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Riassunto Storia Medievale, di Luigi Provero e Massimo Vallerani, Sintesi del corso di Storia Medievale

Descrizione del manuale di Storia Medievale in uso nel corso di studi di Storia (L-42) all'Università Degli Studi di Milano.

Tipologia: Sintesi del corso

2019/2020

Caricato il 06/01/2020

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Scarica Riassunto Storia Medievale, di Luigi Provero e Massimo Vallerani e più Sintesi del corso in PDF di Storia Medievale solo su Docsity! Storia Medievale parti su libro: pp 215-224 Cap. 1 diverse chiavi di lettura degli ultimi anni dell'Impero Romano (Tardo-antico) inteso come periodo storico a sé stante e con sue caratteristiche. Per comprendere i funzionamenti della società europea nel primo medioevo, occorre comprendere le caratteristiche fondamentali del tardo impero (strutture di potere, di prelievo, il ruolo dell'esercito e i barbari all'interno del territorio romano, cristianizzazione dell'impero). Questa è una fase di grandi scontri tra vari modelli di civiltà su cui è difficile indagare per mancanza di fonti e della loro scarsa attendibilità che ha portato a teorie incerte e a profonde analisi e discussioni sulle ideologie presenti. Un momento fondamentale per la storia romana è alla fine del II secolo D.C. In quegli anni si arresta l'espansione dell'impero (limes del Reno e del Danubio) e inizia il periodo tardo-antico. L'Impero non era assolutamente un luogo di civiltà omogeneo. All'interno esistevano numerose etnie e classi sociali che godevano di benefici diversi in base al possesso o meno della cittadinanza romana. Queste diverse etnie/popolazioni erano coordinate da un ottima e rodata macchina statale, fiscale e militare. Questo apparato entrò in crisi nella seconda metà del III secolo D.C. Quando una serie di lotte per il trono portarono a mandati brevi e alla presenza di più imperatori contemporaneamente. Questa situazione venne placata da Diocleziano che condivise il potere pacificamente con Massimiano a partire dal 285 (Diarchia). In codesto sistema, i due imperatori si suddivisero le responsabilità anche se Diocleziano ebbe, per tutto il tempo, una posizione predominante su quella del suo comprimario. Nessuno dei due risiedette a Roma e questo comportò l'inizio della decadenza della città come unica capitale dell'impero. La polarizzazione tra oriente e occidente si accentuò quando la Diarchia divenne Tetrarchia. Da allora iniziò ad essere comune la situazione con due imperatori presenti in un unico impero. Nel IV secolo venne fondata Costantinopoli. Costantino nel 324 decretò di fondare la città dove in precedenza esisteva Bisanzio. La città anatolica divenne subito residenza imperiale e divenne un punto di riferimento nel mediterraneo orientale. Costantinopoli, nonostante la residenza reale e la presenza di un senato, non fu mai capitale. A partire dal V secolo, Costantinopoli divenne una vera capitale con residenza stabile dell'imperatore e senato distaccato da Roma. Questo processo che portò Costantinopoli ad essere capitale raggiunse il suo fine con la separazione in impero d'occidente e d'oriente avvenuta nel 395 alla morte di Teodosio con la cessione dell'oriente ad Arcadio e l'occidente ad Onorio. Questa scelta scaturì dalle difficoltà di amministrare un territorio tanto ampio e diversificato in tutti i sensi. La complessa macchina statale richiedeva un costante ingresso di fondi per sostenere la capillare burocrazia, la capitale e il calmieramento dei prezzi, e la gestione dell'esercito di professionisti stipendiati. Queste tre voci erano sostenute dall'annona, un prelievo effettuato sulle popolazioni rurali e, in particolare, a chi disponeva di beni fondiari. Nelle città i responsabili della riscossione e della trasmissione delle cifre raccolte dalle tasse erano i Curiales. Essi disponevano del potere di prendere provvedimenti in caso di riscossione ritardata o insufficiente. Le imposte raccolte non rimanevano nella stessa provincia, ma andavano a sopperire tutti i costi dell'impero. Questo sistema di suddivisione dei fondi era alla base di un'intensa circolazione economica di moneta e beni di prima necessità/di consumo e alla base delle motivazioni per cui l'impero investiva molto nelle infrastrutture e nel loro mantenimento. Queste condizioni posero le fondamenta per un vasto sistema di circolazione commerciale. La peculiarità nell'età imperiale stava nel fatto che queste regioni erano economicamente interdipendenti. Nel tardo-antico si vengono a creare alcune nuove situazioni: la fine dell'espansione militare determinò la fine dell'espansione economica (mancanza di bottini di guerra). Inoltre, tutto ciò comportò la ridimensionò il sistema schiavistico che non fu più al centro della produzione romana. La diminuzione degli introiti non fu seguita da una diminuzioni delle spese militari che crebbero per via della difficile opera di difesa de confini e dei respingimenti barbarici. L'impero decise di mettere in circolazione un maggior numero di monete dal valore minore che portarono a una grande inflazione che colpì le classi meno abbienti. Cambiarono anche i rapporti tra Italia e province; con l'Italia che perse la sua rilevanza produttiva. L'esercito era una delle maggiori voci di spesa nel bilancio imperiale. L'esercito era vasto e stipendiato visto che la leva fu sostituita da una tassa sostitutiva inflitta ai proprietari terrieri per non perdere mano d'opera. L'impero era così in grado di nutrire, equipaggiare e stipendiare l'intero esercito. Nel IV secolo si definì una separazione delle truppe: i Comitanses (reparti mobili) e i Limitanei (truppe di stanza ai confini). Il Limes è una linea che, attraverso il Reno e il Danubio, definiva i confini a nord del territorio romano. Lungo il Limes erano presenti numerose fortificazioni. Più che una zona di frontiera, è meglio pensare al Limes come a una zona di incontro, scambio e scontro. Questo era dovuto al fatto che essere al di fuori dei confini romani non significava essere al di fuori della sfera di influenza imperiale. I Barbari erano, inizialmente, coloro che non conoscevano bene il Greco o il Latino. Successivamente si usò il termine per indicare coloro che non erano romani (anche chiamati Germani). questa seconda definizione presenta un difetto nel fatto che queste popolazioni mai si definirono “Germani” (termine adottato da Tacito). Nell'ultima metà del XX secolo la Medievistica Europea ha rinnovato la questione dell'origine etnica di questi gruppi e ha posto al centro della discussione la percezione soggettiva di questi stessi gruppi, chiedendosi come si definivano essi. L'appartenenza a un popolo non è un dato oggettivo ma è frutto della percezione personale e dell'espressione di una scelta. romano di tasse e stipendi, con il passaggio a forme di remunerazione che misero al centro la terra. Questo comportò una minore quantità di ricchezza disponibile, sia il declino delle funzioni delle città sul piano discale e politico, sia infine un forte calo degli scambi interregionali L'Italia ostrogota Odoacre, una volta deposto l'ultimo imperatore, costruì un sistema di potere equilibrato ed efficiente con collaborazione tra aristocrazia senatoria e il re che garantì il predominio economico e sociale, tutelando le sue enormi proprietà fondiarie. L'Italia, tra il 476 e il 489, continuava a essere un mondo dominato da un'amministrazione di stampo romano e protetto da un esercito germanico stipendiato grazie alle tasse. Odoacre espresse il suo potere attraverso una doppia carica: patricius che evocava la volontà di inserirsi nella gerarchia romana e rex gentium che esprimeva il suo dominio sull'insieme dei popoli che costituivano il suo esercito. Questo potere efficace fu travolto dall'invasione ostrogota vista come un'iniziativa imperiale d'oriente. L'imperatore Zenone si propose di riottenere un controllo indiretto dell'area sollecitandone la conquista da parte del popolo degli Ostrogoti. Teodorico era per Zenone una figura ben nota come un potente in grado di divenire funzionale ai progetti di rafforzamento imperiale in Italia. Fu su indicazione di Zenone che Teodorico nel 489 scese in Italia. Il re e il popolo impegnati in una spedizione con grandi aspettative di bottino attiravano a l proprio seguito altri gruppi di armati, pronti a riconoscersi come sudditi di questo re. La conquista dell'Italia fu nel complesso facile . Odoacre fu abbandonato dall'aristocrazia senatoria e si rifugiò a Ravenna dove resistette fino al 493 quando fu convinto ad arrendersi da Teodorico che lo fece giustiziare; poté così' impostare il proprio potere indiscusso sulla penisola. Il governo di Teodorico si fondò sull'integrazione tra il controllo militare dei Goti e un'amministrazione civile di stampo romano. la dominazione barbarica rappresentò una fase di sostanziale continuità per le popolazioni italiane con un inquadramento che comportò una sottomissione formale all'impero. In questo inquadramento era inserita la possibilità per ogni individuo di seguire la propria legge (romana o gota) ed essere giudicato da un iudex romano o dal comes goto. Questo portò ad un equilibrio efficace, che permise sia la convivenza pacifica, sia il controllo regio sulle province. Teodorico fu re degli Ostrogoti e patrizio imperiale per l'Italia. Il titolo di patrizio imperiale è il riconoscimento e la legittimazione derivanti dall'impero. I due apparati (esercito goto e amministrazione romana) trovavano un nesso diretto nella figura del re e nel suo consistorium (il consiglio ristretto di goti e romani che affiancava il re). All'interno del consiglio sederono personalità di spicco come Cassiodoro e Boezio che erano di origine senatoria e romana. Il consistorium regio fu il principale strumento di governo di Teodorico che aveva però delle debolezze strutturali del suo apparato di potere, dato che il re e il consiglio costituivano il solo punto di reale integrazione tra i due popoli che furono complementari ma non integrati e non realizzarono una simbiosi e infatti, quando entrò in crisi la capacità regia di garantire mediazione e unità, fu crisi per l'intero regno. La scelta di Teodorico fu quella di conservare la propria fede ariana, ma al contempo porsi come protettore di tutte le chiese presenti nel regno. La protezione delle chiese cattoliche e del papato fu un passaggio necessario per completare il quadro di cooperazione con l'aristocrazia romana. Il re assunse una funzione di protezione che gli venne riconosciuta dalla stessa sede papale riconoscendolo come legittimo successore degli imperatori come suo protettore. Gli anni di Teodorico ebbero una notevole stabilità del potere regio e questo consentì un suo ampliamento al di là dei confini italici e costruì una rete di rapporti con gli altri regni romani-germanici che gli permise di essere in una posizione egemone su larghe parti d'Europa. Una rete di legami parentali consentì a Teodorico di costituire una polarità politica di respiro europeo, parallela e opposta alla crescente egemonia dei Franchi. Il principale rapporto fu con i Visigoti da cui poté trarre dei territori dopo le sconfitte Visigote contro i Franchi. La debolezza strutturale era rappresentata dalla mancata integrazione tra romani e goti. La principale garanzia di stabilità era costituita dal potere regio e dal suo rapporto di collaborazione con l'aristocrazia senatoria. L'emergere della crisi nel 518, quando l'imperatore Giustino avviò una serie di persecuzioni contro gli ariani a cui Teodorico con persecuzioni ai danni dei cattolici che compromise la cooperazione tra il regno e l'aristocrazia senatoria romana che si riavvicinò all'impero. Questo clima di tensione perdurò fino alla morte di Teodorico nel 525, solo allora iniziò una guerra civile quando il trono passò alla figlia Amalasunta come tutrice di Atalarico che morì prematuramente nel 534 lasciando il regno in una situazione di grave debolezza. Per ovviare Amalasunta sposò il cugino Teodato; il tentativo non fu fruttifero in quanto i due coniugi avevano idee divergenti. La regina tentò di ricostruire il rapporto tra goti e romani mentre Teodato scelse la via del conflitto che prevalse tra l'aristocrazia gota. Questo comportò la deposizione di Amalasunta e la sua uccisione nel 535. questa cose offrì a Giustiniano l'occasione di invadere il regno che venne sconfitto dopo vent'anni . Anglosassoni, Vandali e Visigoti nel corso del V secolo si erano costituiti altri regni in diversi settori dell'impero. Il dominio romano non si era mai esteso alle isole britanniche ma solo fino al meridione della Britannia. L'influsso culturale e istituzionale romano fu rilevante anche oltre il limes arrivando in Scozia e Irlanda. Questo influsso si interruppe attorno al 410, quando i Romani abbandonarono del tutto le isole portando la rottura sul piano economico. La fine del dominio imperiale in Britannia fu seguito da una serie di incursioni di popolazioni sassoni che trasformarono le proprie azioni di saccheggio in insediamenti stabili. Si andò costituendo una struttura politica altamente frammentata, una miriade di piccole dominazioni. Esisteva una distinzione: Una tendenziale prevalenza anglosassone nelle aree più orientali e una maggiore presenza celtica in quelle occidentali. Tuttavia la spinta militare anglosassone non si esaurì e marginalizzò le popolazioni di tradizione celtica. Al contempo, la conquista anglosassone ridusse il peso della chiesa cristiana. La stessa religione cristiana subì un profondo regresso. La fine del dominio imperiale fu una rottura profonda dato che le strutture alto medievali di governo dell'isola non si costruirono sulla base di una rielaborazione delle strutture romane. L'Irlanda fu sempre al di fuori del dominio imperiale e l'isola non subì le invasioni sassoni. L'Isola era connotata da un'estrema frammentazione politica, divisa in decine di regni. La frammentazione politica si riflesse nel processo di cristianizzazione che si sviluppò lentamente regno dopo regno. L'assenza di grandi città e/o di sedi vescovili favorì lo sviluppo dell'importanza dei grandi monasteri. L'alta frammentazione politica andò lentamente semplificandosi con l'affermazione degli overkings, re più potenti di altri. Il processo porterà a un esito più definito nell'VIII secolo con il prevalere di alcuni regni maggiori. I vandali erano stabili nelle province di Tunisia e Algeria che erano terre ricche dal punto di vista agrario tanto da rifornire grandi settori dell'impero e la città di Roma. I vandali si stanziarono in penisola iberica nel 417, ma nel 429 attraversarono Gibilterra e si imposero sulle ricche e poco militarizzate terre africane conservandone il controllo fino al 534. fu il primo popolo germanico a creare un regno totalmente autonomo e fu l'unico popolo il cui stanziamento non fosse accompagnato da alcuna forma di trattativa con l'impero. La rottura più evidente avvenne sul piano religioso che portò a una dura contrapposizione tra i Vandali ariani e gli Africani di tradizione romana e di fede cristiana. L'unico caso in cui la differenza religiosa tra ariani e cattolici si espresse nelle forme di una dura intolleranza che sfociarono in ampie persecuzioni ai danni delle chiese. L'Africa vandala fu però un contesto di stabilità dal punto di vista economico e fiscale. I Vandali continuarono a prelevare le tasse secondo il modello romano e le tasse quindi non uscivano dal regno, ne dovevano essere incanalate in grandi spese statali. I re vandali accumularono notevoli ricchezze. La conquista vandala comportò una rottura profonda per l'insieme dell'impero occidentale, che si trovò a non poter più disporre delle ricchezze provenienti dalle tasse africane. La fine del sistema fiscale imperiale comportò un calo della domanda e innescò un calo produttivo. Quando l'Impero ebbe la forza per progettare un'espansione nel Mediterraneo occidentale, travolse rapidamente il regno vandalo (533-534). Nel processo di insediamento dei Visigoti ci furono 3 fasi: -Nel V secolo tra il sud della Gallia e la penisola iberica; -Nella prima metà del VI secolo dove il dominio si ridusse a nord dei Pirenei per via delle conquiste dei Franchi; -Nella seconda metà del secolo dove consolidarono la propria presenza nella penisola iberica ed elaborarono nuove forme di governo. Il primo insediamento stabile risale al 418 quando i Visigoti si stanziarono federati a Tolosa e si posero al servizio dell'esercito romano combattendo contro Svevi, Alani e Vandali nella penisola iberica. In Galizia si affermò il regno degli Svevi. I re Visigoti princìpi e sulla conoscenza della natura umana e dei suoi limiti e prevedeva una forma di ascesi moderata, senza gli estremismi. Era un modello di vita ascetica in cui la principale attività era la preghiera, mentre il lavoro era del tutto marginale. Benedetto propose una comunità semplice basata sull'obbedienza all'abate. La regola contiene alcuni princìpi ispiratori che l'abate doveva adeguare alle specifiche condizioni ed esigenze locali . La Regola vede invece nel cenobitismo la via di ascesi proposta a tutti e nell'eremitismo una forma superiore di perfezione a cui potevano accedere solo i monaci spiritualmente più forti, con l'autorizzazione dell'abate. La moderazione, la flessibilità, la capacità di accogliere forme diverse di ascesi erano altre caratteristiche della Regola. Quasi tre secoli dopo la sua redazione, divenne il testo normativo di riferimento per tutti i monasteri dell'Europa occidentale. L'abate non aveva nessun superiore gerarchico. Un'altra importante influenza fu quella irlandese. In Irlanda esisteva una forte centralità istituzionale dei monasteri e un'accentuata attenzione per la dimensione penitenziale e da una forte spinta missionaria. Colombano fu il più famoso esponente del più vasto movimento missionario di monaci irlandesi che nel complesso rinnovarono il monachesimo nell'Europa occidentale. Non si trattò di un ordine monastico unitario e coordinato. Tra VIII e IX secolo, questi monasteri confluirono progressivamente nel sistema predominante Benedettino. Tutti i monasteri ebbero una relazione intensa con la società circostante e in particolare con l'aristocrazia. I regni e l'aristocrazia l'efficacia del regno franco del VI secolo non nacque dalla forza del re Clodoveo, ma dall'integrazione della forza regia con l'aristocrazia. Questa aristocrazia fu alla base della fondamentale della forza egemonica ce il popolo franco seppe esercitare. L'efficacia militare derivò dal coordinamento dell'aristocrazia intorno al re. La ripresa di forme e strumenti di governo tradizionale romana fu una scelta di Clodoveo che promosse una redazione scritta delle leggi franche. Questa redazione fu scritta ed è di per sé una scelta tipica della cultura politica romana. Il re non c'è, il protagonista è il popolo con i suoi aristocratici e al centro del sistema politico troviamo l'assemblea degli uomini liberi, luogo delle scelte politiche, dell'elaborazione legislativa e delle decisioni giudiziarie. Queste leggi non ci mostrano un sistema politico imperiale, ne un forte accentramento dei poteri nelle mani del re. Il potere regio non era celebrato nelle leggi, ma era costruito intorno nella consueta prassi politica tramite l'efficace coordinamento dell'aristocrazia e assumeva il controllo del territorio attraverso la sua suddivisione in distretti, affidati ad un comes (conte). Il re affidava funzioni alle persone di cui si fidava, ovvero prima di tutto ai suoi fedeli, alla sua trustis, questo pone al centro la ricchezza e la capacità redistributiva del re. In molti regni germanici gli eserciti erano invece ricompensati con concessioni di terra. l'assenza di un esercito di professionisti e di una costosa capitale permise la diminuzione nel prelievo diretto delle imposte fino alla cancellazione a cavallo tra VI e VII secolo. I Merovingi furono molto più poveri degli imperatori. I re Merovingi erano più ricchi degli altri re loro contemporanei e molto più ricchi delle altre famiglie aristocratiche franche. I re disponevano di una grande quantità di risorse economiche e politiche. Di conseguenza la politica franca fu fortemente polarizzata attorno al re. La polarizzazione dell'aristocrazia attorno al re non implicò però una dinamica di corte. I Franchi non avevano capitale. La tradizione politica germanica attribuiva all'assemblea dell'esercito grandi poteri, dell'elezione del re alle decisioni legislative. Questi poteri andarono rapidamente ad attenuarsi con il crescere del carattere dinastico della monarchia. Questo non implicò la scomparsa delle assemblee regionali attorno ai singoli conti. Tali assemblee non portarono a una frammentazione del regno; tuttavia una frammentazione del regno ci fu, ma derivò piuttosto dai meccanismi di successione al trono. Il regno e la corona venivano spartiti tra i discendenti e si andarono rapidamente delineando alcune fondamentali partizioni: il regno di Austrasia, di Neustria, di Burgundia e di Aquitania. Tutti i processi di divisione e ricomposizione si svilupparono sempre all'interno della famiglia merovingia: e indiscusso che solo i membri della stirpe merovingia erano legittimi aspiranti alla corona. Queste divisioni limitarono l'azione dei re franchi verso l'esterno del regno nonostante ciò la forza dell'aristocrazia e dei re fu tale da consentire una duratura efficace egemonia su larga parte dell'attuale Germania con una più discontinua egemonia sull'Italia longobarda. Capitolo 4 il dominio romano restò un insieme di società molto diverse, riunite dalla sottomissione politica, dall'apparato burocratico e un capillare sistema fiscale. La produzione e gli scambi in occidente l'intervento dei dati archeologici ha preso un peso sempre maggiore. Per le ricerche archeologiche alto medievali gli indicatori più accurati sono i resti ceramici. Il sistema economico romano subì una prima importante trasformazione a partire dal II secolo quando l'impero terminò l'espansione. Questo ebbe implicazioni rilevanti sul piano economico che avviarono una lunga stagione di complessivo equilibrio, in cui tuttavia i costi dell'unificazione politica pesarono in modo rilevante. I primi secoli del medioevo portarono alla rottura di grandi sistemi di scambi commerciali e alla crisi di molte forme di produzione. Per leggere questo mutamento economico; il punto di partenza è la trasformazione sul piano politico e militare. Si ridussero le funzioni delle città e mutarono i sistemi di produzione e scambio. Inoltre si trasformarono le forme della circolazione e dello scambio ed ebbe fine l'interdipendenza tra le varie parti dell'impero. La crisi riguardò principalmente le città, la cui importanza era dettata dalla loro funzione come centri del potere e del fisco imperiale: le élite cittadine erano fiscalmente responsabili di fonte all'impero. Il tramonto del sistema imperiale allontanò le élite dalle città. Risultava sempre più importante valorizzare le proprie ricchezze (i terreni) in un contesto di drastico calo demografico. La città che subì di più la trasformazione fu Roma. L'impero contribuiva in maniera rilevante al mantenimento della città tramite i profitti derivanti dall'annona e Roma poteva così essere molto popolosa perché era sostenuta da risorse finanziarie provenienti da tutto l'impero. Fu quindi naturale e necessaria una rapida e profonda riduzione della popolazione urbana (20 000 in alto medioevo). Questa crisi non significò affatto la fine dell'urbanesimo anche grazie alla continuità garantita dal potere vescovile. In tutte le città dell'impero la rottura del quadro politico comportò una riduzione delle ricchezze e delle disponibilità di beni. Le reti di scambio in età antica si erano strutturate a partire dall'azione dello stato. Questi ingenti trasferimenti di beni sostenuti da un sistema di infrastrutture che rese possibile anche uno scambio propriamente commerciale tra le diverse regioni. Per questo la fine dell'unità territoriale dell'impero ebbe conseguenze tanto rilevanti sul piano economico: la conquista vandala della Tunisia nel 439 interruppe l'asse fiscale tra Cartagine e Roma con impatto su tre livelli. Lo scambio si ridusse drasticamente e assunse forme commerciali, e non fiscali. Roma continuò a rifornirsi di questo grano, ma lo fece per via commerciale e inoltre dovette mantenersi con risorse molto minori e di conseguenza si avviò un processo di profonda riduzione, stessa cosa per le produzioni africane. Il quadro produttivo delle regioni mediterranee è segnato da una fortissima varietà e di tendenze comuni. Al centro dell'attenzione era posta la domanda delle élite. Un dato comune a tutto il medioevo era la struttura produttiva agraria di base con quattro differenze; - la specializzazione produttiva che era un fattore di debolezza in un quadro di . maggiore isolamento; – le ricchezze dell'aristocrazia delle diverse regioni erano profondamente diverse e questo condizionò la produzione delle singole regioni; – i danni conseguenti alle guerre furono molto diversi da regione a regione; – il sistema fiscale di tradizione romana in alcune regioni fu conservato più a lungo. Un caso di produzione specializzata è quella dell'Africa romana che dopo la rottura del 439 si trovò a fronteggiare un calo produttivo. Si può ricondurre il declino alla generale diminuzione della domanda dell'area mediterranea e si deve notare come la conquista bizantina del 534 non portò alla ricostruzione del sistema fiscale romano. L'Italia fu un'area a fortissima frammentazione economica, ma la rottura più profonda avvenne nel corso del VI secolo nella guerra greco-gotica e poi con la conquista longobarda. Nel regno franco, nel VI secolo si assistette a un lento abbandono del sistema di prelievo fiscale . Ma un dato di fondo di quest'area fu la ricchezza e quindi la forte domanda dell'aristocrazia. Caso opposto è la Britannia dove la rottura avvenne nel V secolo. La rottura tra l'Impero a est e i regni romano-germanici a ovest fu una separazione di Dibattiti teologici e identità locali Nel IV secolo la divisione teologica tra cattolici e ariani creò una grande frattura religiosa ed ecclesiastica con connotati territoriali ed etnici. Il dibattito teologico si era spostato dal piano trinitario a quello cristologico: la questione era la convivenza nella figura di Cristo di una natura divina e una natura umana. Cristo dev'essere pienamente Dio ma al contempo dev'essere pienamente uomo. Si elaborarono formulazioni teologiche raffinatissime con dibattiti che coinvolsero l'insieme dei fedeli. Il ruolo di Maria fu al centro del dibattito fin dalle prime importanti formulazioni. Nestoro sosteneva la presenza in Cristo di due persone distinte e rifiutava a Maria il titolo di madre di Dio. Il Nestorianesimo fu condannato nel concilio di Efeso (431). la via teologica opposta,elaborata in ambito alessandrino, fu il cosiddetto Monofisismo dove umanità e divinità si fondono fino a dare vita a una sola natura. Questa posizione subì una condanna nel concilio di Calcedonia del 451. L'impegno imperiale tendente a tutelare l'unità della teologia cristiana proseguì nel secolo successivo. Le posizioni diverse (Nestorianesimo, Monofisismo) erano vive in regioni sfuggite al controllo imperiale. PARTE SECONDA Capitolo 1 Tra VI e VIII secolo la geografia politica dell'Europa occidentale è molto più stabile e constatiamo una conflittualità intensa che portò a una continua mobilità dei confini senza una ridefinizione complessiva dei quadri territoriali. Bisogna ragionare sui funzionamenti dei regni maturi. L'equilibrio politico tra le aristocrazie e i re, lo sfruttamento delle risorse agrarie e l'apertura di nuove reti di scambio sono i tre fattori principali da analizzare. I nobili e i re i regni altomedievali non possono essere visti come un dominio assoluto dei sovrani e come una libera e anarchica azione delle aristocrazie. La realtà vede un equilibrio tra le due forze. Il rapporto tra re e aristocrazia vede elementi comuni nei processi di redistribuzione clientelare e nel fondamentale carattere militare del potere regio. Le famiglie aristocratiche furono sempre attente a conservare un legame con la corte: per loro era fondamentale partecipare al circuito di solidarietà e ridistribuzione con a capo il re che offriva grandi opportunità economiche e politiche. Il nodo era il carattere militare del potere regio. Nel VII secolo il regno visigoto appare in piena fase di consolidamento. La conversione al cattolicesimo portò alla cancellazione totale dell'Arianesimo dal regno. Il modello efficace era l'Impero cristiano, dove i vescovi costruirono un rapporto di vera simbiosi con il potere imperiale. I concili di Toledo avevano una funzione complessiva di guida del popolo visigoto. La centralizzazione del potere non comportò un pieno controllo dell'aristocrazia: ci furono infatti numerosi conflitti, colpi di stato e deposizioni dei re. Il potere regio era una struttura forte,a cui l'aristocrazia voleva avvicinarsi e di cui voleva ottenere il controllo. Questa situazione comportò un imperfetto controllo militare del territorio. La conquista della penisola iberica da parte delle armate islamiche fu nel complesso semplice e rapida e pose bruscamente fine alla storia visigota. Le isole britanniche nel VII secolo ebbero un'alta frammentazione politica. In Irlanda la conversione al Cristianesimo pose al centro i monasteri anche grazie all'opera missionaria di san Colombano che esportò il modello monastico irlandese tramite una serie di nuove fondazioni nei regni franco e longobardo. La struttura politica era suddivisa in una moltitudine di regni che permaneva anche in Britannia dove si assiste a una più chiara tendenza alla gerarchizzazione. Con il VII secolo si può considerare quest'area come parte a pieno titolo dell'Europa cristiana anche se rimaneva un basso livello di urbanizzazione. In Britannia si attestarono molti regni; il monaco Beda mostra di pensare all'Inghilterra come a uno spazio unitario di civiltà. Si può dire che: • esisteva una pluralità di regni; • alcuni erano più definiti e stabili; • tra VII e VIII secolo si affermò in modo discontinuo un'egemonia dei re di Mercia; • il contenuto effettivo di questa egemonia è difficile da definire. Tra VII e VIII secolo si andarono costruendo le basi del potere della dinastia carolingia. Nel VI secolo il dominio franco nel periodo successivo subì una parziale riduzione. I Merovingi furono sempre itineranti tra i diversi palazzi regi. Ciò non cambiò il fatto che l'azione regia si concentrava solo in alcune aree. Il fondamento principale del potere era il legame con l'aristocrazia. Un legame solido che favorì i Merovingi che erano molto più ricchi delle altre famiglie ed erano i soli possibili re. All'interno dell'aristocrazia franca erano presenti i Carolingi, provenienti dall'Austrasia. Nel VII secolo, nel corso delle lotte per il potere interne alla stirpe merovingia, Arnolfo di Metz e Pipino di Landen si allearono per far salire al trono Clotario II e ne furono ricompensati: Arnolfo diventando vescovo di Metz, Pipino con quella di maestro di palazzo del regno di Austrasia. Dall'unione dei due eredi nacque una sistema parentale potentissimo. Il maestro di palazzo era il punto più alto di potere al di sotto del re: era il capo della corte regia e coordinava la vita politica attorno al re e metteva in atto le decisioni regie. La forza della dinastia si espresse con Carlo Martello che riuscì a ricoprire contemporaneamente le funzioni di maestro di palazzo nei diversi regni franchi. I maestri di palazzo erano fondamentali per la loro funzione di collante dei vari sottoregni. È importante sottolineare come l'aristocrazia franca fosse fedele all'idea che gli unici legittimati ad ascendere al trono fossero i Merovingi. I Pipinidi si mossero dall'interno dell'aristocrazia , legando a sé per via clientelare le maggiori famiglie Austrasiane. Fu proprio il coordinamento di questa aristocrazia a fondare la forza dei Pipinidi. Questa capacità di coordinamento si tradusse direttamente in forza armata non necessariamente al servizio del re. Dall'insieme della faccenda di Carlo è evidente come la componente militare fosse importante sia sul piano concreto, sia su quello quello ideologico. Carlo Martello non fu mai re: fu il figlio, Pipino III (il breve) a prendere la corona nel 751, deponendo gli ultimi Merovingi. La politica pipinide si caratterizzava per: • l'apertura verso i territori orientali; • la tutela delle chiese e della loro espansione; • i collegamenti diretti con il vescovo di Roma che presero rilievo in seguito al colpo di stato che portò Pipino sul trono nel 751. Terre e uomini le gerarchie sociali altomedievali erano costruite sulla base della ricchezza fondiaria: essere ricco significava avere molte terre. Il popolamento era infinitamente più basso di quello attuale; le campagne altomedievali erano uno spazio a bassissima densità abitativa. Il territorio era dominato dai Boschi, al cui interno si aprivano villaggi e terreni coltivati. Esistevano prevalentemente villaggi che erano costituiti dall'integrazione tra case e delle chiese e dei monasteri. Non esisteva un autosufficienza della singola curtis, ma esisteva senza dubbio una tendenza all'autosufficienza a livello di sistema. La ricerca dell'autosufficienza non implicava affatto chiusura e ridimensione commerciale. La coniazione monetaria romana andò a semplificarsi drasticamente lungo il VI secolo dando vita a molteplici zecche disperse per i regni europei che vedevano prevalere la monetazione in argento. La base di riferimento era la libra divisa in 20 solidi a sua volta divisa in 12 denarii. L'unica moneta che veniva effettivamente coniata era il denarius che era una moneta destinata al commercio e agli acquisti di terra. Le monete e la loro diffusione sono per noi ottimi segnali per cogliere il costruirsi di reti commerciali. Il surplus agrario derivante dell'accresciuta pressione aristocratica permise un consolidamento demografico dei centri urbani della Neustria e dell'Austrasia; ma trovò uno sbocco anche verso il mare, in un interscambio commerciale che diede vita a un nuovo sviluppo insediativo con la nascita degli emporia,ovvero centri abitati con finalità specificamente commerciali. Nacquero con specifiche funzioni commerciali ma assunsero rapidamente caratteristiche urbane e furono alla base del successivo sviluppo delle città. Lo sviluppo degli emporia portò una vitalità commerciale che trovò punti di riferimento importanti nelle fiere che si tenevano a cadenza regolare in luoghi di rilievo politico e religioso. Capitolo 2 la prima dominazione germanica a porsi in netta contrapposizione con l'impero fu quella longobarda. I Longobardi rappresentarono una dominazione esclusivamente italiana e furono visti come un momento di possibile unità italiana. I Longobardi in Italia nella penisola italiana si affermò un nuovo regno, quello dei Longobardi. Era un regno romano-germanico di “seconda generazione”. Come molti popoli germanici, anche i Longobardi vissero all'estrema periferia dell'impero e con contatti sporadici con l'impero. Si ipotizza che le loro origini fossero in Scandinavia e, dopo una serie di spostamenti, si insediarono in Pannonia (Ungheria) e avviarono i primi contatti con l'impero con il quale stipularono un foedus e con cui combatterono occasionalmente come mercenari. L'esercito che nel 568 si mosse alla conquista dell'Italia era costituito da un popolo che conosceva la romanità ma che non si era romanizzato. La migrazione nacque da un accentuarsi delle tensioni militari con gli àvari e dalle evidenti possibilità di fare bottino in Italia. I Longobardi erano sicuramente un popolo-esercito la cui attività principale è combattere e di cui l'esercito dai maschi adulti liberi. La conquista dell'Italia non fu solo un'azione militare, ma fu sopratutto una migrazione dell'intero popolo verso quei territori. L'iniziativa dei Longobardi fu una grande opportunità di arricchimento e per questo motivo, nel corso della spedizione, si unirono molti gruppi che non avevano collegamenti con i Longobardi. Unirsi significava però diventare Longobardi e unirsi alla loro popolazione in tutto e per tutto. Il progetto di conquista dell'Italia offriva buone prospettive, questo attirò nel suo seguito nuovi gruppi armati. Alboino e i Longobardi valicarono le Alpi nel 568 e diedero vita a una conquista lunga,violenta e discontinua che divise l'Italia in due parti: regno longobardo e possedimenti imperiali con i primi che controllavano la pianura padana, la Tuscia e i ducati di Spoleto e Benevento. Il confine tra Longobardi e impero non era una linea netta e semplice. Come già detto, il popolo longobardo era prevalentemente composto da guerrieri attraversato da reti di fedeltà e organizzato in corpi militari chiamati farae (gruppi uniti da una solidarietà militare). A capo di esse troviamo dei capi (duces) che avevano il compito di guidare e comandare l'intero popolo longobardo. Il potere regio nasceva prima di tutto dal coordinamento delle farae e dei duchi. I duchi si stanziarono nelle diverse regioni, individuarono delle sedi fisse. Non possiamo ragionare in termini di ducati, ma di sedi ducali. I duchi avevano ben chiaro su quali persone comandassero, ma molto minore era l'interesse a definire su quali spazi questo potere si esercitasse. Il potere di un duca si estendeva fino a dove non andava a scontrarsi con il potere di un altro duca. Anche il re era prima di tutto una guida militare che garantiva la capacità bellica del suo popolo. La forza fisica era il primo e indispensabile requisito per essere scelto come re. Il re longobardo era elettivo, teoricamente scelto dall'assemblea degli esercitali, ma di fatto nominato dai duchi. Re Alboino fu ucciso, forse da una congiura di palazzo, nel 572, a lui succedette Clefi che rimase in carica solo due anni prima di essere ucciso. Dal 574 al 584 i Longobardi rimasero senza re. Finita la fase di conquista e di aperto conflitto con l'impero i duchi ritennero che un re non fosse necessario. Sono ancora le esigenze militari a spiegare il ritorno del potere regio dieci anni dopo: le pressioni dei Franchi portarono i duchi a eleggere un nuovo re. Il nuovo re fu Autari, figlio di Clefi. Da qui in avanti vediamo giocare continuamente i due princìpi, elettivo e dinastico con il secondo che non prevedeva il solo passaggio al figlio, ma in taluni casi anche alla vedova. Questo potere regio importante, sopratutto dal punto di vista militare, dovette costruire la propria eminenza nei confronti dei duchi. Per i Longobardi Pavia non fu solo una residenza regia, ma una vera e propria capitale, la sede del re e degli organismi che a lui facevano capo. Pavia rimase capitale del regno e sede del palatinum fino al XI. Molte altre città conservarono una funzione politica come residenze dei duchi che si insediarono in misura importante nelle città e le scelsero come centri di politici e militari. Longobardi e Romani la coppia regia costituita da Teodolinda e Agilulfo aveva costituito un passo importante nel processo di costruzione del potere regio. Nessuno dei due era longobardo “di sangue”, per ascendenza; ma la loro adesione al nesso politico longobardo ne faceva candidati idonei a divenire regina e duca. Questo dato ci offre un'immagine efficace della fluidità etnica del popolo longobardo. L'identità longobarda non era quindi un dato stabile, ma era soggetta a un continuo processo di costruzione. Origo gentis longobardorum è un racconto delle vicende del popolo longobardo dalle origini fino alla costruzione del regno in Italia. L'Origo non si limita a narrare le vicende del popolo ma si concentra sull'origine che si basa su guerra e religione. Al momento dell'invasione, i ceti eminenti romani subirono una profonda riduzione delle ricchezze e dei poteri: gli aristocratici romani furono esclusi dal potere nel regno, subirono espropriazioni, emigrarono verso le aree imperiali riunendosi attorno alle grandi sedi vescovili di Roma e Ravenna. Il potere si concentrò nelle mani dei Longobardi e dei loro duchi. La convivenza negli stessi luoghi, i matrimoni misti e l'assimilazione degli stili di vita tolsero rilievo alla distinzione etnica. La religiosità longobarda al momento della discesa in Italia comprendeva credenze pagane tradizionali e Cristianesimo ariano. Non si delineò una chiara distinzione od opposizione tra Romani cattolici e longobardi ariani. La fede ariana divenne un perno attorno a cui i Longobardi poterono consolidare una propria identità etnica distinta dai Romani. All'interno delle città di vescovi e sacerdoti e sacerdoti ariani, al fianco di quelli cattolici. La lunga convivenza di Cattolicesimo e Arianesimo nel popolo e nella corte portò a una conversione dei Longobardi al Cattolicesimo. Questa fu una conversione lenta e solo nei primi decenni del secolo VIII quello longobardo divenne un popolo pienamente cattolico. In Italia non si realizzò infatti quel processo di simbiosi tra il regno e i vescovi e le stesse cariche vescovili non divennero un obiettivo politico per l'èlite del regno. L'identità ariana e la lenta e contrastata conversione oppose il regno al vescovo di Roma. L'opposizione tra sue contrapposte ambizioni sull'intera penisola. Molte parti d'Italia continuarono infatti a far parte dell'Impero, ma l'efficacia del controllo imperiale fu discontinua nel tempo e nello spazio. Costantinopoli conservò il controllo su gran parte delle coste italiane. L'Italia era periferica ma al suo interno alcuni luoghi rivestivano un importanza speciale come Roma che era l'unica sede patriarcale d'Occidente, poi ravenna che era la residenza dell'esarca. La debolezza dell'impero in Italia era sicuramente un problema, ma per i vecovi di Roma era anche un'opportunità interessante, un vuoto di potere che permetteva di agire sui piani politici e amministrativi. Per questo era normale che la comunità cittadini facesse riferimento al vescovo. Per questo motivo Gregorio usò il ricchissimo patrimonio vescovile per proteggere la comunità agendo come un tutore della stessa e anche il vescovo di Ravenna per riunire attorno a sé le comunità e l'aristocrazia della sua regione. Nel caso di Roma e di Gregorio avviene un salto di qualità con una prospettiva più pienamente politica. Gregorio Magno e i suoi successori si proposero come vertici politici dell'Italia centrale, a sostituire un potere imperiale lontano e a volte assente. Il regolare approvvigionamento della capitale e dell'esercito era una funzione attribuita sempre di più alla Sicilia. Le capacità di intervento imperiale in Italia era discontinua e fu particolarmente debole quando l'impero dovette affrontare le pressioni militari arabe, bulgare e avare. L'orientamento iconoclasta della corte imperiale determinò una profonda frattura religiosa con l'Occidente. Questa ostilità ebbe un'incidenza significativa Longobardi del re Astolfo. Quella di Pipino non fu una campagna di conquista, ma piuttosto, coerentemente con le esigenze papali, un'azione tendente a frenare le ambizioni politico-territoriali longobarde e a bloccare la loro pressione. Questa spedizione non aprì dunque un periodo di tensioni tra Longobardi e Franchi. Dopo la morte di Pipino, i suoi figli avviarono una politica matrimoniale volta a creare una rete di legami e di solidarietà tra Franchi, Longobardi e Bavari. Fu una politica di equilibrio che resse per pochi anni: dopo la morte di Carlomanno, nel 771, Carlo si mosse con una prospettiva di espansione, rompendo i rapporti amichevoli con le altre fazioni. La tradizione politica franca prevedeva che il potere regio fosse considerato come parte del patrimonio del re e perciò fosse diviso tra tutti i figli maschi. Questo modello non ebbe fine con il passaggio dai Pipinidi ai Carolingi, ma per varie vicende i nuovi re poterono fruire di un lungo periodo in cui il potere rimase a un solo re. Per 90 anni ci fu sempre un solo re dei Franchi e ciò contribui non poco a dare forza alla loro azione senza però cancellare la tradizionale concezione patrimoniale del regno. Carlo avviò un'impressionante campagna di espansione territoriale che vide come conquista più importante quella del regno longobardo che fece fare un salto di qualità al rapporto tra Franchi e papato. Dal punto di vista militare la conquista non fu difficile e non andò a comprendere tutta l'Italia e neppure tutta l'Italia longobarda. Rimasero estranee alla conquista le terre papali, di Costantinopoli e del ducato di Benevento. La geografia politica dell'Italia subì un'ulteriore articolazione. La sottomissione al dominio franco non cancellò del tutto l'identità politico- territoriale dell'Italia longobarda. Carlo operò per conservarne alcuni elementi come la capitale a Pavia e assimilò progressivamente l'aristocrazia longobarda all'interno del popolo seguito e del proprio apparato di governo. L'azione militare di Carlo non si limitò all'Italia. L'espansione verso la penisola iberica fu modesta con brevi conflitti che si succedettero dal 778 all'813 e portarono alla creazione della marca Hispanica. Fu invece di grande rilievo l'azione verso le terre poste a oriente, e in particolare in Sassonia. Sotto Carlo Magno il tentativo di incorporare la Sassonia nel regno e di assimilare complessivamente la popolazione portò a una coloritura religiosa del conflitto che si rivelò anche lungo (772-803) Lo scopo di Carlo era piuttosto la sottomissione e l'assimilazione dei Sassoni e la dimensione religiosa era una delle componenti di una identità di popolo che si voleva cancellare attraverso anche alla fondazione di una serie di diocesi in ambito germanico. L'espansione a est proseguì con la conquista della Baviera che fu posta sotto diretto controllo e che diede modo di creare una grande circoscrizione politico-militare (marca orientale). Il confine della dominazione carolingia non corrispondeva ai limiti della sua influenza ma proseguivano nelle marche che erano comodi e strategici territori posti a cuscinetto con gli altri regni che vennero spesso sconfitti per la conquista di queste aree (àvari nella valle del Danubio e Danesi). Le continue incursioni indussero Carlo alla costruzione di una grande opera fortificatoria, un lungo terrapieno noto come Danewirke. Nel complesso fu un dominio immenso la cui novità radicale fu sancita dall'attribuzione a Carlo del titolo di imperatore. La sconfitta longobarda non lascio campo libero all'azione papale e quindi la linea di azione del Papa fu volta al consolidamento di un'egemonia sull'Italia centrale e alla definizione di una rapporto stabile di cooperazione con il regno franco. In questo quadro va posta l'incoronazione di Carlo a imperatore che avvenne in seguito alla fuga di papa Leone III da Roma per scampare agli oppositori, e al suo successivo ritorno nell'Urbe sotto la scorta di Carlo e dei suoi uomini. Il titolo di imperatore diede maggior rilievo al potere di Carlo ma, d'altra parte, fu direttamente funzionale alle esigenze del potere papale. Era particolarmente importante per i papi contare su un un impegno continuo, stabile e definito da parte di Carlo nel proteggere la sede papale. Il titolo imperiale fu sempre connesso al controllo del regno d'Italia e quindi alla concreta capacità di proteggere Roma e i suoi vescovi. La collaborazione tra Impero e papato fu quindi un dato di fondo; ma rimase viva una potenziale tensione che alla fine del VIII secolo la curia papale a produrre la cosiddetta Donazione di Costantino, un falso che attestava la cessione al papato di tutte le regioni occidentali dell'impero. Il papato in questi anni non usò la Donazione, non rivendicò apertamente il controllo su regioni al di là del Patrimonium Petri (le terre della Chiesa di Roma). L'incoronazione imperiale di Carlo fu quindi oggettivamente un atto di concorrenza e di ostilità nei confronti di Bisanzio, reso possibile da una debolezza del governo orientale che era a capo di un'imperatrice reggente (Irene) e indebolito da un conflitto religioso (il movimento iconoclasta) che aveva reso particolarmente difficili i rapporti con Roma. Conti, vassalli e liberi l'efficacia del potere carolingio si fondava sul coordinamento dell'aristocrazia laica e delle chiese: l'aristocrazia laica aveva la funzione chiave di di governare (attraverso i conti) un territorio a nome del re. Alcune aree erano organizzate in circoscrizioni più ampie (marche) affidate ai marchesi. Queste figure (all'ora temporanee) erano sempre occupate da esponenti di grandi gruppi parentali aristocratici, ma la forza dell'Impero si espresse nella capacità di separare efficacemente la loro potenza personale da quella esercitata a nome dell'imperatore. Nelle aree più lontane dal potere centrale gli aristocratici assumevano le cariche di governo e la dove assumevano le funzioni di conte, la loro potenza derivava dalla delega ricevuta e non dalla ricchezza personale. A partire dagli ultimi decenni del IX secolo avvenne un'evoluzione che portarono un carattere vitalizio ed ereditario alle funzioni comitali. Sotto i primi Carolingi il controllo imperiale sui conti e sui marchesi era efficace e questo controllo si traduceva in funzioni temporanee. I legami tra imperatore e le realtà locali erano garantiti da altri funzionari, i cosiddetti missi regis (inviati del re). I missi erano funzionari in grado di garantire il collegamento tra centro e periferia affiancando, controllando e sostituendo i conti. Bisogna sottolineare come l'apparato di governo non fosse fatto di sconosciuti, ma di fedeli al re direttamente e strettamente a lui legati. I Pipinidi amministravano l'aristocrazia con un sistema clientelare con chiare implicazioni militari così come nel regno longobardo dove i gasindii erano legati al sovrano. Queste forme assunsero una forma più definita alla fine del VIII secolo, sotto Pipino III e Carlo Magno con il rapporto vassallatico. Il vassallo era un uomo ce giurava fedeltà militare a un potente, impegnandosi quindi a servirlo e in specifico a combattere per lui in cambio di protezione e sostegno economico (spesso concessione di una terra detta in genere beneficium). Questo tipo di rapporto ebbe un uso anche per definire i rapporti politici ad alto livello. La rete di fedeltà attraversava l'intera aristocrazia franca: La stessa forza dei re carolingi era costituita prima di tutto dalla capacità di coordinare al proprio seguito l'aristocrazia franca e di tradurre questo coordinamento in forza militare. Il vassallaggio divenne un'integrazione del sistema politico franco e i vassalli regi furono l'ambito di normale reclutamento dei conti e dei marchesi. Questa prassi divenne poi una norma sotto Ludovico il Pio, che stabili che chi veniva nominato conte doveva giurare fedeltà vassallatica al re. Il legame tra re e i suoi funzionari era rafforzato dal vincolo personale che li univa e la funzione come conti e marchesi era uno sviluppo del rapporto di solidarietà e aiuto reciproco. Le funzioni comitali avevano un carattere duplice: da un lato erano un servizio che il conte svolgeva a nome del re, dall'altro erano un opportunità per questi aristocratici per acquisire potere e guadagnarsi la benevolenza del re. I rapporti vassallatici erano parte del meccanismo redistributivo tramite il quale i Carolingi concedevano ai propri seguaci ricchezze e risorse politiche. Gli imperatori si mossero in una prospettiva statale nell'ottica di costruire un apparato di governo con un sistema di deleghe e di responsabilità centrali e locali e la sostanza di cui era fatto questo governo era il coordinamento della grande aristocrazia. Il re era potente perché coordinava in modo efficace un'aristocrazia che disponeva a sua volta di ricchezza e potere. Era un equilibrio che si ruppe quando si ridusse la capacità regia di redistribuire ricchezza e potere agli aristocratici. Nelle fasi di maggior forza il regno rivendicò la propria capacità di saltare la mediazione aristocratica e di conservare un rapporto diretto con i liberi. In diverse occasioni gruppi di contadini che si presentavano davanti alla giustizia del conte per chiedere di essere difesi da un potente. I gruppi rurali non aristocratici non solo avevano la concreta ed effettiva possibilità di accedere alla giustizia regia, ma ritenevano tale giustizia sufficientemente credibile ed equa. Le chiese carolingie dall'800 in avanti si definì un intimo e stabile rapporto di cooperazione tra papato e Impero. Il legame tra il re e i vescovi del suo regno non assunse mai le forme del vassallaggio. Né i vescovi divennero conti. Spesso invece troviamo vescovi in qualità di missi regi in quanto tali a considerarsi e ad agire come collaboratori del re. I vescovi consideravano connaturato alla propria funzione l'impegno a cooperare con l'imperatore per garantire giustizia e salvezza, ovvero per governare la società. L'imperatore poteva dare ordini ai proprio vassalli, a quelli conti e marchesi, ma anche a quelli di vescovi e abati, che erano ritenuti a tutti gli effetti parte della forza una forza tale da consentirgli nel 630 di rientrare alla Mecca. Alla morte di Muhammad, nel 632, la religione islamica aveva assunto un ruolo guida alla Mecca e nell'intera penisola araba. Sotto la guida dei primi califfi, negli anni 30 gli Arabi cancellarono l'Impero Persiano e ottennero importanti vittorie ai danni di Bisanzio, conquistando la Siria e la Palestina e Alessandria d'Egitto. L'attacco diretto alla capitale imperiale, tra 674 e 678, non ebbe esito, le armate ebbero la possibilità di compiere una rapida espansione a comprendere tutto il nordafrica romano (Cartagine crollò nel 698) fino a conquistare, nel VIII secolo,la Spagna visigota. Di fatto l'espansione si arrestò nel 717-718. Nel giro di pochi anni si costituì quindi un quadro territoriale amplissimo. Le fratture legate alla successione di Muhammad furono principalmente tre: • i sunniti, legati alla sunna, alla tradizione, e ritenevano che il califfo dovesse essere eletto sulla base del consenso degli anziani, all'interno della tribù di Muhammad; • gli sciiti, seguaci di Alì che ritenevano che il califfo dovesse essere scelto all'interno della famiglia del profeta; • i kharigiti che ritenevano che il califfo dovesse essere scelto unicamente per merito; la rottura si realizzò nel 661 con l'uccisione di Alì, con il prevalere dell'orientamento sunnita e la funzione califfale fu assunta dalla dinastia degli Omayyadi e qui ebbe origine l'opposizione tuttora viva tra Sunniti e Sciiti. Gli Omayyadi posero fine al califfato elettivo e nel 750 si completò l'espansione territoriale dell'Islam. Il califfato aveva infatti una doppia natura: un carattere etnico, come dominio degli Arabi su altre popolazioni; dall'altro un carattere religioso. La contrapposizione di fede, non si tradusse in forme di persecuzione, dato che fu ampia la la tolleranza verso le altre fedi. I sudditi di fede non Islamica poterono continuare quindi a praticare la propria fede , ma furono posti in una condizione giuridica inferiore, con l'obbligo di pagare una tassa specifica. Il sistema di potere islamico era un sistema arabo e i nuovi fedeli potevano integrarsi solo legandosi come clienti a una tribù araba. Gli Omayyadi posero il proprio contro a Damasco, in Siria. Inoltre questa fu la fase di sistemazione della fede islamica. Gli anni a cavallo tra VII e VIII furono segnati dalla piena affermazione dell'arabo come lingua ufficiale, sul piano non solo religioso, ma anche amministrativo. Si può dire che il secolo omayyade fu segnato dal lento processo di affermazione del carattere universale dell'Islam. Questo processo troverà il suo compimento con l'ascesa al potere nell'VIII secolo, dagli Abbasidi con lo spostamento del centro a Baghdad. La perdita fu un colpo pesante per l'economia dell'Impero. Il mutamento economico fu meno radicale per le popolazioni che passarono sotto il dominio islamico. Il Califfato fu pienamente un erede delle strutture romane Bisanzio: crisi e riorganizzazione di un impero l'Impero romano d'Oriente subì o pesanti effetti dall'affermarsi di due nuove dominazioni. L'espansione dell'Islam sottrasse all'Impero ampi territori del Mediterraneo orientale e meridionale. L'affermarsi in Europa del dominio carolingio in Europa pose in diretta concorrenza sul piano ideologico. A partire da questa fase che possiamo parlare di Impero “Bizantino”. I mutamenti tra VII e VIII secolo tolsero all'impero una prospettiva universale, trasformandolo in modo definitivo in un'importante dominazione regionale. Alla fine del VI secolo si andò rapidamente declinando il grande progetto giustinianeo, si erano rinnovate le pressioni sui confini e ciò portò a rinnovate pressioni sui confini e a una condizione di continua irrequietezza di settori dell'esercito che faticavano a ricevere gli stipendi; infine le tensioni religiose. Una svolta militarmente significativa avvenne sotto Eraclio (610-641) dove si affermò sull'Impero Persiano fino a eliminarne di fatto la minaccia per Bisanzio; ma questa vittoria fu la premessa per l'affermazione del dominio islamico. La riduzione territoriale e la costante pressione militare fecero attuare dagli imperatori in specifiche regioni una forte concentrazione di truppe e di attribuire pieni poteri amministrativi ai comandanti militari. Si abbandonò il complesso sistema provinciale organizzato di Costantino, in favore di un'organizzazione per temi che passò a indicare una struttura istituzionale di una piccola regione. Fu infatti la perdita delle grandi province cerealicole a rendere impraticabile il sistema tradizionale romano. La riduzione territoriale dell'impero sollecitò un mutamento strutturale nei funzionamenti del potere e nella circolazione delle risorse. Un nuovo momento di rottura fu rappresentato dal movimento iconoclasta e dalla sua affermazione alla corte imperiale. L'iconoclasmo era la distruzione delle immagini religiose. L'editto in cui nel 730 l'imperatore Leone III vietò la venerazione delle immagini era destinato a creare conflitti all'interno e all'esterno dei confini imperiali. Questa scelta poneva Bisanzio in diretta contrapposizione alla Chiesa di Roma. Imperatori come Leone III e Costantino V erano alla ricerca di una religiosità più austera e di un'ortodossia rigorosa. Possiamo vedere nell'iconoclasmo la volontà di rivendicare il ruolo dell'imperatore come centro assoluto della società bizantina. La connotazione religiosa del potere imperiale appariva infatti offuscata dal diffusissimo culto dei santi e delle immagini. Nel concilio di Hierea del 754, quando Costantino V ottenne la condanna formale del culto delle immagini. La condanna di Hierea non fu l'esito di un concilio ecumenico, ma fu opera solo della Chiesa bizantina. Fu dura l'opposizione del mondo monastico, i monaci furono quindi promotori della sesistenza all'iconoclasmo e furono oggetto di condanne e persecuzioni. La pressione iconoclasta si attenuò con con Leone V e poi con la vedova Irene, il concilio di Nicea del 787 riaffermò la liceità del culto delle immagini. L'iconoclasmo fu riaffermato in più moderate nel concilio di Costantinopoli dell'815 andando poi a indebolirsi fino a essere condannato in un nuovo concilio di Costantinopoli nell'843. L'orientamento iconoclasta di Bisanzio fu quindi un elemento di allontanamento tra le due chiese. La tensione iconoclasta rientra in quel lungo processo di rotture e riavvicinamenti che segna la storia dei rapporti tra i patriarchi di Roma e Costantinopoli. Le articolazioni del mondo islamico e bizantino nel 750 gli Omayyadi furono deposti da una nuova dinastia, gli Abbasidi. Lo spostamento della capitale nella neonata Baghdad fu il segno di una trasformazione della natura del califfato che perse le caratteristiche arabe per divenire più pienamente un dominio islamico, privo di connotazioni etniche. In diversi contesti gli emiri (delegati del califfo a governare ampi territori) assunsero una piena autonomia di azione. Le zone a rendersi autonome furono Ifriqiya (nordafrica), l'Egitto e la penisola iberica dove prese il potere un principe Omayyade sfuggito al colpo di stato. L'emiro di al-Andalus seppe coordinare sotto di sé una popolazione molto varia e assunsero il titolo califfale nel 929. il dominio islamico nella città di Cordova rimase nel complesso unito lungo tutto il X secolo. Nel IX secolo, si affermò un secondo importante nucleo di dominazione islamica che arrivò in Sicilia. Dall'827 si aprì una vera e propria campagna di conquista della Sicilia che divenne anche una base per incursioni nelle aree peninsulari fino alla fine del XI secolo quando l'isola fu conquistata dai Normanni. Nell'867 salì al trono bizantino Basilio I che diede inizio a una dinastia che realizzò un ampliamento dell'Impero e che costruirono una rete di fedeltà, di legami politici e spirituali con le dominazioni confinanti. La nascita di due imperi cristiani (Sacro Romano Impero e Impero d'Oriente) fu una divisione politica e prima di tutto una divisione tra le chiese di Roma e Bisanzio dove alla fine del IX secolo vide la supremazia di quella romana. Oggetto delle pressioni concorrenti tra i due imperi furono in particolare gli Slavi: si trattava di un insieme complesso di popoli tra i quali comparivano i Bulgari che esercitarono una pressione militare sui confini imperiali, per poi subire un processo di assimilazione socio- religiosa nella seconda metà del IX secolo. I decenni successivi furono segnati da una ripresa dell'azione militare contro l'Impero che culminò con una minaccia diretta alla capitale e in un trattato di pace largamente favorevole ai Bulgari. Il potere dei Bulgari declinò tra IX e X secolo, andò affermandosi la Grande Moravia con un dominio esteso dall'attuale Germania alla Boemia e Ungheria per poi dissolversi nel X secolo. Queste dominazioni slave di orientarono in questi secoli verso il Cristianesimo. I principi slavi cercavano quindi la conversione, ma ne temevano alcune implicazioni politiche, ovvero una sottomissione a uno dei due grandi imperi cristiani; la chiave del successo di Bisanzio fu la lingua, Costantino (che assunse il nome di Cirillo) e Metodio crearono una grafia comprensibile a slavi e sudditi imperiali facendo entrare gli slavi nell'orbita di influenza di Bisanzio. Nel momento in cui salì al potere la dinastia dei Basilidi (Basilio I ed eredi), la presenza bizantina in Italia sembrava quindi destinata a scomparire. Basilio I cercò invece di coordinarsi con i sovrani carolingi per cancellare le basi islamiche nelle aree peninsulari che portò a un rafforzamento militare e a un riordinamento amministrativo. Capitolo 5 I mutamenti dei poteri comitali L'Impero non crollò sotto il peso di massicce invasioni militari dall'esterno, ma mutò natura dall'interno. Tra la fine del IX secolo e la metà del X secolo le terre dell'impero furono colpite da nuove minacce militari. Le incursioni non furono infatti la causa a difendere dall'azione militare degli altri signori. Il potere dei re in questa fase scomparve totalmente l'attività legislativa regia, i re non intervennero nella vita politica dei loro regni. Lo fecero solo con azioni e testi diversi, prima di tutto i diplomi (concessioni accordate a un singolo destinatario), quindi rinunciarono a creare nuove leggi. Tuttavia i re mantennero una relativa centralità politica grazie alla loro grandissima capacità redistributiva in termini di risorse concrete e di protezione garantita a chiese, e individui. I re dovevano quindi limitarsi a quella che possiamo definire una constatazione attiva dei nuovi poteri signorili. I fondamenti del potere signorile erano locali e pienamente autonomi. Il regno era comunque in grado di legittimare, promuovere e indirizzare gli sviluppi politici locali. I diplomi favorivano quei poteri che conservavano un rapporto di fedeltà con il re. Se i poteri locali ritenevano i diplomi utili e preziosi, il potere regio era tuttora in grado di redistribuire un surplus di legittimità. La crisi postcarolingia non corrispose a una cancellazione dei poteri regi, ma a una profonda ridefinizione della loro funzione politica. L'Impero carolingio ai articolò in quattro regni: Germania, Italia, Francia e Borgogna che non si possono però leggere come stati odierni. I singoli regni erano spazi politici riconosciuti. La Borgogna fu la struttura politica di minor durata; controllata dai Rodolfingi, nel 933 il dominio si allargò alla Provenza. Con la morte di Rodolfo II sia aprì la strada ai re di Germania per affermare il proprio patronato e controllo sulla Borgogna. L'Italia, dalla morte di Carlo il Grosso (ultimo carolingio a comandare l'intero impero) nell'888, seguì per alcuni decenni una vicenda sua propria. Tra 888 e 961 ci furono numerosi conflitti politici particolarmente complessi e violenti, con diiversi potenti che si contendevano il trono. L'opposizione fondamentale fu tra i marchesi del Friuli e quelli di Spoleto. La politica di questi decenni era l'opposizione tra le maggiori famiglie 'aristocrazia italica che cercavano di controllare la corona direttamente o indirettamente. In questo periodo crebbero le ambizioni egemoniche del re di Germania Ottone I, che prima scese in Italia e impose la propria egemonia a Berengario; poi affermò il proprio pieno e diretto controllo sul regno italico, unendo i regni di Germania e Italia. Ne quadro del regno tedesco, si impose un principio elettivo, per cui il nuovo re era scelto dall'insieme dei duchi. Questo principio dovette tuttavia convivere sempre con le tendenze dinastiche. Il re, nelle fasi di maggior forza, era in grado di imporre il proprio figlio come successore, ma nei momenti di debolezza tornava in primo piano il principio elettivo. Nel 911, alla morte di Ludovico, fu scelto Corrado di Franconia. Il suo principale avversario fu Enrico di Sassonia con cui raggiunse un accordo fondato sulla reciproca fedeltà. Alla morte di Corrado l'aristocrazia tedesca scelse il duca di Sassonia come nuovo re. Per più di un secolo la corona si trasmise all'interno della dinastia dei duchi di Sassonia. Il dominio dei re sassoni si ampliò rapidamente e sottomise il re di Lotaringia e il regno d'Italia attuata sotto Ottone I, l'intervento di Ottone in Italia fu l'affermazione sia della sua protezione della regina vedova sia della sua superiorità su Berengario II. Il pieno controllo del regno d'Italia spianava la strada al progetto di prendere il titolo imperiale. Questo non fu possibile prima del difficile scontro con il figlio re di Germania. Questo conflitto politico- militare si risolse a favore di Ottone I nel 954. la pacificazione interna e l'accresciuto controllo sull'aristocrazia furono le premesse per la grande vittoria del Lechfeld del 955. nel 961 Ottone poté scendere di nuovo in Italia, prendere direttamente possesso del regno e ottenere a Roma la corona imperiale in quanto detentore del regno d'Italia e quindi effettivo protettore della chiesa di Roma. L'Impero costituito dall'unione dei regni di Germania e Italia (Borgogna dal 1034) rimase stabile per tutto il resto del medioevo. Il re di Germania veniva eletto dai principi tedeschi, doveva poi scendere in Italia e infine recarsi a Roma per ottenere dal papa la corona. La successione al trono avveniva sì all'interno della dinastia, ma sempre con il consenso dei grandi del regno. Fu più chiara un'idea di linea dinastica, di successione a vantaggio esclusivo del primogenito. La forza di Ottone I e del figlio si espresse nella sistematica occupazione delle diverse sedi ducali per mezzo di membri del loro stesso gruppo parentale, nominando come duchi i cugini, i cognati e i generi del re. Si delineò così un sistema di potere estremamente solido. Le cose cambiarono con Enrico II che apparteneva a un ramo collaterale della famiglia e promosse l'ascesa alla dignità ducale di nuovi aristocratici. Ottone III pose al centro della propria ideologia la nozione di Renovatio Imperii Romanorum e impose come papa un suo cugino che prese il nome di Gregorio V che pochi mesi dopo incoronò Ottone come imperatore. La novità fu tanto più radicale se si considera che, dopo l'Impero carolingio, l'aristocrazia romana aveva avuto il pieno controllo dell'elezione papale; i romani si ribellarono duramente e intervenne direttamente e militarmente Ottone III. Alla morte di Gregorio V, Ottone impose come papa Silvestro Ii, a richiamarsi direttamente al papa che aveva battezzato Costantino. L'azione di Ottone III e della nuova centralità assunta da Roma negli equilibri politici dell'Impero portò l'imperatore a commissionare un palazzo in città. Le nomine di Gregorio e Silvestro indicarono una possibile evoluzione del papato: pontefici di alto livello intellettuale, svincolati dalle lotte di potere interne all'aristocrazia romana, avrebbero potuto consentire una crescita del papato da tutti i punti di vista. Nel 1002la morte precoce di Ottone III (senza figli) aprì una breve crisi dinastica in Germania che si risolse rapidamente con l'ascesa di Enrico II. Dal punto di vista italiano la successione da Ottone III a Enrico II ebbe implicazioni diverse: un gruppo di grandi aristocratici dell'Italia si radunò a Pavia per incoronare re d'Italia Arduino che fu sconfitto da Enrico II nel 1004 e si ritirò. Tuttavia non fu una sconfitta definitiva e solo nel 1014 una nuova discesa di Enrico in Italia pose fine alla vicenda di Arduino. La sua elezione rese però visibile una tensione sotterranea, una ricorrente volontà dell'aristocrazia italica di imporre le proprie decisione della nomina del re. Anche in Francia il declino della dinastia carolingia aprì il campo a nuove dinamiche nella lotta per il regno e una svolta fu la morte di Carlo il Grosso nell'888 a dare il potere al conte Oddone di Parigi che diede inizio a un'instabilità politica che segnò i successivi decenni. Un primo elemento peculiare della Francia fu la sopravvivenza politica dei Carolingi sintantoché alcuni settori dell'aristocrazia incoronarono Carlo il Semplice, che fu incoronato a Reims e si contrappose a Oddone, la cui morte nell'898, rese Carlo unico e indiscusso re. Il diversificarsi del territorio del regno, dalla sua suddivisione in principati regionali largamente autonomi. Il territorio effettivamente dominato dai re, tra Parigi e Orlèans, non era certo più grande dei vari principati. I grandi principi di Francia cercarono di affermare il proprio potere di scegliere il nuovo re; ma al contempo nessuno poteva ignorare la presenza di quella che si stava affermando come la principale dinastia principesca, ovvero i Robertini. I Carolingi che salirono al trono lungo la seconda metà del X secolo non furono certo dei re-fantocci, ma la costruzione dell'egemonia dei Robertini, che culminò nel 987 con l'ascesa al trono di Ugo Capeto, da cui prese il via la dinastia Capetingia. Il 987 è un momento fondativo della monarchia nazionale. È sul piano locale, dei poteri signorili e principeschi che si crearono nuovi funzionamenti politici e furono i grandi vescovi a elaborare modelli di ordine politico che, facevano a meno del re. I processi di costruzione del potere regio si realizzarono anche al di fuori dell'Impero come in Inghilterra e Spagna. La tradizione politica inglese vedeva un'alta frammentazione politica che solo a fatica si era organizzata tra VII e VIII secolo in un numero relativamente ridotto di regni e in un'incerta egemonia del regno di Mercia. Nel IX secolo la progressiva crescita delle incursioni normanne si trasformarono in un dominio stabile sull'area centro-orientale. Una contemporanea e crescente egemonia del Wessex. Il culmine di questo potenziamento fu il regno di Alfredo il Grande che sottomise la Mercia e arrivò a controllare tutti i regni inglesi non compresi nella dominazione normanna. Il figlio Edoardo (899-924) dovette riformare il proprio dominio e riaffermare nel 911 il controllo sulla Mercia. Di nuovo si trattò di un'unione precaria, legata alla personale capacità di dominio del re. Per tutto il X secolo non si può parlare di un regno inglese unitario. Solo dall'inizio del XI secolo si costituì infine un regno inglese unitario. Il re norvegese Knut (Canuto) nel 1016 arrivò ad affermare il proprio controllo sul Wessex e su tutti i principali regni danesi ma non solo, Knut controllava anche il regno di Danimarca e Norvegia. Questo immenso potere di Knut non ebbe seguito, ma ebbe esiti l'unificazione dell'Inghilterra. La profonda integrazione tra i regni che si affacciavano sul mare del Nord. In un quadro politico e giuridico in cui non si era affermato un meccanismo di soglio pontificio di Oddone, priore di Cluny, che assunse il nome di Urbano II. Fu un papa importante per le evoluzioni della spiritualità e della cultura politica europea. Fu lui, per esempio, a ordinare la prima crociata (1095). in parallelo alla crescita di Cluny, il secolo XI fu segnato dall'emergere di altre spinte riformatrici del monachesimo con una più netta ispirazione eremitica. Su questa corrente di pensiero si attestò Romualdo che fondò il monastero di Camaldoli che diede vita a un movimento che trovò come punto di riferimento Pier Damiani. Un modello simile è quello del monastero di Vallombrosa dove la comunità era nettamente e rigorosamente isolata dal mondo, in una sorta di eremitismo collettivo che erano esperienze di in cui la volontà eremitica si risolveva in una dimensione comunitaria. Il cenobitismo tradizionale veniva percepito come troppo morbido e troppo legato al mondo. L'avvio di un lento cambiamento nella coscienza religiosa con i primi segni che separavano la religiosità monastica e il potere. Mutò profondamente anche il ruolo dei vescovi. Con la fine dell'Impero la natura del potere vescovile mutò e si affermò il loro pieno controllo politico e sociale sulle città, fondato sui profondi legami tra vescovo e società cittadina, sul progressivo allontanamento dalle città dei funzionari regi ma anche su specifiche concessioni regie. un caso specifico fu il diploma concesso da Ottone I al vescovo di Parma nel 962 dove la concessione è enorme: Ottone assegnò tutti i beni fiscali compresi nelle città e nel comitato, le mura, ogni diritto di prelievo in città e, per una fascia di tre miglia, il potere giudiziario al vescovo parmense che prese così tutti i poteri del conte. Questo non significa però che il vescovo prese le funzioni e il titolo di conte. Molti altri vescovi ricevettero diplomi simili nel quadro di una politica pronta a sostenere di volta in volta il potente locale più favorevole agli interessi imperiali. Il senso politico di queste operazioni si coglie considerando che i conti avevano ormai abbastanza solidamente dinastizzato la loro carica. I re erano sicuramente in grado di intervenire nelle successioni vescovili e quindi avere un controllo maggiore rispetto a quello sui normali conti. Nei casi di conflitti locali, un re forte poteva intervenire riducendo l'autorità del conte in favore del vescovo, che costituiva un potere affidabile per il re. Il potere del vescovo stava nel fatto che, formalmente, non doveva rispondere al re. Inoltre, ai re era conveniente affidare pieni poteri al vescovo perché permetteva a loro un efficace e indiretto controllo sulla popolazione locale. I vescovi erano uno strumento di potere efficace grazie ai loro profondi legami con la città. Il potere vescovile e la crescita politica della comunità non erano in opposizione, ma erano due processi direttamente collegati. L'efficacia del controllo vescovile sulla comunità cittadina è evidente e la loro concentrazione avviene nell'età dei re sassoni, da Ottone I a Enrico II (961-1024) PARTE TERZA Capitolo 1 nel XI secolo le chiese conservarono una maggiore capacità rispetto ai regni di modellare i quadri sociali. In questo secolo si mette in modo un processo di ripensamento della funzione della Chiesa conosciuto con il nome di Riforma, che si concentrò sul recupero dei beni delle chiese, affermazione della natura inalienabile e indisponibile delle cose sacre. Venne così inserita la simonia (cessione delle cariche in cambio di denaro), il celibato del clero e si individuò la necessità di un vertice della Chiesa libero da condizionamenti esterni. Sotto il pontificato di Gregorio VII questo scontro coinvolse anche l'imperatore Enrico IV eliminando così il ruolo dell'imperatore nella creazione delle cariche ecclesiastiche. I modi di raggiungere la salvezza dovevano essere decisi solo dalla Chiesa e non era necessario capire, ma era sufficientemente ubbidire alle regole. Il fedele disobbediente cadeva in una spirale di perdizione senza fine. diventava eretico chi era Scismatico (creava divisioni). Per una riforma della chiesa: vescovi, imperatori e papi nella prima metà dell'XI secolo una spinta importante per una riforma venne anche dai vescovi impegnati nella riorganizzazione delle loro diocesi. I vescovi del XI secolo si impegnarono in una serie di “recuperi” delle sostanze e dei diritti dati in beneficio sui quali si era perso il controllo. La difesa dei beni ecclesiastici era una concezione sacrale della funzione ecclesiastica. L'imperatore Enrico III (1017-1056) si pose come garante di un processo di riforma della chiesa in generale, estendendo l'azione di controllo anche al papato di Roma. Basti pensare che erano a Roma stati eletti tre papi contemporaneamente. L'imperatore fece deporre i tre papi romani nel 1046 a Sutri e impose il vescovo di Bamberga Clemente II. Era l'inizio di una lunga serie di papi tedeschi, fedeli al re e ai suoi consiglieri. Questi papi furono tutti personaggi impegnati a diffondere, come vescovi e come pontefici, una profonda riforma del clero impostata sulla lotta alla sinomia e al concubinato del clero (nicolaismo). La simonia era un peccato grave e sacrilegio che riguardava la vendita o l'alienazione di cose sacre, dai beni delle chiese alle stesse cariche ecclesiastiche. Fu Simone a dare il nome al reato di simonia: la volontà di comprare o di vendere cose spirituali con un mezzo materiale, il denaro. I teologi e i giuristi riformatori dichiararono appunto le cose sacre, dagli oggetti alle chiese fino alle funzioni sacerdotali “indisponibili”. La vendita delle cariche si riferiva però a una pratica assai diffusa tra le élite politiche dell'occidente cristiano. Donare beni o denaro nel momento in cui si riceveva cariche importanti era una pratica diffusa sin dall'età carolingia. Tra i tanti casi in cui si faceva questa pratica è per l'episcopato. Pagare per la carica era una forma di ringraziamento per chi l'aveva assegnata e di investimento per chi l'aveva comprata: uno scambio accettato. La chiesa episcopale funzionava così e i riformatori lo sapevano bene e dovettero faticare non poco per trasformare una pratica corrente in un delitto intollerabile e poi, addirittura, in un'eresia. Criminalizzare la simonia era dunque un passo obbligato per riaffermare il valore sacrale della funzione sacerdotale. Un secondo campo di tensione si creò intorno al celibato del clero. Per buona parte dell'alto medioevo gli esponenti del clero potevano avere una moglie. Dopo aver preso gli ordini non era possibile spostarsi, ma se si accedeva al sacerdozio dopo il matrimonio, la situazione del prete sposato rimaneva sospesa in un limbo di tolleranza. Ancora più diffuso era il concubinato, la semplice convivenza con una donna al di fuori del matrimonio. In molti casi, queste coppie, spesso con figli erano in grado di assicurare ai propri eredi una carica ecclesiastica senza suscitare grande scandalo nelle gerarchie. Contro queste pratiche, la reazione del clero imperiale è stata sempre molto ferma e questi atti furono condannati in tutte le sinodi provinciali. Nel concilio di Reims del 1049, l'iniziativa riformatrice assunse i toni teatrali e drammatici di un processo pubblico. Colpisce la violenza usata contro i simoniaci e sopratutto la messa in opera di una procedura di accusa pubblica. Si ponevano così le basi di un primato del papa di Roma sulla sorte dei vescovi. Le tensioni fortissime interessava anche la base dei fedeli. Milano fu sede di un conflitto tra i riformatori (patarini) e l'alto clero locale. Lo scontro fu aperto dalla contestazione del clero corrotto da parte di un chierico del clero minore, Arialdo che trascinò una parte dei fedeli in una sollevazione violenta contro i preti giustificati indegni. Egli sosteneva anche la nullità dei sacramenti impartiti dai preti indegni. I patarini tennero in scacco la Chiesa milanese per decenni. anche dopo la l'uccisione di Arialdo, il movimento continuò, ricevendo l'appoggio dei papi riformatori. Il radicalismo dei riformatori si dimostrò eccessivo sul piano politico e pericoloso su quello teologico. Le mediazioni tentate dai pontefici romani fallirono, mentre le violenze contro le chiese suscitarono una reazione dell'alto clero milanese, con un uso altrettanto deciso della violenza armata. Gradualmente venne a meno anche l'appoggio della Chiesa di Roma. La negazione del valore dei sacramenti dati dai preti indegni era una posizione dottrinalmente ambigua. Una visione così terrena del sacro no nera accettabile dal papato e fu condannata come eresia pochi anni dopo. La Chiesa, come istituzione, doveva essere superiore e indipendente rispetto ai comportamenti dei suoi ministri. Il papato riformatore sotto la protezione imperiale affrontò anche il ruolo del papato stesso. il primato di Roma infatti andava rafforzato sia verso l'esterno, sia verso l'interno. Una polemica contro il patriarca di Costantinopoli generò uno scisma definitivo dando vita alla chiesa ortodossa. Verso l'interno, il papato doveva essere protetto dai suoi stessi pretendenti. Da secoli le due chiese seguivano riti e credenze diverse. Su queste basi, il dialogo con la Chiesa di Costantinopoli divenne assai difficile. L'ambasciata di Umberto finì con la scomunica del patriarca ce formalizzò la rottura con la Chiesa di Roma. La rottura fornì argomenti a favore alla tesi dell'unicità della Chiesa di Roma, ma rafforzò anche la convinzione che solo il vescovo di Roma fosse il depositario dell'eredità di Pietro. Il papato, come istituzione, non era ancora stabile con contestazioni a ogni elezione. Niccolò II presentò al concilio di Roma del 1059 un diverso sistema di elezione del papa, che limitava il diritto di voto ai soli cardinali-vescovi, riducendo il popolo e il regni europei. Il papa rivendicava un ruolo di guida delle anime che prescindeva dai confini territoriali dei regni e si sovrapponeva alle fedeltà locali. Su questa visione ideologica di una Chrisianitas la chiesa elaborò un immenso edificio istituzionale e religioso. Andavano controllate e disciplinate tanto le manifestazioni intellettuali del clero quanto le espressioni religiose delle popolazioni locali. Un maestro di nome Graziano, attivo a Bologna intorno al 1140, mise insieme, nel corso di alcuni anni e in redazioni diverse, una raccolta di canoni chiamata Decreto; si tratta di un'opera che riuniva concili, lettere papali, passi biblici intorno alle materie del diritto ecclesiastico. Il Decreto rimase per lungo tempo la principale compilazione di diritto ecclesiastico studiata e commentata dai giuristi di Chiesa (canonisti). Sempre di più l'organizzazione delle istituzioni ecclesiastiche fu sottoposta a regole giuridiche. In primo luogo emerse la necessità di un rafforzamento della gerarchia interna della Chiesa. I vescovi furono sempre più incardinati nelle proprie diocesi e i papi avevano cercato di creare una rete di controllo sui vescovi locali, attraverso i propri rappresentanti (legati apostolici). In tutto ciò il potere locale del vescovo ne usciva sottoposto a quello del pontefice. L'attribuzione di una facoltà di conoscenze e di decidere sui casi più importanti fu a lungo una prerogativa rivendicata dai papi di Roma per affermare il proprio ruolo di guida suprema della Chiesa. I casi da decidere furono così distribuiti in base alla gerarchia dei gradi interni alla Chiesa. Negli ultimi anni del XII secolo si affermò una nuova procedura giudiziaria per conoscere e perseguire i reati del clero; l'invchiesta d'ufficio: uno strumento utile per imporre la supremazia politica del papa. Non si trattava solo di accusare o difendere una persona, ma di valutare se e quanto il comportamento di quella persona, una volta conosciuto da tutti, potesse danneggiare la Chiesa nel suo complesso. Con la procedura inquisitoria si potevano controllare tutti i gradi della gerarchia, anche i vescovi. Il papa riusciva a imporsi sui vescovi perché aveva il potere di giudicare le cause che lo riguardavano. Il papa era da sempre stato “vicario di san Pietro” ma iniziò a usare il titolo ambizioso di “vicario di Cristo”. Intorno al papa si formò un “sacro collegio” formato dai cardinali. Gli affari di governo venivano invece affidati alla curia. Roma e la curia papale divennero nel corso del XIII secolo uno degli enti più ricchi sul piano finanziario di tutto l'occidente dando dimostrazione della potenza economica del papato. Sia il clero urbano sia le diversissime esperienze religiose monastiche andavano definitie e sottoposte a una regola comune. Nelle città episcopali si cercò di ristabilire una disciplina della vita del clero. I canonici, vale a dire i chierici adibiti al servizio della cattedrale, furono nuovamente chiamati a condurre una vita di penitenza, di rinunce e di castità. Si iniziò così la costruzione di nuovi edifici collettivi per ospitare il clero cittadino, chiamate “canoniche”. Intorno alle cattedrali si costituirono i “capitoli” formati dai canonici del vescovo. Il capitolo cattedrale acquisì presto una personalità giuridica autonoma e separata da quella del vescovo. L'organizzazione in capitoli non coinvolse solo i canonici del vescovo, ma i sacerdoti di tutte le chiese importanti. Ogni capitolo, collegiata o chiesa entrava in un sistema governato dal vescovo, ma assumeva una personalità giuridica autonoma. Si trattò di un processo a due facce: da una lato un ordine gerarchico imposto dal papato, dall'altro una diffusione di istituti diversi sparsi in tutta la società cristiana. Il risveglio della vita religiosa coinvolse anche le comunità monastiche. Fra il XI e il XII secolo videro la luce nuovi movimenti. I cistercensi presero il nome dalla prima località dove nacque la congregazione (Citeux in Borgogna) e fu una nuova congregazione dove osservare la regola di san Benedetto in maniera più rigorosa e predicavano un ritorno alla vita “delle origini”, fatta di preghiere, ascesi e duro lavoro manuale. Anche i luoghi erano scelti in funzione di questa vita solitaria e ritirata e ricadevano dunque su luoghi isolati. L'esperimento ebbe fortuna, e trovò l'appoggio immediato dell'arcivescovo di Lione, dei potenti locali e del papa Pasquale II, che mise il monastero sotto la sua protezione. Nel 1119, Stefano Harding scrisse la carta di carità, una regola dell'ordine che venne approvata nello stesso anno da Callisto II e con il moltiplicarsi delle abbazie “figlie” si dovette imporre un coordinamento più stretto. Intorno al 1150 si stabilì il principio che un capitolo generale, una volta l'anno a Citeaux, poteva discutere gli affari relativi ai monasteri e prendere decisioni valide per tutti i 343 monasteri (530 nel XIII secolo). La struttura dei capitoli e il loro funzionamento implicavano complesse tecniche di gestione: i cistercensi divennero in breve tempo degli esperti colonizzatori e dei grandissimi proprietari terrieri. Anche sul piano politico il successo del modello cistercense provocò conseguenze inattese: alcuni abati divennero figure di riferimento per l'intera cristianità; come nel caso di Bernardo di Chiaravalle che ebbe una tendenza radicata ad affermare le ragioni di una Chiesa combattente in difesa di una fede senza compromessi, senza aperture, senza incertezze. L'ordine cistercense divenne così un braccio politico della Chiesa di Roma, un ordine potente che lottava per il potere della Chiesa. Anche i certosini, nati nel 1084, cercavano l'isolamento e il ritiro del mondo. Anzi, realizzarono con maggiore rigore e coerenza una comunità ascetica di preghiera. Il monastero era formato da tante celle, isolate l'una dall'altra, che affacciavano su un piccolo giardino chiuso. I certosini elaborarono un modello misto tra l'eremitismo dei padri del V secolo r la vita in comune del modello cenobitico. Il monaco per la maggior parte del tempo viveva nella cella, dove pregava, dormiva, si faceva i pasti e meditava. Erano escluse attività manuali, contatti esterni, ma anche attività di carità e di apostolato presso i laici. Solo durante le funzioni religiose e la domenica il monaco si univa agli altri per consumare i pasti in comune. Il distacco dal mondo era anche un distacco dalle cose, i certosini avevano un limite per tutto, anche per i monaci che non dovevano essere più di 12. il limite numerico era la garanzia di preservare la dimensione eremitica. Solo nel 1127 Guigo I, priore della Chartreuse, mise insieme una raccolta di Consuetudini, riprese da regole monastiche antiche e aggiornate secondo le esigenze dell'ordine. Anche i certosini scelsero così di assegnare al capitolo generale il potere di decidere le forme di vita da adottare per tutti i monaci e tutti i priori certosini dovevano fare voto di obbedienza al priore generale. I monaci pretendevano di restare isolati. Una pretesa in parte assurda che doveva provocare numerosi scontri con i signori e i contadini locali. Le regole furono redatte dietro le richieste dei vari priori, ma anche su impulso vescovile. Anche i pontefici volentieri offrirono la propria protezione a ordini che si ripromettevano di vivere secondo la regola di san Benedetto. L'inquadramento religioso dei laici ai laici spettava un titolo tutto sommato passivo, di fedele obbediente, consapevole della propria debolezza carnale e della necessaria sottomissione alla guida dei chierici. Due condizione che il mondo del laicato non era disposto ad assecondare senza resistenze. La parola laicus significava l'insieme dei fedeli non insignito del sacerdozio. Per i padri della Chiesa, una distanza incolmabile divideva il clero dagli uomini “carnali” e laici. il decreto di Graziano fu redatto esclusivamente per giustificare la nuova separazione tra i due ordini della cristianità. Nel decreto veniva infatti ribadita la differenza fra la natura “regale” dello stato clericale e quella “popolare” dei laici. Era necessaria anche una protezione giuridica dell'ordine clericale e nessun laico poteva accusare un chierico o anche solo testimoniare contro di lui in un tribunale. Era fatto divieto ai laici di amministrare i sacramenti e di predicare la parola del signore. Gli uomini di chiesa avevano il potere e il dovere di inquadrare il popolo dei laici e portarlo alla salvezza. La vita terrena si svolgeva sotto il segno del sacro, un lungo viaggio scandito dai riti religiosi amministrati dalla Chiesa. Il battesimo si affermò come necessario rito di entrata del fedele nella comunità e l'eucarestia acquistò nuova centralità. Nel XII secolo si delineò una dimensione più costrittiva e individuale della penitenza. Solo dopo la confessione e l'assolvimento della pena, il peccatore poteva ritornare nel gregge dei fedeli. Il matrimonio sottopose a un controllo assai stretto la vita sociale dei fedeli. La morte fu interpretata come la soglia di entrata in una nuova vita ultraterrena. Il culto dei morti si rivelò uno strumento potentissimo. Nelle loro ultime volontà, i fedeli dovevano pensare non solo agli eredi, ma anche alle istituzioni ecclesiastiche. Prese così forma una nuova egemonia religiosa. Le azioni terrene potevano modificare l'entità delle pene e delle ricompense nel regno celeste. Questa pretesa di dominio assoluto degli uomini di Chiesa sulla vita dei laici si scontrò con numerose altre forme di vita religiosa, classificate come eresie nel XI-XII secolo. Le eresie erano le idee, le dottrine e i comportamenti che negavano le basi di questa missione divina della chiesa. Già nei decenni centrali del secolo XI comparvero una serie di movimenti religiosi di indebolì la capacità regia di controllo e le dinastie aristocratiche costruirono poteri locali autonomi, signorie di piccole e piccolissime dimensioni che partivano dalla terra e con terre, castelli e clientele che rappresentarono le fondamentali basi dei nuovi poteri signorili un potere senza delega: terre, castelli, clientele le terre, prima di tutto. Nell'altro medioevo essere ricche significava prima di tutto essere ricchi di terre. I proprietari delle curtes avevano usato la terra per garantirsi i servizi di lavoro dei massari sul dominicum. Le terre avevano un'importanza economica, una rilevanza sociale e un'efficacia simbolica molto più forti che nella nostra società. Le curtes erano frammentate e disperse in molti villaggi e perciò un singolo signore era in grado di incidere sulla società di villaggi diversi. La giustizia regia era lontana, il conte non interveniva più all'interno di tutti i villaggi: i contadini si trovavano a cercare protezione nell'unico potente con cui erano in rapporto, ovvero il proprietario della terra che coltivavano. C'erano tutte le promesse perché si evolvesse in un rapporto di più completa sottomissione. Quando il signore costruì castelli e raccolse clientele armate creò una forza militare che consentiva il salto di qualità,. La dominazione di un signore sui suoi vicini era pienamente a carattere politico. Spesso, ma sicuramente non sempre, il potere signorile trovò la propria base nel castello. Le incursioni saracene e ungare non furono la causa dell'incastellamento, ma la conseguenza della debolezza militare del re e della sua incapacità di garantire sicurezza e pace sociale. Di quel periodo si sono conservati i diplomi regi che autorizzavano a costruire castelli, per difendersi contro i “pagani e i cattivi cristiani”. Per cattivi cristiani si intendevano i membri della stessa aristocrazia. Qualunque castello, nato per iniziative e su basi diverse, a divenire luogo di esercizio della giurisdizione a essere legittimato dalla sua stessa efficacia. I sudditi dovettero cercare protezione dove la potevano trovare: le città attorno ai vescovi. Nelle grande campagne furono i grandi possessori fondiari. Nel secolo CI attorno ai castelli si sviluppò un processo di coinvolgimento e sottomissione della popolazione circostante, un processo per cui la protezione garantita si poteva estendere a gruppi più ampi. La possibilità per i vicini di rifugiarsi nel castello fu la base per imporre loro alcuni servizi, a partire dai turni di guardia e dalle corveès. Questo diede vita a un rapporto di scambio tra protezione e servizi. Gli armati di cui un signore aveva veramente bisogno dovevano essere specializzati, ben equipaggiati e in grado di combattere a cavallo. Protezione e minaccia convergevano nelle stesse mani, che proteggevano e minacciavano le stesse persone. Per coordinare queste bande ci si rivolgeva ai rapporti vassallatici. La natura fondamentale di questo rapporto non era mutata, ma si erano arricchite le sue funzioni sociali e politiche. I rapporti vassallatici erano la principale forma di coesione gerarchizzata all'interno dell'aristocrazia militare. Il vassallaggio fu sempre prima di tutto l'atto cerimoniale con cui il vassallo riconosceva di essere inferiore. Non si era “vassalli” in assoluto, si era sempre vassalli di qualcuno, era una relazione, non una condizione sociale. Gli storici hanno scelto di sostituire l'immagine della piramide con quella della rete. Riunendo attorno a sé i vassalli, i signori poterono costituire la propria forza armata diventando vassalli di figure più potenti, i signori potevano integrare la propria base fondiaria. La formazione dei poteri signorili Gli ufficiali regi erano non solo i principali detentori de potere, ma anche il centro della società aristocratica regionale. Conti e marchesi non furono i difensori dell'ordinamento regio, in opposizione alle spinte signorili; furono parte del mutamento. L'attenuarsi della capacità regia di controllo lasciò maggiore spazio all'iniziativa autonoma delle dinastie di conti e marchesi. In Francia, in Borgogna e in Germania si svilupparono veri e propri principati territoriali, dominazioni più ampie e strutturate delle normali signorie di castello. In Italia si costituirono poteri signorili ma sulla base delle proprie terre, castelli e clientele. Il titolo di conte non corrispondeva più a una funzione effettiva, era appunto un titolo e una memoria dinastizzata. L'aristocrazia funzionale e i grandi possessori si assimilarono progressivamente e giunsero a risultati analoghi: dominazioni patrimonializzate, fondate sul concreto controllo di terre e persone e organizzate attorno alle fortificazioni. I signori cercavano prima di tutto di trasformare i propri contadini in sudditi, chi aveva costruito un castello lo usava per cercare di sottomettere l'intera popolazione dell'area circostante. Questo diede vita a conflitti tra chi controllava un castello e chi disponeva di un grande patrimonio fondiario nei pressi di quel castello. All'interno di una signoria organizzata attorno a un castello e proiettata sul territorio circostante convivevano signorie minori, costruite sul patrimonio fondiario dei signori. Alcune tasse andavano al signore territoriale, alcune al signore fondiario. Questo è un quadro di altissima frammentazione per cui non esisteva un singolo signore del villaggio, ma di fatto ogni contadino si trovava a pagare diverse imposte e a diversi signori chiese potenti e chiese private Per tutto l'alto medioevo, le fonti scritte si sono tramandate fino a noi solo attraverso le chiese e i loro archivi. Le chiese furono le principali sedi di riflessione politica, di elaborazione di modelli di ordine sociale. Bisogna ricordare come le chiese fossero punti di fortissimo addensamento fondiario. Se quindi c'era un flusso quasi continuo di beni dai laici alle chiese, questi patrimoni non subivano gli stessi processi di frammentazione. Questi processi erano connotati da un lungo processo di accumulo, in cui le acquisizioni non erano compensate da atti di cessione. Le chiese facevano le stesse cose delle dinastie ma con mezzi maggiori. La ricchezza e la stabilità patrimoniale non erano i soli fattori che le chiese potevano sfruttare. L'immunità era una larga esenzione fiscale e una tutela dei beni delle chiese; ma intronduceva l'idea che gli edifici e le terre delle chiese fossero spazi in cui gli ufficiale regi non potevano intervenire. Dell'utilizzo della violenza non erano estranei neanche i monaci e chierici, che compivano e facevano compiere atti di violenza nei confronti dei concorrenti e dei propri sudditi. Erano presenti molte “chiese private”, enti religiosi fondati e controllati da una dinastia o da un'altra chiesa. Le “chiese in cura d'anime” avevano la finalità di officiare i culti destinati ai laici, dalle cattedrali cittadine, fino alle piccole chiese di villaggio. Il sistema dominante era quello delle pievi che si ccupavano di circoscrizioni molto ampie. Ciò che davvero le connotava era prima di tutto la presenza del fonte battesimale. Al fianco delle pievi, però, c'erano molte chiese e cappelle minori. La chiesa era il centro della vita sociale locale. L'atto di costruire e proteggere la chiesa era per il signore un modo per impadronirsi di uno dei centri simbolici della società locale. La funzione dei monaci era di pregare. Per un laico fondare un monastero era un modo efficace per ottenere importanti benefici spirituali. La fondazione aveva anche un'importanza materiale: il monastero aveva una funzione di riserva patrimoniale sicura. Ma a lungo termine questa prospettiva ebbe successo in pochi casi; molti monasteri dal secolo XI si svincolarono dal controllo dei laici. L'importanza dei monasteri privati dev'essere vista prima di tutto su un piano di natura simbolica e di elaborazione dell'identità famigliare. L'esistenza di un monastero privato poteva cambiare in modo sostanziale i funzionamenti interni al gruppo parentale. I legami parentali erano più forti e più definiti. Produzione e prelievo in un'età di sviluppo nel corso del XI secolo i contadini divennero sudditi. I signori avevano un potere pienamente pubblico, che faceva tutto ciò che un tempo avrebbe fatto il re attraverso i suoi funzionari. I signori usavano la propria forza armata per togliere ai sudditi la maggior quantità possibile di prodotti e di denaro, secondo la logica di un'economia signorile che era essenzialmente un'economia di spesa. Non si trattava di dissipare le ricchezze, ma di usarle per costruire il proprio potere. Per sostenere queste spese, i signori accentuarono la pressione economica sui sudditi, traendo vantaggio da una lunga congiuntura di crescita demografica ed economica che iniziò nel XIII secolo. In quel periodo si moltiplicarono i flussi migratori e gli spostamenti di popolazione che alimentarono la creazione di nuovi centri rurali. Mutarono anche le condizioni di lavoro, e i dati confermano un generale innalzamento della qualità degli strumenti tecnici a disposizione (attrezzi in ferro). L'aratro in ferro trainato dai cavalli permetteva permetteva arature più profonde e più frequenti, aumentando la produttività dei semi. Venne inserita anche la rotazione triennale che, tramite un periodo di riposo, non faceva esaurire in cicli brevi le capacità nutritive del terreno. Nelle città della Francia meridionale, l'autonomia era maggiore: si elessero dei magistrati chiamati “consoli”. Si trattava di un governo collegiale di cittadini, coadiuvato da un consiglio. La nomina dei consoli era interna a un'élite urbana, i consoli restavano sempre magistrati riconosciuti da un potere superiore. La sensazione che le città europee avessero una natura doppia, quasi bicefala, è rafforzata dalla presenza di due apparati istituzionali in città: da un lato gli ufficiali signorili dall'altro gli scabini e i consoli. I residenti nelle città chiedevano la difesa dei propri interessi, la possibilità di espandere le attività produttive e le relazioni commerciali; al contempo i riconoscevano fedeli al principe. I signori dovevano garantire queste sfere di autonoma organizzazione dei cittadini e limitare le loro pretese fiscali. Restava fermo che il comando militare rimaneva saldamente nelle loro mani Le città tra XII e XIII secolo: unificazione e differenziazione sociale Dalla metà del secolo XII in avanti, il fenomeno urbano si assestò. Le città, formate spesso da parti differenti, furono riunite in un'unica realtà territoriale urbana. La nuova cerchia inglobava ampie zone di terreno non costruito. Le mura divennero comunque il simbolo delle città e segnarono un confine più netto con il territorio esterno. Abitare e “appartenere” a una città era una condizione giuridica e sociale diversa. La concessione di carte di franchigia o di carte di comune ai centri urbani era una pratica generalizzata. Le città erano contraddistinte da questo riconoscimento ufficiale della libertà dei propri abitanti. L'elenco dei propri diritti era la vera forza delle élite urbane. Non tutti erano liberi allo stesso modo. La popolazione urbana subì un processo di stratificazione sociale. Il ceto dirigente del primo comune fu costretto a integrare , gradualmente, nuove famiglie dei borghesi. La ricchezza, in effetti, contava: ma contava sopratutto la capacità di moltiplicare i profitti che l'attività a lungo raggio permetteva in maniera prima sconosciuta. Le accumulazioni di denaro liquido furono infatti rapidissime e questa élite economica conquistò così il potere nel corso del Duecento. Esisteva un frastagliata mondo artigianale e aspirava a una presenza politica non solo passiva. Il prestigio sociale raggiunto da alcune corporazioni di mestiere riguardava in realtà solo i maestri in possesso dei mezzi tecnici più costosi e avanzati. Le città divennero elementi vitali del corpo politico dei regni una volta che questi riuscirono a stabilizzare la loro presenza e furono i regni a “usare” meglio le città. Cap 5 Limiti dei regni nei secoli XI e XIII Nel corso del secolo XII, i poteri di tipo monarchico erano una serie di debolezze strutturali che si traducevano in vincoli e limiti alle capacità d'azione dei vari re. Le dinastie regnanti si fondavano ancora sulle alleanze matrimoniali tra le grandi famiglie aristocratiche del continente. Una trama debole che era in grado però di disegnare quadri territoriali molto diversi nel giro di pochi anni. Sul piano politico, i regni non si distinguevano ancora così chiaramente dai tanti principati vicini. I regni erano sopratutto potenze regionali, o meglio, dovevano avere una base territoriale su cui fondare materialmente la propria esistenza. La supremazia politica era ancora incerta e si dovrebbe parlare,anziché di regni, di principati a tendenza egemonica. La difficoltà tecnica di coordinare sul piano feudale una miriade di signorie con obblighi e diritti diversi. I re e signori “parziali” di grandi vassalli che avevano a loro volta dei vassalli. Questi ultimi non erano per nulla legati al re, ma “un vassallo di un vassallo del re, non è un vassallo del re”. Ultimo grande limite era l'assenza di un vero apparato di funzionari pubblici . I grandi uffici regi erano in mano all'alta nobiltà che circondava il re alternando favore e ostilità secondo i casi. L'Inghilterra dalla conquista al Duecento Guglielmo il conquistatore sbarcò in Inghilterra dalla Normandia nel 1066 e ad Hastings sconfisse l'appena eletto re Harold. La veloce invasione portò a un completo rovesciamento delle istituzioni precedenti e alla sostituzione immediata delle élite aristocratiche anglosassoni e fondarono il loro dominio su una base solida di istituzioni pubbliche. Il regno normanno conservò molte caratteristiche dell'epoca precedente. Prima della conquista, il regno era diviso in circoscrizioni di origine militare e fiscale chiamate shires. Queste unità godevano di ampia autonomia organizzativa e avevano come fine principale l'amministrazione della giustizia attraverso il mantenimento della pace che era centrale anche nella legislazione regia ed era anche un compito del re che egli condivideva con le comunità. Anche Guglielmo riprese questa tradizione. Il giuramento con cui fu incoronato conteneva molti elementi del tradizionale patto tra il re e il popolo, ma la realtà era un'altra e si presentava estremamente difficile. I baroni normanni che avevano seguito Guglielmo in Inghilterra esigevano l'assegnazione di gran parte delle terre dei nobili inglesi, ma anche una relativa autonomia politica nei rispettivi possedimenti e il dominio del re doveva continuare a fondarsi sulla nozione di “popolo”, conservando la libertà di base e l'appoggio dei vescovi e degli abati. Guglielmo restava duca di Normandia, dovette nominare un suo rappresentante (“giustiziere”), eliminò i conti e nominò al loro posto gli sceriffi, ufficiali pubblici incaricati di amministrare la giustizia e sopratutto di controllare le finanze nei singoli shire. Tutti i liberi furono dichiarati sudditi e tutta la terra in concessioni ai baroni fu sottoposta a concreti obblighi di fedeltà militare nei suoi confronti. Era molto difficile ricostruire una vera e propria provenienza feudale di tutte le terre come fossero veramente concessioni regie. Chi aveva la terra era tenuto, in quanto feudatario, a partecipare all'esercito o a fornire un equivalente in denaro. La necessità di conoscere quanti erano gli effettivi spinse Guglielmo a ordinare una grande inchiesta chiamata “Domesday book” che fu il più completo e ambizioso censimento medievale di uomini e terre e del potenziale economico dei beni e fu organizzato per contee, per scendere poi ai feudi, alle centene, alle ville e ai manor. La situazione richiedeva sia il censimento dei tutti i beni posseduti, sia una stima del valore dei beni registrati. Enrico I, figlio di Guglielmo, ricercò assiduamente un rapporto con il “popolo” base inglese emanando la Carta delle libertà in cui prometteva un ritorno alle “antiche consuetudini” inglesi contro quella nuove nuove illegittime e ingiuste (dei Normanni). Le nuove consuetudini era chiaramente id natura fiscale. Enrico si ergeva dunque a difensore di questo “regno oppresso” limitando il campo d'azione dei baroni. Si trattava comunque di un equilibrio precario. Alla morte di Enrico I, fu incoronato il nipote, Stefano di Blois cui si contrapponeva la figli di Enrico, Matilde. Ancora una guerra di successione e ancora dei conflitti civili che provocarono un rafforzamento del potere dei baroni. Le azioni del successore Enrico II intese porre rimedio a questo stato di violenza: la guerra civile e l'erosione del potere regio. Il regno di Enrico II segnò il periodo più importante per l'Inghilterra e non solo perché il matrimonio con Eleonora d'Aquitania unì la Normandia, l'Inghilterra e l'Aquitania; ma perché presero forma in maniera più definita le istituzioni monarchiche del regno inglese. Enrico fece dell'apparato di corte il motore politico del regno. Il punto di raccordo tra il centro e le comunità. Il primo sistema vedeva giustiziere come il vero primo ministro delegato dal re a rappresentarlo in sua assenza e la “curia regia”. Formalmente un consenso alle decisioni del re. Lo “scacchiere” era il responsabile delle finanze pubbliche. Il secondo sistema vedeva un collegio di giudici itineranti che amministravano l'alta giustizia per conto del re nelle singole contee. Il re potenziò le funzioni giudiziarie della corte centrale a Londra che portò ad aprire una corte di giustizia a Westmister. Il controllo dello strumento giudiziario serviva anche a ridimensionare le pretese dei baroni sui sudditi liberi. Enrico riportò in auge la chiamata alle armi, ordinò a tutti i sudditi possessori e liberi di partecipare all'esercito con un armamento proporzionale al reddito. Enrico usò di frequente l'inchiesta come forma di conoscenza collettiva delle situazioni del regno. Sotto Enrico le inchieste rivestirono una funzione più strettamente politica. Egli portava con sé, e in parte scaricava sulla popolazione inglese, il pesantissimo fardello dei possedimenti continentali. Ma questo stato di guerra continua richiedeva un pesante aggravio delle tasse sia nel regno insulare che nei domini francesi. La crisi del regno sotto i figli di Enrico II fu accelerata dalle lotte dinastiche tra i due fratelli, Riccardo e Giovanni Senzaterra. Sotto il regno di Giovanni Senzaterra i rapporti con la chiesa e i baroni si deteriorarono rapidamente. Dopo la sconfitta subita a Bouvines, Giovanni fu apertamente contestato dai grandi del regno che lo costrinsero a firmare un documento di concessioni molto ampie conosciuto come Magna Carta. I regni spagnoli nel secolo XI non erano esattamente dei “regni”; erano di fatto contee di dimensione regionale che occupavano la parte settentrionale della penisola. La Castiglia assorbì il Leòn, ma con due fasi di separazione. Navarra e Aragona furono invece unite fino al 1134. Una maggiore stabilità fu raggiunta solo nel Duecento, quando le formazioni di carattere regio, Castiglia e Aragona, definirono meglio la loro natura territoriale. La lunga permanenza della dominazione araba aveva creato una popolazione nuova che si riconobbe come “ispanica”. La separazione dei due mondi, cristiano e musulmano, non era così netta come ci si aspetterebbe. Furono innumerevoli i casi di collaborazione, protezione, scambio e alleanza tra i re spagnoli. La guerra all'infedele era da tempo un motivo ricorrente del linguaggio politico dei regni spagnoli. Le guerre che segnarono la prima metà del secolo XII furono, tutto sommato, poco decisive sul piano territoriale. Le possibilità di uno scardinamento del sistema di governo musulmano fu aperta dalla crisi interna del regno almovaride. La rigidità dei costumi religiosi imposti, la differenza linguistica e culturale e un regime fiscale opprimente resero il governo almovaride ostile alla popolazione andalusa. La reazione degli almoravidi partì dal Marocco negli anni 1144-1147 e anche le maggiori città spagnole passarono dalla parte degli Almohadi che misero la capitale a Siviglia. Nel 1195 l'esercito musulmano inflisse una severa sconfitta ad Alfonso VIII di Castiglia. La reazione iniziò nei primi anni del Duecento, con la proclamazione di una crociata antimusulmana nel 1211 da parte di Innocenzo III e la vittoria del re castigliano a Las Navas di Tolosa nel 1212. Tra il 1212 e il 1240 i territori nelle mani dei principi cristiani raddoppiarono e si moltiplicarono gli insediamenti di comunità “cristiane” sotto il controllo regio. Un processo di graduale colonizzazione dei territori di frontiera andava avanti fin dal secolo XI. La creazione di villaggi e di città abitate da contadini in funzione di una colonizzazione agricola divenne un tratto della Reconquista. Più la riconquista si stabilizzò, più il destino delle popolazioni di origine musulmana divenne un problema. La Germania e l'Impero la Germania del secolo XI presenta a prima vista un quadro territoriale più stabile. I quattro ducati erano ben saldi nelle mani delle grandi famiglie. Il ruolo del conte era meno forte e a volte poco visibile. I dati demografici disegnano una crescita impressionante della popolazione (da 4 a otto milioni in 3 secoli). L'impero come istituzione continua ad avere un funzionamento intermittente; il problema principale dei sovrani era fu quello di resistere alle ribellioni dei vassalli. Corrado II cercò di regolare i conflitti interni alla vassalità accentrando solo nelle mani dell'imperatore il giudizio ultimo in caso di conflitto. Dovette però proteggere la stabilità del possesso del feudo e la trasmissione ereditaria dei benefici; due azioni che finivano per indebolire l'apparato pubblico dell'Impero. La crisi dei rapporti con il papato e lo scontro vioentissimo con Gregorio VII colpirono duramente il prestigio dell'Impero. In questi anni non solo moltissimi principi gli si rivoltarono contro, ma fu anche eletto, da parte papale, un altro re, Rodolfo di Rheinfelden. Egli creò una base ampia che rendeva i prìncipi poco dipendenti dalle concessioni feudali del re. Ampie porzioni del territorio dei ducati potevano legittimare sentirsi slegate da una fedeltà assoluta all'imperatore. In questo contesto di debolezza iniziò il regno di Federico I (1125-1190), chiamato Barbarossa. Nel corso del suo regno riuscì a rendere temporaneamente unita la Germania de grandi ducati, combatté e sottomise le casate più riottose, fece propria la funzione di pacificatore del regno e fece ricorso al diritto feudale per confiscare i ducati ai principi ribelli. La lotta tra le fazioni dei Weifen e dei Wiblingen prolungava uno stato di guerra interna che favoriva il passaggio di un ducato da una fazione all'altra. Ogni volta che riusciva a entrare in possesso di un ducato, Federico lo divideva diminuendo la forza dei singoli principati. Alla fine del suo regno, i principi laici erano circa 20 e altrettanti quelli ecclesiastici legati direttamente all'imperatore. Nella dieta di Roncaglia del 1158, dopo aver elencati quali erano di diritti regi, aveva stabilito che ogni potere di natura pubblica doveva provenire dal re, attraverso un'investitura formale. L'imperatore usò il diritto romano per rafforzare le sue prerogative feudali. Federico rinnovò il divieto di alienare i feudi, di venderli o dividerli, di giurare fedeltà a più signori e aumentando le pene ai vassalli infedeli. Il Barbarossa cercò di imporre il suo potere come vertice di una gerarchia feudale. Le guerre italiane misero a dura prova l'intera struttura imperiale che nel complesso resse e i principi tedeschi rimasero fedeli al loro imperatore. Resta comunque l'impressione di una fedeltà ancora “personale” non legato alla dinastia. Lo provano i dissidi che scoppiarono sotto il regno del figlio, Enrico VI, che aveva cercato di imporre il diritto di successione dinastica all'impero. A Wurzburg, nel 1196, i principi tedeschi rifiutarono il patto di Enrico e mantennero il diritti di scegliere il futuro imperatore. Enrico VI aveva guadagnato una posizione di forza quando prese in moglie l'ultima edere dei re normanni, Costanza d'Altavilla dalla quale ebbe il futuro imperatore (Federico II). Enrico riuscì a entrare a Palermo nel 1194 e fu eletto re di Sicilia. Il figlio Federico si trovò così a ereditare nello stesso momento il regno di Sicilia e il titolo imperiale. Il regno di Sicilia I cavalieri normanni si erano insediati nelle regioni meridionali dell'Italia nei primi decenni del secolo e costruendo così le basi di un potere locale disperso ma con tendenze egemoniche regionali assai ambiziose. Il controllo esercitato fu infatti violento e inedito. I normanni chiedevano di più e imponevano obblighi maggiori alle popolazioni contadine, alle chiese e alle comunità soggette. Inoltre, non avevano un vero ordinamento gerarchico. Solo una cinquantina di anni dopo i primi sbarchi (1070), la dinastia degli Altavilla si impose come punto di riferimento di un coordinamento unitario tra i diversi territori conquistati. In Puglia occuparono Bari, in Sicilia avevano iniziato una campagna contro i musulmani che portò alla conquista di Palermo nel 1072. fu un evento cruciale perché la conquista avvenne grazie all'appoggio papale. Il riconoscimento papale si rafforzò nel 1098 quando fu conferita a Ruggero una carica simile a quella di legato apostolico in Sicilia. Ruggero ottenne così un controllo diretto sulle istituzioni ecclesiastiche nell'isola. A Ruggero II (figlio di Ruggero I) aiutò molto aver ottenuto nel 1130 da papa Anacleto II (antipapa) il titolo di re, in cambio di un riconoscimento di dipendenza vassallatica verso la Chiesa di Roma, titolo confermato da papa Innocenzo II. L'autonomia dell'aristocrazia normanna sul continente rimase a lungo un ostacolo serio alla tenuta della monarchia. Il regno normanno non era feudale. Davanti all'instabilità del ceto militare, i re normanni ricorsero anche ad altri strumenti per assicurare una solida base economica alla monarchia. In primo luogo lo sfruttamento delle estere terre demaniali di diretta pertinenza regia. Si crearono nuovi ufficiali pubblici nelle città del dominio e quindi un apparato che garantiva gettiti fiscali più sicuri, ma anche nelle terre demaniali si sperimentarono con successo nuove forme signorili di “sfruttamento del lavoro contadino”. Furono gli ufficiali regi a praticare un controllo diretto del lavoro contadino. Ruggero II proclamò una pace del regno, vale a dire il divieto di guerre private in favore della giustizia del re; e riaffermò l'obbligo d fedeltà per i baroni nel 1132.ella dinastia Altavilla rivendicarono un potere con caratteri di esclusività verso i sudditi latini, musulmani e greci; e raggiunsero realmente una relativa egemonia politica in tutte le regioni del regno. Anche in questo caso i re cercarono in primo luogo di limitare le prerogative giurisdizionali dei baroni. La successione imperiale e il regno di Federico II il figlio di Enrico VI e Costanza, Federico, ereditò subito il regno di Sicilia, ma per il titolo imperiale le cose erano più complicate. Il primo conflitto per la successione vedeva contrapposti Filippo di Svevia e Ottone di Sassonia, una riproposizione della faida tra guelfi e ghibellini. Arbitro fu papa Innocenzo III, che cambiò più volte idea. Il papa era però anche tutore legale del giovane Federico che divenne presto un altro pretendente all'Impero. Federico era già re di Sicilia e nel 1211 Innocenzo III lo appoggiò e lo fece eleggere re di Germania nel 1214. Federico fu prima eletto re dei Romani e poi, nel 1220, consacrato imperatore da papa Onorio III. Federico operò subito per un rafforzamento dei suoi domini nelle regioni meridionali e risiedette poco in terra tedesca e la lontano doveva creare le condizioni per mantenere la pace nel regno attraverso compromessi; inoltre doveva sforzarsi di non provocare ribellioni aperte contro il suo governo. superiore in grado di risolvere questi conflitti senza la violenza. Con l'aiuto dei giudici e dei notai si instaurarono delle corti comunali dove era possibile presentare una lamentela o ottenere giustizia dopo un processo. Chi rompeva “la pace della città” veniva bandito e la sua casa abbattuta. La giustizia pubblica divenne una funzione necessaria al mantenimento della vita associata e del comune come ente collettivo. Il comune e le città avevano bisogno continuo di finanziamenti e bisognava convincere i cittadini a pagare le tasse. Essere cives era anche un dovere, liberamente assunto voleva abitare in città; e la traduzione naturale fu la contribuzione volontaria, ma allo stesso tempo doverosa, alle necessità finanziarie del comune. Chi non pagava, in effetti, perdeva la qualifiche di civis e la protezione pubblica della sua persona e dei suoi beni. Lo stretto legame della città con il territorio circostante fu una delle principali conseguenze dell'affermazione del sistema comunale. I comuni progettarono di estendere il loro potere sull'intero territorio diocesano con la città vista come “madre” del territorio. Si cercò di ottenere un potere di coordinamento sul territorio circostante la città, sopratutto sul piano militare ed economico. Era importante avere la possibilità di imporre della tasse ai comitatini (residenti nel contado) come contributo al mantenimento della città. Ai signori rurali apparivano come una forma ingiusta di sottomissione politica e di sfruttamento. Con i signori disposti ad allearsi , si raggiunsero dei compromessi onorevoli. Molti di questi si inurbarono (divennero cittadini) e iniziarono una nuova vita politica come esponenti di spicco del comune. In alcuni casi una volta donato il castello al comune, lo ricevevano in feudo dai consoli. Nei casi più gravi si ricorreva alla forza, assediando i castelli dei signori ribelli. Numerosi privilegi furono furono invece concessi alle comunità di villaggio che si sottraevano al dominio di un signore. Quando era possibile, il comune comprava direttamente i castelli situati in posizioni strategiche. Il dominio su vaste zone del contado era spesso più virtuale che reale. Chiedere un censo alle comunità contese equivaleva ad affermarne il controllo. Questa fitta rete di patti e compromessi costituì la trama del potere della città sul contado. Era una trama a maglie larghe. Rimanevano fuori ampie zone di territorio in mano alla nobiltà militare che riuscì a costruire dei veri e propri principati. All'inizio del secolo XIII alcune tendenze erano chiare. Per esempio la rilevanza politica ed economica delle città sul mare (Repubbliche marinare). Pisa e Genova si lanciarono alla conquista del Mediterraneo occidentale, creando colonie nei principali approdi. Venezia era però la più dinamica e la più ricca, costruì un ampio dominio sull'Adriatico e sui porti d'Oriente. Milano appariva già come una città di indiscussa supremazia politica ed economica , divenne il terminale dei traffici commerciali tra l'Italia e le terre d'Impero, e un centro politico fortissimo. Le città crescevano a ritmo sostenuto, sopratutto Bologna, sede della prima università italiana. La Toscana aveva molte città con territori piuttosto grandi, in perenne lotta fra di loro : Pisa, Siena, Arezzo, Lucca, Firenze. In Umbria e nelle Marche la dimensione dei centri urbani era di taglia minore Una rete di piccole e medie città, spesso appollaiate sulle sommità dei colli, copriva queste due regioni. Erano centri dipendenti da un'economia agraria. Le città italiane alla prova della guerra: lo scontro con Federico Barbarossa nel periodo federiciano si assiste a un ampio, e spesso violento, processo di definizione politica delle istituzioni comunali contro l'imperatore. All'inizio del conflitto ci fu un'incomprensione reciproca, una distanza fra modelli di comportamento tra quello della cancelleria imperiale e quello dei comuni lombardi. Per il giovane imperatore l'Italia sarebbe stata una spina nel fianco, un rebus difficile da sciogliere. Federico vide arrivare a Costanza, nel 1153, due ambasciatori di Lodi vestiti di stracci, simbolo dei “dolori” che i milanesi avevano inflitto alla cittadina. Federico I poteva anche tollerare una guerra tra città, ma solo l'imperatore poteva distruggere e rifondare una città dal nulla. I comuni avevano smarrito il senso delle proporzioni , e Milano anche il limite delle buone maniere che si devono all'imperatore. I milanesi cercarono di comprare con denaro contante il permesso dell'imperatore di mantenere il dominio sulle due città (Como e Lodi). Federico rifiutò e mise al bando i milanesi. Fu guerra. La guerra si preannunciava lunga, a tratti crudele, che mise a confronto per quasi un trentennio Federico Barbarossa con il mondo comunale italiano. Dopo la distruzione di Milano del 1158, Federico impose alle città ribelli dei “rettori” di nomina imperiale, i cosiddetti, “podestà imperiali”. I podestà si distinsero per la rapacità con cui raccoglievano le tasse da destinare alla guerra. Quando, nel 1162, Federico attaccò una seconda volta Milano, radendola al suolo con l'aiuto dei lodigiani, i comuni si misero in allerta. I comuni vedevano nel governo imperiale una minaccia grave alla propria autonomia e decisero di reagire con una lega di comuni alleati a prestarsi aiuto in caso di attacco. Nel 1168 si costituì la Lega Lombarda. Fu un'alleanza di città che sospendevano le ostilità per difendersi da un pericolo maggiore. Anche le città nemiche di Milano entrarono nella Lega. La lega diffuse fra tutti i comuni alleati un modello unico e coerente di città comunale. L'alleanza con il papa, Alessandro III, rafforzò la natura ideologica della Lega. Sul piano militare le azioni di disturbo furono molto più efficaci per fiaccare le armate imperiali dei pochi scontri in campo aperto. Federico aveva risorse limitate e ad ogni spedizione militare doveva convincere i principi tedeschi a fornirgli uomini per l'esercito. Nel 1176 lo scontro di Legnano in cui i comuni lombardi riuscirono a sconfiggere l'esercito imperiale, nel 1177 il papa riuscì a strappare all'imperatore una tregua di cinque anni (pace di Venezia) e allo scadere del termine, nel 1183, raggiunse una concordia definitiva a Costanza. La pace di Costanza Federico la intendeva come una “grazia imperiale”, un atto di generosità con cui consentiva alle città di continuare a godere dei diritti pubblici. Le città ne fecero una sorta di riconoscimento di “fatto delle istituzioni consolari come forma di autogoverno delle città. Le istituzioni comunali non furono più messe in discussione. La fine del periodo imperiale fece emergere nuovi conflitti politici e sociali, e sulla popolazione urbana cadeva il peso maggiore delle spese per il mantenimento degli eserciti; perché, dopo aver combattuto per il comune, non si poteva aver voce sui destini della città. Si aprì così una competizione violentissima, aggravata dall'inadeguatezza del regime consolare, dominato da una ristretta e religiosa oligarchia di famiglie. L'affermazione del comune aperto: podestà, consigli e governi di popolo Le famiglie aristocratiche pretendevano di comandare quasi per diritto. Tra gli anni del secolo XII e i primi del Duecento in quasi tutte le città scoppiarono disordini violenti. Non si contestava tanto il comune in sé, ma la ristrettezza del ceto dirigente che prendeva le decisioni per tutti, la sordità alle richieste di giustizia sociale e la prepotenza del ceto militare. I milites erano esenti dalla maggior parte delle tasse e si accaparravano una parte delle entrate. Fu chiaro ai cittadini che, se non si entrava di prepotenza nel consiglio della città, non si potevano cambiare queste regole del gioco. Vennero creati nuovi raggruppamenti politici che univano i cittadini non nobili, le societates. In primo luogo sorsero le città rionali che radunavano tutti gli abitanti di una parrocchia o di una vicinia con compiti di autogoverno locale e di difesa delle mura. In un secondo momento si aggiunsero le società di mestiere, o “corporazioni di Arti”. Le società avevano inizialmente uno scopo di protezione armata dei propri membri, ma con il tempo si diedero una struttura comune, coordinata, che radunava tutte le Arti sotto un organismo unitario, chiamato “popolo”, una vera istituzione pubblica che si affiancava al comune. Le società avanzarono richieste di natura politica come riservare ai ceti minori una quota di posti in consiglio, far pagare le tasse a tutti secondo le proprie ricchezze, ridurre i privilegi dei nobili, impiegare le risorse per opere pubbliche, creare alleanze utili agli scambi e sopratutto assicurare una pace interna della città. Davanti a queste pressioni, il sistema consolare i rivelò incapace di superare le divisioni e solo alcune città presero atto di questa crisi e cercarono soluzioni alternative. Una via fu quella di sostituire i consoli con una magistratura di emergenza. Questo magistrato fu chiamato podestà. Era un rettore unico, eletto per un anno e investito dei maggiori poteri di governo della città. I primi incarichi andarono a podestà locali, ma presto la scelta si dimostrò infelice , perché le rivalità interne aumentarono anziché diminuire. Si decise allora di chiamare come podestà delle personalità “esterne” alla città, sempre in carica per un anno e con Proprio in questi anni di forte divisione interna si affermò la teoria del “bene comune” come fine ultimo della politica. Il Popolo si presentò come l'unica forma di governo in grado di raggiungere il bene comune; che però faticò a essere raggiunto senza il ricorso a strumenti repressivi e non fu considerato affatto “comune” dalla parte perdente. In molte città l'esperimento del Popolo finì precocemente. I conflitti provocarono una reazione di rigetto delle istituzioni e il potere passò da personalità di prestigio. Un signore che si impose sulle forze cittadine, sostituendosi al comune nella guida della vita politica. Non subito e non ovunque i consigli comunali furono sciolti, la parte avversa al potere dovette però lasciare la città. Non si trattò di una svolta definitiva; una fase di sperimentazione ancora incerta con ritorni improvvisi a governi comunali. Sia nei governi repubblicani-comunali, sia in quelli signorili, il potere politico doveva tornare nelle mani delle forze politiche cittadine. Parte quarta Cap. 1 nel 1215 a Roma, il concilio lateranense IV disciplinava e rinnovava la procedura giudiziaria interna alla chiesa, la lotta agli eretici, le pratiche pastorali e l'inquadramento di queste regole in un sistema istituzionale sempre più centrato sulla figura del papa come guida spirituale e politica. La curia pontificia di Roma divenne un vero centro di potere e di controllo. Il concilio promulgò anche due canoni che cercavano di dare una forma ai nuovi movimenti religiosi, classificandoli come: Predicatori, e i minori (successivamente francescani. L'eresia divenne un campo di tensioni fortissime nella sfera politico-religiosa del tardo medioevo. La Chiesa del papa: apogeo e crisi del papato il concilio lateranense IV riassumeva un'intensa stagione di riforme e di innovazioni istituzionali. Sotto la guida di Innocenza III, fu approvata e resa ordinaria la procedura inquisitoria e fu stabilito l'obbligo di scrittura degli atti giudiziari. Il divieto di intervento dei chierici alle ordalie rese la giustizia più razionale. Si collegarono i sacramenti in un unico sistema di salvezza e andare in chiesa divenne un segno di adesione esplicita alla comunità dei fedeli. Tutte le posizioni eterodosse furono condannate con la scomunica, l'espulsione dalla comunità, il sequestro dei beni e il divieto per i figli di ereditare i beni da una persona scomunicata. In alcuni casi di recidiva si aggiungeva l'aggravante dell'eliminazione fisica delle autorità secolari. Questo era un riconoscimento aperto del grande potere assunto dal pontefice romano. Il titolo di vicario di Cristo sottolineava l'origine divina delle prerogative papali, che non potevano essere messe in discussione da persone o istituzioni terrene. Il papa aveva qualità superiori in virtù della carica che rivestiva che lo portavano a prendere sempre la decisione migliore. Il papa non poteva sbagliare, era infallibile. Da Innocenzo III in avanti, si affermò un'interpretazione letterale: era proprio Pietro a non sbagliare mai e questo potere si era trasmesso naturalmente ai pontefici. Queste esaltazioni del ruolo papale non erano solo teoriche. In primo luogo, furono rafforzate le competenze dei legati pontifici. Sotto Innocenzo III i legati divennero dei veri rappresentanti plenipotenziari del papa sopratutto per le questioni interne alla Chiesa. Questo sancì la superiorità papale sui vescovi locali. Nel Duecento, i pontefici cercarono in ogni modo di mettere sotto controllo l'elezione dei vescovi e si riservarono il potere di trasferire i vescovi da una sede all'altra. Le spinte verso la centralizzazione romana erano veramente forti e forse eccessive. Le tensioni generate dai contrasti tra papa e i vescovi durarono a lungo e durarono a lungo e diedero vita a una vera e propria corrente politica chiamata “conciliarismo” che affermava la superiorità del concilio sul papa. I giuristi del Due-Trecento si divisero. La questione diventava urgente quando il caso della deposizione di un papa giudicato eretico. La possibilità di una spaccatura interna alla chiesa, rimaneva quindi sempre aperta. Il diritto della Chiesa fu profondamente rinnovato nel Duecento. Alla base furono poste proprio le lettere pontificie chiamate decretali e furono raccolte in cinque collezioni che divennero punti di riferimento importanti per regolare la vita delle chiese. Una tappa rilevante fu la redazione di un Codice unico: il cosiddetto “Liber Extra”, voluto da Gregorio IX e composto dal frate domenicano Raimondo che lavorò su tutta la produzione di decretali papali, togliendo l'esposizione dei casi particolari e lasciando solo i passaggi generali e rimase il testo normativo di riferimento fino al primo vero Codice di diritto canonico del 1917. l'accentramento delle autorità richiese un notevole sforzo organizzativo alla curia romana che cercò di articolare meglio le funzioni di governo, lavorando in due settori: quello finanziario e quello giudiziario. La curia romana divenne così la più importante sede giudiziaria dell'Occidente medievale. Il controllo sulla gerarchia episcopale divenne ancora più assiduo quando si perfezionarono due fondamentali strumenti di governo: i peccati dai quali solo il pontefice poteva assolvere , e il potere di concedere una dispensa dall'osservanza di alcune norme canoniche. Fu istituito anche un ufficio chiamato la Penitenziaria. La Chiesa romana aveva raggiunto una centralità indiscussa nel mondo politico e religioso del medioevo europeo. Nuove forme di religiosità monastica: gli ordini mendicanti la rinascita delle città, dei commerci, l'affermarsi di nuovi ceti sociali e di nuove esigenze religiose portavano una moltiplicazione di esperienze, di movimenti, di congregazioni di fedeli laici. Un fermento a cui la Chiesa guardava con sospetto e interesse. In questo contesto presero forma due movimenti religiosi destinati a cambiare in profondità la struttura della Chiesa medievale: i predicatori fondati da Domenico e i minori fondati da Francesco d'Assisi, chiamati ordini mendicanti. Proponevano una vita vicino alla povertà del vangelo, fondato sulla rinuncia dei beni, sulla carità e sulla predicazione aperta a tutti. I mendicanti non erano monaci, ma frati e ciò li rese più credibili come pastori e come guide spirituali. I mendicanti riuscirono a svolgere un ruolo di mediazione importantissima. I mendicanti divennero uno strumento di controllo delle coscienze e di repressione dell'ortodossia in tutte le sue forme: ormai inseriti nel corpo istituzionale della chiesa (i frati dovevano essere ordinati preti) come predicatori e come confessori, e fu affidata l'inquisizione contro l'eresia. L'origine dei frati predicatori è strettamente legata alla lotta anticlericale. Un canonico spagnolo, Domenico, al seguito del vescovo di Osma, decise di prestare la sua opera missionaria per contrastare l'eresia. La contestazione trovava sempre più ascolto nelle popolazioni locali. Domenico ebbe l'intuizione di unire una predicazione esemplare con una preparazione dottrinale; “esemplare” voleva dire che il predicatore doveva essere di esempio e dunque fare propri quegli ideali di povertà e di semplicità che la popolazione sembrava apprezzare; Domenico scelse così di presentarsi vestito umilmente e a piedi. Domenico organizzò un primo gruppo di seguaci che aumentò nel corso degli anni Venti e Trenta del Duecento. Il nuovo ordine fu approvato da Onorio III nel 1216 e, poco dopo, nel 1221, ne furono redatte le Costituzioni. Caratteristica principale fu la formazione culturale richiesta ai nuovi frati, necessaria per contrastare con argomenti teologici corretti le teorie degli eretici. Nei conventi doveva esserci un insegnante di teologia e lo studio era parte integrante della vita conventuale. L'origine dei minori è legata alla figura di Francesco d'Assisi, nato nel 1182 da un'agiata famiglia mercantile e lentamente convertito a una vita religiosa. Francesco pose come inizio della sua conversione l'incontro con i lebbrosi. Bisognava iniziare dagli ultimi a scorgere in tutte le forme di emarginazione una traccia della presenza di Cristo. Fu un'intuizione la scelta di povertà assoluta e di rinuncia a tutti i segni di potere. Tra il 1207 e il 1208, iniziò la predicazione itinerante con i primi fratelli. L'accenno a una “scrittura” si riferisce a una proto-regola approvata oralmente da papa Innocenzo III fra il 1209 e il 1210. nella regola “non bollata” del 1221 si presentano alcuni punti fissi dell'ordine minoritico: i frati dovevano rinunciare a tutti i beni, donarli ai poveri, vestirsi con un tunica di panno vecchio, lavorare, non avere possessi né individuali, né comuni ed evitare in tutti i modi il contatto con il denaro; solo nel caso in cui non fosse stato loro pagato il prezzo del lavoro, potevano ricorrere all'elemosina. La ricerca di beni doveva quindi essere limitata al soddisfacimento dei bisogni naturali. Non era una fuga dal mondo, né una critica di natura sociale, né tantomeno un attacco alla Chiesa ricca e potente di Roma. Era il tentativo di conciliare una visione spirituale della presenza nel mondo dei cristiani con le necessità della vita quotidiana della sua comunità. La povertà aveva due dimensioni: una esterna e una seconda interna, che richiedeva invece la rinuncia alla propria interiorità per consentire a Dio di entrare nell'animo umano e di portarlo verso la salvezza. L'ordine doveva essere inquadrato in un sistema di regole comuni , anche se i
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