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Riassunto Storia dello stato moderno - W. Reinhard, Sintesi del corso di Storia Moderna

Riassunto libro Storia nascita Stato. indiretta conseguenza necessità antropologica: coazione a regolare i rapporti di potere tra gli uomini. Ovunque si incontrano oggi varianti di quel tipo di collettività creato dagli europei dal medioevo e successivamente "esportato" nel resto del mondo. Sintesi del percorso ideologico e storico che ha portato alla formazione dello stato moderno, alla sua evoluzione nello "stato totale" dell'età contemporanea, e al suo attuale declino.

Tipologia: Sintesi del corso

2015/2016
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Caricato il 24/04/2016

AlessandroSpagnolo
AlessandroSpagnolo 🇮🇹

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Scarica Riassunto Storia dello stato moderno - W. Reinhard e più Sintesi del corso in PDF di Storia Moderna solo su Docsity! CAPITOLO I – Elementi e questioni fondamentali 1. Che cos'è uno stato? Ovunque si incontrano oggi varianti dello stato moderno, cioè di quel tipo di collettività che nei fatti è stato creato dagli europei e successivamente esportato nel resto del mondo. Se si considera lo stato come grandezza storica dall'analisi derivano due corollari rilevanti: innanzitutto, la nascita dello Stato non è stata una necessità, ma un fatto assolutamente contingente quasi casuale; in secondo luogo, lo stato moderno, così considerato, non è buono né cattivo di per sé, ma è un fenomeno moralmente ambivalente e non neutrale. Lo Stato non è sempre esistito e quindi non deve essere inteso come una necessità antropologica. È nato in quanto diretta conseguenza di una necessità antropologica molto più semplice e costantemente data: la coazione a regolare i rapporti di potere tra gli uomini, per natura sempre diversi in gruppi di ogni genere. Il potere, inteso come possibilità di imporre la propria volontà su quella altrui, può anche essere un fenomeno di comunicazione neutrale sul piano dei valori, ma nella prassi ogni forma di potere comporta a sua volta qualche forma di abuso. Chi detiene potere, infatti, tende a cercare di accrescerlo ulteriormente. Se questo sforzo è coronato da successo e viene accettato, il potere si consolida in dominio, dando così il via ad un'istituzione politica. Inizia così il lungo cammino verso una collettività organizzata e, in particolari condizioni, verso lo stato moderno. Quest'ultimo, infatti, nella sua essenza è stato di potenza e cioè il tipo più potente di organizzazione collettiva che gli uomini abbiano creato. L'accettazione da parte dei dominati può essere ricondotta all'utilità del dominio ai loro occhi, oppure al loro timore di violenze da parte dei detentori del potere. Nella maggior parte dei casi in cui l'accettazione dipenderà da entrambi gli aspetti. Sebbene i detentori del potere fingessero di proteggere i loro sudditi dalla violenza di terzi, essi stessi avevano prodotto quella violenza con le proprie rivalità. Le fondamenta degli stati sono state poste sulle guerre. Questa visione dei fatti è molto più realistica dei tentativi di ricondurre lo Stato ad un contratto sociale fittizio, al consenso di una società su determinati valori o alla domanda e offerta in un libero mercato del potere. Con ciò non si intende certo sostenere che la nuda volontà di potenza da sola basti per avere successo, né che essa non debba legittimarsi principalmente attraverso idee politiche e diritto. Quando il fondatore di un regno moriva, la sua opera crollava rapidamente se mancava chi la proseguisse. La continuità di una volontà di potere efficiente è stato il principale presupposto della nascita gli stati moderni. Ma la continuità dinastica da sola non era sufficiente. Altrettanto importante era che vi fossero dell’élite di potere interessate a sposare durevolmente la causa dell'auto-affermazione e dell'ulteriore sviluppo di un potere centrale e collaborative nell’imporla i sudditi. In una prospettiva comparativa tra le diverse realtà europee, questa interrelazione a livello microscopico non sembra essere stata particolarmente significativa. Dal punto di vista macroscopico, mostra delle caratteristiche, come il diritto di successione riservata al primogenito o i ruoli esercitati dalla nobiltà, dal clero e dai giuristi borghesi. In questo contesto di cruciale importanza la mediazione svolta dalla chiesa cattolica. Lo sviluppo politico dei futuri stati fu promosso dalla rivalità reciproca tra i fondatori di Stati, che si tradusse in frequenti guerre. I crescenti costi di queste ultime, tuttavia, costrinsero a prelevare risorse sempre maggiori, il che a sua volta determinò un ulteriore aumento del controllo del potere centrale. In quanto stato di potenza, allo stato moderno è, in origine, stato di guerra. Nacque così, prima di tutto, un complesso di istituzioni che aveva la funzione di prendere e far eseguire le decisioni e di esercitare un controllo sociale. Del resto, le collettività non si possono semplicemente ridurre ad un'unica istituzione, come ad esempio il governo, ma si diffondono su una complessa struttura di istituzioni il cui funzionamento presuppone una cultura politica. Ciò significa però che una collettività non può essere compressa solamente nei termini delle proprie istituzioni. Potrebbe anzi persino darsi che, mentre la collettività si sta dissolvendo, le sue istituzioni sopravvivano. Nell'Europa meridionale questa situazione si verificò nel medioevo. Ma con ciò lo specifico processo di Il monopolio della violenza proprio dello Stato europeo moderno è dunque condizione necessaria, ma sicuramente non sufficiente di uno Stato di diritto che sia efficace non solo a parole ma anche nei fatti. Il diritto in origine preesisteva al dominio ed era indipendente da esso. Il dominio veniva misurato proprio in base al diritto. Tuttavia, con lo sviluppo del potere statale, il diritto si trovò sempre più sotto il suo controllo. Estremizzando, non era più necessario mettersi alla ricerca del diritto ma si poteva creare nuovo diritto. In ciò è riconoscibile il carattere multidimensionale della nascita del diritto. Il diritto è infatti sempre: strumento di potere dei soggetti di volta in volta dominanti; riflesso della situazione sociale di volta in volta esistente; espressione delle convinzioni morali di volta in volta prevalenti; sedimento delle consuetudini di volta in volta esistenti. Il successo storico dello stato moderno è dovuto non tanto all'imposizione del diritto, basata su monopolio statale della forza, quanto alla dipendenza del diritto dallo Stato. Forse il contributo decisivo fornito dallo Stato alla nascita dello Stato di diritto non consiste nemmeno nel suo potere coercitivo, ma bensì nel ruolo di educatore dei sudditi. Del resto, è noto che la storia spesso procede dialetticamente in base a effetti secondari non intenzionali che conducono a risultati inattesi 5. Stato e cultura politica Le collettività premoderne erano meri stati-teatro in cui la legittimazione del potere richiedeva soltanto che esso offrissi al popolo lo spettacolo di uno spazio imponente e desse dimostrazione simbolica della propria attenzione al bene comune, con decisioni di grande effetto, cui non si pensava dovessero seguire altri atti. La funzione dell'autorità era limitata all'autorappresentazione su un palcoscenico che sua volta rappresentava il mondo. Questo quadro va però in parte corretto. In primo luogo, la mancata affermazione delle norme giuridiche e la politica come spettacolo non sono un connotato esclusivo delle collettività premoderne e orientali, ma sono parte integrante della politica anche negli Stati moderni. Di fronte a reati violenti di grande spettacolarità, spesso volentieri si irrigidiscono le norme, con grande rumore mediatico, al fine di tranquillizzare gli elettori. Tuttavia, nella maggior parte dei casi, applicare le norme esistenti sarebbe più che sufficiente e probabilmente avrebbe persino impedito che venissero commessi determinati reati. Ciò significa che lo Stato-teatro e la politica simbolica di oggi, come quelli premoderni, costituiscono una componente essenziale attiva di qualsiasi politica. La storia culturale recente si basa sulla fondamentale capacità umana di produrre simboli e si identifica con l'insieme di tali simboli. Tutto il mondo sociale è fondato su sistemi simbolici, primo fra tutti il linguaggio. In tal modo, però, tutta la scienza diventa scienza della cultura, tutta la storia diventa storia della cultura, che può dare un grande contributo alla comprensione della storia politica. Di essa fanno parte, oltre a metafore politiche e miti storici, anche azioni umani, come gesti e ricche feste. In quest'ottica, incoronazioni o elezioni non sono più manifestazioni volte ad ingannare il popolo, ma eventi carichi di senso, che hanno un forte valore di integrazione per la collettività. Essi non si limitano a rappresentare la politica e il potere in termini simbolici, ma si identificano con la politica il potere. L'illuminismo iniziò tuttavia criticare la performatività delle cerimonie e dei riti, puntando sulla razionalità di una regolamentazione giuridica trasparente. Grazie all'illuminismo, l'azione simbolica diveniva riflessiva: essa non era più legittimata dalla consuetudine, ma chiamata giustificarsi in base ad una dimostrazione razionale. CAPITOLO 2 – Ascesa dello stato moderno 1. Perché in Europa? Condizione sufficiente per l'ascesa dello stato moderno è stata una molteplicità di eventi contingenti verificatisi nel corso di quindici secoli. Tali eventi presupponevano però delle condizioni necessarie erano date solamente in Europa. Una caratteristica essenziale dell'Europa rispetto agli altri continenti era la suddivisione dello spazio in tanti paesaggi di dimensioni limitate, che si traduceva in un forte pluralismo politico. Il vero segreto del successo europeo fu però il modo estremamente complesso in cui la cultura politica dei popoli giovani si ricollegò all'eredità della cultura mediterranea. Parallelamente alla nascita delle città si afferma un ulteriore processo di sviluppo dell'autonomia politica, la nascita di collettività territoriale ignote nell'antichità: i villaggi. I villaggi europei rivendicarono autonomia, a volte notevole, in misura diversa da luogo a luogo. Questo cosiddetto “comunalismo” può essere senz'altro considerato una sorta di repubblicanesimo di fondo. Il dominio dell'aristocrazia, come pure l'autonomia comunale delle città e dei villaggi, resero possibile una riluttanza di fondo degli europei alle pretese dei fondatori di regni e di stati che è diventata una delle principali radici della democrazia moderna. Un motivo di resistenza era spesso costituito dalla violazione del diritto di proprietà dei sudditi. La proprietà privata, prevista dal diritto romano, si unì alle concezioni giuridiche dei popoli giovani e finì così per essere considerata dalla maggioranza dei giuristi una componente indiscussa del diritto naturale. Il diritto romano rappresentò per l'Europa una delle eredità più importanti dell'impero romano. Direttamente esso condusse, grazie ad un'abile interpretazione, ad un accrescimento del potere del re che andava al di là della consuetudine giuridica. Tale accrescimento riguardò prima l'imperatore, che si ricollegava proprio all'impero romano e poi per analogia anche agli altri sovrani. Affondano qui le radici della cosiddetta monarchia assoluta dell'era moderna, che aprì la strada allo stato moderno. Inoltre il diritto romano aprì la strada all'istituto della persona giuridica, che è alla base della vita politica moderna. Tra pubblico e privato esisteva una differenza, ma il termine pubblico indicava soltanto la particolare sfera giuridica del re in contrapposizione a quella di altri e non qualcosa di strutturale come oggi.. A gettare queste basi contribuì l'interesse della Chiesa di garantire l'inalienabilità del patrimonio ecclesiastico, prima ancora che il principio venisse applicato ai beni della corona. Da questo punto di vista, l'organizzazione della Chiesa era più moderna di quella della giovane collettività europea, poiché il sistema formato da parrocchie, diocesi e arcidiocesi, che aveva al suo vertice il papa, aveva carattere fortemente territoriale e il personale ecclesiastico condivideva un'idea istituzionale della carica che faceva dei sacerdoti i primi funzionari d'Europa. Tuttavia, solo nella Chiesa d'Occidente il pontefice riuscì a conquistare una posizione pari a quella dell'imperatore. Nell'Europa meridionale sopravvisse il dualismo tra potere spirituale e temporale. Una distinzione che non significava però totale separazione: nella vita quotidiana le due sfere erano strettamente legate fra di loro. Questo dualismo non solo procurò all'Europa un lungo conflitto tra Chiesa e Stato, ma diede anche all'individuo europeo uno speciale margine di libertà ideologica e pratica rispetto ai due poteri. La riforma religiosa del 16º secolo non sarebbe stata possibile senza questa tensione. 2. Dalla monarchia allo stato di potenza La strada che ha condotto al moderno Stato di potenza in Europa passa in ogni caso dalla monarchia. Non poteva essere altrimenti poiché, in un mondo di concorrenti politici organizzati su basi personalistiche, la volontà di unità e continuità, proprio di una dinastia dotata di legittimazione convincente, aveva buone probabilità di imporsi. Nell'Europa premoderna un contrasto programmatico tra Monarchia e Repubblica non era affatto onnipresente. Molto più sensata era la contrapposizione tra una monarchia che rispettava la fede, il diritto alla proprietà dei sudditi, e una tirannide. Le competenze di un monarca furono definite costituzionalmente in modo preciso per la prima volta nel 1791. Fino ad allora esterno teoricamente limitate. Un re poteva rivendicare qualsiasi potere necessario in difesa della pace e del diritto. Le corti erano sempre al centro dell'attenzione, potevano definire modelli di buona condotta validi in tutto il paese persino su scala europea. Queste erano tutt'altro che apolitiche, si combattevano a livello micropolitico i conflitti di potere informale tra i principali personaggi, famiglie e fazioni. Discorsi - La rivoluzione mediatica del libro a stampa svolse un ruolo fondamentale anche nello sviluppo della teoria politica in senso stretto. Originariamente non si manifestò un'esigenza di riflessione sulla politica. La monarchia europea rimase per molto tempo talmente ovvia che quasi nessuno avvertì la necessità di riflettere su di essa. Mancavano persino i concetti a tal fine, poiché la teoria politica lavora sempre sulla scorta della storia delle idee. La chiesa come luogo unico di cultura era padrona incontrastata dei discorsi. La teoria più antica della monarchia si desume da alcuni ordines di incoronazione del X secolo. Ad essa si aggiunse in seguito alla categoria dei cosiddetti specchi del principe: trattati morali che partivano dall'idea secondo cui la migliore politica possibile consisteva nell'esercizio di virtù che era possibile inculcare al sovrano. Solo con la riscoperta del diritto romano divenne possibile un discorso politico autonomo. Tommaso d'Aquino inventò il termine scienza politica e definì l'uomo come essere per natura politico. Nella fase di radicali sconvolgimenti politici che avvennero tra la fine del quattrocento e la metà del seicento, quando le monarchie europee iniziarono ad accrescere il proprio potere sia all'interno sia all'esterno e lo scisma religioso provocò numerose guerre civili, molti si sentirono minacciati dalla tirannide. In questo scenario, Niccolò Machiavelli svela una volta per tutte le regole amorali dell'attività politica, che chiunque volesse creare una collettività in una situazione di instabilità, doveva seguire. Il suo libro su i principati è un grande specchio del principe, in quanto supera definitivamente l'idea, fino ad allora prevalente, secondo cui un comportamento moralmente rigoroso dei potenti avrebbe automaticamente promosso il bene comune. La politica è per Machiavelli profondamente amorale, per la sua rivoluzionaria visione del mondo patriottica, il cui valore supremo non è più l'azione morale dell'individuo ma il bene della patria, a cui viene subordinata la stessa religione. Chi agiva secondo questa nuova morale politica era ritenuto da molti non cristiano. La critica delle rivendicazioni monarchiche di potere si riscontravano anche tra luterani cattolici quando si sentivano minacciati dal potere centrale. Ma finché tale potere era dalla loro parte, essi si trasformavano immediatamente in risoluti sostenitori della monarchia via. L’auspicata crescita del potere statale avveniva ormai soprattutto in seguito alla lotta di potere tra collettività. Qui continua a regnare, secondo Hobbes, lo stato di natura della lotta di tutti contro tutti, che in politica interna era stato superato in virtù della sottomissione del contratto degli uomini ad un sovrano. Tuttavia Hobbes non stava parlando del monarca, ma dello Stato che assume il monopolio della forza. Sarebbe però sbagliato interpretare Hobbes come profeta dello Stato totale. Innanzitutto lo stato di Hobbes esige obbedienza, non un modo di pensare corretto. In secondo luogo, per Hobbes, fautore del diritto positivo, è vincolante solo ciò che è esplicitamente stabilito. Non c'è pena senza legge. In terzo luogo, lo Stato non è ancora del tutto fine a se stesso, ma serve alla autoconservazione dei cittadini. Se lo Stato non adempie al suo scopo di garantire la sicurezza, cessa il dovere di obbedienza dei sudditi. L'antropologia politica di Hobbes è improntata ad un profondo pessimismo e costituisce una reazione alle guerre civili europee. Con John Locke, la svolta verso l'ottimismo illuministico è già avvenuta. L'uomo è inteso proprietario di se stesso, dei suoi diritti e due suoi beni e lo Stato non ha accesso immediato alla sfera privata, ma resta confinato al settore pubblico. Fino ad allora il dominio e proprietà erano due lati di una stessa medaglia, ma da quel momento in poi la proprietà sarebbe stata privata e il dominio pubblico. A salvaguardia dell’avidità di potere, il dominio è soggetto alla divisione dei poteri. Il potere supremo è quello legislativo, che definisce le regole per gli altri poteri. Esse vengono attuate dall'esecutivo, di cui fanno parte anche tribunali. I rapporti con l'esterno competono al potere federativo, che spetta al monarca, alla stregua dell'esecutivo e della partecipazione al legislativo. Se il re viola il diritto, il legislativo può invocare la resistenza nei suoi confronti, e se il legislativo ignora il bene comune è consentita la sollevazione popolare, poiché il potere statale si è dissolto da sè. Nel 1748 questa teoria fu ripresa da Montesquieu che la rese popolare: egli distingueva tra il potere legislativo, esecutivo e giurisdizionale. In una simile collettività era ormai possibile spogliare del tutto il sovrano del suo carisma e ridurre il suo ruolo a quello di una mera carica di stato. Élite del potere e istituzioni centrale - Originariamente non esistevano cariche di stato, ma solo servitori del principe: ministro significava proprio servitore. Il nucleo originario da cui si sviluppò il potere dello stato monarchico fu la corte del principe. A partire da essa si strutturò, nel corso del tempo, la maggior parte delle istituzioni da cui nacque infine il complesso istituzionale all'inizio dell'età moderna. Già i più antichi regni europei conoscevano determinati uffici di corte che, in una forma o nell'altra esistevano più o meno ovunque: il tesoriere, il cancelliere, ecc. Tuttavia, nella maggior parte dei paesi, con il passare del tempo, cancellerie e cancelleria vennero spinti verso l'ambito giurisdizionale. In Inghilterra e Spagna, in Danimarca e in alcuni territori tedeschi, la cancelleria si trasformò in alta corte. In Francia il cancelliere divenne il capo dell’apparato giudiziario, ma in quanto presiedeva il consiglio del re mantenne grande influenza sulla politica interna: era nominato dal re a vita e non poteva essere destituito, ma al massimo sospeso. Nei territori asburgici sotto Maria Teresa, il cancelliere di stato divenne il responsabile della politica estera. In base alla finzione politica su cui poggiava lo stato europeo in divenire, infatti, il sovrano amministrava il diritto e governava nel consiglio, ascoltando il parere dei suoi consiglieri. Solo se assistito da consiglieri avveduti egli poteva evitare violazioni giuridiche e arbitri. Quando all'origine del giorno c'erano questioni importanti come una richiesta di aiuto militare o finanziario il consiglio veniva ampliato con un'ulteriore gruppo di sudditi: da questo consiglio allargato nacquero il parlamento inglese e altre rappresentanze degli ordini. Oltre alle assemblee degli ordini e alle cancellerie si staccarono dalla corte anche i tribunali supremi, che da allora in poi amministrarono il diritto al posto del sovrano. Questo processo è legato alla progressiva professionalizzazione dei giuristi in base al diritto romano e al common law inglese. Inoltre, quasi ovunque vennero create delle autorità finanziarie centrali e, i paesi maggiori, anche delle autorità militari. Gli affari politici, e soprattutto la politica estera, considerata il principale ambito di competenza del monarca, erano riservate ad un organo collegiale ristretto: solo in rari casi i titolari delle vecchie cariche del regno entrarono a far parte di questo nuovo centro di potere. Il cancelliere in Francia era finito in secondo piano dal punto di vista politico ed era stato sostituito dai segretari di Stato. In Spagna in Francia, i segretari di stato ebbero un ruolo strategico nel sistema di dominio, e in Inghilterra e nella curia romana divennero addirittura personaggi chiave. In Germania, ci si limitò ad un sistema di collegi che nel ‘500 e ‘600 fu considerato la quintessenza di un'amministrazione centrale efficiente. In Spagna, sotto il consiglio di stato agivano dei consigli sopra territoriali organizzati per materia. In Inghilterra, la rivoluzione era iniziata facendo assumere ai collegi pieni poteri nei compiti degli uffici del re. Tutti questi collegi comprendevano prevalentemente consiglieri di formazione giuridica: ai livelli superiori ne facevano parte nobili appartenenti all'aristocrazia di nascita o di ufficio. Originariamente alla corte e consiglieri risiedevano soprattutto nobili, sebbene si registrasse anche la presenza di esponenti del clero, esperti di scrittura. Sia gli uni sia gli altri, avevano generalmente una base di sostentamento autonoma, al di fuori della corte. Servivano il re anche giuristi esperti di diritto romano, provenienti invece perlopiù dalle elite urbane. Servire il sovrano offriva la possibilità di ascesa sociale e pertanto essi erano molto più dipendenti dal re. Tuttavia, ben presto anche gli aristocratici iniziarono a studiare diritto, riconquistando così la posizione perduta. All'inizio una monarca governava personalmente con l'aiuto dei suoi consiglieri. Ciò fu possibile fin quando i compiti rimasero limitati. Tuttavia, con lo sviluppo del potere dell'apparato statale, questo sistema divenne sempre più inattuabile. Salvo eccezioni, come Filippo II di Spagna, Luigi XIV di Francia e Federico II di Russia, i monarchi d'Europa non erano all'altezza di questi nuovi compiti. La soluzione intermedia a cui si giunse nella maggior parte dei paesi, fu quella del primo ministro favorito, che guidava tutta l'attività di governo per conto del sovrano in virtù della sua fiducia personale. Richelieu in Francia, Lerma e Olivares Spagna, Backingam in Inghilterra, furono nel seicento i più noti esponenti di questa categoria. Il concetto moderno di rappresentanza si affermò solo quando, accanto ai membri per nascita, crebbe l'importanza del ruolo dei delegati eletti dalle corporazioni. Tuttavia, per molto tempo anche questi agirono esclusivamente in base ad un mandato imperativo. Quando si discutevano questioni su cui non avevano ricevuto istruzioni, essi erano costretti a interpellare i propri rappresentanti. L'origine delle assemblee degli stati va cercata in crisi di potere militari o dinastiche che si potevano superare solo con l'approvazione di un aiuto in denaro, ossia di una tassa. Poiché si trattava di iniziative del monarca, era quest'ultimo a convocarle. L'autoconvocazione era un fatto eccezionale, che spesso significava già di per sé rivoluzione. Considerare i parlamenti moderni come discendenti delle tre moderni assemblee degli ordini è giustificato solo in Inghilterra in Svezia. Altrove è un falso storico. Inoltre, il pluralismo degli ordini non era che uno schermo dietro al quale si celava la costante supremazia della nobiltà. Molti esponenti del clero erano infatti di origini aristocratiche e i delegati delle città provenivano dalla nobiltà cittadina, cui almeno una parte dell’aristocrazia accettava di essere equiparata. Le procedure delle assemblee degli ordini si richiamavano alla processo di diritto romano. Di solito gli ordini presentavano, come accadde prima della rivoluzione francese, delle lagnanze a cui chiedevano di porre riparo, come condizione per approvare nuove tasse. I monarchi potevano cercare di ottenere un'approvazione di lungo periodo delle tasse, o, se abbastanza forti, continuare a riscuotere le tasse a suo tempo approvato senza richiederne una nuova approvazione. Nel 17º secolo in tutta Europa vi fu una sorta di moria degli ordini, che tuttavia non portò alla loro totale scomparsa. Nel frattempo la monarchia aveva preso il sopravvento ovunque, salvo che in Inghilterra, Svezia, Polonia e forse Ungheria. La crescita del potere statale promosso dal monarca aveva provocato violenti conflitti, in quanto politicamente innovativa, aveva creato contrasti con il conservatorismo dell'aristocrazia del popolo. Le migliaia di rivolte popolari verificatesi tra il 14º e il 19º secolo, per quanto portassero miglioramenti in alcuni casi, non condizionarono molto l'evoluzione politica. Chiesa e stato - Nella politica occidentale, al potere dello stato moderno emergente si contrapponevano le aspirazioni di autonomia non solo dell'aristocrazia e dei comuni, ma anche della chiesa di Roma, la quale arrivò persino a porsi in concorrenza con i fondatori di regni secolari. La riforma ecclesiastica dell'XI secolo diede vita ad una lotta vittoriosa per la libertà della Chiesa, opponendosi prima alla nomina delle cariche religiose da parte del potere secolare, la c.d. lotta per le investiture, poi alla giurisdizione secolare su persone e beni facenti parte della chiesa e infine alla tassazione del clero, la c.d. lotta per le immunità. Questi privilegi spinsero diverse persone ad entrare nei ranghi del clero e produssero ostilità e conflitti. Il dualismo occidentale tra sfera religiosa e secolare portò nella prassi non già ad una netta divisione delle due sfere ma, al contrario, alla loro intreccio dialettico. Da un lato, la chiesa cercava di superare il mondo e giungere al regno di Dio, cercando però a tal fine di affermare il dominio indiretto sul mondo; dall'altro lato, i sovrani secolari cercavano di mantenere un potere indipendente dalla tutela ecclesiastica, ma per raggiungere questo obiettivo dovevano far leva sulla sacralità della loro posizione, assicurandosi il controllo sulla Chiesa nel proprio territorio. Tra il 1073 e il 1303 i papi Gregorio VII, Innocenzo III, Innocenzo IV e Bonifacio VIII invocarono una pretesa di supremazia universale basata su motivazioni teologiche: essi sostenevano di aver ricevuto i due poteri da Dio. La svolta a favore dei nascenti poteri statali si ebbe con il grande scisma del 1378-1417, quando vi furono persino tre papi in concorrenza tra loro. I sovrani europei riuscirono ad assicurarsi, attraverso accordi, con concili e pontefici, notevoli diritti di controllo sulle rispettive. Il placet per i provvedimenti papali divenne obbligatorio, fu consentito il ricorso ai tribunali secolari contro sentenze ecclesiastiche, i benefici ecclesiastici dovettero essere assegnati su proposta del principe e assoggettati alla tassazione. Infine, le autorità temporali si arroccarono il diritto di riformare o sopprimere chiese e conventi. La legittimità della progressiva subordinazione della chiesa allo stato ricevette da Martini Lutero una spinta improvvisa, ma decisiva. La giustificazione ex sola fidei rese superfluo l'apparato ecclesiastico di intermediazione professionale della salvezza: il clero e i suoi beni avevano perso la propria giustificazione. La riduzione della chiesa portò tuttavia la rivoluzione. Fu per questo che, dal 1525 in poi, i principi tedeschi presero in mano la situazione con il beneplacito dei riformatori, rilevando i beni e i compiti della chiesa, e creando chiese evangeliche territoriali. La chiesa cessò di esistere come istituzione indipendente. In alcuni casi la chiesa divenne un ramo della burocrazia, poiché il suo personale, sempre più professionalizzato, era strettamente collegato alla classe emergente dei giuristi di stato. Nella maggior parte dei paesi europei, i titolari del potere temporale e il potere religioso collaboravano per trasformare i sudditi in membri ortodossi e disciplinati alla rispettiva Chiesa. I metodi utilizzati erano molto simili tra di loro: professione di fede standardizzata, propaganda, censura, cacciata di chi professava altri credi, sviluppo dell'istruzione, partecipazione alla messa. Questa cosiddetta confessionalizzazione, fu estremamente efficace e ha contribuito alla modernizzazione dell'Europa, attraverso l'istruzione e la disciplina dei sudditi dello stato emergente. Il consenso religioso di fondo contribuì alla formazione di un'identità politica e di una religione di Stato. In secondo luogo, la monarchia si appropriava di risorse della chiesa. In terzo luogo, l'imposizione ai sudditi di una disciplina religiosa premoderna costituì una base per l'affermazione della disciplina moderna attraverso la scuola, l'esercito, l'ufficio e la fabbrica. La parità delle confessioni, stabilita in Germania prima con la pace religiosa di Augusta del 1555 e poi, definitivamente, con la pace di Westfalia del 1648, valeva solo al livello degli stati dell’impero. Al livello territoriale essa portava quasi sempre con sé la costrizione religiosa. Anche quando, con l’Illuminismo, la tolleranza si radicalizzò in uno scetticismo generale verso qualsiasi pretesa di verità assoluta, il carattere confessionale della maggior parte della collettività sopravvisse. E là dove, alla fine del XVIII o durante il XIX secolo, fu concessa libertà di fede e di coscienza, essa valeva solo a livello individuale. Diritto e giustizia - A differenza dell'odierno monopolio statale del diritto, il diritto arcaico aveva principalmente a che fare con la religione e con la morale, ed era collegato ad istanze politiche soltanto nella misura in cui essi avevano il potere giurisdizionale. Tale diritto era personale, concreto, strettamente legato alla forza fisica e contemplava anche la vendetta sanguinosa. La pena serviva al necessario ripristino dell'ordine del mondo alterato. Senza coercizione statale, la giustizia dipendeva dalla cooperazione, volontario o meno, delle parti. Per questo era molto grave disattendere una chiamata in giudizio(c.d. contumacia).Tuttavia, le parti arcaiche non erano spinte davanti al giudice dalla paura dei propri avversari e dalla pressione della comunità, quanto dal timore per le conseguenze dell’alterazione dell’ordine del mondo. La giurisprudenza era orale e consisteva nell'accordo della comunità giudicante su di una norma giuridica. Inoltre, vi erano dodici giurati esperti del diritto che non decidevano la propria descrizione, ma in base alla loro conoscenza delle consuetudini. Era richiesta l'unanimità della comunità giudicante. La giustizia arcaica si basava su di una rigida formalizzazione. I membri del tribunale dovevano incontrarsi nel posto giusto al momento giusto compiendo i giusti passi, per scongiurare il sospetto che l'atto giuridico non fosse valido. La legittimazione attraverso la procedura aveva importanza decisiva nella giustizia arcaica. Sul piano materiale, il diritto arcaico era estremamente ricco di varianti, era regionale, locale e alcune volte persino individuale. Esso consisteva in decisioni su casi specifici e si sviluppava ulteriormente in base ad esse. Le leggi, anche se esistevano, avevano importanza secondaria e fino al XVIII secolo queste erano redatte in relazione a casi singoli che richiedevano di essere regolamentati. Dall'XI al XIII secolo il diritto visse un periodo di rivoluzionario cambiamento: esso si professionalizzato e iniziò a svincolarsi da quel radicamento nella morale e nella fede, e a sottoporsi all'esame razionale della scienza giuridica nascente. A determinare questa evoluzione furono tre fattori: in primo luogo, l'emergere di forti poteri centrali; in secondo luogo, lo sviluppo, promosso da tali poteri, di un ceto professionale di giuristi che a lungo andare avrebbe conquistato una posizione di monopolio; in terzo luogo, l'attività delle scuole giuridiche che formavano questo personale con la sua nuova mentalità. Solo la corona inglese, grazie al suo potere centrale unico, creò un diritto unitario in tutto il paese basato sul fondamento arcaico della common law. Nel resto d'Europa, l'elemento determinante fu la riscoperta delle raccolte del diritto, insieme allo sviluppo del diritto ecclesiastico di impronta romana. Contrariamente al caso dello sviluppo del diritto sulla base di singoli casi, si rendeva ora disponibile un'enorme corpus giuridico avente valore di canone che richiedeva interpretazione e, in tal modo, generava un nuovo tipo di pensiero giuridico. Solo nel Cinquecento e Seicento divenne accettabile l'idea di una tassazione permanente finalizzata alla mera copertura del fabbisogno quotidiano. L’approvazione dei tributi da parte degli stati in rappresentanza dei sudditi era necessaria e talvolta difficile da ottenere, ma a lungo andare aveva un effetto stabilizzante. Tuttavia, nella maggior parte dei paesi ciò tendeva a creare un’abitudine alla regolare riscossione di imposte e, soprattutto nel Seicento, consentì di relegare in secondo piano gli ordini mediante l’appello al bene comune e alla necessità. Molto spesso a pagare le imposte approvate dalle assemblee degli ordini non era chi ne faceva parte e in molti casi il clero e l'aristocrazia godevano in teoria di un'esenzione fiscale; in pratica questo privilegio era spesso disatteso dai monarchi. Infatti, per mantenere un umore fiscale positivo è necessario che chi è soggetto a tassazione la ritenga ragionevole, trasparente ed equa. L'approvazione delle imposte da parte del Parlamento e la mancanza di privilegi fiscali portarono gli inglesi a protestare poco per un carico fiscale maggiore di quello che gravava sui francesi, mentre in Francia, un carico fiscale minore provocò conflitti. A differenza che in altri paesi, in Inghilterra la classe politica era assoggettata al fisco come tutto il resto del paese, ma ne approfittava con il potere di definire la distribuzione locale delle imposte. Inoltre, l'Inghilterra preferiva ricorrere alle imposte indirette, meno appariscenti, che andavano direttamente a vantaggio dello Stato e non degli odiati appaltatori fiscali. Tale imposte si applicavano inoltre alla produzione e non al consumo, con conseguenti ripercussioni sui prezzi che erano più difficile da avvertire come le tasse. E’ vero che forme di imposizione progressiva miranti a far pagare ai ricchi più che ai poveri furono sperimentate fin dal XV secolo, sebbene il concetto di progressività fiscale comparisse solo nel 1767. Ma i ricchi e i potenti sapevano come eludere una tassazione rigorosa e come trasformare in regressivo un sistema progressivo, facendo sì che il carico fiscale incida in misura meno che proporzionale man mano che si sale nella scala della ricchezza. Possibilità in tal senso scaturiscono, a causa di vincoli tecnici o per la stessa intenzione politica, dal ricorso a diversi tipi di tassazione. Oltre alle imposte dirette e indirette, si può distinguere tra le imposte di cui viene stabilito l'ammontare della tassa per soggetto o oggetto della tassazione, e da ciò consegue il gettito totale, da quelle di cui si stabiliva prima il gettito totale, che veniva distribuito nei vari distretti. In questo secondo caso si faceva riferimento, per la ripartizione, ai titolari di cariche autonomie locali chiamandoli a rispondere personalmente delle cifre mancanti. In origine per introdurre una simile tassazione occorreva chiedere quasi ovunque l'approvazione delle assemblee degli ordini. La tassazione dei generi alimentari era redditizia ma anche foriera di disordini, poiché incideva sulla sussistenza della popolazione. Le imposte dirette venivano pagate sulla raccolto agricolo o in base ad altri criteri difficili da eludere. L'accertamento e l'adeguata tassazione dei patrimoni in denaro era pressoché impossibile. Perciò spesso, soprattutto se ricchi, il fisco si accontentava di un pagamento forfettario su base volontaria. In caso di fabbisogno militare, le imposte dirette erano lo strumento fiscale più flessibile, anche se poteva trascorrere anche più di un anno prima di ricevere il gettito di un'imposta già approvata. In questo senso, l'economia monetaria e il capitalismo furono condizioni necessarie per l'ascesa dello stato moderno. I prìncipi potevano contrarre prestiti a breve termine presso finanzieri del loro paese o sulle principali piazze finanziarie internazionali. Inizialmente, dato il rischio, i tassi di interesse erano esorbitanti. Per molto tempo, infatti, i principi assunsero solo responsabilità personali e il loro successore poteva rifiutare di assumerne i debiti. Il debito di Stato si sviluppò, tuttavia, sottobanco man mano che acquisì importanza sempre maggiore la concessione di crediti a fronte di vendite, che potevano essere temporanee, vitalizie a beneficio dell'acquirente o perpetua. Anche la venalità degli incarichi era una forma di credito di questo tipo. Nonostante ciò, le crisi di liquidità a sud entravano ogni volta che un sovrano indebitato non era in grado di pagare. È significativo che nel cinquecento e seicento fossero particolarmente numerose le bancarotte stato, coinvolgendo grandi potenze come Francia e Spagna. L’insolvenza poteva provocare ribellioni, come la Fronda del 1648, ma anche indurre alla pace per esaurimento delle risorse necessarie alla guerra, come avvenne nel 1559 a Cateau-Cambresis, nel 1598 a Vervins e probabilmente nel 1648 a Munster e Osnabruck. Tuttavia, nella maggior parte dei casi, il peso del debito veniva alleggerito mediante conversioni forzose ai adeguato, anche perché ci si attendeva che un diplomatico desse lustro al suo signore in virtù dei modi e dello sfarzo. Per un diplomatico la tutela quotidiana degli interessi del suo sovrano consisteva soprattutto nel procurare informazioni, attraverso una regolare corrispondenza talvolta cifrata. La diplomazia deve la propria nascita al fatto, verificatosi solo in Europa, che l'instabilità divenne una caratteristica permanente delle relazioni fra gli Stati. Il classico sistema delle potenze europee funzionava come un mercato: si trattava per la precisione di un mercato delle potenze in cui prevaleva una forte concorrenza. Le guerre potevano scoppiare quando gli incidenti dinastici risvegliavano gli appetiti in un sovrano ambizioso. Una guerra preventiva per impedire alterazioni dell'equilibrio era considerata giusta. Poiché la pressione dei costi di guerra era pesante, spesso fin dall'inizio si sondava il terreno per arrivare ad una pace attraverso mediazioni: la diplomazia aveva progressivamente trasformato la stipula di una pace in un'arte complessa. Più tardi s'inizia negoziare le condizioni di pace convocando dei congressi multilaterali. Questi divennero anche un sistema efficace per prevenire la guerra. Accadeva spesso che i mercanteggiamento tra le grandi potenze in basi ai princìpi della convenienza e della compensazione si concludessero a danno di terzi. Generalmente l'esistenza di Stati più deboli per motivi di equilibrio non era in pericolo, anche se, all'occorrenza le grandi potenze non facevano complimenti: essi si spartirono ad esempio la Polonia, che nel 1795 scomparve dalle carte geografiche. Con ciò veniva forse violato il diritto internazionale? Dipende da cosa si intende per questo termine. Secondo la tradizione antica, erano considerati diritto internazionale i princìpi giuridici validi per tutti i popoli. In questa accezione il diritto internazionale concedeva quasi sempre con il diritto naturale. Questo diritto internazionale mancava, però, con le caratteristiche essenziali e decisive del diritto, e cioè un legislatore, un giudice e un potere coercitivo riconosciuti da tutti. Per questo Hobbes e Locke negavano l'esistenza del diritto internazionale: tra tutti gli Stati emergenti vigeva lo stato di natura della guerra, di tutto contro tutti. 3. Ancien régime, rivoluzione, ideologia La scelta dello stato moderno è avvenuto in modo tutt'altro che continuo. Ci sono state crisi e battute d'arresto, ritmi differenti nei vari paesi e nei vari campi, ma anche accelerazioni drammatiche. L'ondata di sviluppo politico di gran lunga più importante è stata la rivoluzione francese. Ai essa in passato gli storici di ispirazione marxista hanno attribuito il totale cambiamento dell'economia e della società e della cultura, anche se ben presto emerse che diverse innovazioni dell'epoca rivoluzionaria si fondavano sull'antico regime: l'accentramento statale, la formazione tecnica militare, la modernizzazione della burocrazia e il controllo dello Stato sulla Chiesa. Ma non poteva essere altrimenti poiché la rivoluzione, se in superficie fu una cruenta frattura con il passato, nella sua struttura profonda non fu altro che una possente ondata di sviluppo del potere statale. Verso la fine dell'antico regime importanti paesi europei presentavano già caratteristiche elementari dello stato moderno indicate da Jellinek e Weber. Sotto le sembianze della monarchia e dei suoi uffici dominava il potere statale centralistico. La sua sovranità non era più in discussione ed esso, grazie ad un più forte controllo degli strumenti di potere e alla statalizzazione delle forze armate, aveva completamente monopolizzato l'impiego della forza verso l'esterno e in larga misura anche all'interno. Per la popolazione era ormai più importante l'appartenenza all'unità dei sudditi che il possesso dei diritti speciali di ceto. Anche il territorio era di fatto in gran parte unificato. I confini esterni avevano acquisito una capacità divisoria più netta e fu la rivoluzione a fare l'ultimo passo: l'abolizione della Società degli ordini significava l'inizio della modernizzazione sociale dell'Europa, che si sarebbe compiuta solo con l'equiparazione dei diritti dell'uomo e della donna. La persona non entrava più in contatto con il potere statale in modo indiretto, in quanto membro di una famiglia o una corporazione, ma direttamente in quanto individuo. In tal modo divenne possibile estendere l'idea di nazione politica da pochi privilegiati all'intero popolo. Qui nacque la figura del cittadino, che abbracciava ormai tutta la popolazione, mentre fino ad allora era stata impiegata solo in riferimento alle città. Il rapporto diretto dell'individuo con lo Stato comportava anche l'accesso diretto agli individui da parte del potere statale, e concretamente la sostituzione di tutti i poteri intermedi con un’amministrazione statale riorganizzata che poteva includere anche l’ultimo suddito. L'autogoverno municipale si ridusse progressivamente alla gestione di compiti amministrativi per conto dello Stato, e il dominio locale dell'aristocrazia scomparve del tutto. L'Austria e la Russia furono all'avanguardia in Europa nell'istituire una moderna burocrazia composta da funzionari di professione e fondata sull'applicazione coerente dei seguenti principi: servire lo Stato anziché personalmente in principe; assicurare l'uguaglianza di tutti cittadini nell'accesso alle cariche; introdurre requisiti più rigorosi di professionalità e di efficienza dei funzionari; unificare a livello nazionale la gerarchia e la retribuzione dei funzionari, e le procedure amministrative. La limitazione della monarchia attraverso il costituzionalismo parlamentare e la sua sostituzione con una repubblica democratica sono solo all'apparenza riduzioni del potere dello Stato in favore dei cittadini. In realtà queste rappresentano un accrescimento di quel potere. Che il cittadino si identifichi con lo Stato, fin ad essere disposto, in determinati casi, a sacrificarsi, non si deve tanto all'ideologia della partecipazione democratica ma all'ideologia del nazionalismo, affermatosi per la prima volta con la rivoluzione francese. Di ciò si avvantaggiò il potere statale che, presentandosi come nazione all'opera, poté avanzare nuove pretese nei confronti del cittadino, fino ad allora inimmaginabili. Dallo stato di potenza allo stato totale - La menzogna di fondo del nazionalismo è l'idea secondo cui le nazioni sarebbero strutture naturali che esistevano da sempre. Le nazioni in realtà sono costrutti riconducibili ad origini, a una lingua, a una religione e a un territorio, ma soprattutto ad una storia in comune, con tutti i sentimenti che ne derivano. Una nazione è tenuta insieme dalla volontà di proseguire questa storica comunità solidale. Il nazionalismo è quindi un sistema simbolico che rende un gruppo di uomini consapevoli della propria affinità, attribuisce ad essa particolare valore ed unisce i suoi membri limitandoli rispetto al contesto in cui si trovano. Il nazionalismo integrale è caratterizzato dal fatto di considerare la nazione un valore supremo e il senso ultimo: il nazionalismo diviene così una religione. La rivoluzione francese eresse altari della patria e il martire cristiano venne sostituito dal martire nazionale o dal soldato caduto. La nazione intesa come comunità dei vivi, dei morti e dei nascituri, sostituì la Chiesa come entità trascendente profana. Su questo carattere religioso si basa l'enorme capacità del nazionalismo di mobilitare le emozioni in un modo comparabile solo a quello della religione. Nazionalismo e religione tradizionale possono però anche convergere, soprattutto quando la religione costituisce uno strumento per differenziarsi da altri gruppi. Fu questo il ruolo svolto dal protestantesimo in Gran Bretagna e il cattolicesimo in Spagna. Oggi non vi sono più tracce delle religioni di stato cattoliche neppure in Italia e in Spagna, mentre un protestantesimo di Stato esiste ancora in Inghilterra e in Scandinavia, in cui vi furono vicende meno drammatiche rispetto ad altri paesi. La Chiesa nazionale, insieme alla monarchia nazionale, fu la base di stati-nazione europee come Inghilterra, Francia o Castiglia. In Germania o in Italia, dove non esisteva uno stato comune, le nazioni sorsero in un periodo successivo e furono contrassegnate da una particolare instabilità emotiva. In questi casi allo Stato nazionale toccò una funzione chiave ai fini dell'integrazione nazionale. Anche le cosiddette culture-nazione emerse soprattutto nell'Europa orientale e sud-orientale non chiedevano di meglio che diventare stati-nazione. Il movimento nazionale seguì un modello comune. Per prima cosa, un piccolo numero di intellettuali elaborava le conoscenze fondamentali sulla cultura nazionale. Su questa base poi, gli intellettuali politicamente impegnati promuovevano l'agitazione nazionalistica, che sfociava infine in un movimento nazionale di massa. Nella maggior parte degli stati post-coloniali non esisteva alcuna cultura e storia comuni. L'unico denominatore comune era l’ex dominazione coloniale, che aveva dato vita quel territorio costringendo popolazioni eterogenee ad unirsi. Solo attraverso una lotta comune contro i colonizzatori, i colonizzati hanno potuto fondersi in un'unica nazione, separandosi da coloro che fino ad allora li avevano dominati. Il risultato di questa formazione violenta della nazione si è rivelato però spesso estremamente fragile. Tale espansione non si basava più sulla necessità di risolvere problemi contingenti, ma su vasti progetti di politica sociale volti ad assicurare a tutti cittadini un minimo di sussistenza dignitosa e a ricostruire in senso egualitario la società attraverso lo Stato. Dietro tutto questo c'era l'idea di John Maynard Keynes secondo cui un elevato standard di servizi sociali avrebbe contribuito a stabilizzare il potere di acquisto, producendo effetti importantissimi dal punto di vista della politica generale. In questo contesto rientra anche l'espansione, promossa dallo Stato, del sistema dell'istruzione, che raggiunse il culmine nello stesso periodo. Alcune monarchie illuminate, come Austria e Prussia, avevano già avviato nel XVIII secolo la riforma delle scuole universitarie e introdotto l'obbligo scolastico universale. Ma fu solo nel secondo dopoguerra che si impose ovunque il monopolio statale dell'istruzione. Stato totale - Particolare scandalo ha suscitato la constatazione secondo cui lo Stato interventista e sociale maturo è una variante morbida dello Stato totale. Lo Stato interventista e sociale moderno, indipendentemente dal suo carattere relativamente pacifico e legittimo, e sebbene il suo intervento morbido passi più inosservato di quello duro dei totalitarismi, rappresenta solo uno stadio finale, totale, del potere statale. Qualsiasi cosa l'uomo moderno faccia oppure aumenti di fare si scontra inevitabilmente contro la competenza del potere statale. È vero che il fine ufficiale degli interventi statali è il bene dei cittadini, ma in caso di conflitto la pretesa di servire il bene comune si rivela spesso una semplice vernice ideologica che copre l'autoreferenzialità del potere statale. Il massimo accrescimento possibile della partecipazione politica attraverso la democrazia, e dell'identificazione dei cittadini con lo Stato come nazione, è al tempo stesso la via verso il massimo accrescimento possibile del potere statale verso lo Stato totale. Il risultato è la completa politicizzazione degli ambiti di vita. In Europa, la massima realizzazione di questo Stato totale si è avuta nella Germania nazionalsocialista. Paradossalmente questo Stato totale si è basato sulla negazione teorica dello Stato. Secondo i movimenti totalitari che gli diedero vita, lo Stato sarebbe anzi dovuto diventare superfluo. Di qui un dualismo ricco di tensione fra il partito e l'apparato statale. Se lo Stato moderno in generale si fonda su finzioni e miti come quelli della sovranità popolare e della nazione, non sorprende che le sue varianti totali si siano fondati su miti storici pseudo-scientifici, inculcati dall'educazione ma in realtà internazionali come la razza o il capo carismatico o la classe o l'infallibilità del partito. Lo Stato totale ha bisogno del nemico totale, e all'occorrenza della guerra totale: come fece il razzismo nazionalsocialista con gli ebrei. L'identificazione totale con lo Stato non lasciava spazio ad altri legami, nemmeno a quelli familiari. L'ideologia totalitaria in quanto religione politica non tollerava neanche la concorrenza della religione: le chiese e le altre comunità di fede vennero perseguitate o quanto meno emarginate. Lo scopo di tutti i totalitarismi non era una nuova società o un nuovo mondo, ma un uomo nuovo. Sistema delle potenze e espansione europea - A partire dalla guerra di Crimea del 1854 si verificarono notevoli cambiamenti nel concerto europeo: l'unificazione della Germania e dell'Italia nel 1871 portò con sé la aumento del potere della Prussia e l'emergere di un sesto aspirante al ruolo di grande potenza. Inoltre, il sistema delle potenze assunse dimensioni mondiali e si fecero avanti i nuovi partecipanti extraeuropei. Nelle collettività coloniali d'oltreoceano furono attuate delle concezioni politiche che nella madrepatria non sarebbero state realizzabili con altrettanta coerenza. Il conflitto tra le due potenze mondiali, Gran Bretagna e Francia, fu combattuto su scala planetaria fin dalla guerra dei 7 anni. La sconfitta della Francia il indipendenza delle colonie americane crearono una nuova situazione in cui il commercio mondiale e il controllo dei mari furono per un breve periodo appannaggio esclusivo della Gran Bretagna. Tuttavia queste rivalità politiche su scala mondiale furono affrontate con logiche di equilibrio tra le potenze, ma ciò non valse a risolverle. A esse si aggiunsero le nuove ambizioni coloniali dell'impero tedesco e dell'Italia, ai cui occhi la dottrina dell'equilibrio appariva uno strumento per garantire l'egemonia britannica. Tra la fine dell'Ottocento all'inizio del Novecento, nella cosiddetta età dell'imperialismo, queste potenze si spartirono il pianeta. Il risultato fu che in ogni parte del mondo ci si dovette adattare alla cultura, all'economia, alla società e allo 2. Democrazia negoziale e smantellamento dello stato sociale Le rivendicazioni di partecipazione democratica hanno condotto alla trasformazione dello stato in democrazia degli interessi. Da molto tempo fare politica significa negoziare con raggruppamenti all’interno dei partiti, e in particolare con organizzazioni della società, a essi collegate, dotate di un ampio diritto di condizionamento delle azioni politiche. La conseguenza è il venir meno della capacità autonoma di organizzazione dello stato, la sua riduzione a mero coordinamento negativo attraverso una sorta di auto- organizzazione della società e dell’economia di mercato. Lo stato sociale democratico è diventato uno stato debole dal punto di vista dei suoi spazi di manovra. Chi detiene il potere statale vuole rimanere in sella e deve riconquistare il favore degli elettori, da cui conseguono regali per fini elettorali. Se le entrate fiscali non bastano, le spese vengono finanziate a credito. In questa situazione, lo stato sociale nella sua forma tradizionale è finito e può essere sostituito solo da un livello minimo di sistema previdenziale abbinato a rendimenti individuali coperti da capitale. In modo spettacolare ma altrettanto pieno di conseguenze lo stato perde risorse e sovranità a causa della massiccia fuga dei cittadini nella sfera della c.d. “economia sommersa”. In questo mercato essi producono e consumano beni di per sé legali, aggirando però le normative statali, soprattutto quelle fiscali, previdenziali e amministrative. A causa di questo fenomeno e delle politiche delle imprese, lo stato, nonostante la crescita dell’economia e i livelli senza precedenti della media dei cittadini, perde entrate considerevoli. Ma anch’esso pone in pratica, attraverso bilanci ombra e privatizzazioni fittizie, una sua forma di economia sommersa. L’eccesso di stato in Europa produce fenomeni simili alla carenza di stato nelle ex colonie. 3. Dalla decolonizzazione alla disgregazione dello stato La terza ondata della decolonizzazione avvenuta dal 1945 al 1975 condusse all’indipendenza politica di quasi tutte le colonie in Africa, Asia, nei Caraibi e nel Pacifico, che cercarono tutte di costituirsi come stati nazionali moderni, pur essendo in gran parte prodotti della dominazione coloniale. A fronte del carattere artificiale di molte di queste entità la formazione dello stato ha spesso dovuto precedere quello della nazione. Anche in questo caso, come in Europa, il tempo fu un fattore determinante. India, Filippine e Indonesia ebbero almeno un secolo per svilupparsi come entità politiche. Al contrario, la maggior parte degli africani aveva vissuto sotto il dominio coloniale per cinquant’anni e quando quel regime ebbe termine essi non ebbero molto tempo per familiarizzare con lo stato moderno e la democrazia. Di conseguenza, le élites d’impronta occidentale che hanno gestito il processo di formazione dello stato e della nazione hanno potuto anche concepire il nuovo stato come un moderno stato interventista e sociale, e produrre carte costituzionali e codici legislativi che, sul piano teorico, sono tra i migliori al mondo. Tuttavia, essi non potevano realizzare concretamente questi progetti nel modo consueto in Europa. Un ruolo decisivo in tal senso hanno avuto l’eredità frettolosamente trasmessa di un dominio coloniale caratterizzato dal sottosviluppo dello stato, il fatto che le istituzioni e le funzioni di uno stato moderno non potessero essere date per scontate e l’assenza di modelli di comportamento politico consolidati nella maggioranza della popolazione. Nel frattempo però, in vaste zone dell’Africa si è affermato un “parastato”, un “dominio degli intermediari” che avocano a sé parte della sovranità e dei compiti essenziali del potere statale. Nell’Africa occidentale tali intermediari sono sia le c.d. “organizzazioni non governative” (ONG), sia capi tribali più o meno legati alla tradizione. Le ONG tuttavia sono delle organizzazioni estero di cooperazione allo sviluppo che operano sotto la tutela della Banca mondiale e del Fondo Monetario Internazionale, e devono a volta accettare interventi di organizzazioni interstatali come l’ONU, la NATO o l’OUA (Organizzazione dell’unità africana). La comunità internazionale assicura loro indipendenza formale, sebbene in ultima analisi si tratti di una nuova forma di imperialismo collettivo delle principali potenze, di un nuovo tipo di Empire cui si attribuisce ogni sorta di effetti salvifici per i popoli interessati e per la pace mondiale. 4. Internazionalizzazione e globalizzazione Dalla perdita di sovranità verso l’esterno viene colpita anche la maggior parte degli stati occidentali da tempo costituiti, anche se tale perdita viene sancita nella maggior parte dei casi per mezzo di trattati. Uno stato come la Germania oggi è integrato in numerose organizzazioni internazionali. Simili istituzioni si fondano generalmente su trattati di diritto internazionale che impongono agli stati partner degli obblighi, anche finanziari. Essi devono rispettarne gli Statuti, le prescrizioni e i divieti. In teoria tutto ciò intacca la sovranità degli stati membri, in quanto questa è la base dei trattati internazionali. In realtà, lo spazio di manovra degli stati in politica estera viene notevolmente ridotto dall’eccezionale densità degli impegni che essi hanno sottoscritto con i trattati. Basti pensare all’Unione Europea, che da tempo non è più una semplice confederazione di stati, ma non è nemmeno uno stato federale, sebbene una tendenza in tal senso fosse presente fin dall’inizio e non si è certo esaurita. Tuttavia, il carattere statuale dell’Unione Europea rimane frammentato. Le prerogative del Parlamento sono limitate, e le decisioni generali del consiglio europeo dei capi di stato e di governo nei rispettivi ambiti di competenza prevalgono su quelle della Commissione. Per questo e altri motivi, l’Unione risente di un notevole deficit di democrazia e di stato sociale. Non si vuole che esista una sovranità popolare europea, ma tutt’al più una “sovranità dei popoli” europei. 5. Lo stato ha ancora un futuro? Lo stato moderno, sviluppatosi nel corso dei secoli di storia europea e diffusosi nel mondo attraverso l’espansione dell’Europa, ha già cessato di esistere. Ad aver perso validità è soprattutto il criterio della modernità tout court: l’unità, a suo tempo conquistata dall’ancien régime, tra il popolo e il potere statale, tra il territorio e la sovranità dello stato. Il monopolio del potere statale si è dissolto in favore di istanze intermedie e raggruppamenti sub-statali. Di conseguenza, la politica statale non è più in grado di creare alcunché, né di risolvere alcun problema: essa può solo arrabbattarsi alla meglio. All’evento politico reale subentra l’evento messo in scena: la politica diventa uno sport da spettatori, le elezioni si riducono a misurazione dell’intensità dell’applauso. Anziché uno stato centralizzato, sembra si stia sviluppando una collettività con numerose istanze intermedie: un “nuovo medioevo” privo tuttavia, a differenza del precedente, di idee valoriali in comune. La società come totalità è priva di volontà comune ed è tenuta a malapena insieme da ciò che resta del potere statale o da interessi economici. La volontà generale su cui si regge lo stato ha abdicato in favore di identità di gruppo in concorrenza tra loro: i gruppi si incontrano ormai solo sul mercato. È prevedibile chela generale sovra-offerta di forza lavoro in una situazione di capitalismo priva di controllo crei in tutto il mondo una società polarizzata in modo nuovo. Una parte della popolazione, dotata delle qualifiche richieste in un determinato momento, vivrà nella ricchezza e nel lusso, mentre agli altri rimarrà la scelta tra il lavoro salariato sottopagato e privo di garanzie, che si diffonde sistematicamente, e la disoccupazione: non necessariamente la miseria, ma una gran frustrazione. C’è chi guarda lontano nelle sue analisi strategiche e si prepara già ai nuovi conflitti prodotti dal “pianeta degli slum”. La rovina dell’agricoltura dei paesi poveri porta infatti un numero sempre maggiore di persone ad affluire nei ghetti delle megalopoli, e dunque le forze salvifiche inizialmente proclamate con successo dai liberali non trovano i territori e le nicchie di mercato di cui hanno bisogno. In questa situazione, ai dominatori del pianeta non mancano certo le tecnologie repressive, ma gli emarginati hanno dalla loro parte “gli dèi del caos” (Mike Davies).
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