati da didascalie e da un titolo generale. Il titolo generale è a volte qualcosa di più della semplice notazione cronologica, così come in alcuni casi le didascalie sono veri e propri commenti. • Anni 10: cappello, nuova linea fluida e jersey • Anni 20: tubini neri, tailleur sportivo, completo di maglia bianca bordata di nero e dalle perle • Anni 30: abiti da gran sera di pizzo o gitani, pochette e tailleur con le spalle imbottite, camelie in forma di bijou e marchio doppia C • Dopoguerra: tailleur nero o di tweed, abito da cocktail di mussola e accessori. Oltre alla produzione, Lagerfeld studia un foulard di twill di seta, prodotto nel 1965. Su di esso sono stampati i disegni stilizzati dei simboli dell’ultima fase della carriera di Coco: La doppia C intrecciata /Il tailleur con i profili a contrasto/ Il cappello con la piccola tesa/ La scarpa bicolore/ I bottoni di metallo dorato con il marchio/ La borsa impunturata/ La collana di perle/ La cintura a catena con il quadrifoglio/ Il fiocco/ La camelia/ La spilla di metallo dorato e pietre colorate/ Gli orecchini a clip. Gli stessi elementi compaiono in due tavole disegnate da Lagerfeld. La prima è intitolata: Les éléments d’identification instantanée de Chanel. Le Patri moine Spirituel de Chanel (qui sotto). La seconda è intitolata Faire un meilleur avenir avec les éléments élargis du passé. Al centro si trova l’autoritratto di Lagerfeld nella posa pensosa della Melancholia I du Dürer. Intorno a lui ruotano i simboli di Chanel mentre ai suoi lati ci sono le scritte “Not what but how next?” e “The beat goes on…”sono le scritte “Not what but how next?” e “The beat goes on…” Dieci anni dopo questi elementi si riducono: in un disegno del 2002 intitolato Les éternels de Chanel compaiono solo una scarpa bicolore, una collana di perle, un bottone con la doppia C, un cappello canotier, una camelia, un bijou, una bora matelassé e una silhouette femminile con un abito da sera ricamato. In basso, nell’angolo sinistro, Il profilo di Coco e la testa di Karl che si guardano, intrecciando un muto dialogo. Il lavoro di decostruzione e di selezione ha permesso di individuare una serie di segni visivi che possono essere riuniti in un codice di emblemi eterni e utilizzabili in qualsiasi modo e in ogni situazione. Ora la creatività di Karl Lagerfeld può liberarsi da qualsiasi vincolo precedente di regole di eleganza e stile, dovendosi confrontare solo con questo codice. La nuova moda Chanel Karl Lagerfeld comincia a ringiovanire la moda Chanel dal prêt à porter. Per l’haute couture agisce con cautela, introducendo nuovi ricami e modificando un po’ la linea per non urtare troppo la vecchia clientela. Al contrario decide di osare sul mercato del prêt à porter per attirare una clientela nuova di giovani donne. à La collezione per la primavera-estate 1984: la prima ufficialmente firmata la Lagerfeld, apre un nuovo corso sia dal punto di vista della moda sia da quello delle strategie aziendali. à Sfilata di settembre: rivisitazione più trendy dello stile Chanel degli anni 20. Il completo bianco indossato da Coco fig. 155 è lo spunto per un’apertura verso l’abbigliamento sportivo. Lo stesso accade con i costumi per il Train Bleu. Tutti i modelli sono provvisti di accessori e pensati per essere indossati nella vita quotidiana. La collezione propone anche un esperimento: l’utilizzo del denim per confezionare un tailleur e una sorta di chemisier senza maniche. à La collezione primavera-estate 1985: si infrange uno dei tabù di Coco proponendo giacche con le spalle abbondantemente allargate e imbottite. Compaiono le gonne ben sopra il ginocchio. ( a metà degli anni 90 arriveranno gli shorts e le minigonne inguinali) L’imperativo è fare di nuovo moda, essere al passo con i tempi e magari anticiparli. Questo vale tanto per il prêt à porter quanto per l’haute couture. Quest’ultima deve essere ripensata in funzione della nuova mondanità internazionale e della clientela nuova, meno sobria ed elegante di quella che aveva vestito Coco. Le nuove clienti dell’haute couture sono giovani donne che hanno il portamento delle modelle e che investono molto sul loro corpo prima che sul vestito. Il codice chanel I segni distintivi di Chanel, proposti in un catalogo nel 1997 da Karl, il “les elements d’intefication istantanee de chanel” iniziarono a reinventarsi: nella copertina vi erano infatti stilizzati gli emblemi mentre all’interno le più diverse versioni di quest’ultimi quanto a aspetto e materiale. Esempi: la borsetta 2.55, prodotta da 30 anni: divenne accessorio connotante, ricamate in trompe-l’oeil con paillettes (autunno-inverno 1984-85). Nel 96 il capo di punta fu il tallieur chanel classico con pailettes disposte a rombo. I segni diventarono indipendenti ben presto il motivo a losanghe trapuntate o meno divenne una variabile caratterizzante che poteva avere gli effetti più diversi è la stessa logica seguivano le camelie che potevano cambiare colori materiale ed essere qualsiasi oggetto e dimensioni. Il tailleur Chanel subi mutazioni negli anni 90 si colora di tinte fluo e talvolta le proporzioni di Coco venne allungata e sui fianchi + il tessuto la lana di spugnosa a blucle . veniva trattato nei modi più impertinenti o raffinati. questa capacità creativa innovativa di Chanel catalizza l'attenzione. il rapporto di amore e di odio con il mito di Chanel per mi risoluzioni iconiche. ben presto in passerella entrarono le mode di strada aprendo le strade a una clientela confezionato nel 1991 Il classico Blazer venne confezionato in tessuto elasticizzato coperto di paillettes colorate simile a una tuta da surfista più giovane. arrivarono le giacche di tweed abbinate a minigonne jeans stivaletti da motociclista arrivarono i giubbotti chiodo di pelle nera trapuntata e gonne da ballo si estese la gamma degli indumenti per questa clientela tra il 1990 e il 1991 arrivarono i primi piumini e costumi da bagno e l'abbigliamento più tecnico per lo sport questa eccentricità teneva conto del cambiamento dei costumi nato negli Stati Uniti. Tutto ciò funziona grazie al mito di Coco Chanel andava clinicamente riproposto: ne aveva coscienza tanto che nelle tavole era nei l'indossatrice dei modelli mi sono anche alcune fotografie. Chanel era l'ideale di se stessa le altre donne avevano il desiderio di somigliare le Questo era parte del patrimonio spirituale della Maison per cui il suo spirito doveva continuare ad essere revocato. esempio 1991 pubblicità del profumo Coco langerfeld scienze modelle che nel tempo erano state l'incarnazione dello stile e del modo indipendente tipico di Chanel esempio Nicole Kidman. Soprattutto lo stile unico restò tramite il linguaggio della moda colpi di teatro che costringevano a parlarne. il 17 ottobre 1994 chiuse la sfilata pretaporter riproducendo la esattamente la fotografia di cocco sulle spalle di Serge lifar. Esemplari le due collezioni di haute Couture del 1996 di risate al venticinquesimo anniversario della morte di mademoiselle. iniziare una l'hotel Ritz nella suite imperiale in un'atmosfera neoclassica e lussuosa. l'invito era una foto storica di Coco in posa sul balcone del Ritz le collezioni furono una Maggio diretta al suo lavoro come la ami stasera che indossava in una foto del 36 nello stesso hotel nella seconda viene un disegno di lagerfeld è un titolo le Ritz Coco Chanel Suitela collezione proponeva capi dalla linea sottile tra anche interminabili e un aderente tuta nera di licra con i che mi chiamo Body Beautiful e che faceva da base a quasi tutti i modelli presenti. L’omaggio a chanel nel suo appartamento al Ritz era alla fine: nelle paillettes di un abito i ricami riprendevano quelli dei paraventi delle lampade preferite di Coco. Il modello di Chanel, caso unico nelle case di moda, veniva rievocato fedelmente e contemporaneamente visto in modo nuovo. La strategia fu vincente, quel passato mitizzato era divenuto patrimonio comune. Già nell’86 la moda riconobbe il successo dell’operazione , assegnando a Lagerfeld il de d’or per la ragione prima specificata. Tutto funzionava in modo armonico tanto che nel ’96 Chanel non collassò insieme alla vecchia couture parigina, sia l’alta moda quanto pret a porter e accessori. Nel 1990 aveva punti vendita in Europa, australia, USA, Canada e Giappone: era la moda di lusso più seducente al momento, la più riconoscibile, così come riscontra il suo uso nel cinema. La strategia aziendale vedeva nella moda il modo principale per far crescere l’azienda: le sfilate erano il modo più sicuro per affermare sia lo stile sia l’idea di “bellezza perfetta” e irraggiungibile ma anche conreta con il pret a porter. Alain Wertheimer pubblicizzava tutte le gamme di prodotti, sotto il fascino dell’alta moda. L’investimento non fece perdere qualità al marchio, che restò considerato unanimemente alta moda Il sistema restò centralizzato per un controllo diretto sulla produzione, la cui manifattura era o di proprietà o di aziende esterne di fiducia. Solo per gli occhiali venne fatto un contratto di licenza con Luxottica nel 1999. Ben presto il paradigna di Lagerfeld diventò paradigma pr ogni riinovazioni di griffe storiche, come per Gucci; Dior, Louis Vitton,… Haute couture e industria del lusso: Christian Dior La Maison di Christian Dior nasce all’interno del gruppo Boussac, nato nel 1911 e cresciuto soprattutto nell’industria tessile. Dior venne finanziato dal 1946 per rilanciare l’haute couture parigina del dopoguerra. Boussac non riuscì ad adeguarsi ai tempi: nel 1978 venne messo in liquidazione giudiziaria, andò avanti grazie al credito delle banche pubbliche e vendendo molti beni. Nello stesso anno il tribunale di Parigi assegnò Boussac ai fratelli Willot, una società che vantava un immenso patrimonio all’epoca. Nel 1981 però vennero sottoposti ad amministrazione giudiziaria dopo un investimento sbagliato con Korvettes che provocò grandi perdite. Gli anni che seguirono furono terribili, il governo, incapace di fermare il declino dell’industria francese nell’84 mise in vendita giudiziaria l’intero gruppo: nel 1986 Bernard Arnault prese possesso di tutto il gruppo. Vendette tutto ciò che riguardava il tessile tranne Dior. La storia di questo finanziere, era quanto mai lontana dal mondo dei tessuti e della moda; l’interesse Per la Maison Dior, però, poteva non essere stato semplicemente frutto di quell’intuizione improvvisa; durante il suo volontario esilio americano, Arnault aveva avuto modo di riflettere sulle potenzialità delle imprese francesi ed in particolare su quel settore del lusso che dall’epoca di Luigi XIV aveva caratterizzato i prodotti del suo paese e che, in quei primi anni “80”, stava vivendo una situazione molto particolare. Da un lato, era in declino, ma dall’altro, stava mostrando segni di grande ripresa. Una soluzione, poteva essere quella di rafforzare la propria posizione, utilizzando a proprio vantaggio l’esperienza di manager provenienti da altri comparti e cercando di creare gruppi più solidi attraverso investimenti ed acquisizioni nello stesso settore. L’acquisizione di Celine ed il finanziamento della Maison di haute couture Christian Lacroix, furono una conferma del suo interesse nei confronti della produzione del lusso. L’espansione, però, non eliminava il problema di fondo che rischiava di bloccare il progetto Dior, e cioè l’impossibilità di sostenerlo con la vendita di profumi e cosmetici. L’occasione per riunificare quello che era stato diviso, si presentò nel 1987, con l’accordo di fusione fra Moet Hennessy e Louis Vouitton, che diede vita al primo gruppo mondiale specializzato nel lusso, LVMH; i protagonisti di questo affare, furono Alain Chevalier e Henry Recamier. Il primo, aveva svolto parte della sua carriera nel settore siderurgico ed era stato voluto dagli azionisti di famiglia come Président Directeur Général della Moet et Chandon nel 1969. La sua strategia per rendere più solida la società, fu quella di diversificarne la produzione, acquisendo altre aziende e investendo all’estero in vigneti di particolare interesse. La trasformazione di L.Vouitton era più recente, ed anch’essa opera di un manager che proveniva dal settore siderurgico: H. Recamier, costruire un vero sistema di codici. Anche la sua moda aveva avuto dei temi ricorrenti, ma nel complesso era stata ricca di innovazioni e di idee. Era necessario cambiare prospettiva, ed Arnault ribadiva: “ quello che si realizza con Galiano è, penso, ciò che oggi avrebbe fatto lo stesso Mr. Dior” In altri termini, quella che doveva essere comunicata al pubblico, non era una continuità di segni, ma di atteggiamenti verso la moda e la società. C’era però un altro retaggio del patrimonio storico che doveva essere assolutamente salvaguardato: il lusso e le sue declinazioni. Lo staff di Arnault, creò una nuova mitologia del lusso che coinvolse l’intero sistema: da un lato, le performance dell’haute couture, un pret à porter di assoluta avanguardia, l’alta gioielleria, dall’altro, abiti pensati per donne giovani e moderne, ma anche profumi, prodotti cosmetici ed accessori vendibili ad un pubblico di massa. La nuova identità Dior doveva, quindi, essere quella di una marca che vendeva lusso tanto moderno da Essere anche un po’ trasgressivo, pensato per donne che volevano lo status symbol della griffe, ma anche la sensazione di osare novità un po’ eccentriche. Tutto questo fu sostenuto e guidato da un sistema di marketing che utilizzò i canali della pubblicità e della boutique monomarca. Le campagne pubblicitarie, subirono un deciso cambiamento di immagine per raggiungere un pubblico ben diverso da quello compassato della vecchia “istituzione” Dior. Lo stesso fu fatto per le boutique più importanti, che furono affidate a decoratori di grido ed architetti per diventare vettori d’immagine, “concept store”. Il cuore dell’intero progetto era comunque la moda. In questo quadro, l’haute couture, ritrovava uno spazio adeguato ai ritmi ed ai modelli di consumo più moderni: il suo scopo era trasformare la moda in un grande spettacolo capace di calamitare l’attenzione del pubblico e media sul marchio; era irrilevante il fatto che le mises di sfilata potessero essere ritenute importabili. La Maison inventò un sistema di couture a due velocità: uno show eclatante che implica la creazione dell’altra collezione destinata ai clienti, prodotta dagli atelier e progettata da J.Galliano. I modelli della sfilata, erano invece a disposizione delle cosiddette celebrities disposte ad indossarli in occasioni mondane di particolare impatto mediatico. Questo ruolo liberava l’haute couture da tutti i retaggi e le tradizioni del passato e consentiva di salvarla come strumento di comunicazione di grande forza e come laboratorio di ricerca. La Maison Dior aveva però messo in discussione anche la sfilata del pret à porter. Il nuovo progetto le attribuiva più il valore di grande evento comunicativo che di occasione commerciale. Lo stesso Galliano entrava a far parte della sfilata come attore principale; l’uscita finale, quella in cui lo stilista, illuminato da un unico spot si presenta al pubblico, fu trasformata in un colpo di scena in più. Galliano cominciò ad offrirsi alla platea con i più bizzarri travestimenti, creando un clima di attesa quasi superiore a quella che precedeva la collezione stessa. Utilizzare il breve attimo in cui tutti gli obiettivi sono puntati per immortalare l’immagine del creatore della collezione per moltiplicarne l’effetto mediatico, fu un’idea da grande comunicatore. Era, infatti, prevedibile che i media non avrebbero perso l’occasione di trasformare l’ultimo travestimento di Galliano in una notizia. Le sfilate haute couture di Galliano, assunsero sempre più la forma di grandiosi spettacoli teatrali. la sfilata spettacolo. Il sistema fu messo a punto passo dopo passo e le sfilate haute couture di Galliano assunsero sempre più la forma di grandiosi spettacoli teatrali che di volta in volta raccontavano favole o storie meravigliose e per il cui allestimento non venivano risparmiate né forze né denaro. Per la colleziono primavera-estate 1998 Arnault mise a disposizione il grande salone e il foyer dell’Opera di Parigi, trasformati in solo da ballo per rendere omaggio alla marchesa Luisa Casati. Annunciati da una pioggia di petali di rosa, i trentotto modelli che sfilarono raccontavano la vita della marchesa. Da Poiret a Baskt, fino alla linea “Bar” di Diro, un intero mondo veniva riportato in vita per culminare in una festa in costume ‘al palazzo dei Leoni’. Una celebrazione grandiosa, con un finale emozionante sullo scalone d’onore del teatro, avvolto da un volo di farfalle di certa. In realtà, gli abiti proposti dallo stilista non erano tutti così eccentrici e importabili; certamente c’erano di veri e propri costumi teatrali, ma anche modelli di sbieco o capi da giorno di grande semplicità. Ciò che rendeva il tutto fuori norma erano la reggia, il trucco, le pettinature. La collezione successiva, quella per l’autunno-inverno dello stesso anno, fu un vero e proprio deliro creativo che travolse e lascio esterrefatto il pubblico. Il tutolo della collezione era “Principessa Pocahontas”; la scena, una banchina dalla Gare d’Austerliz, “trasformata in un magico suk, con pavimento cosparso di sabbia del deserto, tende tuareg, i profumi delle spezie disseminate su tavolini, insieme a trionfi di datteri e agrumi. Dappertutto, montagne di vecchie valige e bauli d’epoca Luis Vuitton. L’arrivo di un antico e gigantesco treno a vapore su cui campeggiava la scritta “Diorent Express” diede inizio alla performance. Da locomotore e dai vagoni cominciarono a scendere modelle provenienti da diverse epoche storiche che si mescolavano a indiani d’America fra i quali fece la sua comparso la principessa Pocahontas. La press release offriva la chiave di lettura di una presentazione che non rispettava nessuno dei canoni tradizionali delle sfilate di moda: “Trano di sogno, vascello dell’immaginario, filo d’Ariana fra le immagini conservate di epoche passate, il Dorient Express ci trasporta oggi nell’emozione di immagini irrazionali, le sole da cui sorge la creatività vera. “Buon viaggio! Con le raffinatissime principesse Medici dal portamento altero valorizzato dalle loro gorgiere arricciate dal candore virginale. “Buon viaggio! Ai moschettieri con gli stivali che levano i loro grandi cappelli piumati fi feltro. “Buon viaggio, infine! Alla principessa Pocahontas, che nasconde il suo romanticismo esotico nel suo vagone riservato, decorso con daino fauve ricamato di motivi tribali dai colori intensi. Dopo di ciò, la collezione ispirata al surrealismo, che riproponeva i temi che negli anni trenta avevano fatto di Schiapparelli la regina dell’eccentricità, parve alla critica “semplicemente bella”. La ‘Nuova Generazione Dior’. La ‘Nuova Generazione Dior’ entro in scena sul palcoscenico più importante e tradizione che si potesse immaginare: la reggia di Versailles. La più magniloquente icona della grandezza francese fece da sfondo alla prima di una serie di sfilate all’insegna della provocazione e dell’avanguardia più estrema. Sulla passerella si susseguirono futuristiche guerrigliere ispirate al film Matrix vestite di cuoio, metallo, tessuti pastificati mescolati a mussoline e pizzo; nobildonne inglesi in partenza per una partita di caccia alla volpe con i tradizionali costumi resi irriconoscibili e completati con fantasiosi cappelli creati de Stephen Jones; vestite di tulle trasparente con giganteschi orecchini di strass. Il tutto reinventato da una modellistica e una confezione sartoriale volte a destrutturare e distruggere la consueta immagine di un abito. Fu però la collezione d’inizio millennio a portare all’estremo questo nuovo metodo di costruzione. La sfilata era accompagnata dalla prefazione al Ritratto di Dorian Gray di Oscar Wilde: “L’arte è superficie e simbolo. Che va oltre alla superficie lo fa a proprio rischio e pericolo.” I modelli sembravano fatti di stracci recuperati in modi diversi e uniti sovrapposti per formare un vestito (brandelli di maglia, lacerti di corsetti con le stecche di fuori, tela da sacco). Oppure erano ricavati da carta di giornale adatta al corpo. Ovunque tagli asimmetrici e irregolare a suggerire un assemblaggio casuale, cuciture a rovescio, spille da balia, fettucce ecc. al collo o in vita, appesi alla cintura di cuoio o a un pezzo di spago, tappi, bottiglie, posate e mille atre cose: cli utensili dei senza casa. In realtà, i materiali erano dei più preziosi, accuratamente ricamati o dipinti a mano, i giornali erano tessuti stampati, i modelli costruiti con una maestria che doveva avere messo a dura prova i metodi di lavoro dagli atelier di Dior. E si vedeva. La scandalo fu scatenato dal tema della collezioni, che alcune giornalista interpretarono in modo errato. Janie Samet, convinta che la fonde d’ispirazione fosse la follia, pubblicò un pezzo intitolato Dior c’est fou in cui si riferiva impressioni: “Presi a prestito i suoi temi della cloche de bois e dall’universo psichiatrico”, anche il “The Express commise lo stesso errore d’interpretazione parlando di oltraggio e riportava i pareri di illustri psichiatri e di associazioni che si occupavano di questo problema. In realtà il tema erano i clochard, anche se Galliano chiarì subito di non avere avuto alcuna intenzione di fare una collezione sociologica o un documentario sulla povertà che si vedeva per strada. A riprova di ciò mise al centro della collezione successiva un’immaginaria corrispondenza fra Jung e Freud sul tema del feticismo, pretesto per far emergere dall’inconscio della borghesia europea i sogni e gli incubi più nascosti. La precisazione di Galliano, però, ottenne il solo risultato di sostituire l’oggetto dello scandalo. Il 31 gennaio 200 “Newsweek” riportò la dichiarazione di servizi sociali francese che definiva la sfilata uno schiaffo in faccia ai clochard negli stessi giorni i giornali di tutto il mondo davano la notizia di una manifestazione in Avenue Montaigne cui avevano partecipato anche alcuni homeless. Arnault gli diede ragione: “erano appena spenti i riflettori del grande lusso che cominciavano le vendite del pret à porter. la tempesta attorno alla collezione non si era ancora placata che al terzo piano di Avenue Montagne i compratori asiatici ed europei si sedevano con i loro computer attorno a un tavolo, negli showroom, per passare gli ordini. E gli affari andavano benissimo attorno a quella che si chiama ‘pré col’. “ora, questa collezione concepita per fare incassi riprende lo stesso approccio che fece gridare allo scandalo lunedì 17 gennaio alle 17. Essa fa dell’anarchia un tic di moda e del difetto una religione. Le gonne vanno di traverso, i mohair lasciano cadere le maglie, le cuciture si mostrano a rovescio, gli abiti bustier hanno l’aria di pantaloni che risalgono fin sotto le braccia. Fino agli zibellini rivoltati, da motociclista. Settecento venduti in tre giorni. Sidney Toledano, il presidente di Dior, giubila. Secondo Arnault, “le critiche che ci sono state non erano rivolte ai vestiti, ma alla fonte d’ispirazione che Galliano aveva scelto, ma non era così vero. Fra le grida di orrore c’era stato anche chi aveva molto semplicemente obiettato che questa moda non era adatta alle clienti borghesi della couture. Lo stilista aveva risposto di non avere alcuna intenzione di vestire “vecchie signore di settant’anni”. Il suo scopo era infatti di investire l’haute couture con un’ondata di giovinezza, ispirandosi alla moda di strada che avevano rivoluzionato i canoni e i modi dell’abbigliamento, rappresentata in modo emblematico da Vivienne Westwood, che di era fatti interprete delle culture più giovani portando sulle passerelle e nelle boutique le loro novità. Certamente Galliano aveva guardato con interesse anche al gusto provocante e un po' trash delle giovani russe che cominciavano a saccheggiare i negozi del lusso accompagnate da ‘fidanzati’ di recentissima e dubbia ricchezza. Tutto ciò fu sentito come un oltraggio a Dior, alla tradizione dell’haute couture e alle sue buone maniere. Ma perché scatenarsi sul tema della sfilata? Il motivo era probabilmente tutto interno alla cultura della moda. Quando, nei primi anni ottanta, Rei Kawakubo aveva cominciato a fra sfilare modelle di Comme des Garcons con abiti informi, pieni di buchi e di strappi, ma anche quando gli stilisti giapponesi e poi belgi iniziarono a tratte ispirazione da indumenti de lavoro logori e consunti, le più aggiornate fra le giornaliste rimasero estasiate. L’invenzione di una modellistica pensata prima sulla stoffa che sul corpo, gli orli dal vivo, l’assemblaggio di pezzi vintage, il rifiuto del colore avevano dato la sensazione di una maniera nuova di pensare la moda. L’abito perdeva tutti i significati che gli erano stati attribuiti nel tempo e ne assumeva altri. Certamente non voleva più essere il mezzo per fra trasformare Cenerentola in una principessa, ma neppure uno status symbol. Dal momento che tutti i segni di lusso erano banditi o celati. Non era più un dichiarato strumento di seduzione, vista la rarefatta sensualità cui la nuova moda faceva riferimento. Era un modo di vestire che sintetizzava elementi culturali diversi: la fusione di tipologia opposte di abbigliamento (occidente-Oriente, sartoria-industria, vecchio-nuovo) gli stimoli ecologici il dialogo profondo tra presente e passato. Una moda non facile, rivolta a un pubblico femminile colto ed emancipato virgola che voleva indumenti che comunicassero valori interni e non si limitassero a esibire o sottolineare quelli corporei. Galliano si impadronì di tutto questo e lo trasformò in una esibizione di lusso. Quella che andò in scena al Palais Royal era ben lungi dall' essere parodia delle condizioni di vita dei clochard, al contrario era un ragionamento sulla moda e sull’avanguardia. Era la fine del minimalismo. Il lusso aveva vinto. nuovo clima economico e questo e abbia veramente una serie di effetti sull’industria del lusso. La dirigenza Dior colse il mutamento molto prima che scoppiasse la crisi e si rese conto che era necessario inventare nuove strategie di impresa e rivedere sia l'aspetto creativo sia l'immagine del marchio. Come osservò Galliano “il marketing e vita talvolta molti errori nel porre il piano di una collezione. Questo permette di concentrarsi su domande precise ed i mercati che nel caso di Dior sono molto diversi. E una sfida creativa appassionante. E quello che preferisco: apportare soluzioni creative”. In questo caso egli si riferiva alla precollezione di pret a portè. Le “domande precise” che le nuove possibili clientele di Dior ponevano erano però tutte nella direzione dell'eleganza più ricercata. Era finito il tempo dell’eccentricità, dell’arroganza porno-chic, delle audaci destrutturazioni. La clientela più interessante di quel momento sembrava essere costituita dalle ricche cinesi, desiderose di indossare modelli che sembrassero il più possibile usciti dalle stesse mani di Christian Dior. Ci si concentrò sulla grande tradizione Dior, ponendo raffinate collezioni che rinnovavano l'antico chic parigino anche l'immagine si fece più aggressiva. E anche la maison Dior identificò infine la propria icona temporale: il tailleur “Bar”. l'immagine della nuova first Lady francese, quella Carla Bruni che aveva sfilato per Galliano, fu uno straordinario veicolo pubblicitario di questo ‘New New Look’. Il New New look di John Galliano. Il ritorno a Christian Dior fu celebrato il 3 luglio 2005 con una sfilata che sembrava un film biografico o un album di ricordi. L'occasione era il centesimo anniversario della nascita del couturier. La sceneggiatura prevedeva dieci sequenze, ognuna delle quali raccontava uno dei momenti che avevano segnato la vita il lavoro di Dior. L'interruzione era dedicata a Madeleine, elegantissima madre di Christian Dior, che dava inizio alla sfilata scendendo da un calesse insieme al figlio, entrambi vestiti dello stile edoardiano di moda agli inizi del novecento. La storia si trasferiva poi in Avenue Montaigne per raccontare il lavoro di Dior. Si partiva dall’analisi del modo in cui esso ha messo appunto il suo famosissimo stile mostrando il procedimento che egli seguiva per la realizzazione di un capo. Il primo capitolo, “Creazione: costruzione di un vestito. Drappeggiato, tagliato, spillato: Monsieur Dior elabora quattro abiti sulle sue modelle preferite”, presentava i passaggi sartoriali che accompagnavano la costruzione del modello in atelier, a partire dalle strutture nascoste di busti, imbottiture, fino alle prove di tessuti, ricami, decorazioni. Veniva poi la presentazione delle collaboratrici, “le direttrici. Le tre donne che con il loro sovoir-faire hanno aiutato Monsieur Dior a mettere appunto la sua silhouette”. Ed ecco Mitzah Bricard con un tailleur in tulle a ricamo lèopard, Marguerite Carré in pied-de-poule e Raymonde Zhencker in fiori grigi. Poi il risultato, “Corolle: il New Look”. Febbraio 1947, Monsieur Dior stupisce il mondo intero con un ritorno ha una femminilità graziosa e con l'uso di materiali lussuosi”. In passerella, sei modelli che offrivano un’esemplificazione delle possibili variazioni sul tema. Quindi le clienti celebri, le dive di Hollywood, “le top model della loro epoca”, si filavano con altrettanti abiti da sera lunghi splendenti di ricami. Seguivano poi le vere clienti della maison, a cominciare dall’aristocrazia francese in abito da cocktail per poi passare alle debuttanti famose, come la principessa Margaret d'Inghilterra, in romantici color pastello. A conclusione della sfilata, tre scene pensate per sottolineare il legame di continuità ideale fra Galliano e Dior. La prima era una rivisitazione delle ballerine di Degas vestite dei colori e dei materiali della tradizione andina. La seconda era un tributo al lavoro dell'atelier: quattro Catherinettes vestite di giallo e di verde per celebrare la tradizione della “sainte Cahertine, patrona delle petites mains dell'haute couture”, il cui fondatore della maison era molto affezionato. Infine un omaggio alla passione di Christian Dior per i balli mascherati, ispirandosi però alle “pitture coloniali della scuola di Cusco” che “esaltavano la devozione religiosa”: sulla passerella un Arcangelo, una virtù, una vergine e una Madonna. Molti dei “soggetti” erano liberamente tratti dalle immagini di Renè Gruau, Cristian Berard e Cecil Beaton, soprattutto nella prima parte della sfilata, era fortemente ispirato a Lillian Bassman e al suo modo di sfuocare certe parti della fotografia e di metterne a fuoco altre, in modo da esaltare alcuni particolari. Questo sistema aveva consentito di offrire un’immagine quasi radiografica dell'iter progettuale di Dior, ma anche di concentrare l'attenzione su dettagli sartoriali e costruttivi, sui ricami, sugli inserti di colore ecc. La collezione era frutto di un profondo lavoro negli archivi della maison virgola che Galliano faceva risalire ai suoi esordi in Avenue Montaigne. Il dialogo fra presente passato era avvenuta ancora una volta in grandissimo stile. Galliano aveva compiuto una rivisitazione che forse nessuno aveva osato fino a quel moment. L'aveva portata in passerella come una proposta di moda e non come una ricerca storica, si trattava di un revival in piena regola. Il tema di Dior fu di nuovo al centro dello spettacolo nel luglio 2007, quando furono festeggiati i sessant’anni di vita della maison. Il sessant’anni della maison Dior. L'evento fu celebrato in grande stile, con la pubblicazione di un monumentale coffee-table book firmato farid Chenoune che per la prima volta prendeva in considerazione l'intera storia della casa parigina, una mossa al museo di Granville, l'ennesima ristrutturazione della boutique di Avenue Montaigne affidata ancora una volta a Peter Marino e la haute couture alla Reggia di Versailles e seguita da un party a base di paella e musica gitana. L'organizzazione della sfilata all’Orangerie fù degno dell'occasione, con la sua candida passerella affiancata da due enormi cavalli bianchi ispirati a quelli della Fontana di Apollo, un parallelismo tra Christian Dior e Luigi XIV. come tema per la collezione Galliano aveva scelto due delle passioni del grande couturie: le feste in costume e l'arte. L'introduzione alla press release, firmata da John Galliano, spiegava che “per celebrare il sessantesimo anniversario della maison Christian Dior abbiamo esplorato la prima collezione di Monsieur Dior. i suoi artisti preferiti. Sfruttando lo spirito degli artisti neoromantici, abbiamo creato l'ultimo “Bal des Artistes”. Ciascuno dei 45 modelli presentati i respirato a un artista. Davanti a un migliaio di invitati passeggiavano figure uscite dai dipinti di Picasso, Degas, Manet, Botticelli , Leonardo, Michelangelo e tanti altri . La sfilata fu accolta da un’ovazione e da commenti entusiastici da parte della stampa. Si trattava di una collezione straordinaria che amalgamava alla perfezione obiettivi diversi: esaltare l’haute couture e la sua maestria professionale con modelli che solo i più grandi professionisti di questo settore erano in grado di realizzare. Ma c'era di più. C'era l'idea che la moda potesse rivaleggiare con l'arte e l'affermazione che il lusso della Corte di Luigi XIV era tornato ad essere una realtà. Era la celebrazione del successo del progetto di Bernard Arnault. L’haute couture, il simbolo stesso della moda parigina, era stata salvata. La straordinarietà del defilé, dipendeva solo in parte dall’enorme investimento di cui era stato soggetto. Certamente la campagna stampa che l'aveva preceduto aveva creato un clima d'attesa soddisfatto dalla cornice della Reggia, dalla scenografia, dalle musiche, dal party. Ma ciò che aveva più incantato il pubblico era la collezione, “da ricordare per tutta la vita”. Galliani aveva creato qualcosa che andava oltre al normale prodotto haute coutue e superava anche le sue performance precedenti. La collezione era “un tributo alla memoria di Steven Robinson”, il più stretto collaboratore di Galliano con cui aveva condiviso 20 anni di speranze e successi virgola di ricerche. Per lui lo stilista mise alla prova tutta la sua immaginazione teatrale, la sua capacità di giocare con i costumi per evocare i pochi diverse: ridare vita all'arte, quella che entrambi avevano amato. La fanciulla vestita di rosa di Fregonard scende dall' altalena, la bambina di Manet si allontanò dalla Gare Saint-Lazare, la signora di Seraut chiuse l'ombrellino rosso e lasciò la Grande Jatte, la Madonna di Caravaggio prestò il colore del suo vestito a Linda Evangelista. Ma in questa favola c'era anche la morte e fu rappresentata dalla Spagna. Quella primavera Galliano aveva progettato insieme a Robinson l'ormai usuale viaggio stagionale in Africa del nord e nella penisola iberica. Lo fece da solo. L'obiettivo era iniziare una ricerca sull’influenza araba, ma l'Andalusia gli offrì qualcosa che superava di gran lunga le bellezze della civiltà moresca. A Siviglia incontrò il torero Miguel Abellan. Fu un'esperienza che egli portò con sé al ritorno dal viaggio e che gli fece scoprire qualcosa di sé. Galliano si rese conto che quella antichissima sfida e la profonda consapevolezza della tragica prossimità di vita e morte, facevano parte della sua anima spagnola. Così il dolore per la scomparsa dell'amico che era sempre sceso al suo fianco nell'arena della moda Apri il racconto del defilé con le note di Silencio por un torero, prese le forme della Vergine sivigliana del Venerdì Santo ispirata a Goya e dell' androgina mujer con la montera in testa di Ignacio Zuloaga, per l'uscita finale, egli fece scegliere come travestimento un traje de luces azzurro e oro.
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