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Riassunto "Storia medievale" Provero, Dispense di Storia Medievale

Riassunto del manuale di storia medievale di Provero e Vallerani

Tipologia: Dispense

2020/2021

In vendita dal 18/01/2023

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Scarica Riassunto "Storia medievale" Provero e più Dispense in PDF di Storia Medievale solo su Docsity! Storia Medievale Parte prima LA TRASFORMAZIONE DEL MONDO ROMANO CAPITOLO I — L’IMPERO CRISTIANO | — 1 IL SISTEMA IMPERIALE TARDOROMANO Momento fondamentale di transizione verso fine II secolo, con stabilizzazione del con- fine dell'impero sul limes del Reno e del Danubio. Da qui inizia impero tardoantico. Questo impero era al suo interno molto eterogeneo con gradi di romanizzazione diffe- rente, il tutto coordinato da una straordinaria macchina statale. Essa entrò in crisi nella seconda metà del III secolo con una serie di lotte per il trono. Il potere imperiale fu ripristinato con forza da Diocleziano, che affermò un efficace con- trollo su tutto il territorio: a partire dal 285 e condivide il potere con Massimiano, con una netta preminenza. Non una divisione dell’impero, ma una presa di coscienza della com- plessità dello spazio politico-militare. Nel corso del IV secolo due furono i passaggi fondamentali, la fondazione di Costanti- nopoli e il regno di Teodosio con la sua successione. Costantinopoli fu fondata nel 324 come residenza imperiale. Ulteriore anomalia fu la presenza di un Senato, che in quel momento rappresentava una sorta di appendice di quello romano. La città diventerà capi- tale vera e propria a partire dal V secolo. L'altra trasformazione fondamentale fu la divi- sione stabile dell'impero, che si realizza nel 395 con la successione a Teodosio I. La sud- divisione fu necessaria per un efficace controllo di territori diversificati e minacciati: perciò i figli Arcadio e Onofrio ottennero rispettivamente l’Oriente e l’Occidente. Possiamo quindi parlare di impero d'oriente a partire dal V secolo. Una macchina statale così complessa richiedeva un afflusso costante di denaro per sostenere i tre grandi capitoli di spesa: la burocrazia, la capitale e l’esercito. Essi erano sostenuti da un prelievo fiscale capillare, da cui erano esenti i cittadini che non possede- vano beni fondiari. Questo meccanismo costituiva la struttura portante di un sistema di circolazione economica che attraversava l'intero Mediterraneo e l'Europa, principalmente di moneta e beni primari; peculiarità dell'età imperiale è che le diverse regioni erano eco- nomicamente interdipendenti. Sulla base di queste fondamentali dinamiche, il tardo antico fu caratterizzato da alcune specifiche evoluzioni. La fine dell'espansione militare determinò anche la fine dell'espan- sione economica, che cambiò da molti punti di vista l'economia romana. Per quanto ri- guarda le esigenze economiche, il contesto politico-militare fece sì che non fossero com- primibili le spese militari, sempre ingenti a causa della spinta sul limes. Questa continua richiesta di moneta in pausa gli imperatori per tutto il IV secolo una politica inflazionistica, riducendo l'effettiva presenza di metallo prezioso nella moneta, a danno dei ceti più pove- ri; quindi i costi dell'unificazione superavano via via i vantaggi. Al contempo cambiò il rapporto tra l'Italia e le province, con la prima che perdete sem- pre più rilevanza produttiva, divenendo soprattutto luogo di consumo dei prodotti. | — 2 L’ESERCITO, IL LIMES, I BARBARI L'esercito era uno dei capitoli di spesa più onerosi, soprattutto perché era stipendiato. La coscrizione obbligatoria era stata infatti sostituita da una tassa sostitutiva che i grandi proprietari pagavano per esentare i propri coloni, in modo da avere manodopera. Nel cor- so del IV secolo si definirono due settori fondamentali, comitatenses e limitanei. 1 Il limes è una struttura chiave perché fu qui che si sviluppò il confronto tra romani e popolazioni barbare. Esso era costituito da una serie di fortificazioni, ma soprattutto da un'ampia fascia di incontro, scontro e scambio tra le popolazioni inquadrate nell'impero e quelle che se ne tenevano all’esterno; le stesse popolazioni barbare non erano opposte a quelle romane, ma erano espressione di un sistema di civiltà periferico. Barbari era un termine a carico di giudizio, poiché lo erano i non romani. Un'altra pos- sibile definizione è Germani, anche se questi gruppi non avrebbero pensato a Sava come gruppo unitario. Possiamo parlare di etnogenesi, ovvero percezione soggettiva, costru- zione dell'etnia, che non era stabile e permanente, ma espressione di una scelta. I popoli militarmente più forti e stabili divenivano delle forze di attrazione, ma indub- biamente la struttura politica più attraente era l'impero romano; quindi la mobilità dei gruppi barbari nacque da una ben specifica opportunità per usare le proprie capacità, e la presenza barbara inizio molto prima del crollo dell’impero. Questo incontro assunse an- che connotati politici, dal momento che l'inserimento favorì l'accelerazione del processo di etnogenesi, portando singoli campi barbari a ricoprire cariche di rilievo. Il capillare processo di penetrazione si protrasse a lungo, durante il III e il IV secolo, senza che questo implicasse una forma di invasione. Negli ultimi decenni si assistette ad un'accelerazione del fenomeno, sotto la spinta militare degli Unni. Il 378 è una data chiave, poiché la sconfitta ad Adrianopoli e la morte dell'imperatore ebbero un fortissimo impatto sull'immaginario collettivo, segnando una netta divaricazio- ne tra oriente e Occidente. Si avviò in modo più netto la differenziazione tra le parti del- l’impero. Momento di svolta ci fu nei primi decenni del V secolo, che vide un intensissimo mobi- lità militare da parte di eserciti difficilmente inquadrabili. L'esito più importante fu il sacco di Roma del 410. Questa crisi fu una brusca accelerazione di un processo più lungo, che tra IV e V secolo comportò la riduzione della capacità d’azione imperiale. Questa fase può essere considerata l'avvio del processo di formazione dei regni romano-germanici. | — 3 CRISTIANIZZAZIONE DELL’IMPERO La cristianizzazione non fu semplicemente la diffusione del cristianesimo, ma la tra- sformazione delle strutture di potere in senso cristiano, adozione come religione dell'im- pero e ideologia fondante del potere imperiale. Non fu conseguenza della generale diffu- sione del cristianesimo, poiché l'adesione da parte dei gruppi dominanti fu stimolata dalla nuova ideologia cristiana del potere imperiale. Il punto di partenza sono le persecuzioni, che si svilupparono dalla seconda metà del III secolo. Furono un elemento di novità, espressione di trasformazione del potere imperiale e del crescente assolutismo; quindi fine di un consolidamento della coesione ideologica, oltre a ragioni economiche. Un mutamento radicale si attuò nei primi decenni del IV secolo, quando si arrivò alla libertà di culto, fino a renderla religione ufficiale. Non sono tappe di diffusione della reli- gione ma del suo rapporto con il potere imperiale. La figura di Costantino fu fondamentale perché fu la sua azione a rendere operativo il nesso tra potere imperiale e cristianesimo. Questa scelta non diede il via ad un impero omogeneamente cristiano, ma partire da questi anni gli imperatori videro nel cristianesimo una possibile ideologia unificante e quindi un nuovo fondamento della legittimità dello stesso imperatore; inoltre era coerente con le esigenze religiose ed intellettuali del mondo romano del IV secolo. La funzione di collante richiedeva un'unità teologica del cristianesimo, e questo fu il problema posto dal consiglio di Nicea del 325. La principale decisione fu la condanna dell'arianesimo, con stabilimento del credo; la chiarezza intellettuale della tesi di Ario non era coerente con le finalità salvifiche. 2 Punto chiave fu la circolazione economica indotta dallo Stato, attraverso forme di pre- lievo e redistribuzione, che in età imperiale non resse per difficoltà tecniche. I regni non avevano bisogno di impegnarsi nel compito difficile e impopolare di prelevare le tasse, e anche la burocrazia era più leggera. L’esercito inoltre non era più stipendiato, ma costitui- to da popolo ed élite, ricompensati da cessioni di terre; fu un sistema che superava il fun- zionamento romano, pur essendo un ideale socio-economico romano. Le conseguenze tra V e VI secolo furono che quasi tutti i regni rinunciarono progressi- vamente a prelevare le tasse, causando la rottura della circolazione interna del Mediterra- neo, e la forma di interdipendenza strutturale. Anche all'interno dei singoli regni si assi- stette ad un generale crisi della città e di molti settori produttivi. I nuovi regni erano più poveri dell'impero, così come le aristocrazie ed il re, il quale rimaneva però imposizione nettamente di vantaggio ed accentratrice. I mutamenti economici furono quindi l'esito di trasformazioni sul piano politico, con l'abbandono del sistema di tasse e stipendi, è un passaggio a forme di remunerazione con al centro la terra. Ciò comportò minore quantità di ricchezza disponibile, oltre al de- clino delle funzioni delle città sul piano politico e fiscale. | — 3 L’ITALIA OSTROGOTA Odoacre costruì in Italia un sistema di potere equilibrato ed efficiente, fondato su una piena collaborazione con l'aristocrazia senatoria, a cui venne garantito il predominio eco- nomico e sociale. In generale, tra 476 e 489 l'Italia continuava ad avere un'amministrazio- ne di stampo romano, protetta da un esercito romano stipendiato dalle tasse. Questo potere venne però travolto dall'invasione ostrogota, su iniziativa imperiale di Zenone, che nell'impossibilità di riconquistare il territorio, sollecitò un controllo indiretto da parte degli Ostrogoti. La conquista fu facile, dopo l'abbandono dell'aristocrazia sena- toria, Odoacre si rifugiò a Ravenna, dove venne giustiziato nel 493. Il re Teodorico poté quindi impostare il proprio potere, governando la convivenza tra una piccola minoranza gota (specialmente a nord) e una grande maggioranza di cultura e lingua latina. Il governo di Teodorico si fonda sull'integrazione tra controllo militare dei Goti e un'amministrazione di stampo romano, controllata dalla stessa Elite che l'aveva gestita in età imperiale e sotto Odoacre, perciò in continuità, all'interno di una sottomissione forma- le all’impero. Il parallelismo fu sancito dall'idea di personalità del diritto, e permise sia una convivenza pacifica che il controllo del re. Le trasformazioni italiche non subirono quindi alcuna trasformazione degli stili di vita, ma furono invece i Goti a farlo. I due apparati trovavano un nesso diretto nella figura del re e il suo consiglio, il princi- pale strumento di governo e il solo punto di reale integrazione tra Goti e romani; I due po- poli furono tra loro non integrati, ma complementari. Questo accordo trovò espressione rilevante sul piano religioso, con i Goti ariani, all'in- terno di un contesto cattolico, e in cui si stava consolidando il sistema di dominio sociale ed economico delle chiese, e con loro dei suoi rappresentanti. Scelta di Teodorico fu di conservare la propria fede, ma porsi come protettore di tutte le chiese; massima efficacia nello scisma laurenziane (due papi) del 498. Nel complesso, gli anni di Teodorico furono segnati da una notevole stabilità del potere regale e ciò consentì un ampliamento del potere regale oltre i confini. Da un lato affermò il proprio controllo oltre le Alpi orientali, e dall'altro costruì una rete di rapporti con gli altri regni che gli permise di porsi in posizione egemone in tutta Europa; una rete di legami pa- rentali gli permise una polarità politica di respiro europeo, parallela ed opposta ai Franchi. La debolezza strutturale del regno era però rappresentata dalla mancata integrazione tra romani e Gotti, poiché quando il rapporto tra il potere regale e aristocrazia vacillò, lo fece l'intero assetto politico. L'emergere della crisi inizio nel 518 con le persecuzioni aria- ne ad opera dell'imperatore Giustino, a cui risponde lo stesso Teodorico. Fu l'espressione 5 della rottura della cooperazione tra regno e aristocrazia senatoria, è un processo non net- tamente definibile, e che si tradusse in guerra aperta solo alla morte di Teodorico. Nel 526, alla sua morte, Teodorico trasmise il potere alla figlia Amalasunta, come tutri- ce del re bambino Atalarico. Alla morte del bambino nel 534, Amalasunta si trova in situa- zione di debolezza e perciò sposò ed associò al trono il cugino Teodato. L'accordo fallì, Amalasunta cercò di ricostruire il rapporto tra Goti e romani, e si pose sotto la protezione dell'imperatore Giustiniano, mentre Teodato scelse il conflitto, deponendo ed uccidendo Amalasunta nel 535; ciò offri il pretesto a Giustiniano per muovere guerra al regno. | — 4 ANGLOSASSONI, VANDALI E VISIGOTI 4.1 Anglosassoni Il dominio romano era esteso solo alla parte meridionale della Britannia, ma ciò aveva influenzato cultura e modelli istituzionali anche oltre il limes. Questo influsso si interruppe definitivamente nel 410, quando i romani abbandonarono definitivamente le isole, provo- cando una rottura dei sistemi economici. La fine del dominio fu accompagnata da una serie di incursioni di popolazioni sassoni provenienti dal mare del Nord, che trasformarono nel tempo le loro azioni in insediamenti stabili. Attorno alla metà del V secolo si avviarono i primi insediamenti, costituendo strut- tura politica altamente frammentata, con alta conflittualità e superiorità locale di un'ari- stocrazia più povera rispetto a quelle europee; le popolazioni anglosassoni spinsero sem- pre più a ovest quelle celtiche, fino a marginalizzarle, riducendo il peso della Chiesa cri- stiana. Nell'isola non avvenne una continuità con le istituzioni come altrove, ed una evoluzione alla frammentazione appare avviata tra VI e VII secolo, con una tendenza alla ricomposi- zione tra Mercia e Northumbria. 4.2 Vandali Le province del Nord Africa erano terre ricche soprattutto dal punto di vista agrario e relativamente facili da difendere. I Vandali, partendo dal 429 dalla penisola iberica, si stanziarono su questi territori, di cui conservarono il controllo fino al 534. Fu l'unico popolo il cui stanziamento non era ac- compagnato da alcuna forma di trattativa con l’Impero. Questo regno fu caratterizzato da apparente contraddittorietà, con aspetti di brusca rottura ed altri di rilevante continuità rispetto al mondo romano. Un elemento di rottura fu sul piano religioso, con fenomeni di forte intolleranza verso i cattolici. Fu un contesto di stabilità dal punto di vista economico e soprattutto fiscale, con alti livelli di produzione di grano e olio, e continuità di prelievo fiscale, che contribuì ad arricchire notevolmente i re- gnanti. La forza fiscale ed economica non implica però analoga solidità dal punto di vista poli- tico e militare, probabilmente a causa della mancata integrazione tra popoli; forse anche per questo, il regno cade poi abbastanza velocemente. 4.2 Visigoti Nel processo di insediamento dei Visigoti possiamo individuare tre fasi. Lungo il V se- colo si stanziarono in Galia del sud e penisola iberica; perdono poi nella prima metà del VI secolo alcuni domini a nord dei Pirenei; nella seconda metà del secolo consolidano la loro presenza nella penisola iberica. Il primo insediamento stabile risale al 418 in Provenza, come federati, da cui partì tiran- no per un processo di espansione tra 456-480, senza però riuscire a dominare l'intera pe- nisola. Se però acquisire e rielaborare modelli politici di tradizione romana. Passaggio chiave fu la sconfitta della battaglia di Vouillé nel 507, che sancì ulteriore ri- duzione del dominio a nord dei Pirenei, e l'egemonia sotto il re ostrogoto Teodorico. Nel 6 complesso, fino a metà VI secolo il dominio appare segnata da una ripresa dei modelli politici romani, e notevole instabilità economica. Una fase di trasformazione complessiva è rappresentata dalla seconda metà del VI se- colo, con un chiaro consolidamento territoriale ad opera del re Leongildo, che portò il dominio dell'intera penisola iberica. Da un punto di vista religioso, l'arianesimo era ancora elemento di separazione a cui Leongildo rispose sia con tentativi di conciliazione, sia per- secuzioni. Fu il figlio Riccardo che promosse una conversione, con un successo rapido dato che ad inizio VII secolo l'arianesimo era sostanzialmente cancellato. Soprattutto valorizzo la scelta religiosa in senso politico, con Toledo che divenne sede di una serie di concili; essi furono l'espressione concreta ed evidente dell'accordo strutturale tra regno e vescovi. CAPITOLO III — LA SIMBIOSI FRANCA | — 1 CLODOVEO Il punto di partenza è Clodoveo, che tra V e VI secolo affermò il proprio dominio sulla Galia, in un lento processo di ascesa all'interno dei territori in cui Franchi erano stanziati da tempo. In questi territori troviamo la straordinaria potenza di un aristocrazia senatoria provin- ciale, che in seguito, tra IV e V secolo, si rese specifica nell’attenzione di queste famiglie per le cariche ecclesiastiche, aspetto che va aldilà del semplice contesto religioso. Que- sto popolo, tra IV e V secolo, fu protagonista di un lento processo di romanizzazione, che si avviò molto prima della loro conquista della Galia; in un contesto di marginalizzazione del potere imperiale, i Franchi si affermavano come componente importante non solo del- l'esercito romano, ma come uno dei principali attori politici della regione. La prima figura di riferimento fu Childerico I, attivo nei decenni centrali, che combattè contro i Visigoti sotto il comando di Egidio, costruendosi uno specifico ruolo politico, connotando l'azione militare in senso religioso nel 451. Da ciò ottenne nuova forza e legit- timazione agli occhi dei gallo-romani e vescovi. A completare il processo fu il figlio, che succeduto al padre nel 481, attuò un'efficace politica militare, che gli permise di affermare il proprio controllo su gran parte della Galia, dove spiccavano anche Burgundi e Visigoti. Alla presa del potere e fece seguito la con- versione del popolo al cristianesimo cattolico, con importanti implicazioni di carattere po- litico. Ma l'integrazione tra franchi e gallo-romani si sviluppò a livelli più profondi, soprattutto nell'unione delle due aristocrazie, con fusione di tradizioni romane e germaniche. Tra IV e V secolo, l'aristocrazia senatoria era attenta all’attenzione verso il latifondo, il radicamento in città, l'occupazione delle cariche ecclesiastiche. I gruppi Franchi erano connotati da capacità militari, vicinanza, e legami clientelari. Lungo il VI secolo, si creò un'aristocrazia che sapeva basare il proprio potere su queste azioni, e la forza del popolo nell'alto me- dioevo nacque dalla costruzione di questa aristocrazia mista, e quindi società innovativa. | — 2 CHIESE FRANCHE E MONACHESIMO IN OCCIDENTE Dopo Clodoveo si assistette ad un ulteriore accentuazione del potere vescovile, con l'affermarsi del modello di vescovo aristocratico, ricco e potente. Al contempo erano por- tatori di cultura in senso ampio, e nel corso del VI secolo sia nell'azione locale che affian- cando il re, orientavano il funzionamento politico franco verso funzionamenti della tradi- zione romana. La loro influenza quindi si accentuò sia perché i russi appoggiarono alla capacità vescovile, sia perché la composizione dei vescovi era composta da ricchi aristo- cratici misti. 7 Le differenze nascevano da molti fattori: - specializzazione produttiva, fattore di debolezza in un quadro di maggiore isolamen- to; - Ricchezze della Risto grazia profondamente diverse, che condizionano pesantemen- te la domanda e quindi la produzione; - Danni conseguenti alle guerre, diversi a seconda della regione; - Sistema fiscale romano in alcuni regni conservato più a lungo, portando a maggiore pressione sulla popolazione e quindi maggiore produzione. Un caso di produzione specializzata è quello dell'Africa romana, che si trova a fronteg- giare un calo produttivo dato che la domanda aristocratica interna e l'esportazione non erano tali da sostenere un sistema produttivo già collaudato. Il declino dell'aria e quindi da ricondurre alla generale caduta della domanda in tutto il Mediterraneo. La conquista bizantina del 534 non portò alla ricostruzione di un sistema fiscale che coinvolgesse l'in- tero Mediterraneo, ma solo un prelievo destinato a contribuire al mantenimento della ca- pitale e della difesa della Tunisia. L'Italia fu un'area fortissima frammentazione economica.già per il V secolo si constata un impoverimento dell’aristocrazia, con conseguente calo della domanda. La rottura più profonda sia tuo lungo il VI secolo, prima con la guerra di riconquista imperiale e poi con la conquista longobarda. Nel regno franco, lungo il VI secolo si assistette a un lento abbandono del sistema di prelievo fiscale, base necessaria per un consistente scambio tra le regioni. Ma un dato di fondo di quest'area con la ricchezza e quindi la forte domanda della aristocrazia. Caso opposto e la Britannia. La rottura dell'impero fu una separazione di destini politici ma anche di funzionamenti economici e quindi. Nel Mediterraneo orientale si conserva una rete di scambi ampia e fondata sull'azione statale, mentre in Occidente questo sistema non si conservò, spo- stando la circolazione lo scambio sul dimensioni propriamente regionali. 1.4 CONTADINI I contadini rappresentavano la stragrande maggioranza della popolazione, una massa enorme, deputata a fornire i prodotti di base destinati a garantire sia la propria sussisten- za sia lo stile di vita dell'Elite. Si assistette però in generale ad un calo demografico. Come detto, nell'Europa dei primi secoli del medioevo la aristocrazia era complessi- vamente più povera, e quindi il controllo che esercitava sui contadini era meno diretto e opprimente di quanto era stato prima o sarà dopo. Il tutto si tradusse in forti variazioni re- gionali. Le loro condizioni materiali di vita non mutarono in modo sensibile. | — 2 LE AMBIZIONI UNIVERSALI DELL’IMPERO DI GIUSTINIANO Nel corso del V secolo Costantinopoli assunse le funzioni di capitale dell'impero, in pa- rallelo al declino di Roma. I nuovi e più ridotte orizzonti territoriale il non mutarono in modo rilevante funzionamenti del potere, è lungo e V secolo Costantinopoli si pose in di- retta continuità con l'impero cristiano del secolo precedente. Le forme di questa continui- tà i punti di forza e debolezza dell'impero si possono cogliere in tre aspetti: successione al trono, organizzazione burocratica, sistema fiscale. La successione imperiale non si era mai fondata su un semplice diretta ereditarietà: il modello romano attribuiva il consenso del popolo il primo fondamento della legittima successione, e su questo sirene stato una visione cristiana che collegava l'ascesa alla vo- lontà divina. Questa fluidità di meccanismi si riprodusse lungo tutto l'alto medioevo orien- tale: a Costantinopoli non esisteva una dinastia imperiale la lotta politica di vertice si espresse anche nei ripetuti tentativi di occupare il trono. La dinamica politica dell'impero era quindi intessuta di scontri per l'accesso al trono, che si risolvevano sulla base di con- creti rapporti di forza in assenza di una chiara e univoca norma. 10 Continua instabilità politica era compensata dall'apparato burocratico, che garantiva il regolare funzionamento della macchina imperiale. Si conserva inoltre la separazione tra incarichi militari e civili, che impedì fenomeni di eccessiva concentrazione dei poteri. Lo Stato viveva sulla relazione tra la corte imperiale le province; l'esercito era distinto tra limi- tanei e comitatenses, E non erano sempre e necessariamente sotto il pieno controllo del- l’impero. Questo sistema burocratico poi il principale strumento per gestire il prelievo fiscale, prelevando tasse sulle persone e i loro beni: la tassa fondamentale era l'annona, calcolata sul valore della terra e il numero delle persone che vi lavoravano. Questa azione richiede- vo ovviamente è un complesso sistema documentario amministrativo, un peso burocrati- co considerevole, che l'impero attenuò vincolando le personale terra, vietandole di spo- starsi. Ciò garantì all'impero una buona stabilità finanziaria. Organizzazione di questo sistema burocratico richiedeva la presenza di percorsi di formazione scolastica in campo giuridico. Questo sistema di alta formazione fu alla base della riforma legislativa di Giustiniano, che si espresse nella redazione del Corpus iuris ci- vilis. Il primo problema affrontato fu l'affollarsi disordinato di leggi il cui ricordino fu affida- to nel 528 da Giustiniano ad una commissione di sette giuristi guidati da Triboniano, che l’anno seguente potè presentare all’imperatore il Codex, una raccolta delle principali nor- me imperiali dall'età di Adriano fino al 529. Nel 533 i giuristi di corte presentarono sia il Digesto sia le Institutiones. Poi durante la seconda parte del regno furono pubblicate le Novellai, ovvero le disposizioni imperiali emanate dopo il Codex. Questi quattro testi co- stituirono il Corpus iuris civilis. All'epoca le azioni più vistose di Giustiniano furono sicuramente sul piano militare terri- toriale, nel tentativo di riconquistare l'Occidente. L'ampia azione militare con l'esito di una serie di processi di natura diversa, di cui possiamo trovare tre premesse fondamentali: la relativa tranquillità sul fronte persiano, l'ampia riflessione giuridica politica e il conseguen- te rafforzamento ideologico, la politica fiscale e la legge dirti dell'impegno bellico est. Questi tre elementi stimolarono la ripresa della tutela dei mari e della navigazione, che a sua volta portò ad un consolidamento della flotta imperiale, strumento per le spedizioni di conquista in Occidente. Il primo obiettivo fu il regno vandalo di Tunisia, principale minaccia la sicurezza della navigazione mediterranea e fonte di grandi produzioni agrarie e artigianali. Belisario con- quistò il regno con relativa facilità nel 534. Ben più faticose le altre campagne imperiali nella Spagna visigoto e soprattutto nell'Italia ostrogota, che richiese quasi vent'anni di conflitto. Le armate bizantine attaccarono il sud conquistando la Sicilia per poi risalire la peniso- la, fino alla conquista di Ravenna nel 540, che portò a una trattativa e alla spartizione del- l’Italia. L'equilibrio fu rotto l'anno seguente quando il re goto Totila riuscire una parziale riconquista dei territori imperiali. Giustiniano sostituì Bellisario con Narsete, e dopo un'a- zione via terra riuscì nel 553 a conquistare interamente l’Italia. Fu una conquista lunga e difficile, dovuta la resistenza e quindi la durata del conflitto, che provocarono grandi danni materiali e umani, soprattutto nell'aristocrazia senatoria. Non a caso Giustiniano emanò la prammatica sanzione nel 554, per ristabilire le condizio- ni precedenti al regno di Totila, per quanto riguarda i possessi. Al contempo Ri costituì un governo imperiale, organizzato attorno a un grande funzionario, l'esarca di Ravenna, e lascio l'Urbe e nelle mani del suo vescovo. La fragilità del dominio emerse con chiarezza nel 568, quando lo bombardi valicarono le Alpi e diedero vita a una conquista lunga, violenta e discontinua. Simpatia unirono pri- ma del nord-est, per poi espandersi all'intera pianura padana, sempre esclusi dalla zona di Ravenna. L'impero difesa quello che poteva. Si crearono così due Italie, con il controllo quasi completo delle coste da parte dell'impero. Il confine tra le due non era una linea netta è semplice ma una trama fitta e complessa di territori. 11 Dal punto di vista territoriale dell'eredità di Giustiniano fu quindi fragile, con l'Africa im- periale fino alla conquista araba, la Spagna ridotta fino alla cancellazione del 625 e l'Italia immediatamente conquistata dai longobardi. Ulteriore prenotazione di Giustiniano fu quello te logico ed ecclesiastico in un tentativo di ricostruire l'unità religiosa dell’impero. | — 3 DIBATTITI IDEOLOGICI ED IDENTITA’ LOCALI Nel IV secolo la divisione teologica tra cattolici e ariani va portato la tua grande frattura religiosa ed ecclesiastica. Tra quinto e VI secolo il dibattito teologico si era spostato da piano trinitario a quello cristologico: la questione era la convivenza nella figura di Cristo di una natura divina e umana. Non si tratta di un dibattito chiuso, ma coinvolse anzi l'insieme dei fedeli. Il ruolo di Maria fu al centro del dibattito fin dalle prime formulazioni, quelle di Nestorio, vescovo di Costantinopoli, che sosteneva la presenza in Cristo di due persone distinte e di conseguenza rifiutava a Maria il titolo di madre di Dio sostituendolo con quello di ma- dre di Cristo. Il Nestorianesimo fu condannato eretico nel 431. Esso fondava in modo in- sufficiente l'unità delle due nature di Cristo, e di conseguenza non era fermato in modo solido in pieno coinvolgimento del figlio nella sofferenza e morte di Cristo. È utile sottoli- neare che il dibattito fu al contempo tra le più importanti sedi della Chiesa. Si conservò negli episcopati sottoposti all'impero persiano. Una via teologico posta fu il monofisismo, che subito una condanna nel concilio di Calcedonia del 451. Esso offuscava le due nature, cancellandone le specificità. Il concilio propose una soluzione, il Diofisismo, ovvero la presenza di due nature distinte di integre unite in modo indissolubile nella persona di Cristo. La questione non era ovviamente solo teologica, ma anche politico, dal momento che la posizione diofisita era sostenuta da Roma, Antiochia e Costantinopoli contro Alessan- dri. Lo stesso concilio ratificò l'ascesa di Costantinopoli a ruolo di sede patriarcale, in una prospettiva di pieno al parallelismo con Roma. Queste divisioni teologiche erano anche espressione del grande processo di articola- zione del Mediterraneo in spazi distinti. Obbedire o meno ai decreti conciliari significava anche aderire più o meno solitamente il sistema di potere imperiale. L'impegno tendente a tutelare l'unità della teologia proseguì nel secolo successivo, ed è in questo quadro che dobbiamo guardare l'intervento di Giustiniano, che condanno i tre capitoli, testi diofisiti le cui formulazione spinte portarono all'accusa di nestorianesimo. Si trattò di un tentativo consapevole di avvicinare i monofisiti dei zitto, ma il progetto fallì, perché le chiedo incidente respinsero le posizioni imperiali. PARTE SECONDA Il sistema di dominazione altomedievale CAPITOLO I - NOBILI, CHIESE E RE: RICCHEZZE E POTERI Tra VI e VIII secolo la geografia politica dell'Europa occidentale diventa più stabile, e la fisionomia territoriale dei regni appare nel complesso definita. Constatiamo una conflittua- lità intensa, che non si traduce però in una ridefinizione complessiva dei quadri territoriali. | — 1 NOBILI E RE I regni altomedievali possono essere visti come un equilibrio tra la capacità regio di coordinamento e l'azione politica autonoma dell’aristocrazia. Gli elementi comuni nel rap- porto tra re e aristocrazia si possono individuare nei processi di redistribuzione clientelare 12 alla stessa distinzione tra servi e liberi. I serbi avevano molto in comune con gli schiavi antichi, essendo entrambi non liberi.ma il cambiamento di termine corrisponde ad alcune differenze reali, dato che i servi erano considerati parte della comunità, e potevano otte- nere terre in concessione. A lungo termine la conseguenza di questa frammentazione fu che all'interno del villag- gio ci si trovava di fronte a condizioni giuridiche molto diverse. Ciò non implica che la so- cietà contadina fosse totalmente appiattita in unica condizione socio-giuridica, poiché non tutti erano servi, e soprattutto chi lo era, lo era personalmente. Ciò apriva comunque lo spazio per i grandi proprietari per esercitare una forte pressione sull'intera società con- tadina. Successivamente, con lo sviluppo dei poteri signorili locali, la distinzione tra servi e liberi perderà importanza. | — 3 RETI DI SCAMBIO Si è ritenuto che la Curtis fosse un sistema chiuso e autosufficiente, però questa im- magine è stata in via corretta. Il punto di partenza è costituito da alcune leggi emanate in piena età carolingia. In questa norma emanata da Carlo Magno, si prevede che ogni Cur- tis Fabio al proprio interno ogni tipo di attrezzi artigiano. Ciò offre un'immagine di autosuf- ficienza economica, ma la legge non è mai la raffigurazione della realtà. Non era questa la situazione normale nelle grandi aziende dell'aristocrazia e delle chie- se: le fonti ci attestano mercati settimanali, confluenza dei prodotti verso la città, piccola disponibilità di moneta nelle mani dei coloni, segnali di un sistema di scambi commerciali locali. I ricchi e potenti loro potenza e ricchezza proprio dalla ricchezza fondiaria e le stesse Curtis erano uno strumento fondamentale di gestione di questa ricchezza. Cercare una redditività delle terre significava trarne il necessario per conservare il proprio stile di vita, ma anche un surplus che poteva essere commercializzato; proprio questo serviva la ca- pacità di pressione sui contadini e sul loro lavoro. Non si trattava perciò di una società priva di scambi di moneta, ma c'era una rete commerciale che trovate sui punti di riferimento sia in città che nelle Curtis. Questo scambio commerciale fortemente condizionato dei grandi proprietari, in grado di portare grandi quantità di prodotti e quindi determinare i prezzi. Grandi proprietari erano quindi figurative sul mercato, è proprio la loro capacità commerciale rendeva più interessante prelevare censi in natura piuttosto in denaro dai servi. Non esisteva un'autosufficienza della singola Curtis, ma esisteva una tendenza all'au- tosufficienza livello di sistema. La ricerca della stessa non implicava fatto chiusura la di- mensione commerciale. La coniazione monetaria romana andò semplificandosi drasticamente lungo il VI seco- lo, lasciando spazio ad una molteplicità di diversi grandi. Che sistema destinata ad affer- marsi a livello europeo fu definito dai carolingi nei primi decenni del regno, con base di riferimento la libbra. Non si trattava di una moneta di uso corrente, ma destinata al com- mercio degli acquisti di terra, quindi non quotidiano. Il surplus agrario derivante dall'accresciuta pressione aristocratica permise un consoli- damento demografico nei centri urbani della Neustria e Austrasia, ma trova uno sbocco anche verso il mare, in un interscambio commerciale con le coste settentrionali, di natura diseguale. Questo scambio commerciale diede vita ad un peculiare e nuovo sistema insediativo, gli emporia, organizzati attorno ai porti e sviluppo demografico, assumendo rapidamente caratteristiche urbane e quindi alla base dello sviluppo delle città. Essi furono espressione fisica dello strutturarsi di un nuovo sistema di scambio nell'area che va dalla manica al Baltico, direttamente connesso all'egemonia del mondo Franco. 15 CAPITOLO II - NUOVI QUADRI POLITICI: IL REGNO LONGOBARDO | — 1 I LONGOBARDI IN ITALIA V secolo subirono i due secoli seguenti importanti trasformazioni in direzioni diverse. Vandali ed Ostrogoti furono cancellati dall'espansione militare dell'impero; i franchi con- solidarono il proprio dominio sulla Galia; i Visigoti rinsaldarono la propria presa sulla peni- sola iberica; nell'isole britanniche la frammentazione politica non fu ricomposto; nella pe- nisola italiana si affermò il regno dei longobardi. La dominazione longobarda può essere considerata come un regno romano-germanico di seconda generazione, che condivide molti problemi che abbiamo visto nel V secolo, ma in un contesto profondamente mutato. Essi erano stati all'estrema periferia del siste- ma politico romano, con contatti molto sporadici. Probabilmente sono di origine scandi- nava, e si spostarono prima in Germania settentrionale e poi nell'attuale Ungheria. Qui si innescarono i primi rapporti con l'impero; l'esercito che nel 568 si mosse alla conquista dell'Italia era quindi costituita da un popolo che conosceva la romanità ma non si era ro- manizzato. Essi erano sicuramente un popolo-esercito, e il loro spostamento può essere visto sia come un'azione militare violenta che al contempo una migrazione. L'iniziativa dei longobardi e del loro re Alboino fu una grande opportunità di arricchi- mento, perciò quando si avviò la spedizione si unirono all'esercito molti gruppi che nulla avevano a che fare con i longobardi, ma che vogliono approfittare di questa occasione. Il processo di etnogenesi subisce perciò una brusca fase di accelerazione, permettendo al re di attivare un circolo virtuoso. I longobardi valicarono nel 568 le Alpi dando vita ad una conquista lunga, violenta e discontinua che divise l'Italia in due parti. Entrambe le dominazioni avevano punti di fri- zione, il confine con l'impero non era una linea netta è semplice, ma una trama fitta e complessa di territori e confini. Questa discontinuità territoriale è un dato importante che aiuta a comprendere le ten- sioni con l'impero e il vescovo di Roma, ma è anche il risultato della struttura di potere interno. Il popolo è infatti organizzato nelle fare, gruppi uniti da una solidarietà militare che attivi soprattutto quando il popolo-esercito andava in spedizione. Il potere Reggio nasce- va dal coordinamento delle fare e dei loro duchi. L'ampia autonomia dei duchi si rivela nelle forme dell'espansione longobarda in Italia, dal momento che essi si stanziarono in diverse regioni, individuando delle sedi fisse. Non possiamo quindi ragionare in termini di Ducati ma di sedi ducali, città in cui i singoli duchi si insediava. Il suo potere si estendeva fino a dove non andava a scontrarsi con il potere di un altro duca. Su questa struttura si innestava il potere Reggio, poiché il re era prima di tutto una gui- da militare e la forza fisica era il primo è indispensabile requisito per la sua elezione: egli infatti era eletto di fatto dai duchi. Durante i primi decenni del regno emergono alcuni cambiamenti importanti proprio dal punto di vista del potere reale e dei meccanismi di successione, perciò anche del rapporto tra il re e i duchi. Alboino morì nel 572, E dal 574 al 584 i longobardi rimasero senza un re, probabilmen- te perché i duchi ritennero che non fosse necessario. Infatti con le pressioni dei franchi nel 584 venne scelto un nuovo re, Autari, figlio di Clefi, il re ucciso nel 574. Da qui in avan- ti possiamo giocare continuamente i due principi, elettivo e dinastico. Alla morte di Autari, i longobardi posero la successione nelle mani della vedova Teodolinda, che sposando il duca Agilulfo ne fece il nuovo re. | — 2 LONGOBARDI E ROMANI 16 L'identità longobardo non era quindi un dato stabile, ma era soggetta ad un continuo processo di costruzione. Le questioni relative all'identità longobarda non possono essere delineati in modo semplice netto. Alcuni passaggi appaiono però chiari, dal momento che a partire dall'invasione, i ceti eminenti romani subirono una profonda riduzione delle ric- chezze e dei poteri, che si concentrarono nelle mani dei longobardi e soprattutto dei loro duchi. Un aspetto importante dell'identità collettiva longobarda riguarda la religione, che al momento della discesa in Italia comprendeva sia credenze pagane tradizionali sia il cri- stianesimo ariano. La loro conversione parziale è manifestazione della loro romanizzazio- ne debole. Non si delineò una chiara distinzione o d'opposizione tra cattolici e ariani tut- tavia ciò costituì un perno attorno a cui longobardi poterono consolidare una propria identità etnica distinta. La fluidità di questa identità emerge con chiarezza durante l'età di Teodolinda, la qual era cattolica. Il re Agilulfo rimase ariano, ma acconsentì al battesimo del figlio, e alla fon- dazione dell’abbazia di Bobbio. Ciò non fu l'avvio di una conversione, ma vediamo invece una lunga convivenza tra cattolicesimo e arianesimo, E allo stesso tempo una tendenza della conversione dei longobardi, lenta, e che prese piede in modo contrastato all’interno della corte. Soltanto nei primi decenni dell'VIII secolo il regno fu pienamente cattolico. Questa convivenza e la tendenza la conversione dei longobardi ridussero la rapida- mente la potenzialità dell’arianesimo come fattore di consolidamento dell'identità longo- barda, ma ebbero anche un'altra importante implicazione, non realizzando quel processo di simbiosi tra regno e vescovi, con le stesse cariche che non divennero un obiettivo poli- tico per le Elite del regno. Inoltre questi due fattori contribuirono anche all'ostilità che oppose il regno al vescovo di Roma. L'ostilità e ben indubbiamente un'origine politico-territoriale, ma la componente religiosa intervenne a dare forza ideologica alla tensione. Essa non fu mai superata, nep- pure nell'VIII secolo, quando re come Liutprando e Astolfo diedero vita ad un regno pie- namente cattolico. Molte parti d'Italia continuarono a far parte dell'impero, ma efficacia del controllo o di- scontinua nel tempo e nello spazio, in conseguenza di esigenze fiscali, di tendenze auto- nomistiche. Costantinopoli conserva quindi il controllo di gran parte delle coste italiane, e l'Italia pur periferica continuavo ad avere luoghi che avevano un'importanza speciale. Roma, unica sede patriarcale decidente, con il prestigio di serie D successore di Pietro, e Ravenna, sede dell’esarca. Le potenzialità politico-territoriali del papato si leggono bene seguendo l'azione di Papa Gregorio magno. Egli era discendente di una famiglia aristocratica, di cui fu piena- mente espressione, grazie al suo altissimo livello culturale, e la sua capacità di muoversi sul piano politico e amministrativo, nel contesto di una dominazione longobarda già con- solidata. In questa fase, la società romana dovette prendere atto di quanto fosse illusoria o conservare alcune funzioni e simboli del governo imperiale; in questi stessi anni risale infatti l'ultima riunione del Senato romano. Gregorio i suoi successori si trovano quindi a rifondare su nuove basi il ruolo politico della città, poiché la debolezza dell'impero in Italia era sicuramente un problema, ma per i vescovi di Roma anche un'opportunità interessante. Essi in questi secoli erano figure cen- trali dal punto di vista religioso, ma anche sociale e politico. In quest'ottica si deve legge- re l'azione di Gregorio che uso il ricchissimo patrimonio vescovile per garantire il regolare afflusso di grano in città, agendo come tutore dell'intera comunità. Sono meccanismi analoghi a quelli che riscontriamo per tutti gli altri vescovi. Nel caso di Roma e Gregorio però constatiamo un importante salto di qualità, ed una prospettiva più pienamente politi- ca, quando lo vediamo contrattare direttamente con i longobardi. Gregorio e i suoi suc- cessori si propongono quindi come vertici politici dell'Italia centrale, sostituire un potere 17 La discesa in Italia non fu una spedizione di conquista, ma piuttosto un'azione tenden- te a frenare le ambizioni politico-territoriali longobardi; la stessa non avviò quindi un pe- riodo di tensione conflittualità tra franchi e longobardi e longobardi. La tradizione politica Franca prevedeva che il potere Reggio fosse considerato come parte del patrimonio del re e perciò fosse diviso tra tutti i suoi figli maschi. Questo model- lo non ebbe fine con il passaggio del regno nelle mani dei carolingi, ma per varie vicende i nuovi re poterlo fruire di un lungo periodo in cui il potere rimase ad un solo re: prima Pipi- no, il cui fratello Carlomanno aveva scelto una vita religiosa; poi Carlo, che condivide il potere con il fratello Carlomanno dal 768 al 771, quando la morte del fratello lo lascio uni- co re; infine Ludovico il Pio, che dopo la morte dei fratelli rimase unico erede di Carlo era ignaro da solo dall'814 all'840. Di fatto per novant'anni ci fu sempre un unico re dei fran- chi, e ciò contribuì non poco a dare forza alla loro azione. Carlo, rimasto unico re, nel giro di pochi anni abbia un impressionante campagna di espansione territoriale, che gli porto il dominio di larga parte dell'Europa occidentale. La conquista più importante fu quella del regno longobardo di Italia, poiché affrontò la strut- tura politico-territoriale più definita e con questa conquista il rapporto con il papato fece un salto di qualità, premessa per la trasformazione del regno in impero. Dal punto di vista militare la conquista non fu difficile, e non andò a comprendere tutta l'Italia, così come l'Italia longobarda, poi ci rimasero estranei terre bizantine e papali, oltre alla parte più meridionale. L'azione militare di Carlo non si limitò all'Italia, con l'espansione verso la penisola iberi- ca, modesta, e quella verso le terre orientali della Sassonia.sotto Carlo Magno l'azione militare Franca cambia progressivamente natura, divenendo il tentativo di incorporare la Sassonia nel regno e di assimilare la popolazione: da ciò derivarono sia l'iniziativa bellica tendente alla conquista, che la coloritura religiosa del conflitto. Lo scopo di Carlo era la sottomissione e l'assimilazione dei sassoni. Fu una guerra lunga, che si protrasse dal 772 all’803. Venne inoltre posta sotto più controllo diretto la Baviera, e venne costituita la co- siddetta marca orientale, destinata a tenere sotto controllo le popolazioni slave e pagane. Il confine della dominazione carolingia non corrispondeva ai limiti della sua influenza, che si estendeva ben aldilà. In Spagna e Austria le marche erano luoghi di difesa e di scambio. Sempre sul piano commerciale si articolarono i rapporti tra il mondo Franco e regni anglosassoni. Nel complesso un dominio immenso, la cui novità radicale fu sancita dal titolo di impe- ratore. La conquista carolingia dell'Italia fu coerente con le aspettative del papato, ma l'esito non fu quello auspicato: il Papa lungo il l’VIII secolo ambiva ad un'egemonia su tut- to il territorio italiano, ma la sconfitta longobarda non lascio campo d'azione, limitando l'efficacia ai territori dell'Italia centrale, mentre il nord rimaneva Franco, il sud longobardo e bizantino. La linea d'azione papale negli anni tra VIII e IX secolo fu quindi volta al conso- lidamento sull'Italia centrale, e alla definizione di un rapporto stabile di cooperazione con il regno franco. In questo quadro la posta l'incoronazione di Carlo il giorno di Natale dell’800: Papa Leone III, fuggito da Roma per scampare alla minaccia dei suoi oppositori, fu riportato nell'Urbe e reinsediato da Carlo; ri ottenuta la pienezza dei poteri, Leone incoronò Carlo imperatore, titolo che diede maggior rilievo al suo potere, affermandone in modo simboli- co la superiorità rispetto agli altri regnanti. Tuttavia il titolo imperiale fu direttamente funzionale alle esigenze del potere papale, date le difficoltà di Leone III nei confronti non soltanto delle dominazioni italiane, ma an- che della stessa società romana; era importante per i papi quindi poter contare su un im- pegno stabile e definito di Carlo a proteggere la sede papale. Questo nesso tra titolo im- periale e protezione di Roma sarà proiettato nei secoli seguenti. Sotto traccia rimase viva una potenziale tensione, dato che alla fine dell'VIII secolo la curia papale produsse la cosiddetta donazione di Costantino a, un documento falso del IV 20 secolo che attestava la cessione al papato di tutte le regioni occidentali dell’impero. Il pa- pato in questi anni non uso il documento, ma il fatto stesso che sia stata prodotta la falsa donazione è segno del fatto che alla fine dell'VIII secolo la pacifica collaborazione con i carolingi non era l'unico opzione politica della corte papale. Quando Leone incoronò Carlo, un impero già esisteva, a Bisanzio, e ciò comportò ten- sioni ideologiche: il titolo imperiale era per definizione universale e sul piano concettuale non appariva lecito affermare l'esistenza di due imperatori. Peraltro, il titolo di Carlo era un richiamo molto specifico a Costantino e all'impero romano, la struttura politica rispetto a cui l'impero di Bisanzio si poneva in continuità. L'incoronazione fu quindi oggettivamen- te un atto di concorrenza e di ostilità nei confronti di Bisanzio, reso possibile da una de- bolezza congiunturale. | — 2 CONTI VASSALLI E LIBERI La costruzione dell'impero pose ovviamente grandi problemi di governo: il re era itine- rante, ma non per questo poteva dare vita a un governo diretto. Era quindi necessario un sistema di deleghe, e possiamo dire che l'efficacia del potere carolingio si fondava sul coordinamento dell'aristocrazia laica e delle chiese. Per quanto riguarda l'aristocrazia laica, la funzione chiave era quella dei conti. Alcune aree erano organizzate in circoscrizioni più grandi, le marche, e affidate ai marchesi, il cui potere però non era diverso da quello dei conti. Essi appartenevano a gruppi parentali aristocratici, ma la forza dell'impero si espresse nella capacità di separare efficacemente la loro potenza personale da quella esercitata in nome dell’imperatore. Essi appartenevano a gruppi parentali aristocratici, ma la forza del- l'impero si espresse nella capacità di separare efficacemente la loro potenza personalità quella esercitata in nome dell’imperatore. Il funzionario era infatti potente per il suo patri- monio personale ma anche perché era un conte, tuttavia le due basi di potere erano net- tamente separate, e la dove assumeva la funzione di conte, la sua potenza derivava dalla delega ricevuta, non dalla ricchezza personale. Inoltre in questi decenni la carica era tem- poranea. Proprio su questo piano ci sarà un'evoluzione negli ultimi decenni del IX secolo, quando le funzioni comitale diverranno più stabili, fino a trasformarsi in concessione vita- lizie ed ereditarie. Ciò permise una progressiva convergenza tra potenza dinastica e fun- zionariale. Questa evoluzione è ben Izio non prima della seconda metà del IX secolo. I legami tra l'imperatore e le realtà locali erano garantiti anche da altri funzionari, gli in- viati del re. Le competenze di questi funzionari sono meno chiaramente definibili. È importante sottolineare come l'apparato di governo non fosse fatto di sconosciuti reclutati per la loro competenza, ma di fedeli del re, aristocratici direttamente e stretta- mente a lui legati. Il potenziamento dei Pipinidi all’interno del regno franco, tra VII e VIII secolo, si era at- tuato in misura rilevante grazie alla loro capacità di coordinare l’aristocrazia austrasiana in un sistema clientelare con implicazioni militari. Queste forme di fedeltà assunsero una forma più definita negli ultimi decenni del secolo VIII, con Pipino III e Carlo Magno, in quello che viene definito il rapporto vassallatico. Il vassallo era un uomo che giurava fe- deltà militare ad un potente, impegnandosi quindi a combattere per lui, ottenendone in cambio protezione e sostegno economico. La novità di questi decenni fu la creazione di un rapporto più formalizzato, con una più netta implicazione militare e il suo uso anche per definire rapporti politici ad alto livello. Una delle prime e più chiare attestazioni è quella di Tassilone, nei confronti di Pipino. La rete di fedeltà attraversava l'intera aristocrazia, e la stessa forza dire a carolingi era costituita dalla capacità di coordinare il proprio seguito l'aristocrazia e di tradurre questo coordinamento in forza militare. Il vassallaggio divenne quindi un'integrazione del sistema politico franco. 21 I vassalli reggi furono l'ambito di normale reclutamento dei conti e dei marchesi. Que- sta prassi divenne una norma sotto Ludovico il Pio, che stabilì che chi veniva nominato conte doveva giurare fedeltà vassallatica al re. I due piani non si confondevano perché era chiaro a tutti che essere vassallo era cosa ben diversa ad essere suo funzionario. Le funzioni comitale avevano un carattere duplice: erano un servizio che il conte svolgeva il nome del re, ma anche un'opportunità per questi di arricchirsi. Si trattava di un sistema di equilibrio precario ma efficace, che si ruppe nella seconda metà del IX secolo, quando si ridusse la capacità del rene di redistribuire agli aristocratici ricchezza e potere, e si tempo lì quindi il rapporto tra fedeltà e servizio. | — 3 LE CHIESE CAROLINGIE Dall’800 in poi si definì un intimo e stabile rapporto di cooperazione tra papato e impe- ro, che di fatto entro in crisi solo nel contesto della riforma ecclesiastica dell'XI secolo. I chierici non potevano giurare e non potevano combattere né portare armi, Quindi il legame tra il re e i vescovi non assunse mai le forme del vassallaggio. Ne i vescovi diven- nero conti, ma essi in quanto tali si consideravano ed agivano come collaboratori del re. La cooperazione vescovile alla politica carolingia usava strumenti peculiari del clero, come l'orientare le anime verso l'ubbidienza al re, ma erano in gioco anche le concrete risorse vescovili. Così nelle leggi che preparavano le grandi spedizioni militari, l'imperato- re poteva dare ordini ai propri vassalli, a quelli di conti e marchesi, ma anche a quelli di vescovi e abati, ritenuti a tutti gli effetti parte della forza armata a disposizione del re. Non solo i vescovi quindi ma anche gli abati. I monasteri non avevano infatti i compiti pastorali, ma erano nuclei di santità, fondamentali per l'elaborazione culturale, e grandi punti di concentrazione della ricchezza. Tutti questi aspetti, religiosi, culturali ed econo- mici, devono essere tenuti presenti per comprendere l'impegno reale nel tutelare i centri monastici, che culminò nella riforma promossa da Ludovico il Pio, che consolidò la disci- plina interna ai monasteri E impose la regola di Benedetto. Un'attività di riforma che si al- largò anche al clero, con una serie di concili indetti sempre da Ludovico e tenuti ad Aqui- sgrana, in cui i chierici di corte e promossero la definizione di un testo normativo destina- to a regolare le forme di vita in comune del clero. Benché non fosse mai applicata in modo sistematico, fu una delle espressioni della volontà imperiale di intervenire diretta- mente all'interno delle forme di vita religiosa, simbolo dell’ecclesia carolingia, la comunità cristiana guidata dai vescovi e dall'imperatore verso la salvezza. In questo quadro appare chiaro come le chiese non fossero concepite come entità estranea al potere imperiale, poiché la loro stessa natura cooperava al controllo regio sulla società. I diplomi di immunità invitavano a qualunque funzionario reale di entrare negli edifici e sulle terre del beneficiario per riscuotere tasse o amministrare la giustizia. Non era una concessione di potere, si definiva però uno spazio inviolabile. Per quanto riguarda la giu- stizia, è una prassi che la Chiesa immunitaria consegnasse al conte gli uomini che dove- vano essere giudicati, mentre dal punto di vista fiscale si trattava di un'ampia esenzione. Non per questo possono essere letti come indebolimento del potere reale, ma piuttosto forme di riequilibrio tra i diversi elementi, che andavano a costituire la forza degli impera- tori. La simbiosi ideologica tra Chiesa e impero andava oltre il rapporto che univa i singoli enti religiosi, per trovare accorte le sue espressioni culturalmente e ideologicamente più alte. Presso che tutto ciò che sappiamo dell'ideologia politica dei carolingi c'è arrivato at- traverso le elaborazione e la mediazione di questi intellettuali: in altri termini, sono le chie- se offrire i nostri occhi la rappresentazione del potere carolingio. L'ampiezza del dominio carolingio si rifletteva sull'ampiezza del reclutamento degli in- tellettuali di corte, che coinvolgeva anche i nuclei di potere e di cultura esterni all’impero. La cultura di corte cooperava quindi su ambiti diversi, è strumentale a tutto ciò era la lingua latina. È indubbio che nel IX secolo vediamo emergere le lingue volgari: infatti 22 della Mecca, che si affermò su gran parte del mondo islamico. Tuttavia in alcuni settori si conservò una tradizione culturale-religiosa sciita. Gli Omayyadi posero fine al califfato elettivo, e conservarono il potere fino al 750: fu sotto i primi di essi che si completò l'espansione territoriale e ciò pose problemi impor- tanti di convivenza tra arabi e popolazioni sottomesse. Il califfato aveva infatti una doppia natura, etnico e religioso. Nell’età omayyade essi erano strettamente intrecciati, dato che l'Islam era concepito dall'Elite al potere come la religione degli arabi. All'interno del dominio islamico esistevano quindi due contrapposizioni, una regolata ed esplicita, tra islamici e non islamici; una più implicita tra arabi e islamici di origine non araba. La prima distinzione non si tradusse in forme di persecuzione, con un'ampia tolle- ranza verso le altre fedi, anche se i fedeli furono posti in condizioni giuridiche inferiori. La divisione interna invece non era formalizzata, ma completamente il sistema di potere islamico era un sistema arabo, e i nuovi fedeli potevano integrarsi solo legandosi come clienti ad una tribù araba. I decenni del dominio omayyade furono però un periodo di profonda trasformazione da questo punto di vista. Prima di tutto si spostò il centro a Damasco, con una conseguente marginalità politica della penisola araba. Fu inoltre la fase di sistemazione della fede, con il Corano oggetto di profonda interpretazione, base di riferimento per l'Islam dei secoli successivi. Quest'opera si sviluppò in parallelo alla grande conquista e fu quindi via via influenzata dalle tradizioni culturali sottomessa. Nel complesso possiamo dire che il seco- lo omayyade fu segnato dal lento processo di affermazione del carattere universale dell'I- slam superamento della sovrapposizione tra identità religiosa e etnica araba. Questo pro- cesso troverà il suo compimento con l'ascesa al potere nell'VIII secolo degli Abbasidi, E lo spostamento del centro califfale a Baghdad. L'affermazione islamica su larghi settori del Mediterraneo ebbe riflessi importanti sul piano economico. Il Mediterraneo del VII secolo da tempo non era più un’unità economi- ca, tuttavia meccanismi di interdipendenza su base fiscale si erano conservati nell'ambito dell'impero orientale, che con la perdita dei treni africani dovete dare importanza nuova alla Sicilia. Il mutamento economico fu probabilmente è meno radicale per le popolazioni che passarono sotto il dominio islamico. | — 2 BISANZIO: CRISI E RIORGANIZZAZIONE DI UN IMPERO Dalla metà del VII fino alla fine dell'VIII secolo, l'impero romano d'oriente subì pesanti effetti dell'affermarsi di due nuovi dominazioni, che intaccarono profondamente l'impero sul piano territoriale e ideologico: il primo da parte dell'espansione dell'Islam, il secondo con l'affermarsi in Europa del dominio carolingio. Probabilmente a partire da questa fase possiamo parlare di impero bizantino: nono- stante il richiamo alla romanità rimanga fino alla caduta, tra VII e VIII secolo I mutamenti tolsero all'impero la prospettiva universale, trasformandolo in un importante dominazione regionale. Per comprendere questi mutamenti e necessario risalire alla fine del VI secolo, quando andò rapidamente declinando il grande progetto di Giustiniano, poiché i successi militari erano risultati relativamente effimeri, e l'impegno militare aveva svuotato le casse imperia- li. L'impero bizantino nei primi secoli di vita aveva conservato scelte fondamentali dell'età romana, in particolare la separazione tra potere amministrativo e militare e l'esercito sti- pendiato. Riduzione territoriale e la costante pressione militare suggerirono agli imperatori di attuare in specifiche regioni una forte concentrazione di truppe, e di attribuire pieni po- teri amministrativi ai comandanti militari. Si sviluppò quindi un'organizzazione territoriale per temi, il complessivo inquadramento militare e giurisdizionale di una piccola regione. Al suo interno la difesa fu affidata militare di professione, il cui mantenimento era garantito da una concessione di terre e di esenzioni fiscali. Fu una trasformazione lenta e profonda, 25 compiuta lungo il VII e VIII secolo, in conseguenza soprattutto delle conquiste islamiche: la riduzione territoriale fu un dato importante perché ridusse ad un ruolo regionale, e per- ché sollecita un mutamento strutturale, il quale segna una svolta determinante nel percor- so di allontanamento del mondo bizantino dai modelli romani. Su un piano profondamente diverso fu il momento di rottura rappresentato dal movi- mento iconoclasta e dalla sua affermazione alla corte imperiale. L’iconoclasmo riteneva necessaria la distruzione delle immagini religiose. L'editto con cui nel 730 l'imperatore Leone III dietro alla venerazione delle immagini creò gravi conflitti sia all'interno che all'e- sterno, che rendono difficile comprendere la scelta imperiale. Il punto di partenza per comprendere è prettamente religioso: gli imperatori erano alla ricerca di una religiosità più austera. A fianco di queste motivazioni contribuiscono le scelte di natura politica: la vo- lontà di rivendicare il ruolo dell'imperatore come centro assoluto della società, il principale mediatore tra il mondo e Dio; questa connotazione offuscata dal diffusissimo culto dei santi e delle immagini. Questa esigenza di riaffermare la supremazia imperiale era diret- tamente connessa le pressioni militari che richiedevano piena coesione attorno all’impe- ratore. Hierea del 754, Il culmine arrivo nel concilio di Hirea del 754 quando Costantino V ot- tenne la condanna formale del culto delle immagini. La solennità e legittimità di questa condanna fu messa in discussione dall'assenza di rappresentanti sia delle chiese occi- dentali che degli altri patriarcati orientali. Negli anni successivi i monaci furono quindi promotori della resistenza all'iconoclasmo e furono oggetto di condanne persecuzioni. La pressione iconoclasta si attenuò con Leone IV e poi con la vedova Irene. Il concilio di Nicea del 787 riaffermò la liceità del culto delle immagini, senza per questo porre fine ai conflitti. l’iconoclasmo furia affermato in forme più moderate nel concilio di Costantinopoli dell'815, ma in questi decenni la sua funzione politica andò esaurendosi. Il movimento iconoclasta andò così a indebolirsi, fino ad essere condannato in un nuovo concilio di Costantinopoli nell’843. Importante fu il riflesso dell’iconoclasmo nei rapporti con l'Occidente, come elemento di allontanamento tra le due chiese. L'attenzione iconoclasta rientra in un processo di rot- tura e riavvicinamenti che segna la storia dei rapporti tra i patriarcati di Roma e Costanti- nopoli; I decenni centrali del IX secolo sono segnate da nuove contesa teologiche e con- flitti di natura gerarchica, fino ad arrivare alla rottura nel corso dell'XI secolo. Queste ten- sioni contribuirono probabilmente al rivolgersi di Roma verso i franchi. | — 3 LE ARTICOLAZIONI DEL MONDO ISLAMICO E BIZANTINO Nel 750 si compì un cambio di potere ai vertici del califfato: gli Omayyadi furono depo- sti a favore degli Abbasidi, che restarono al potere fino al XIII secolo, e che segnarono un mutamento importante rispetto agli equilibri di potere costituiti: lo spostamento della ca- pitale nella neonata città di Baghdad fu chiaro segno di una trasformazione della natura del califfato, che perse le caratteristiche arabe per divenire pienamente dominio islamico. Nell’età abbaside l'articolazione territoriale e tecnica del califfato si tradusse in una più chiara articolazione politica: in diversi contesti gli emiri assunsero una piena autonomia d’azione. Nell'ottocento il califfo delegò il governo del Nord Africa all'emiro, concedendo- gli di trasmettere la dignità all'interno della propria famiglia. Alla fine del X secolo fu invece l'Egitto a rendersi autonomo, rivendicando anche per sé il titolo califfale nel 910. Isola iberica fu sottoposta al dominio islamico dall'inizio dell'VIII secolo. L'aria assunse una fisionomia politica più definito attorno alla metà del secolo. L'emirato convissero al- lungo con i regni cristiani, in una dinamica non sempre e necessariamente di conflitto. Soprattutto seppe coordinare una popolazione molto varia. Questa capacità di governo permise all'emirato di affermarsi come una delle maggiori potenze europee del X secolo, tanto da assumere il titolo califfale nel 929, in diretta concorrenza con Baghdad e l’Egitto. Il dominio islamico rimase nel complesso unito lungo tutto il X secolo, per poi articolarsi in 26 dominazione autonomi, che a partire dalla fine dell'XI secolo subirono la pressione militare dei regni cristiani. Comunque il IX secolo si affermò un secondo importante nucleo di dominazione isla- mica con la conquista della Sicilia. Fu solo a partire dall'827 che gli arabi del Nord Africa avviarono un'operazione di conquista, conclusasi solo a fine secolo. La presenza stabile in Sicilia si trasformò lentamente in un domino organizzato e sostanzialmente autonomo fino alla fine dell'XI secolo, quando l'isola fu conquistata dai Normanni. A Bisanzio invece salì al trono nel 867 Basilio I, i cui discendenti conserveranno il pote- re fino al 1025, assegnando una fase di rafforzamento di Bisanzio. La dinastia realizzò un ampliamento dell'impero, con l'affermazione del diretto dominio imperiale sui nuovi terri- tori; al contempo costruire una rete di fedeltà e di legami politici con le dominazioni confi- nanti, un insieme di territori formalmente autonomi ma che rientravano pienamente nel- l'orbita di influenza dell’impero. Sul piano delle gerarchie ecclesiastiche si raggiunse una forma di compromesso alla fine del IX secolo, con il riconoscimento di una superiorità formale di Roma, priva di con- crete implicazioni giurisdizionale; sul piano teologico le divisioni non furono mai sanate. Ci fu una rinnovata pressione bizantina verso l'Italia, in cui nel IX secolo ci fu un doppio mutamento: l'impero carolingio attirò nella sua orbita i territori bizantini del Nord, e la conquista islamica della Sicilia aprivo l'impero bizantino della sua principale base fiscale. Con la salita al potere dei Basilidi metà secolo, la presenza bizantina in Italia sembrava quasi destinata a scomparire. Basilio cerco quindi di coordinarsi con i sovrani carolingi per cancellare le basi islamiche nelle aree peninsulari, consolidando così il proprio con- trollo tra Puglia e Calabria fu rafforzamento militare ma anche un riordinamento ammini- strativo, ma dal punto di vista territoriale ad un'azione molto limitata. CAPITOLO V — SOCIETÀ E POTERI NEL X SECOLO | — 1 I MUTAMENTI DEI POTERI COMITALI L’impero non crollò sotto il peso di massicce invasioni militari, ma mutò natura dall’in- terno, in conseguenza della divisione in regni distinti, e soprattutto per un cambiamento capillare nei comportamenti politici dell’aristocrazia e delle chiese. Tra fine IX secolo e ini- zio del X, le terre dell’impero furono colpite da nuove minacce militari, che non furono la causa della crisi, ma piuttosto una conseguenza, rese possibili dalla ridotta capacità mili- tare carolingia. A partire dalla metà del X secolo le divisioni dell’Impero tra diversi esponenti della di- nastia carolingia indussero una profonda trasformazione nei rapporti trai re e la grande aristocrazia. Questi rapporti, sotto Carlo Magno, avevano assunto una duplice veste, di rapporti vassallatici e funzionaria, che si intrecciavano a dar vita ad un efficace coordina- mento aristocratico attorno al sovrano. Era un rapporto fondato sullo scambio tra servizi e redistribuzione. Nella seconda metà del IX secolo questo equilibrio mutò perché si ridusse sensibilmente la capacità redistributiva dei re, essendosi fermate le grandi espansioni. Al contempo, proprio le divisioni e i ricorrenti conflitti facevano sì che gli eredi di Carlo aves- sero bisogno di un continuo appoggio militare aristocratico e che i più grandi gruppi pa- rentali fossero spesso contesi tra i diversi re. Nella contrattazione politica, l’equilibrio si era quindi spostato a favore degli aristocratici, e quindi i re furono più disposti ad asse- condare le loro richieste, soprattutto la possibilità di poter conservare a lungo la propria funzione e di trasmetterla ai figli. Questo processo fu accompagnato da un mutamento nella natura stessa della funzio- ne, con una saldatura tra funzioni di governo e benefici vassallatici. Perciò le stesse fun- 27 segno sul piano culturale e dell’immaginario, e la paura delle incursioni divenne un dato dominante per molti decenni. L’organizzazione della difesa si ritrova a livello locale, dato che nei primi decenni del X secolo assistiamo alla prima diffusione dei castelli. Non furono queste però a stimolare la nascita delle signorie di castello, ma quest’azione e questa costruzione andarono ben al di là della necessaria risposta alla minaccia saracena o normanna: le fortificazioni, infatti, erano destinate a difendersi dall’azione militare degli altri signori. | — 3 IL POTERE DEI RE L’evoluzione dei poteri regi in questo periodo seguì percorsi diversi da regno a regno, ma possiamo delineare alcuni caratteri comuni. In questa fase scomparve pressoché to- talmente l’attività legislativa regia e nel X e XI secolo furono del tutto eccezionali i provve- dimenti con valore generale. Lo fecero con azioni e testi diversi, primi tra tutti i diplomi, ovvero concessioni accordate ad un singolo destinatario. I re dovettero quindi rinunciare a regolare complessivamente la vita politica, ma la loro capacità di azione non deve essere sottovalutata: conservarono una relativa centralità politica grazie alla loro grandissima ca- pacità ridistribuiva, sia in termini di risorse concrete, sia per la protezione garantita a chie- se ed individui che spesso nei diplomi cercavano la conferma del proprio patrimonio, a cui la protezione regia garantiva nuova forza giuridica e politica. In molte aree quindi i re dovevano limitarsi ad una constatazione, perché non erano in grado di dare vita alle strutture locali del potere, ma erano comunque in grado di legitti- mare, promuovere e indirizzare gli sviluppi politici locali. L’efficacia e l’importanza dei dimplomi regi si coglie dal fatto stesso che le chiese e i signori si impegnavano per otte- nere nuovi diplomi, anche quando si trattava solo di conferme del proprio patrimonio. La crisi postcarolingia non corrisponde quindi ad una cancellazione dei poteri regi, ma ad una profonda ridefinizione della loro funzione politica. Gli effettivi processi di ridefini- zione del potere regio possono però essere compresi solo considerando le vicende dei singoli regni. In linea generale l’Impero carolingio si articolò in quattro regni: Germania, Italia, Francia e Borgogna. Non come stati odierni, con confini definiti e sistemi politici distinti, ma pro- prio per questa fluidità di confini, e l’intreccio profondissimo tra le aristocrazie, la dinami- ca politica si muoveva spesso da un regno all’altro. La Borgogna fu la struttura politica di minor durata: una crisi dinastica iniziata con la morte di Rodolfo II aprì la strada ai re di Germania per affermare il proprio patronato e controllo sulla Borgogna. La dinastia Rodolfingia mantenne l’autonomia fino al 1034, quando il regno passò nelle mani del re di Germania 3.1 Italia Per l’Italia data chiave fu l’888, la morte di Carlo il Grosso, l’ultimo ad aver tenuto nelle mani l’intero Impero. A partire da quell’anno l’Italia seguì una propria vicenda personale, del tutto staccata dagli altri regni carolingi. Fino al 961, il periodo fu segnato da conflitti politici particolarmente complessi e violenti, con diversi potenti che si contendevano il trono. L’opposizione fondamentale fu tra i marchesi del Friuli e quelli di Spoleto: Berengario del Friuli, eletto re nel 888, fu sconfitto da Guido di Spoleto l’anno successivo; quest’ulti- mo venne incoronato prima e re, e poi imperatore nel 891. Alla sua morte, nel 894, Beren- gario ne prese il posto, regnando, tutt’altro che pacificamente, fino alla morte nel 924. Tuttavia questi anni non vedevano semplicemente l’opposizione di individui che mirano alla corona regia, ma piuttosto tra famiglie dell’aristocrazia italica, che cercavano di con- trollare la corona direttamente o indirettamente. 3.2 Germania 30 L’ultimo re carolingio a controllare il regno dei Franchi dell’est fu Ludovico il Fanciullo, che morì nel 911. Nel quadro del regno tedesco si impose un principio elettivo, che do- vette sempre convivere con le tendenze dinastiche. Tutta la storia di questo regno del X secolo in avanti può essere letta nell’ottica della convivenza tra principio elettivo e princi- pio dinastico: nelle fasi di maggior forza, il re era in grado di imporre il proprio figlio come successore, ma nei momenti di debolezza tornava in primo piano il principio elettivo. Nel 911, alla morte di Ludovico, fu scelto come re uno dei grandi duchi, Corrado di Franconia,ma il suo regno fu costantemente minacciato dall’ostilità di alcuni grandi settori della grande aristocrazia. Principale avversario fu Enrico di Sassonia, con cui il re giunse ad un accordo fondato sulla reciproca fedeltà e sulla non ingerenza del re. Di fatto fu la premessa per l’ascesa di Enrico al regno nel 919, alla morte di Corrado. Da quel momen- to in avanti, per oltre un secolo, la corona si trasmise all’interno della dinastia dei duchi di Sassonia. Il dominio dei re sassoni ampliò rapidamente i propri orizzonti, con il più rilevante che fu la conquista del regno d’Italia, attuata dal figlio Ottone I, a partire dal 951. L’azione di Ottone si situò in un contesto particolarmente complesso, con da un lato le divisioni in- terne dell’aristocrazia italica, dall’altro la protezione del re italiano richiesta ad Ottone, e infine il conflitto tra Ottone e il figlio, che ambiva ad affermare il proprio potere personale sull’Italia. L’intervento di Ottone in Italia fu quindi l’affermazione sia della sua protezione della re- gina vedova, sia della sua superiorità sul re Berengario II; al contempo però le tensioni con il figlio si trasformarono in un vero e proprio conflitto. Dovendosi quindi impegnare nel difficile scontro con il figlio in Germania, lasciò il quadro italiano in un contesto di pacifi- cazione, e si concentrò nello scontro politico -militare con il figlio, che risolse in suo favo- re nel 954. La pacificazione interna e l’accresciuto controllo sull’aristocrazia, furono le premesse per la vittoria di Lechfeld (955), on cui mise fine alle invasioni ungare, e affermò con evidenza la sua condizione di massimo potere politico-militare dell’Europa di tradi- zione carolingia. Su queste premesse, nel 961 Ottone poté scendere di nuovo in Italia, prendere diret- tamente possesso del regno, e l’anno successivo ottenere a Roma la corona imperiale, in quanto detentore del regno d’Italia, e quindi protettore della chiesa di Roma. Da questo momento in avanti si definì un quadro istituzionale che si mantenne stabile per il resto del medioevo; in questo quadro si collocarono i meccanismi di ascesa al trono, sostanzial- mente immutati nei secoli. A partire da Ottone si affermò una vera e propria dinastia regia. Se si propose una di- nastia familiare, dobbiamo notare delle differenze importanti rispetto all’età carolingia: la successione avveniva all’interno della dinastia, ma ma sempre con il consenso dei grandi del regno; inoltre fu più chiara un’idea di linea dinastica a vantaggio esclusivo del primo- genito, tale da escludere gli altri figli del re. La forza di Ottone I e del figlio si espresse nella sistematica occupazione delle diverse sedi ducali per mezzo di membri del loro stesso gruppo parentale. Si delineò quindi un sistema di potere estremamente solido, con una piena occupazione dei ruoli di potere da parte di un unico gruppo parentale. Le cose cambiarono con Enrico II, che apparteneva ad un ramo collaterale della famiglia, e che promosse l’ascesa alla dignità ducale di nuovi aristocratici, non appartenenti al gruppo parentale regio. La fondamentale continuità politica dell’impero dell’impero degli ottono nella seconda metà del secolo subì un mutamento rilevante sotto Ottone III, che pose al centro della propria ideologia la Renovatio Imperii Romanorum: il linguaggio cerimoniale imperiale si arricchirono sia da elementi della tradizione occidentale sia orientale. Il riferimento a Roma non era solo un richiamo al passato, ma una precisa volontà di intervento nel pre- sente: nel 996, alla morte del papa, Ottone impose alla carica suo cugino Bruno di Worms, che venne eletto Gregorio V e pochi mesi dopo incoronò Ottone. La nomina fu un 31 fatto nuovo per la provenienza del nuovo Papa, dal momento che l’aristocrazia romana aveva avuto nel X secolo pieno controllo dell’elezione papale; non a caso i Romani si ri- bellarono, e lo stesso Ottone dovette intervenire militarmente nel 998 per sconfiggere i ribelli. Alla morte di Gregorio, l’anno successivo, impose come Papa Gerbert d’Aurillac, uno dei più grandi intellettuali di quei decenni, che assunse il nome di Silvestro II, a ri- chiamarsi direttamente al papa che aveva battezzato Costantino. Queste due nomine sono una testimonianza importante degli ideali politici dell’azione di Ottone III e della nuova centralità assunta da Roma negli equilibri politici dell’Impero. Ma le nomine indicarono anche una possibile evoluzione del papato, dato l’alto livello in- tellettuale e lo svincolo dalle feroci lotte di potere interne all’aristocrazia cittadina. Questa prassi di nomina non ebbe seguito, e solo dalla metà del secolo successivo il papato poté cambiare la propria fisionomia. Nel 1002 la morte precoce di Ottone III aprì una breve crisi dinastica, che in Germania si risolse rapidamente all’interno dello stesso gruppo parentale, con l’ascesa al trono del cugino Enrico II, che diede spazio a nuovi gruppi aristocratici nelle cariche ducali. Dal punto di vista italiano, questa successione ebbe implicazioni diverse: poche settimane dopo la morte di Ottone un gruppo di grandi aristocratici dell’Italia settentrionale si riunì a Pavia per incoronare re d’Italia Arduino. Dopo una breve resistenza fu sconfitto da Enrico nel 1004 e si ritirò nell’area da lui direttamente controllata. Con il ritorno di Enrico in pa- tria, Arduino ricostituì la propria rete di solidarietà e alleanze. Solo nel 1014 una nuova di- scesa di Enrico pose fine alla vicenda. La sua elezione rese visibile una tensione sotterra- nea, ovvero una ricorrente volontà dell’aristocrazia italica di imporre le proprie decisioni nella nomina del re. I decenni attorno al Mille andarono quindi a definire in Germania e Italia un duraturo equilibrio tra regno e aristocrazia: una preminenza dell’aristocrazia ducale tedesca, ricor- renti tendenze dinastiche, una regia condizionata dall’aristocrazia principesca, ma dotata di una forte base di potere fatta di controllo di terre, castelli e vassalli; un’aristocrazia itali- ca che consolidò il proprio potere per vie diverse, con processi di potenziamento dinasti- co e signorile. Questo equilibrio connotò la prima metà del secolo XI. | — 3 FRANCIA In Francia una svolta fondamentale fu segnata dalla morte di Carlo il Grosso nell’888, che lasciò spazio al primo re estraneo al gruppo parentale corilingio: prese infatti il potere il conte Oddone di Parigi, segnando l’inizio di un’instabilità politica che segnò i successi decenni. Si trovarono a contendersi la corona le maggiori dinastie principesche, e pecu- liare fu la sopravvivenza politica dei Carolingi: alcuni settori dell’aristocrazia scelsero infat- ti di sostenere Carlo il Semplice, che alla morte del rivale Oddone nel 898 divenne indi- scusso re di Francia. Fu però un re debole; e la sua debolezza divenne palese ed estrema nel 922, quando i grandi del regno decisero che non era in grado di regnare e lo depose- ro. Questa definizione di “grandi del regno” introduce al dato più importante, ovvero il di- versificarsi del territorio del regno, della sua suddivisione in in principati regionali larga- mente autonomi: la Borgogna, la Champagne, l’Aquitania e l’Anjou. Esse detenevano domini territoriali non molto diversi dal dominio regio, che non era certo più grande dei vari principati. Negli anni successivi l’aristocrazia francese scelse i re all’interno del gruppo parentale derivante da Oddone, senza attribuire direttamente il trono al figlio. I principi di Francia cercarono di affermare il proprio potere di scegliere il nuovo re, ma nessuno poteva igno- rare la presenza forte e ingombrante della dinastia che si stava affermando come la prin- cipale, i Robertini. Era un equilibrio delicato, evidente nel 936 alla morte di Rodolfo di Borgogna: Ugo il Grande scelse di non imporre la propria elezione a re, facendo tornare dal’esilio il figlio di 32 sia diventava ora l’intera società. La piena appartenenza alla società passava quindi at- traverso la piena sottomissione alla fede e ai vescovi. | — 5 NUOVE CHIESE, NUOVI POTERI Le riflessioni del paragrafo precedente si collocano in un contesto di profonda trasfor- mazione delle chiese stesse, del loro ruolo nella società e nel quadro politico. La trasfor- mazione si avviò già nel X secolo, su due piani: da un lato il rinnovamento del monache- simo, a più chiaro orientamento eremitico; dall’altro un nuovo e diverso coinvolgimento dei vescovi nelle strutture del potere locale. Nel 909 il duca Guglielmo d’Aquitania fondò l’abazia di Cluny. La prima peculiarità di questa fondazione fu la rinuncia del duca ad esercitare qualsiasi forma di controllo sulla vita successiva dell’abbazia. I monaci ottennero il pieno diritto di scegliere al proprio in- terno i nuovi abati; la protezione e benedizione del monastero erano affidate direttamente al vescovo di Roma. Cluny nacque dunque nel segno della piena autonomia, sia dal fondatore, e sia dal po- tere ecclesiastico, data la distanza di Roma. In questo quadro, i primi abati seppero dar vita ad una forma di vita religiosa peculiare. Pur muovendosi all’interno della regola bene- dettina, i Cluniacensi ne diedero un’interpretazione specifica, che pose al centro la di- mensione della liturgia e della preghiera, da sempre centro della vita monastica. Essi pro- posero quindi un’accentuazione coerente con la regola benedettina, con un ulteriore am- pliamento dedicato alla preghiera, un’accresciuta solennità dei momenti liturgici e una specifica attenzione alle preghiere per le anime dei defunti. Esse furono anche l’espres- sione diretta dello scambio che avveniva tra i monaci e la società laica: i monaci, con le preghiere per i defunti garantivano un prezioso beneficio spirituale a quei settori della so- cietà circostante che sostenevano il monastero sul piano materiale. Cluny fu quindi l’espressione di un monachesimo dalla disciplina e dalla spiritualità ri- gorose, che garantiva ai propri benefattori le efficaci preghiere di uomini santi; al contem- po, non fu un elemento politicamente destabilizzante, ma pienamente parte del sistema aristocratico di dominazione. Per tutti questi motivi, nel giro di pochi decenni, i cluniacen- si acquisirono una grande fama, e già il secondo abate Oddone fu incaricato di riformare la vita monastica in abbazie antiche e prestigiose, in declino dal punto di vista della spiri- tualità e della disciplina. Gli interventi di Oddone incontrarono spesso resistenze nelle diverse comunità mona- stiche, e le stesse, alla sua morte, non conservarono un legame con Cluny nei decenni successivi. Ma in questa capacità di Cluny di rinnovare la vita religiosa possiamo cogliere il connotato specifico di questo monachesimo, ovvero la costituzione di monasteri coor- dinati dall’abbazia borgognona: non un ordine, ma una congregazione. Inizialmente essa era composta da antiche abbazie che si sottoposero al controllo di Cluny, ma con una dif- ferenza importante: l’abate non c’era, perché l’unico era quello di Cluny. Molti aristocratici del X e soprattutto XI secolo, quando vollero fondare un ordine monastico, non scelsero di fondare un’abbazia autonoma, ma di compiere una donazione a Cluny perché venisse creato un priorato. La scelta era dettata proprio dalle esigenze spirituali di questi laici, che cercavano nei monaci i garanti della propria salvezza spirituale. Soprattutto lungo l’XI secolo i priorati cluniacensi si diffusero in larghi settori d’Europa, ma l’influenza andò al di là della stessa congregazione: gli enti monastici riformati dagli abati cluniacensi non sempre conservarono un rapporto di diretta e piena sottomissione all’abbazia, ma il loro monachesimo fu profondamente influenzato dalla spiritualità e delle forme di vita cluniacensi. Il punto di massimo trionfo di Cluny fu raggiunto negli ultimi anni del XI secolo: emble- matica, nel 1088, l’elezione al soglio pontificio di Oddone, priore di Cluny, che assunse il nome di Urbano II. Fu un papa importante anche per le evoluzioni della spiritualità e della 35 cultura politica europea: a lui infatti si deve, nel 1095, la proclamazione della prima crocia- ta. In parallelo, il secolo XI fu segnato dall’emergere di altre spinte riformatrici del mona- chesimo, basate su orientamenti diversi, con una più netta ispirazione eremtica. Elemento connotante di queste esperienze è il fatto che la volontà eremitica si risolveva in una di- mensione comunitaria. Il cenobitismo tradizionale veniva percepito come troppo morbido, e si operavano quindi scelte radicali di isolamento, povertà e penitenza. Il grande succes- so di queste esperienze ci segnala l’avvio di un lento cambiamento della coscienza reli- giosa, con i primi segni di una sensibilità che separava religiosità monastica e potere. Parallelamente a questa vivace dinamica di trasformazione del mondo monastico, mutò profondamente anche il ruolo dei vescovi nei rapporti con le comunità cittadine. Con la fine dell’Impero e la complessiva crisi della capacità regia di controllo, si affermò il pieno controllo politico e sociale sulla città, fondato sui profondi legami tra vescovo e so- cietà cittadina, sul progressivo allontanamento dalle città dei funzionari regi, ma anche su specifiche concessioni regie. Tra X e XI secolo, soprattutto nell’età ottoniana, molti vescovi ricevettero ampie con- cessioni di poteri giurisdizionali, trasferiti dal re alla proprietà della sede vescovile. Non fu un politica sistematica, ma una scelta adottata in molti contesti diversi, nel quadro di una politica pragmatica. Dal punto di vista regio, il senso politico di queste operazioni si coglie considerando i meccanismi di trasmissione del potere comitale: i conti avevano ormai abbastanza solidamente dinastizzato la propria carica; questo non significa che si era persa del tutto la consapevolezza della natura funzionariale del loro potere, ma certo il vincolo tra re e funzionari era indebolito. D’altra parte, i re erano sicuramente in grado di intervenire nelle successioni vescovili, imponendo i propri candidati o almeno impedendo l’elezione dei vescovi ostili. PARTE TERZA Poteri locali e poteri regi tra l’XI e il XII secolo CAPITOLO I — LE ISTITUZIONI DELLA CHIESA E L’INQUADRAMENTO RELIGIO- SO DELLE POPOLAZIONI FRA XI E XIII SECOLO | — 1 PER UNA RIFORMA DELLA CHIESA: VESCOVI, IMPERATORI E PAPI NELLA PRIMA METÀ DELL’XI SECOLO Una spinta importante per una riforma della chiesa nell’Europa medievale venne dai vescovi impegnati nella riorganizzazione delle loro diocesi. Nel XI secolo essi si impegna- rono in una serie di recuperi delle sostanze e dei diritti dati in beneficio sui quali si era perso il controllo. La difesa di questi beni venne condotta anche sul piano culturale e ideologico: si ribadiva una concezione sacrale della funzione ecclesiastica, e quindi la ne- cessità di rispettare rigore e correttezza dei costumi da parte del clero diocesano. Il tutto contribuì a ricostruire un apparato istituzionale delle chiese locali, in grado di esercitare una vera funzione pastorale, che vedeva i vescovi porsi come guide della società. In que- sta fase della riforma, il papato fu aiutato anche dall’imperatore e dalla sua curia formata dai principali vescovi del regno di Germania. In questa impresa si impegnarono non solo i vescovi più illuminati, ma anche numerosi membri della curia imperiale, soprattutto sotto Enrico III. Circondato da ecclesiastici di altissimo livello culturale, l’imperatore si pose come garante di un processo di riforma del- la Chiesa in generale, estendendo questa azione di controllo anche al papato di Roma. Infatti nel 1046 depose i tre papi romani, imponendo come candidato il vescovo di Bam- berga e membro della curia, con il nome di papa Clemente II. 36 Era l’inizio di una lunga serie di papi tedeschi, provenienti dalla cerchia dei chierici im- periali, esponenti di un clero episcopale convinto da tempo della necessità di una riforma radicale della Chiesa. A Clemente II succedette Damaso II, poi Leone IX, quindi Vittore II e Stefano IX. Tutti personaggi impegnati a diffondere una profonda riforma del clero, impo- stata sopratutto sulla lotta alla simonia e al concubinato del clero. La simonia era un peccato grave e sacrilego che riguardava la vendita o l’alienazione di cose sacre, dai beni delle chiese alle stesse cariche ecclesiastiche. Il campo ideologico dello scontro verteva sul distinguere ciò che aveva un prezzo, e poteva essere venduto, da ciò che non aveva un prezzo e non poteva essere oggetto di scambio. I teologi e i giu- risti riformatori dichiararono appunto le cose sacre fuori mercato perché senza prezzo. Si trattava di una posizione di principio, dovuta in buona misura alla rivalutazione del potere sacramentale. Esisteva però anche un dato politico più terreno. La vendita delle cariche si riferiva in realtà ad una pratica assai diffusa tra le élite politiche dell’occidente cristiano fin dall’età carolingia: donare beni o denaro alle autorità laiche o ecclesiastiche nel momento in cui si riceveva una carica importante. L’episcopato era una di queste. I vescovi, che provenivano da famiglie aristocratiche, condividevano responsabilità di go- verno con l’apparato degli ufficiali pubblici, e avevano funzioni pubbliche. Era quindi natu- rale che si conformassero ad un sistema di scambi che alimentava la circolazione di ric- chezze all’interno del mondo aristocratico del regno. Pagare la carica era quindi uno scambio accettato, forse anche necessario, nella mentalità dei potenti del tempo. Lo sa- pevano bene i vescovi corrotti e anche i riformatori, che provenivano dallo stesso ambien- te sociale. Per il partito riformatore, minoritario ma agguerritissimo, criminalizzare la simo- nia era un passo obbligato per riaffermare il valore sacrale della funzione sacerdotale, l’unicità della chiesa e la necessità storica della sua funzione salvifica. Un secondo campo di tensione si creò intorno al celibato del clero. Per buona parte dell’alto medioevo, gli esponenti del clero potevano avere in alcuni casi una moglie. Se si accedeva al sacerdozio dopo il matrimonio, la situazione del prete sposato rimaneva in un limbo di tolleranza. A volte le consuetudini locali legittimavano pienamente lo stato matri- moniale anche negli ordini maggiori, nel pieno rispetto dell’essenza sacramentale del le- game. Inoltre, molti ecclesiastici rivendicavano la legittimità e il valore morale del legame matrimoniale, rifiutandosi di scioglierlo solo per obbedire ad un mandato moralistico dei riformatori, privo di un fondamento nelle Scritture. Ancora più diffuso era la semplice convivenza al di fuori del matrimonio. In molti casi queste coppie, spesso con figli, erano in grado di assicurare ai propri eredi una carica ec- clesiastica senza suscitare un grande scandalo. Questa prassi fu presa di mira e severa- mente censurata dal partito imperiale e riformatore. Contro queste pratiche la reazione del clero imperiale è stata sempre molto ferma. Sia l’offerta di denaro per ottenere cariche sia la domanda di contributi per amministrare i sa- cramenti furono atti severamente condannati in tutte le snodi provinciali, dal concilio di Pavia del 1046 in avanti. Nel concilio di Reims del 1049 l’iniziativa riformatrice assunse i toni teatrali e dramma- tici di un processo pubblico. Alcuni vescovi furono denunciati pubblicamente e quindi de- posti. Altri preferirono confessare subito. Colpisce la violenza usata contro i simoniaci. La confessione spontanea anche se evitava la deposizione, portava ugualmente all’abban- dono della sede e della carica di vescovo. Si ponevano quindi le basi di un primato del papa di Roma sulla sorte dei vescovi, che potevano essere rimossi per indegnità e immo- ralità. Le tensioni fortissime che interessavano le istituzioni ecclesiastiche in quei decenni centrali del secolo XI riguardavano anche le basi dei fedeli, chiamati spesso in causa dalle frequenti lotte tra vescovi di opposti schieramenti. Milano in particolare fu sede di un con- flitto assai aspro tra i riformatori e l’alto clero locale. Lo scontro fu aperto dalla contesta- zione del clero corrotto da parte di un chierico del clero minore, Arialdo, che riuscì a tra- 37 In effetti, Gregorio settimo rivendico per la Chiesa di Roma un onnipotenza senza rivali, una centralità riconosciuta da tutti in virtù del prestigio assoluto dell'ufficio papale. A questi poteri sovrani corrisponde un'indiscussa superiorità giurisdizionale: nessuno poteva giudicare il Papa, modificare le sue decisioni o condannare chi presentava appello alla sua corte. La decisione ultima nelle controversie fra ecclesiastici spettava infatti alla chiesa. Di più, la Chiesa comprendeva tutti i veri cattolici: chi non ne faceva parte non era considerato tale. L'idea di cristianità emerge come un corpo compatto sotto la guida uni- ca del Papa. Dopo la deposizione del vescovo di Milano, Gregorio aveva nominato come unico ve- scovo legittimo Attone. Enrico IV nominò invece il suddiacono Tedaldo, aprendo un con- tenzioso lunghissimo e di estrema violenza, che coinvolse l’episcopato dell’Impero e i po- tenti laici del regno italico. Nei due anni seguenti Gregorio e Enrico IV usarono tutti gli strumenti a disposizione per delegittimare, scomunicare e deporre il proprio avversario. Ricorsero alle stesse armi e si nutrirono della stessa retorica salvifica. La teoria dei due poteri che si dividevano le sfere di governo dell'umanità ne uscì annichilita. Nel concilio di Worms del gennaio 1076, Gregorio settimo fu deposto dai vescovi riuniti sotto l'impero, in virtù della funzione reggia di tutela della Chiesa. Nel sinodo romano del febbraio 1076 fu invece scomunicato e deposto Enrico IV. La risposta di Enrico fu ancora più audace: il re dipendeva solo dalla volontà di Dio che gli aveva conferito il compito di difendere la cristianità. Sulla base di questo rapporto di- retto con la divinità, l'imperatore doveva agire per liberare la Chiesa dal tiranno. Dalla sua Enrico aveva non solo la forza militare, ma anche il sostegno di una parte rilevante dell'e- piscopato, che continuava a restare fedele. Fu così in grado di convocare concili con un'ampia partecipazione dei vescovi italiani e tedeschi che rinnovarono la deposizione di Gregorio eleggendo nuovo papa il vescovo Guiberto, potentissimo arcivescovo di Raven- na. Per circa dieci anni Guiberto governò come pontefice legittimo agli occhi dei fedeli dell’imperatore. Dopo una tregua breve nel 1077 il conflitto riprese più violento di prima. Nel concilio di Roma del 1080 Gregorio scomunicò e depose nuovamente l'imperatore, sciogliendo i sudditi dal vincolo di fedeltà al sovrano. Enrico scese a Roma insediando Guiberto, E fa- cendosi incoronare imperatore nel 1081. Gregorio, assediato, fu salvato dai normanni, di- venuti fedeli del Papa, ma dovette abbandonare Roma, per morire in esilio a Salerno. Lo scontro divise le chiese locali in partiti e sottopose anche le popolazioni urbane ad un dif- ficile esercizio di equilibrio tra fazioni del clero così nettamente contrapposte. Da questi scontri prolungati le due autorità universali uscirono fortemente indebolite, almeno sul piano simbolico. La sovrapposizione dei provvedimenti causò un clima di in- certezza e di sconcerto presso le masse di fedeli-sudditi. Tra gli effetti reali del conflitto, emerse il ruolo assunto dalle popolazioni locali: indipendentemente dagli esiti la vita con- creta delle chiese fu condizionata dalle scelte prese di volta in volta dai laici nelle città e nelle diocesi dell’impero. Si affermò una nuova coscienza nei laici sull'importanza di inter- venire sulla natura e la trasmissione del messaggio religioso, che non doveva incontrare l'approvazione della Chiesa cattolica romana. Il tema delle investiture non si perse certo per strada. I papi seguenti continuarono a sostenere la visione rigorista di Gregorio, rinnovando periodicamente il divieto di ricevere investiture di chiese da parte dei laici. Urbano II impose nel 1095 il divieto per i chierici di prestare giuramento di fedeltà ad un laico. Nel 1099 lanciò la scomunica contro i vescovi che avessero concesso gli ordini sacerdotali ad un prete già investito da un laico. Il Papa Pasquale II aveva raggiunto un accordo con il re di Francia e Inghilterra, i quali dovevano limitarsi alla conferma dell’eretto. Ma in Germania le cose andavano diversa- mente. Quando il Papa cercò un accordo nel 1111 con Enrico V, in cui tutti i vescovi del regno dovevano rinunciare ai poteri temporali, furono gli stessi vescovi italiani e tedeschi a protestare contro queste decisioni, tanto più che Enrico V aveva sconfessato il patto 40 con il Papa. Egli sospese allora l'incoronazione dell'imperatore, ma fu arrestato e capitolò riconoscendo il potere del re. Ciò sollevò altre proteste da parte romana, e Pasquale fu allora costretto dei vescovi ad annullare quest'ultimo privilegio nel concilio lateranense del 1112 e a confermare la condanna di Enrico. Era chiaro a tutti che il dissidio non poteva essere risolto con un atto di separazione violenta. I due piani dovevano coesistere: si doveva tener conto sia della profonda impli- cazione politica dei vescovi, sia della natura sacrale del loro potere spirituale. Così a Worms, Enrico V e il Papa Callisto II nel 1122 trovarono un accordo che rispettavano i fatti queste complesse relazioni fra sacro che profano: al Papa spettava l'investitura con anel- lo e pastorale; al re l'investitura dei regalia con lo scettro. | — 3 PRETESE UNIVERSALI E DEFINIZIONE ISTITUZIONALE DELLA CHIESA Il papato ne era uscito fortemente indebolito sul piano politico. Erano stati più numero- si gli antipapi, e quelli ufficiali raramente risiedettero a Roma per un tempo lungo. Lo scontro diretto con Enrico Quarto aveva anche dimostrato che non era difficile deporre un Papa, convocando un concilio di vescovi fedeli. La conquista di un episcopato compatto e fedele alla Chiesa di Roma rimase a lungo poco più di un miraggio. Nonostante queste debolezze strutturali, era un papato diverso quello che emerse da questa crisi continuE. Il Papa di Roma si presentava alla fine dell'XI secolo come un'istitu- zione nuova, un centro di potere spirituale e politico in grado di condizionare non solo i contesti locali, ma la stessa politica dei regni europei, riflesso di un ampliamento senza precedenti delle regioni sottoposte alla religione cristiana. Tuttavia, il Papa rivendicava un ruolo di guida delle anime che prescindeva dei confini territoriali dei regni e si sovrapponeva alle fedeltà locali. La Chiesa aveva un altro fine, usando un altro potere e un nuovo esercito, il clero inquadrato in diocesi dipendenti da Roma. Su questa visione ideologica la Chiesa elaborò un immenso edificio istituzionale reli- gioso in grado di condizionare per secoli la vita religiosa, sociale e politica delle società europee. La crescita della complessità istituzionale della Chiesa andava di pari passo con la lenta costruzione di un sistema di inquadramento dei fedeli e con la definizione di un'ortodossia dottrinale. Lo spazio per altre fedi e per altri modi di vivere la scelta religio- sa doveva adeguarsi a questi limiti. L'intensa produzione normativa della Chiesa di Roma nei decenni della riforma si nutri- va di una più ampia e capillare attività dei concili provinciali delle chiese cristiane. Gli stessi temi ritornavano da un concilio all'altro, assumendo ogni volta una forma più preci- sa. Per mettere ordine su queste materie, un maestro di nome Graziano mise insieme, nel corso di alcuni anni, una raccolta di cannoni chiamata Decreto. Si tratta di un'opera allu- vionale, che riuniva concili, lettere papali, passi biblici intorno alle materie del diritto ec- clesiastico affrontate con metodo dialettico. Il risultato non fu sempre semplice, ma il De- creto rimase per lungo tempo la principale compilazione di diritto ecclesiastico studiata e commentata dai giuristi di Chiesa. Lo sviluppo di un ceto di giuristi esperti di materie ecclesiastiche fu un evento cruciale per la storia della Chiesa, perché sempre di più l'organizzazione delle istituzioni ecclesia- stiche fu sottoposta a regole giuridiche. I canonisti intervenivano su tutto, partendo però sempre dal caso concreto, analizzato nel suo contesto e nelle sue specificità. In altre pa- role per i canonisti non ci sono leggi umane assolute da applicare a tutti, ma casi da risol- vere secondo equità. Un sistema così duttile aveva però bisogno di alcune linee guida. In primo luogo emer- se la necessità di un rafforzamento della gerarchia interna della Chiesa. Da un lato i ve- scovi furono sempre più incardinati nelle proprie diocesi. Dall'altro, i papi avevano cercato di creare una rete di controllo sui vescovi locali, attraverso propri rappresentanti, chiamati 41 legati apostolici, incaricati di giudicare i conflitti locali e di avocare a Roma la soluzione delle cause in corso. Il potere locale del vescovo ne usciva sottoposto a quello del ponte- fice in caso di conflitto. L'attribuzione di una facoltà di conoscere e di decidere sui casi più importanti fu allun- go una prerogativa rivendicata dei papi di Roma per affermare il proprio ruolo di guida suprema della Chiesa. I casi da decidere furono così distribuiti in base alla gerarchia dei gradi interni della Chiesa: le materie di base erano competenza del clero parrocchiale, al- tre erano riservate al vescovo e altre ancora dovevano essere giudicate solo dal Papa. Negli ultimi anni del XII secolo si affermò anche una nuova procedura giudiziaria per conoscere e perseguire i reati del clero: l'inchiesta d'ufficio, che divenne presto uno stru- mento utile per imporre la supremazia politica del Papa attraverso l'esercizio di un potere giurisdizionale superiore. Quando il reato era noto e le voci non si potevano più dissimula- re senza scandalo né tollerare senza pericolo, l'ecclesiastico doveva essere processato e punito. La novità consisteva proprio nel fare diventare la fama il motore dell'inchiesta, mentre la difesa della Chiesa diventava la ragione ultima del processo. Con la procedura inquisitoria si potevano controllare ormai tutti i gradi della gerarchia. Cosa che avvenne soprattutto sotto Papa Innocenzo III che si distinse per il grande nu- mero di vescovi rimossi, deposti, trasferiti nel corso del suo pontificato. Proprio in questi anni finali del XII secolo si modificò anche la titolatura del Papa, ini- ziando ad usare un titolo più ambizioso, vicario di Cristo, dove la diretta rappresentanza del divino qualificava in senso sacro la figura del Papa. Lo sviluppo del privato si tradusse anche in una diversa e più ragionata articolazione istituzionale della curia romana. Intorno al Papa si formò un sacro collegio formato dai cardinali. Gli affari di governo venivano in- vece affidati alla curia, con uffici, tribunali e la camera Apostolica, che gestiva le finanze della Chiesa di Roma. Parallelamente si definirono meglio sul piano giuridico istituzionale le presenze eccle- siastiche locali. Sia il clero urbano sia le diversissime esperienze religiose monastiche an- davano definite e sottoposte ad una regola comune. Nelle città episcopali si cercò di ristabilire una disciplina della vita del clero. I canonici furono nuovamente chiamati negli anni della riforma a condurre una vita di penitenza, di rinunce e di castità. Nelle varie diocesi europee si iniziò così la costruzione di nuovi edifici collettivi per ospitare il clero cittadino, chiamate canoniche. Nel corso dell'XI secolo le canonica adot- tarono la regola detta di Sant'Agostino per organizzare la loro vita religiosa ed economica. Intorno alle cattedrali si costruirono i capitoli formati da i canonici del vescovo. Il capitolo cattedrale acquisì presto una personalità giuridica autonoma, con propri beni immobili è una mensa separata da quella del vescovo. Composti da membri delle maggiori famiglie aristocratiche della città e provvisti di un patrimonio fondiario spesso assai ingente, i ca- pitoli costituirono un centro importante di concentrazione del potere politico: erano artico- lati in uffici diversi, fortemente gerarchizzati al loro interno, avevano un proprio tribunale e si ponevano, contro il vescovo a volte, alla guida della vita religiosa cittadina. I canonici conservarono sempre funzioni pastorali. L'organizzazione in capitoli non coinvolse solo i canonici del vescovo, ma i sacerdoti di tutte le chiese importanti; sorsero così i capitoli di collegiate, con i canonici in servizio presso quella chiesa. Ogni capitolo, collegiata o Chiesa entrava in un sistema governato dal vescovo, ma assumeva una personalità giuridica autonoma. Il movimento di creazione istituzionale non deve restituire l'immagine di un monolite. L'idea di gerarchia era forte, ma la moltiplicazione delle istituzioni comportava anche la moltiplicazione di strutture or- ganizzative con interessi religiosi, economici e culturali propri, spesso in conflitto con altre istituzioni religiose. Il risveglio della vita religiosa coinvolse anche le istituzioni monastiche. Fra 11º e XII secolo videro la luce nuovi movimenti di ispirazione monastica, con una netta accentua- 42 messe, aiutando l'ascensione della sua anima verso il paradiso. Prese forma così una nuova economia religiosa che trasformò in profondità non solo i costumi funerari, ma an- che gli spazi sacri della città. Le chiese divennero lentamente un luogo collettivo di culto delle memorie familiari, di intensa mediazione fra il regno dei vivi e quello dei morti. Il fedele si trova così inquadrato in una vita duplice e speculare, con un rimando conti- nuo fra ciò che compiva sulla terra e ciò che si sarebbe subito nell’aldilà. Rispetto ai se- coli precedenti, le azioni terrene potevano modificare almeno in parte l'entità delle pene e delle ricompense, attraverso un canale di comunicazione che solo il clero poteva attivare. Questa pretesa di dominio assoluto degli uomini di Chiesa sulla vita dei laici si scontrò con numerose altre forme di vita religiosa, classificate come eresia nel corso dell'11º e XII secolo. La nascita delle eresia segnò un punto importante nella costruzione della Chiesa come istituzione. Indicando chiaramente i limiti del dissenso e dell'eterodossia, la lotta anticlericale serviva a definire meglio ciò che la Chiesa doveva essere: la sua funzione storica, la sua natura istituzionale e i suoi poteri. Le eresia erano le idee, le dottrine e i comportamenti che, in modi diversi, negavano le basi di questa missione divina della Chiesa. Ciò che sappiamo delle numerosissime correnti definite ereticali proviene solo da fonti ecclesiastiche. Il problema è che queste eresia erano ricostruite non tanto secondo le rea- li parole delle persone condannate, ma secondo gli schemi culturali e le fonti dottrinali di chi indagava e di chi scriveva. I termini per definire questi eretici erano diversi e ambigui. Per questo è così difficile ancora oggi collegare queste dottrine condannate con la realtà religiosa del tempo, che doveva essere molto più varia e multiforme di quanto le fonti la- sciano trasparire. Di certo, sappiamo che già nei decenni centrali dell'XI secolo comparvero una serie di movimenti religiosi di ispirazione pauperistica, che contestavano le strutture ecclesiasti- che il nome di un ritorno allo spirito e alla lettera del Vangelo. Alcuni di questi movimenti furono definiti subito come eterodossi ed ereticali. Questi fenomeni di ascetismo religioso testimoniano l'ampia circolazione, negli anni vicino alla riforma, dei temi monastici della povertà, del rifiuto della carne e del ritorno ad un modello di vita evangelico; mostrano anche la pericolosità di queste ricerche indivi- duali una volta slegate dei riti ufficiali della Chiesa. Colpiva in particolare il rifiuto dei sa- cramenti accompagnato spesso da una resistenza accanita alle richieste economiche del- le chiese. Questi movimenti, in altre parole, attaccavano la Chiesa in quanto istituzione, non la dottrina cristiana in sé. Le energie del XII secolo rafforzano quest’immagine. Nume- rosi furono infatti i movimenti scoperti e condannati come eretici che rivendicavano con forza la loro natura di veri cristiani contro la Chiesa corrotta e potente. Eretici divennero in sostanza tutti quelli che rifiutavano la mediazione della Chiesa, soprattutto coloro che ri- fiutavano di obbedire ai precetti della Chiesa, continuando a praticare scelte di vita reli- giosa vietate. Per questo furono colpite anche persone che nulla avevano di eterodosso se non la pretesa di predicare il Vangelo, come avvenne per Valdo e i suoi seguaci. Egli aveva fon- dato una comunità di ispirazione pauperistica, dove predicava e leggeva il Vangelo tradot- to in volgare. Fu scomunicato come eretico nel 1184; si trattava ormai di una "eresia del- l'obbedienza", dove il vero reato consisteva nel disobbedire ad un ordine di Roma. Diverso si presenta invece il caso delle sette dualiste conosciuta sotto il nome di catari. A queste sette, scoperte intorno al 1140 prima in Germania e poi in Francia meridionale ed in Italia, si attribuiva una dottrina apertamente non cristiana: un dualismo di fondo, che riconosceva due principi, il bene il male come coesistenti e in conflitto continuo tra loro. Nella sua forma radicale, intendeva la vita terrena come una forma di purificazione conti- nua dalla materialità del corpo, fino all’autoconsunzione e al suicidio assistito. A differen- za di altri movimenti, i catari si attribuisce una natura istituzionale di vera antichiesa. In alcune fonti di parte cattolica, si ricorda l'esistenza di chiese catare locali, organizzate sul 45 modello cattolico, e addirittura un Papa venuto dall'oriente a coordinare le nuove chiese. La provenienza orientale del culto e il collegamento assai incerto con le sette dualistiche orientali aumentavano la dimensione misteriosa e minacciosa del catarismo. La diffusione del credo cataro sembra sia stata particolarmente intensa nei ceti urbani, tra artigiani e lavoratori che contestavano apertamente la Chiesa cattolica. Le fonti in cui editoriali parlano di migliaia di fedeli in Italia, di intere città conquistate dall'eresia in Fran- cia. Un'adesione apparentemente massiccia, che tuttavia non trova riscontro al di fuori degli scritti degli stessi inquisitori. I dubbi suscitati da queste ricostruzioni tardive di parte sono numerosi; soprattutto non è mai stato trovato un solo testo dottrinale riconducibile ad un gruppo cataro e non agli inquisitori. Di certo la repressione fu violenta e colpì veramente migliaia di persone classificate come eretiche. La legislazione antiereticale fu gradualmente inasprita, con la messa in opera di un sistema di controllo e di punizione che coinvolse direttamente i laici. Ne è un esempio lampante la decretale di Lucio III Ad abolendam, preparata insieme all’imperato- re Federico Barbarossa nel 1184. In prima battuta si colpirono tutte le eresia, qualunque nome avessero assunto. Non sono menzionate idee, ma gruppi formalizzati di eretici. In secondo luogo il vero reato degli eretici è la presunzione di predicare dopo una proibizio- ne; l'eresia è in primo luogo disobbedienza. Contro queste persone non erano necessarie prove certe: un semplice sospetto era sufficiente a portarle davanti al vescovo per discolparsi pubblicamente. La ricerca dei so- spetti era infatti affidata al vescovo che doveva indagare nelle parrocchie. Infine le autorità laiche erano incaricate dell'esecuzione materiale delle sentenze su convocazione dell'autorità ecclesiastica. Il cerchio così si chiude: i meccanismi di auto- controllo dei parrocchiani individuano e denunciano i sospetti, giudicati dai vescovi e pu- niti dei poteri laici che dovevano inscrivere la lotta all'eresia nei loro compiti fondamentali. L'eresia segno dunque la linea di confine fra il gregge dei fedeli e i lupi rapaci che li mi- nacciavano dall'esterno, o peggio, mascherati da Agnelli li ingannavano con false creden- ze. Si doveva dunque legittimare la violenza giusta e disciplinare gli uomini armati che mo- nopolizzavano l'arte della guerra. CAPITOLO 2 — LA GUERRA, LA CHIESA, LA CAVALLERIA | — 1 IL CONTROLLO DELLA VIOLENZA E LE PACI DI DIO Nelle cronache dei secoli X e XI, quasi tutte redatte da religiosi o in monasteri, il tema della violenza smodata e gratuita si fa prepotente. I racconti sono raccapriccianti, e met- tono sotto accusa non solo i barbari del Nord e dell'est, ma anche i mali cristiani che at- taccano e saccheggiano le chiese, usurpano le terre, uccidono i contadini dei monasteri. Dietro queste narrazioni così vivide, si cela una profonda esigenza di ordine è una stra- tegia di difesa di lunga durata. L'ordine invocato era diverso da quello carolingio, più lo- calizzato, limitato a spazi regionali e subregionali più facilmente controllabili. Così come gli attori sociali, nel bene nel male, erano più vicine concreti, identificabili con personaggi reali: il conte, l'avvocato, il castellano, il cavaliere. Anche l'azione di pacificazione, ormai indipendente dall'intervento Reggio, aveva connotati più concreti e molto lontani dal uni- versalismo carolingio. Lo si è visto già nei primi concili delle cosiddette Paci di Dio, riunioni di vescovi di una o più diocesi che disponevano la sospensione delle violenze in nome di Dio. In questa as- semblea miste di laici ed ecclesiastici si ordinava la sospensione dell'attività bellica in momenti e in spazi determinati. 46 Erano spazi e luoghi sacri che salvaguardavano in primo luogo i beni e le persone ec- clesiastiche e disciplinavano l'attività armata da esercitare in ambiti determinati. Queste non sono più in tese come una generica condanna della violenza, ma come una difesa dei beni delle chiese dalle rapine degli aristocratici violenti ribelli. Nei concili si affermava quindi, implicitamente, la presenza di un'autorità laica legittima che doveva amministrare la giustizia, far rispettare la pace e, in caso, usare una violenza lecita per proteggere le chiese. | — 2 LA SACRALIZZAZIONE DELLA GUERRA E LE PRIME CROCIATE Questa violenza militare regolata apri la strada ad un processo più ampio di definizione di una dimensione religiosa della guerra come difesa della fede e strumento di espansio- ne della religione cattolica. Un processo di rivalutazione che coinvolse non solo la natura della guerra, ma anche la figura del cavaliere e le funzioni del ceto armato che si poneva ormai come gruppo dominante nell'Europa medievale. Insieme alla riforma della Chiesa, si sviluppò nei decenni successivi al 1050, un'intensa attività bellica per conquistare o liberare le regioni periferiche dell'Europa in mano agli in- fedeli e agli eretici. I papi riformatori sostennero attivamente queste guerre, concedendo ai cavalieri non solo privilegi spirituali, ma un vero e proprio statuto di combattente di Cri- sto. Nel 1063 Papa Alessandro Secondo concesse una bolla di remissione dei peccati per chi partiva a combattere in Spagna i musulmani, dopo l'assassinio di Ramiro I d’Aragona. Contro i normanni Gregorio settimo schierò una milizia di San Pietro nel 1074, ma poi fu- rono gli stessi normanni una volta tornati alleati del Papa, riconoscersi come fedeli vassal- li pontifici usando la medesima qualifica. Fedeli e dunque vassalli, questi potenti laici in- caricati di difendere la fede e San Pietro furono invitati a guidare l'espansione delle arma- te cristiane nelle terre in mano agli infedeli. Gli appelli alle spedizioni militari sotto il vessillo di San Pietro si fecero numerosi sotto Gregorio VII. In una lettera del 1073 Gregorio invitò i principi cristiani a liberare il regno di Spagna dalle mani dei pagani, restituendolo alla chiesa di San Pietro che lo aveva in pro- prietà. Incitò il vescovo di Cartagine a resistere contro la persecuzione dei saraceni. A più riprese invitò i soldati a soccorrere i cristiani di Costantinopoli. Non si tratta certo di un'anticipazione della crociata, quanto della maturazione di un linguaggio della guerra che diventa santa nella misura in cui obbediva ad un imperativo religioso di difesa della fede stabilito dal Papa. Combattere contro i nemici di San Pietro assunse così una nuova dimensione religiosa: la qualifica di soldato di Cristo si diffuse e venne concessa a molti principi laici che si im- pegnavano in conflitti religiosi. Per questo tutti questi soldati meritavano una ricompensa nel regno dei cieli: ai morti in battaglia in difesa della Chiesa fu assicurato l'ingresso in pa- radiso. | — 3 LE SPEDIZIONI IN TERRA SANTA Per la ricerca di una perfezione nell'esercizio della violenza e dell'attività bellica, la Chiesa predispose altri strumenti di inquadramento culturale e ideologico, a cominciare dalla concessione generalizzata di indulgenze e della remissione dei peccati per i morti nella guerra di liberazione o nei pellegrinaggi armati. Il modello era già attivo nelle tre indi- rizzate ai cavalieri che combattevano contro i Mori in Spagna, ma fu ripreso nel 1095 da Urbano II per i pellegrini che partivano per la Terra Santa. I pellegrinaggi come forma di devozione ebbero uno straordinario successo nell'XI se- colo. Le folle di pellegrini movimento erano spinte da motivazioni diversissime. Inoltre, un ricchissimo mercato di reliquie attivava da tempo una serie di circuiti locali di chiese e monasteri che conservavano i resti dei santi o dello stesso Salvatore. Si scatenò 47 secolo XI, la fluidità delle clientele armate rivela l'urgenza di una disciplina della fedeltà e dell'attività bellica. Nella realtà turbolenta dell'Europa dei secoli XI e XII furono essenzial- mente due le vie tentate per inquadrare il ceto militare in un ordine politico territoriale sta- bile. Il primo, più concreto, cercava di inserire i membri della milizia in una rete di rapporti di fedeltà tendenzialmente gerarchica, che almeno in teoria doveva limitare l'attività bellica precisazioni di guerra decise dei poteri superiori. Si rivelò lo strumento più importante per coordinare le azioni dell'aristocrazia militare nei secoli centrali del medioevo. Il secondo sistema era invece di natura culturale e ideologica, intendeva imporre un modello di comportamento basato sull'auto limitazione dell'azione violenta in base ad un'etica propria del Cavaliere. Si crea un'immagine letteraria del Cavaliere ideale, e si ela- borò anche una ritualità specifica del mondo cavalleresco in grado di individuare i tratti unificanti di un ceto militare ormai distinto dal resto della società. Sotto questa patina uni- ficante, permanevano le differenze sociali ed economiche di un gruppo sociale tutt'altro che omogeneo. I due elementi del rapporto vassallatico di età carolingia si erano trasformati nella lunga crisi dei secoli XI e XII. La fedeltà militare era spesso messa in secondo piano rispetto ai disegni di affermazione personale dei cavalieri. Il servizio veniva sempre di più messo in relazione con l'importanza del feudo ricevuto. Inoltre, specialmente nelle regioni della Francia, la fedeltà poteva essere concessa più signori contemporaneamente. Non erano rari i casi di vassalli fedeli a una pluralità di si- gnori. In questi casi esigere l'aiuto militare era assai difficile, poiché intervenivano anche le riserve di fedeltà, ovvero le eccezioni all'aiuto militare da prestare al signore contro al- cuni personaggi con cui aveva precedenti legami di fedeltà. Se contiamo che l'aiuto mili- tare era a tempo, è chiaro che condurre una guerra e radunare i propri fedeli equivaleva a mettere insieme i pezzi di un puzzle. Anche il modo di intendere il bene materiale concesso in cambio della fedeltà era cambiato. Nonostante i riti di investitura si fossero arricchiti di immagini e segni della sot- tomissione, il beneficio era sentito dei vassalli come un bene proprio, che poteva essere trasmesso ai figli in eredità; E così era di regola nell'XI secolo, con o senza l'assenso esplicito del signore. Del resto questa stabilità dei benefici era stata sancita anche dal- l'imperatore Corrado II, che per sedare la ribellione dei vassalli minori a Milano, emanò nel 1037 un editto in cui oltre a rafforzare il ruolo di giudice dell'imperatore, si stabiliva sia il divieto di sequestrare i benefici dei vassalli senza giusta colpa, sia la possibilità di trasferi- re il beneficio in eredità per via maschile. La norma era pensata come protezione dei vas- salli minori, ma coinvolgeva anche i vassalli reggi che vedevano sancito per scritto il dirit- to a passare in eredità i benefici ricevuti da un signore. Non sorprende che, col tempo, si diffondesse anche la tendenza ad alienare i benefici con una vendita o una sotto- in feudo azione che sottraeva il signore la scelta del nuovo concessionario. Si arrivava in tal caso ad una vera rottura del legame di fiducia e di di- pendenza tra il vassallo e il signore. Eppure la pratica si diffuse ovunque e interessava sia i feudi minori sia quelli maggiori. Ne usciva compromessa l'efficacia dell'esercito Reggio ma anche di tutti gli eserciti dei grandi, che non riuscivano più ad ottenere il servizio dovuta in base al feudo concesso. In alcune regioni dell'impero, come l'Italia, il legame tra servizio e feudo era ormai scisso del tutto. Il feudo era concesso come atto di benevolenza del signore, dopo un generico giu- ramento di fedeltà del vassallo, che conservava un'amplissima disponibilità del bene, tra- smissibile in eredità ai discendenti. La cultura giuridica non poteva che prendere atto della raggiunta autonomia del vassal- lo e della natura prevalentemente patrimoniale del feudo. Per contrastare la dispersione delle fedeltà e l'ereditarietà dei benefici si usarono in un primo momento gli strumenti dello stesso diritto feudale. Furono sperimentate alcune re- 50 gole di protezione dei diritti del signore, come le commise: il sequestro del feudo in caso di disobbedienza, che provocava anche numerosi conflitti armati. Ricorrervi richiedeva una capacità militare in grado di piegare le resistenze del vassallo è un prestigio ricono- sciuto dagli altri vassalli della curia, che dovevano giudicare il loro compagno infedele. Insomma, non era uno strumento di facile applicazione. Più diffuso, in teoria, era il ricorso al feudo ligio, una fedeltà privilegiata che si doveva ad un signore in particolare; in alcuni casi funzionò come collante di una schiera più pros- sima di vassalli. Come funzionò una clausola di riserva “negativa”, giurata dal vassallo di non combattere contro il proprio signore. Alla base dei rapporti feudali restava ancora la natura contrattuale e reciproca del pat- to, soprattutto all'interno dell'alta aristocrazia. Anche in caso di concessione di terreni, la natura del feudo era legata più al modo di intendere la relazione fra i due contraenti che al carattere giuridicamente definito del feudo. È probabile che il signore che concedeva il bene pretendesse una fedeltà militare, ma nei fatti non esistevano regole rigide da seguire in ogni situazione. Le pratiche negoziali, fatte di violenze e di atti di conciliazione, dominarono il medioevo centrale in tutta Europa. La giustizia dell'XI e XII secolo ricopriva essenzialmente questa funzione di redistribuzione concordata, dove i giudici, ormai sostituiti dai vassalli dei si- gnori superiori, dovevano garantire l'applicazione del nuovo patto raggiunto nel corso del processo e mostrare a tutti la forza di persuasione del signore giudicante. Insomma i sistemi di inquadramento delle fedeltà militari rientravano nel più ampio problema di coordinare le relazioni sociali e le solidarietà di gruppo in una rete di alleanze tendenzialmente stabili. Una rete naturalmente orizzontale, in cui i signori ordinavano i propri alleati secondo rapporti individuali contrattati caso per caso. | — 5 L’IDEALE CAVALLERESCO E LA SOCIALITÀ DI CORTE Che l'attività guerresca andasse regolata era tuttavia una convinzione diffusa non solo tra le élite ecclesiastiche ma anche tra quelle laiche. L'invenzione letteraria di un'etica ca- valleresca poteva servire a questo scopo. I romanzi cavallereschi, diffusissimi nel XII secolo, propagandare un'immagine idealiz- zata del Cavaliere, che si sceglieva nemici più forti. Li cercava e li affrontava come prove di un percorso di ricerca della propria identità. Questi racconti narrano spesso di un viag- gio in paesaggi della paura che il protagonista doveva affrontare per raggiungere il nuovo status di cavaliere. Ed era uno status che aveva riti di entrata e modelli di comportamento sempre più codificati nel corso del XII secolo. Tuttavia non bisogna idealizzare il cavaliere come figura autonoma della società medie- vale. La regolamentazione della violenza non rispondeva tanto agli ideali di un modello letterario, quanto agli obblighi reali di una élite militare in quadrata in rete di alleanze rela- tivamente mobili. Nel rituale di addobbamento, che pure esisteva ed era attentamente amministrato dai principi, prevaleva un aspetto politico molto concreto: l'entrata nel mondo degli adulti di un giovane erede, la sua capacità di difendere di rivendicare con le armi i diritti sul pos- sesso, su un castello, su un feudo. Si trattava quindi di un rituale giuridico e sociale, che metteva in moto una serie di meccanismi a catena, provocando spesso la reazione nega- tiva dei parenti prossimi che potevano condividere quote di quel bene o dei signori vicini che avanzavano pretese su di esso. Le zone ambigue dei sistemi ereditari erano numero- se e alimentavano una lunga serie di guerre di successione. E se generavano uno stato di conflitto regionale che andava tenuto sotto controllo, o almeno inquadrato in una rete chiara di alleanze e di protezioni. Per questo, durante l’addobbamento, intervenivano spesso i principi locali i loro alleati. La parata dei cavalieri che assistevano al rito pubblico serviva ad indicare a tutti l'entrata del giovane cavaliere in una rete di alleati potenti che facevano capo ad un principe. E 51 serviva al principe “addobbatore” per legare a sé il giovane armato, mostrando pubblica- mente da chi aveva ricevuto la capacità di difendere con le armi il proprio onore (termine dal significato patrimoniale, con cui si designava il feudo). Dovevano poi seguire altri passi: l’esaltazione del valore personale e della forza da sfo- gare in momenti ludici, ritualizzando una violenza spesso brutale e distruttiva; e una mag- giore solidarietà tra fedeli dello stesso signore da rafforzare in rituali di corte. L'invenzione di un'etica del cavaliere poteva servire ad indicare un modello di compor- tamento, ma le guerre feudali non avevano nulla di eroico. Si basavano sulla sede di un castello e sul saccheggio sistematico dei territori circostanti e dei contadini residenti sulle terre del nemico. Esisteva una tendenza a riconoscere il valore del nemico, e quindi ri- sparmiarlo, magari per chiedere un riscatto; ma le guerre erano comunque atti distruttivi e potenzialmente mortali. Si è molto discusso sugli effetti di questa disciplina della violenza e sulla nascita di un ordine cavalleresco in Europa. Alcuni vedono nella graduale emersione di un ordine milita- re l'affermazione di un ceto nuovo; altri invece sminuiscono gli elementi di rottura, per far risaltare le continuità della preminenza del ceto militare. Le differenze regionali erano spesso notevoli e disegnavano scenari sociali molto di- versi. Anche il linguaggio delle fonti è ambiguo e definisce ruoli e persone con termini di- versi a seconda delle situazioni, e questo confonde gli storici poco attenti alle mutazioni linguistiche. Sul piano militare il termine miles indica chiaramente un combattente a caval- lo contrapposto ai fanti. Identifica in altre parole un ceto superiore, dotato di una forza mi- litare e di potere di coercizione. Al suo interno tuttavia, il ceto degli uomini armati costituiva un gruppo sociale molto variegato. Lo strato superiore era composto dei grandi aristocratici discendenti dell'Elite carolingia che avevano fondato da tempo sul servizio armato del re la base della loro ascesa sociale e del loro prestigio politico. Lo strato inferiore era occupato invece da persone di secondo rango, vassalli minori, custodi di castello, giovani scudieri in attesa di promozione. Era un ceto composito e mul- tiforme, numeroso e in grado di rivestire più funzioni oltre a quella militare. Si trattava di un gruppo mobile e molto instabile, pronto a rivendicare i diritti sui benefici ricevuti e a ricercare una maggiore libertà d’azione. Per questo andava stabilizzato. Forme di inclusione erano quindi presenti, e tra questa e la comune appartenenza ad un gruppo professionale di guerrieri poteva giocare un ruolo importante, senza però can- cellare le differenze di ricchezza. Tanto più che in alcune regioni, al servizio armato acce- devano anche i ministeriali, uomini armati di condizione quasi servile. Difficile dire davanti a contesti così diversi se l’addobbamento E il titolo di Cavaliere fossero sufficienti a garantire l'ingresso nell'aristocrazia di un ceto basso. Che esistessero casi di ascesa eccezionali fino alle sfere più alte del servizio armato non vi è dubbio, ma sono appunto lente. E invece da escludere che l’addobbamento, di per sé, fosse una so- glia di ingresso della nobiltà già nel XII secolo. Cavalleria e nobiltà, almeno fino alla metà del XIII secolo, non coincidono. Soprattutto, prima che nobili, i cavalieri erano, o dovevano diventare, anche signori. La signoria era il quadro di affermazione del ceto militare. CAPITOLO III — IL DOMINIO SIGNORILE | — 1 UN POTERE SENZA DELEGA: TERRE, CASTELLI, CLIENTELE I protagonisti del mutamento furono i signori, sia alle dinastie, sia le chiese, due facce dello stesso sistema di dominio aristocratico, che in questi secoli fu caratterizzato dall'ef- ficacia locale e dalla piena autonomia dal controllo regio. I poteri signorili nel loro com- 52 to dell'equilibrio tra le esigenze regie e la volontà di rafforzamento delle aristocrazie che si coordinavano a tornarle assumendo funzioni di governo, e come gli ufficiali regi cercasse- ro di occupare stabilmente queste funzioni, perché ricoprire la carica di conte nello stesso territorio per molti anni (e trasmetterla ai figli) permetteva di concentrare nella regione le proprie terre, clientele, alleanze, quindi di valorizzare la funzione non solo come strumento del potere regio, ma anche come strumento della potenza dinastica dei conti. Questa linea di lettura ci aiuta a comprendere anche l'età successiva: l'attenuarsi della capacità reggia di controllo lascia maggiore spazio all'iniziativa autonoma delle dinastie di conti e marchesi. Da questo punto di vista bisogna distinguere tra l'Italia e gli altri regni di tradizione carolingia. Nella maggior parte del regno italico le dinastie di tradizione funzio- nariale svilupparono poteri analoghi alle altre famiglie signorili, seppur più ampi; in Francia in Germania poterono invece sviluppare veri e propri principati territoriali, dominazioni che non ricalcavano la forma degli antichi distretti pubblici, ma erano molto più ampie e strut- turate delle normali signorie di castello. In Italia in linea generale conti e marchesi non riu- scirono a controllare l'insieme del distretto; costituirono invece poteri signorili sulla base delle proprie terre. Certo, il potere delle famiglie di conti era spesso più ampio di quello di una normale dinastia signorile; ma era una differenza dimensionale, non qualitativa: all'in- terno di ogni nucleo signorile, i conti si comportavano più o meno come qualunque altro signore. Se quindi ci concentriamo sulla realtà italiana, l'unica vera differenza qualitativa era nei titoli: i documenti fanno riferimento ai signori con il titolo di dominus (signore appunto), mentre i discendenti dei conti e dei marchesi continuavano ad usare i titoli che richiama- vano le funzioni un tempo ricoperte dai loro antenati. Continuare a definirsi conti non si- gnificava che si esercitassero gli stessi poteri dei propri antenati, ma era un modo per evidenziare la memoria di questa antica funzione, e quindi la propria maggiore legittimità ad esercitare il potere. Il titolo di conte non corrispondeva più ad una funzione effettiva, ma sul piano politico, l'uso di parole e simboli come questi aveva importanza. L'aristocrazia funzionariale E i grandi possessori si assimilarono progressivamente e giunsero a risultati analoghi: dominazioni patrimonializzate, fondate sul concreto controllo di terre e persone, e organizzate attorno alle fortificazioni. Questa similitudine derivò da una forma di imitazione reciproca: i grandi possessori limitarono i poteri pubblici e si im- possessarono quindi del potere di giudicare, di tassare, di controllare militarmente il terri- torio; I conti imitarono invece la capacità signorile di agire direttamente sulla società loca- le, fondando il potere su basi materiali. L'esito fu una società rurale organizzata attorno ad una moltitudine di dominazioni signorili che condividevano la capacità di unire poteri di matrice diversa: ai tradizionali rapporti di dipendenza economica e personale che univano i contadini ai grandi proprietari fondiari, si erano aggiunte sia le concrete protezioni arma- te imposte dal signore, sia giurisdizioni e imposte di tradizione pubblica. All'interno dei singoli villaggi, questi poteri e prelievi erano condivisi e spartiti tra diversi signori, con forme molto diverse da luogo a luogo. Dobbiamo considerare che le basi fondamentali del potere signorile avevano una proiezione sul territorio molto diversa: da un lato il castello era un efficace forma di difesa, e la sua efficacia si estendeva quindi omogeneamente al territorio circostante; il patrimonio fondiario di un signore era invece normalmente frammentato e disperso. Se pensiamo al potere signorile come ad un'ema- nazione diretta del castello, la sua forma naturale sarebbe quella di un dominio piccolo ma omogeneo; se lo pensiamo invece come proiezione del patrimonio signorile, pense- remo ad un potere estremamente frammentato e disperso. Le tue cose coesistevano: i signori cercavano prima di tutto di trasformare i propri contadini in sudditi, creando un potere ricalcato sul patrimonio fondiario; al contempo, chi aveva costruito un castello lo usava per cercare di sottomettere l'intera popolazione dell'area circostante. Questo diede vita a conflitti tra diversi signori, tra chi controllava un castello e chi di- sponeva di un grande patrimonio fondiario nei pressi di quel castello. Ne derivarono so- 55 prattutto forme di convivenza e spartizione del potere signorile all'interno dei singoli vil- laggi, che non seguivano regole o modelli generali, ma erano via via diverse da luogo a luogo, modellate sui concreti equilibri tra i diversi signori. Così, all'interno di una signoria organizzata attorno ad un castello e proiettata sul territorio circostante, convivevano si- gnorie minori, costruite sul patrimonio fondiario dei signori e sul controllo dei contadini che lo coltivavano; alcune tasse andavano al signore territoriale, altre al signore fondiario, e analogamente erano spartiti ad esempio i diritti di giustizia. Ma spesso le spartizioni erano ben più complesse, con accordi che andavano a definire singoli diritti con la condi- zione giuridica di specifici gruppi di contadini. Un ulteriore elemento di complessità derivava poi dal fatto che questi poteri signorili erano considerati come parte del patrimonio del signore, e quindi subivano gli esiti delle spartizioni ereditarie. In pratica vediamo spesso signori che comprano, vendono, sparti- scono singoli diritti giurisdizionali. L'esito è un quadro di altissima frammentazione del po- tere, per cui non esisteva un singolo signore del villaggio, ma di fatto ogni contadino si trovava a pagare diverse imposte a diversi signori. | — 3 CHIESE POTENTI E CHIESE PRIVATE Come abbiamo detto, pressoché ogni discorso condotto fin qui si può applicare anche alle grandi chiese, che con forme e strumenti analoghi svilupparono in questa fase poteri autonomi. È però importante riflettere sulle peculiarità delle chiese, sulle diverse caratteri- stiche che le ponevano in una posizione particolare nel sistema politico signorile. È prima di tutto una questione di fonti: per tutto l'alto medioevo, le fonti scritte si sono tramandate attraverso le chiese e i loro archivi; la massima parte delle azioni laiche sono per noi visibili solo perché condotte in collaborazione o in conflitto con una chiesa, oppu- re perché qui sono depositate le documentazioni. Abbiamo quindi una visione indubbia- mente parziale della società e dei poteri altomedievali. Al contempo, le chiese furono le principali sedi di riflessione politica, di elaborazione di modelli di ordine sociale in un con- testo in cui la pace e l'ordine non potevano più essere garantiti dal potere regio. Chiese e dinastie presentano alcune importanti differenze nella propria azione politica locale. Dobbiamo prima di tutto ricordare come le chiese fossero punti di fortissimo ad- densamento fondiario: i laici donavano le proprie terre alle chiese per garantirsi le pre- ghiere, oppure ogni volta che un loro congiunto diveniva monaco o chierico. Se quindi c'era un flusso quasi continuo di beni, essi non subivano poi gli stessi processi di fram- mentazione e dispersione dei patrimoni laici, dovuti alle divisioni ereditarie o alle vendite. Questi patrimoni erano quindi connotati da un lungo processo di accumulo. Certo, le terre della Chiesa potevano rientrare nella disponibilità dei laici, ma con concessioni tempora- nee. Proprio qui vediamo che le chiese facevano le stesse cose delle dinastie, usando le terre per legare a sé i contadini e i cavalieri, ma lo facevano con mezzi maggiori. La ricchezza e la stabilità patrimoniale non erano però i soli elementi di vantaggio. Un altro elemento importante era l'immunità: una larga esenzione fiscale e una tutela dei beni delle chiese, suggerimento importante che introduceva l'idea che gli edifici e le terre delle chiese non fossero spazi come gli altri, ma connotati politicamente in modo specifico. Non bisogna invece dare un peso eccessivo alla distinzione tra chiese e dinastie per quanto riguarda le forme di coercizione e di violenza. Il dominio aristocratico era infatti fondato in misura importante sulla violenza praticata e minacciata. Ma questa capacità era in larga misura condivisa da dinastie e chiese, che compivano e soprattutto facevano sistematicamente compiere atti di violenza nei confronti dei propri concorrenti ancora di più nei confronti dei propri sudditi per la riaffermazione del dominio signorile. Le chiese tuttavia non erano solo protagonista dello sviluppo signorile, ma anche stru- menti di questo sviluppo: erano infatti molte le cosiddette "chiese private", enti religiosi fondati e controllati da una dinastia o da un'altra chiesa. 56 La definizione di chiese in cura d'anime comprende tutti quegli enti religiosi la cui finali- tà era quella di officiare i culti destinati ai laici. Nell'alto medioevo, il sistema dominante era quello delle pievi: articolazione della diocesi destinate a guidare la cura delle anime di un gruppo più o meno ampio di villaggi. Ciò che le connotava era prima di tutto la pre- senza del fonte battesimale: la pieve era il passaggio obbligato per i nuovi nati. Al fianco di esse c'erano molte chiese e cappelle minori, che non erano dotate di diritti battesimali ma che rappresentavano il luogo di normale frequentazione dei riti religiosi. Queste chiese nascevano spesso dall'azione dei signori, che procedevano sia costruire l'edificio, sia a garantire al suo interno la presenza di chierici. Le ragioni di questa azione sono diverse in parte si possono ricondurre al tentativo di mettere le mani su una quota della decima. Ma è un'altra la chiave, da una prospettiva simbolica identitaria, in altri ter- mini più pienamente politica. La chiesa era il centro della vita sociale locale. L’atto di co- struire e proteggere la Chiesa era per il signore è un modo per impadronirsi di uno dei centri simbolici della società locale. Il signore che garantiva la sussistenza di molti conta- dini e la loro relativa sicurezza, garantiva anche un normale accesso al sacro. Evidente qui l'intento signorile di imporre una forma di potere articolato, in cui gli aspetti simbolici an- davano a integrarsi con quelli economici e di sicurezza. Un discorso diverso deve essere condotto per quanto riguarda i monasteri privati. Per molti di essi l'atto di nascita è rappresentato dall'iniziativa di un aristocratico. La funzione dei monaci non era quella di curare i poveri, a diffondere la cultura o proteggere i viandan- ti, ma quella di pregare, prima di tutto per compiere il proprio personale percorso di asce- si, e poi per la salvezza ultraterrena dei propri benefattori. Per un laico quindi fondare un monastero era un modo efficace per ottenere importanti benefici spirituali. La fondazione aveva anche un'importanza materiale: il monastero privato poteva infatti avere, nelle intenzioni del fondatore, una funzione di riserva patrimoniale sicura per sé i propri discendenti; E che la famiglia del fondatore ne avrebbe avuto sempre ampia dispo- nibilità, grazie al controllo sulla nomina dell’abate. In questo senso il patrimonio trasmes- so al monastero continuava a costituire una risorsa politica per il fondatore. Ma a lungo termine questa prospettiva ebbe successo in pochi casi, perché molti monasteri a partire dall'XI secolo si svincolare uno dal controllo dei laici e spesso usarono il patrimonio per le proprie specifiche politiche, non sempre e non necessariamente coincidenti con quelle dei fondatori. Se quindi bisogna tener conto di questi aspetti materiali, l'importanza dei monasteri privati deve essere vista prima di tutto su un piano di natura simbolica e di elaborazione dell'identità familiare. L'atto di fondare un monastero era quindi un'azione tramite cui dare forma alle proprie solidarietà familiari, evidenziarne l'estensione e limiti, con importanti inclusioni e altrettanto importanti silenzi. Questa manipolazione delle strutture familiari emerge con chiarezza se si considerano i diritti e doveri del patronato, ovvero i contenuti della protezione che la famiglia signorile garantiva al monastero. Questo insieme di diritti e doveri passava ereditariamente all'in- sieme dei discendenti del fondatore e il monastero diventava così un elemento costitutivo dell'identità familiare. In generale l'esistenza di un monastero privato poteva cambiare in modo sostanziale i funzionamenti interni al gruppo parentale che l'aveva fondato e lo proteggeva: i legami parentali erano più forti e più definiti. Era un mondo di eredi, perciò era importante sapere di chi si era figlio ed erede, quali altre persone avessero diritto a condividere gli stessi beni e gli stessi diritti. Il legame con un monastero entrava a far parte di questi meccani- smi ereditari, aiutando a chiarire e celebrare la comune ascendenza. L'incidenza simbolica e politica dei monasteri andava però aldilà, proiettandosi sulla legittimità e sull'efficacia del potere signorile. La presenza di un ricco e prestigioso mona- stero non era priva di conseguenze per la realtà locale: dei monaci si potevano ottenere preghiere preziose in cambio di donazioni, ma si potevano anche ottenere terre in con- 57 CAPITOLO IV — LE CITTÀ NELL’EUROPA MEDIEVALE | —1 LE BASI DELLO SVILUPPO URBANO La città non è un oggetto definito che cresce e si sviluppa nel tempo secondo tappe prestabilite; piuttosto è da intendere come un processo di trasformazione continua di più elementi materiali e culturali. Per semplificare, possiamo approfondire almeno tre di questi elementi, che più di altri hanno determinato le vicende dello sviluppo urbano nell'Europa medievale: • Il legame con il territorio; • La capacità di trasformare la condizione degli abitanti; • Il decisivo impulso dei signori territoriali alla promozione di centri urbani. Il primo elemento è di natura economica e demografica e mette in relazione i centri ur- bani con il territorio circostante. Non esiste un centro abitato che non dipendesse diret- tamente dai movimenti di popolazione e dai processi produttivi del territorio circostante. I dati demografici segnalano quasi ovunque un aumento sensibile della popolazione nelle campagne, che trovava sfogo o nella colonizzazione di nuove terre, oppure nello sposta- mento verso i borghi vicini. Dunque un aumento delle migrazioni e dell'attività agricola deve aver accompagnato lo sviluppo dei centri urbani. Inoltre, la città non riusciva a mantenersi da sola, e conservo un rapporto costante e vitale con il suo territorio. Per quanto estesi fossero i contatti commerciali delle grandi cit- tà medievali, il territorio rappresenta sempre un nodo di scambio indispensabile. Il secondo elemento dinamico riguarda la composizione sociale delle popolazioni urba- ne: la ricerca ha fornito un'immagine più complessa delle trasformazioni del tessuto so- ciale della città tra XI e XII secolo. Due dati sembrano ricorrere in maniera costante. In primo luogo, la dipendenza signorile del nucleo originario di abitanti delle città, i qua- li si addensavano a ridosso della residenza signorile spesso fortificata con la chiesa del castello, e poi nei borghi circostanti. Alla metà dell'XI secolo, i legami di dipendenza degli abitanti con i signori erano ancora forti; spesso il suolo dove si costruivano le case era proprietà del signore e gli abitanti pagavano un censo come qualsiasi altro contadino del- la zona. Il secondo dato però insiste maggiormente sulla capacità di trasformazione degli abi- tanti delle città. Sia i vecchi residenti sia gli immigrati tendono a riconoscersi, nel corso del XII secolo, come membri di un insieme sociale nuovo, che condivide i diritti e doveri derivanti dalla comune appartenenza alla città. Li univa soprattutto una comune aspira- zione all'autonomia delle proprie attività economiche, alleggerito dal controllo del signore e dalle forme più pesanti della sua fiscalità diretta. Il principale processo di trasformazione sociale avvenuto nella città riguarda proprio la costruzione di una nuova identità politica degli abitanti, fondata sul riconoscimento di uno statuto giuridico condiviso da tutti resi- denti: una relativa libertà personale, estesa anche alle persone di origine servile. I primi giuramenti collettivi delle comunità cittadine insistevano molto su questi punti. Alcuni si- gnori di accettarlo volentieri, a patto di non mettere in discussione l'assetto generale dei poteri locali. Tuttavia ottenere questo riconoscimento per molte città non fu né semplice né automatico. Il terzo elemento da tenere presente è proprio quello politico, vale a dire i rapporti tra i centri urbani e i poteri signorili della regione che spesso avevano sede in città. In alcuni casi questi rapporti furono di collaborazione immediata, anzi di vera promozione dello svi- luppo urbano (specialmente i conti di Fiandra). In queste città gli abitanti ottennero presto la proprietà dei suoli abitativi, dopo aver acquistato il censo dal signore. In tal modo i re- sidenti in città divennero proprietari e poterono così lasciare in eredità i loro beni urbani, 60 creando una popolazione di cittadini indipendenti dagli oneri signorili sul suolo. A questa forma di autonomia, si aggiunsero alcuni privilegi giudiziari, l'esenzione da alcune imposte sui beni commerciali e il permesso di costruire le mura come protezione e delimitazione dello spazio urbano. Privilegi simili si trovano anche nelle città tedesche del Reno. E chiaro che queste concessioni facevano parte di un progetto di rafforzamento del potere pubblico locale: lo sviluppo precoce di una rete urbana favoriva una maggiore sta- bilizzazione delle regioni interessate, grazie al popolamento di zone prima poco attive, al potenziamento delle vie commerciali, alla crescita delle entrate signorili garantite dalle im- poste pagate dai cittadini. I principi che favorirono la città furono anche quelli che prima di altri realizzarono uno Stato relativamente accentrato, con una rete di ufficiali minori nel- le città e la formazione di una corte con funzioni fiscali e giudiziarie intorno al signore. Non sempre però le cose andarono in questo modo. In molte regioni del regno di Fran- cia, la nascita di un'autonoma rappresentanza della città, chiamata in maniera ancora ge- nerica comune, fu osteggiata fortemente dei poteri signorili dominanti alla fine dell'XI se- colo. Avvenne per esempio a Cambrai, dove nel 1076 gli abitanti giurarono un comune, sempre contro il vescovo, cacciando dalla città la nobiltà al suo seguito. Certo, il vescovo assediò e riprese la città, ma nel 1111 il Comune fu approvato ugualmente, segno che ormai la difesa organizzata degli interessi cittadini non poteva essere più frenata. Questi casi di scontro violento erano più frequenti nelle città antiche dominate da autorità eccle- siastiche, che avevano più da perdere nella concessione di autonomia ai cittadini. Sia in caso di collaborazione che di opposizione, è indubbio che le città presero una forma istituzionale dopo aver ottenuto un riconoscimento dall'autorità superiore. Tanto i giuramenti quanto le franchigie, riguardavano in primo luogo la concessione di poteri giu- diziari civili alle corti cittadine e alcune esenzioni dalle tasse sui commerci e sui ruoli ur- bani. La giustizia di sangue per i reati più gravi era riservata al signore. Nelle città della Francia meridionale, l'autonomia era maggiore. Negli anni 30 del XII secolo, si elessero dei magistrati chiamati consoli. A differenza delle città del Nord, gene- ralmente rette da un rappresentante signorile, si trattava di un governo collegiale di citta- dini, coadiuvato da un consiglio che poteva contare anche un centinaio di membri. La nomina dei consoli era interna ad un'Elite urbana formata in genere dalle famiglie dell'ari- stocrazia militare più in vista, che si passavano le cariche di padre in figlio: fino alla se- conda metà del XII secolo i borghesi non nobili ne rimasero sostanzialmente esclusi. I consoli restavano sempre magistrati riconosciuti da un potere superiore, amministravano sia la giustizia civile sia quella penale, ma non potevano toccare il dominio e i diritti dei signori maggiori. Un'autonomia contrattata che si trovava in moltissime città europee. La sensazione che le città europee avessero una natura doppia e rafforzata dalla pre- senza di due apparati istituzionali in città: da un lato gli ufficiali signorili che detenevano il controllo militare e la giustizia alta di sangue per conto del signore; dall'altro gli scabini e i consoli che rappresentavano la fascia di popolazione a messa alla vita politica della città. Questa sistemazione apparentemente semplice delle istituzioni urbane nasconde in realtà una costruzione più complessa. All'interno di un quadro politico incardinato sui poteri signorili locali, molti principi laici ed ecclesiastici trovarono opportuno riconoscere l'esistenza di nuovi soggetti sociali ed economici che reclamavano un ruolo attivo nella vita politica della regione. I residenti nella città chiedevano soprattutto la difesa dei propri interessi, la possibilità di espandere le at- tività produttive e le relazioni commerciali. Al contempo si riconoscevano fedeli al prin- cipe, non contestavano le sue prerogative signorili. I signori a loro volta dovevano garanti- re queste sfere di autonoma organizzazione dei cittadini, limitando le loro pretese fiscali e premiando con dei privilegi che assicuravano la libertà di questa fedeltà politica al loro dominio. Restava fermo che il comando militare rimaneva saldamente nelle loro mani. La città manteneva così da un lato le contraddizioni di un sistema misto, dove le ten- sioni di interessi diversi spingevano le istituzioni locali e territoriali a riformulare continua- 61 mente gli accordi presi, dall'altro godeva dei vantaggi di un dominio signorile unitario, che integrava le Elite urbane in reti sociali ed economiche di ambito regionale. Quando questo patto di stabilizzazione funzionò, lo sviluppo non solo di città, ma anche di reti urbane complesse aumentò in maniera esponenziale. | — 2 LE CITTÀ TRA XII E XIII SECOLO Dalla metà del XII secolo in avanti, il fenomeno urbano si assesta ormai lungo linee di sviluppo relativamente costanti, che definirono i caratteri interni ed esterni. In primo luogo, le città, formate spesso da parti differenti, furono riunite in un’unica realtà territoriale urbana. La costruzione di mura rese visibile questo processo. Tra il XII secolo e la prima metà del XIII secolo, tutte le città furono circondate da una nuova cerchia muraria in pietra, in- tervallate da torri di guardia, porte e camminamenti per la difesa. La nuova cerchia ab- bracciava una superficie due o tre volte superiore rispetto alle fortificazioni precedenti, non solo perché riuniva parti prima separate, ma perché inglobava anche ampie zone di terreno non costruito. Una dimensione agricola niente a fatturare nei panorami urbani eu- ropei. Le mura divennero comunque il simbolo della città, assorbirono per anni le energie tecniche ed economiche della popolazione. Segnarono anche un confine più netto con il territorio esterno, una soglia fra il dentro il fuori che alimenta una coscienza civica più ac- centuata rispetto al primo secolo di vita delle città. La concessione di carte di franchigia o di carte di comune ai centri urbani era ormai una pratica generalizzata da parte di tutti i poteri territoriali. Le città erano anzi contraddi- stinte da questo riconoscimento ufficiale della libertà, intesa come l'aver definito per iscritto, in maniera durevole, l'elenco dei propri diritti: in primo luogo la possibilità di orga- nizzare la vita economica. Nel 200 le città, ormai protette dal re e inserite saldamente nel- la gerarchia del regno, divennero ottimi contribuenti del fisco Reggio e giocarono di con- seguenza un ruolo politico importantissimo nella costituzione dello stato. Lo sviluppo economico tuttavia acuiva le differenze sociali. Non tutti infatti erano liberi allo stesso modo. La popolazione urbana nel corso del XII e XIII secolo è percorsa da un inarrestabile processo di stratificazione sociale e di differenziazione fra gruppi diversi. Il Comune urbano in sostanza non era meno gerarchizzato del territorio circostante, ma presentava un’arco assai maggiore di differenze di ceto e di status. In primo luogo all'interno dei ceti che guidavano il comune. Dopo una lunga fase di go- verno, il ceto dirigente del primo comune formato dei vecchi funzionari signorili, fu co- stretto a integrare gradualmente nuove famiglie dei borghesi; soltanto quelle che avevano fatto fortuna con i commerci, e che potevano vantare le relazioni più utili a sostenere l'espansione commerciale della città. Furono essi i primi a rivendicare, già alla fine del XII secolo, un posto nei consigli cittadini. La ricchezza in effetti contava, ma contava soprat- tutto la capacità di moltiplicare i profitti. Le accumulazione di denaro liquidò furono infatti rapidissime e sconvolsero in pochi anni le gerarchie consolidate. Gli strumenti di governo usati dalla piccola nobiltà funziona- ri Ale non bastavano più rispetto alla capacità di muovere i capitali in breve tempo, assi- curando ai poteri territoriali introiti enormemente superiori ai vecchi censi signorili. Questa Elite economica conquistò così il potere nel corso del 200: sia proprio dei posti di co- mando e del controllo della vita economica della città, facendosi garante con i principi della prosperità del territorio. La città aveva delle rappresentanze, ma il suo sistema istitu- zionale non era rappresentativo. Esisteva infatti un frastagliato mondo artigianale che abbracciava gran parte della po- polazione urbana e aspirava ad una presenza politica non solo passiva. Un mondo attra- versato da infinite tensioni interne. Una grammatica sociale empirica, fatta di segni, tipo- logia di lavoro, prestigio sociale distingueva nettamente i livelli alti dell'attività artigianale dai mestieri umili che ne sarebbero rimasti esclusi per definizione. Esisteva infatti una 62 giudiziario era prevalente. I processi seguivano i costumi locali, che applicavano il diritto della gente. Tuttavia, per il mantenimento dell'ordine, la pace era centrale anche nella le- gislazione regia. Ire inglesi continuavano a fare leggi; la pace del regno era dunque un compito del re, ma era condiviso con le comunità che avevano un ruolo attivo nell'orga- nizzazione della vita locale. Anche Guglielmo riprese questa tradizione, tanto più che il tema della pace era per lui urgente. Il giuramento con cui fu incoronato conteneva molti elementi del tradizionale pat- to tra il re e il popolo: egli si impegnava a mantenere i diritti delle chiese a governare il popolo suddito in modo giusto e attraverso le leggi. Ma la realtà era un'altra e si presen- tava fin dai primi anni come estremamente difficile. Da un lato, i baroni normanni esigeva- no come premio della loro fedeltà non solo l'assegnazione di gran parte delle terre dei nobili inglesi, ma anche una relativa autonomia politica nei rispettivi possessi e un ruolo di controllo sulle azioni del re. Dall'altro, il dominio del re per sopravvivere doveva continuare a fondarsi sulla nozione di popolo, conservando la libertà di base dei possessori e l'ap- poggio dei vescovi e degli abati. Era evidente la tensione interna a questa complessa struttura politica in formazione: l'appoggio dei baroni era necessario, ma questi inevitabilmente rischiavano di indebolire la presenza regia; il rafforzamento delle istituzioni centrali era altrettanto urgente, ma do- veva per forza scontrarsi con le pretese degli stessi baroni. Il regno inglese, come altri, si dibatteva tra queste spinte contraddittorie ma a differenza dei monarchi sul continente sviluppa prima e meglio gli strumenti di governo che assicurarono al regno una propria autonoma esistenza. In primo luogo Guglielmo, che restava duca di Normandia, dovette nominare un suo rappresentante in Inghilterra, chiamato giustiziere, dotato di pieni poteri in assenza del sovrano. Era una figura nuova, molto importante per diffondere un'idea di regno in astrat- to, indipendente dalla figura del re. Inoltre eliminò i conti e nominò al loro posto gli sceriffi, incaricati di amministrare la giustizia e soprattutto di controllare le finanze dei singoli shi- res. Cerco anche di conservare il diritto dei liberi uomini a mantenere le proprie cose con- tro le prepotenze dei baroni. Tutti i liberi furono così dichiarati sudditi del re e tutta la terra data in concessione ai baroni fu sottoposta a concreti obblighi di fedeltà militare nei suoi confronti. Per molti storici questo segnò il vero inizio del feudalesimo inglese, con la creazione di una gerarchia basata sul possesso di terre che iniziava dal re, fino agli uomini liberi con- tadini, che in teoria tenevano la terra per concessione regia. Non tutte le forme di posses- so nell'Inghilterra potevano essere ricondotte a concessioni feudali però. Le origini prece- denti o comunque oscure del possesso rendevano il significato reale dei termini assai fluido, determinato più dalle relazioni tra le parti che dall'adesione ad una regola astratta. In sostanza era molto difficile ricostruire una vera provenienza feudale di tutte le terre come fossero veramente concessioni regie. Sotto Guglielmo si pose piuttosto il problema di inquadrare in una cornice istituzionale più chiara alle terre distribuite ai grandi baroni normanni e agli enti ecclesiastici. In questo senso, ricorrere al sistema feudale poteva es- sere di aiuto a creare un nuovo ordine politico: qualificare i grandi possessi come conces- sioni regie permetteva di legare al possesso di terre all'assolvimento di precisi obblighi militari. Proprio la necessità di conoscere quanti erano gli effettivi e di quali risorse regno poteva disporre, spinse Guglielmo ad ordinare una grande inchiesta in tutte le contee in- glesi sullo stato delle terre nel regno prima e dopo la conquista. Fu questa l'origine del Doomsday book, il più completo e ambizioso censimento me- dievale di uomini e terre e del potenziale economico dei beni. Le migliaia di dati raccolti gli avrebbero permesso di sapere su quanti uomini poteva contare per l'esercito e quanto poteva richiedere in tasse da tutti i possessori. 65 Esso è organizzato per con te, per scendere poi ai feudi, alle centene, alle ville e infine ai manor, l’unità di base della proprietà contadina. Per ogni contea si richiedeva un nume- ro di informazioni assai alto. Un quadro molto particolareggiato che richiedeva sia il censimento di tutti i beni pos- seduti, sia una stima del valore dei beni registrati. Il piano fiscale era infatti quello che più interessava il re, perché permetteva allo stesso tempo di tenere sotto controllo sia i baro- ni, tenuti alle prestazioni militari o alla loro conversione in denaro, sia i sudditi del regno come corpo politico direttamente sottoposto al re. La tensione fra questi due poli si fece sentire presto. Enrico I, figlio e secondo successore di Guglielmo, ricerco assiduamente un rapporto con il popolo inglese come freno all'arroganza dei baroni, di cui pure aveva bisogno per governare. In occasione della sua elezione, Enrico emanò una famosa Carta delle libertà in cui prometteva un ritorno alle antiche consuetudini inglesi contro quelle nuove illegitti- me e ingiuste dei normanni. Queste nuove consuetudini erano chiaramente di natura fi- scale: i baroni e i loro vassalli esigevano tasse eccessive e non motivate, imponendo an- che ai liberi prestazioni non dovute. Con la sua carta, Enrico si reggeva dunque a difenso- re di questo regno presso: limitò il campo d'azione dei baroni attraverso un controllo sulla trasmissione ereditaria delle terre baronali e la punizione delle loro malefatte secondo la legge. Al contempo, rafforzò la giustizia regia nelle singole località come antidoto alle prepotenze dei grandi. Aveva capito che era necessario insistere sulla natura feudale delle terre per costringere i baroni a contrattare con il re le quote di potere esercitato localmen- te. Si trattava comunque di un equilibrio precario. Alla morte di Enrico, fu incoronato re il nipote Stefano a cui si contrappose la figlia di Enrico Matilde. Una guerra di successione, con conflitti civili che provocarono un rafforzamento del potere dei baroni: si impossessa- rono delle maggiori cariche pubbliche e cercarono anche di renderle ereditarie. L'azione del successore Enrico II (nipote di Enrico I) in tese porre rimedio a questo stato di violen- za: la guerra civile e l'erosione del potere regio. Il regno di Enrico II È stato forse il periodo più importante per l'Inghilterra del XII secolo, perché con il matrimonio con Eleonora d'Aquitania unì Normandia, Inghilterra e Aquitania; e perché sotto il suo governo presero forma in maniera più definita le istituzioni monarchi- che del regno inglese. Egli fece dell'apparato di corte il motore politico del regno, luogo di controllo e mediazione tra il centro e le comunità. L'elemento qualificante della sua azione fu proprio la capacità di connettere la curia con i sudditi attraverso lo sviluppo di due si- stemi istituzionali. Il primo sistema era fisso, incentrato sul giustiziere, delegato dal re a rappresentarlo in sua assenza, e la curia regia, composta dei grandi del regno, laici e ecclesiastici, che do- vevano esprimere formalmente un consenso alle decisioni del re. A ciò si aggiunge lo Scacchiere, il responsabile delle finanze pubbliche con potere di controllo su tutti gli uffi- ciali, che due volte l'anno doveva fare un minuto rendiconto dell'operato finanziario e giu- diziario. Il secondo sistema era mobile e prevedeva un collegio di giudici itineranti che ammini- stravano la giustizia per conto del re nelle singole contee. Predispose anche una riforma ancora più importante: la costituzione del sistema delle giurie dei "12 uomini saggi" nelle comunità, incaricati di giudicare i colpevoli e tenerli in custodia fino all'arrivo dei giudici regi. Così la giustizia locale era salvaguardata e anzi rafforzata, e allo stesso tempo sotto- posta al controllo dei giudici regi itineranti. In più, per quelli che non potevano aspettare l'arrivo, il re potenziale funzione giudiziaria della corte a Londra, che lentamente divenne un vero tribunale aperto a tutti i sudditi. Ancora una volta dire puntavano sulla regolazione della giustizia per tenere il regno unito e in pace. Il controllo dello strumento giudiziario serviva anche a ridimensionare le pretese dei ba- roni sui sudditi liberi che cercavano localmente di assoggettare. Per questo, Enrico esteso 66 la protezione regia agli eredi dei vassalli dei feudi maggiori, facilitando la successione ereditaria dei feudi minori, non più soggetti all'arbitrio dei loro signori. Un modo per ren- dere più autonoma la piccola e media aristocrazia locale. Infine Enrico si rese conto della necessità di rendere più stabile un esercito nazionale per la difesa del regno. Recuperando una vecchia consuetudine di chiamata alle armi, or- dinò a tutti i sudditi possessori e liberi di partecipare all’esercito con un armamento pro- porzionale al reddito. Non sfuggiva il significato ideologico dell’operazione che, richia- mando tutti i libri ad un servizio militare pubblico, inquadrava i sudditi in una dipendenza diretta dal re. Ma era chiaro anche il fine fiscale, perché era necessario conoscere l’entità dei beni dei singoli per decidere il tipo di armamento. Queste grandi riforme furono accompagnate da strumenti di governo particolarmente aggiornati. Enrico usa di frequente l'inchiesta come forma di conoscenza collettiva delle situazioni del regno, rivestite però di una funzione strettamente politica: distinguere i ba- roni fedeli da quelli infedeli, separare i ricchi dei meno ricchi, e controllare i comportamen- ti della grande aristocrazia attraverso un aggiornamento continuo dei loro doveri. Tuttavia portava con sé, e in parte scaricava sulla popolazione inglese, il pesantissimo fardello dei possedimenti continentali. È vero che riuscì a tenere sotto scacco i re francesi per lungo tempo, ma questo stato di guerra continua richiedeva un pesante aggravio del- le tasse sia nei regni insulari che nei domini francesi. Il servizio armato dei baroni nelle guerre esterne fu eseguito con crescente disimpegno; e ancora meno popolari furono le imposte che Enrico e i suoi successori furono costretti ad esigere con frequenza crescen- te. La crisi del regno sotto i figli di Enrico II fu accelerata dalle lotte dinastiche tra i due fra- telli, Riccardo, re tra il 1189 e il 1199 e Giovanni Senzaterra (1199-1216), dalla lontananza dei re e dalla loro pressione fiscale ancora più dura dopo la perdita dei possedimenti in Normandia nel 1204. Sotto il regno di Giovanni Senzaterra inoltre i rapporti con la Chiesa e i baroni si deteriorarono rapidamente, per la resistenza di questi ultimi a prestare servi- zio militare fuori dal regno. La reazione violenta del re contro i baroni riottosi e l’esazione di ulteriori tasse di conversione del servizio attivo in denaro gli alienarono definitivamente i favori dell’aristocrazia militare. Dopo la sconfitta subita a Bouviers per opera di Filippo Augusto nel 1214, Giovanni fu apertamente contestato dei grandi del regno. Uniti dalla comune esigenza di limitare i suoi poteri, lo costrinsero a firmare un documento di concessioni assai ampia, conosciuto come Magna Carta. Essa voleva riprendere le antiche libertà concesse da Enrico I, ma in realtà configurava un nuovo equilibrio di potere tra il re e i baroni. Preceduto da una carta di richieste dei baroni che insistevano soprattutto su alcuni punti della politica fiscale, essa si configurava come un grande patto di limitazione delle prerogative regge in materia fiscale e in materia feudale, in particolare riguardo alla tenuta e alla trasmissibilità del feu- do. Sul primo punto i limiti erano chiari: il re non poteva imporre tasse senza il generale consenso dei baroni, eccetto nei casi riservati e doveva convocare pubblicamente l'as- semblea mediante lettere di citazione rivolte a tutti i grandi del regno. Riguardo al secon- do punto, il ritorno alle consuetudini serviva a diminuire i pesanti obblighi fiscali che Gio- vanni aveva imposto sul passaggio dei feudi agli eredi: l'erede doveva pagare una cifra fissa per riscattare il feudo paterno; se era minorenne poteva ottenere il bene senza ri- scatto; gli ufficiali regi non potevano sequestrare i beni immobili in caso di debito o pren- dere prodotti dalla terra senza il consenso del proprietario. La libertà politica era prima di tutto libertà di possedere i beni al riparo delle molestie degli ufficiali pubblici. I re succes- sivi, nonostante le frequenti riscritture della carta, ne dovettero tenere conto. | — 3 IL REGNO DI FRANCIA DA LUIGI VI A FILIPPO AUGUSTO 67 A fasi alterne, Riccardo si dichiarò vassallo di Filippo re di Francia e suo alleato sia contro il padre sia contro il fratello Giovanni. Alla sua morte, Giovanni subentrò come ere- de unico, ma senza avere un reale supporto né fra i vassalli inglesi né fra quelli normanni. Questo portò alla conquista della Normandia da parte di Filippo; con un'azione militare di successo, prese il controllo delle principali fortezza del ducato nel 1204. Filippo entrava così in possesso di una regione dove il demanio del duca era molto vasto e poteva essere usato per rafforzare le clientele vassallatiche locali. Il re francese riuscì ad allearsi con i baroni normanni, ai quali riconobbe ampi autonomia, e ad estendere un'influenza diretta sui ducati dipendenti, come quello di Bretagna. La via feudale si rivelava promettente, ma fu una guerra a consegnare a Filippo è un prestigio mai prima raggiunto da un re france- se. La battaglia combattuta Bouvines nel 1214 fu uno dei rari eventi bellici a influenzare in profondità le vicende dei regni europei della prima metà del 200. Contro Filippo si erano uniti tutti i suoi avversari storici: il re inglese, l'imperatore tedesco Ottone IV, il conte di Fiandra, il duca di Brabante. Sconfiggere questa coalizione permise a Filippo di superare lo stesso momento le maggiori resistenze alla sua espansione verso la fiandra e il nord del regno. Soprattutto, Filippo non fu più costretto a difendersi e poté iniziare una politica più aggressiva, anche se a volte con esiti fallimentari. La cosiddetta "crociata albigese", la spedizione che i baroni del nord della Francia fin dal 1209 avevano condotto per conto del Papa contro il conte di Tolosa, aveva aperto un insperata via di penetrazione verso i principati del sud. I cavalieri francesi erano riusciti a sostituire temporaneamente il conte di Tolosa. Filippo non intervenne subito, e solo nel 1219 e poi ancora nel 1221 tentò di riprendere il controllo della città, senza successo. La questione del sud era però ormai aperta, e gli aveva consegnato nelle mani una potentis- sima arma per giustificare un intervento armato: la lotta contro l’eresia. Il conte era stato accusato di eresia da Papa Innocenzo terzo e gli eretici erano sciolti dal giuramento di fe- deltà e potevano essere privati dei beni. Filippo poteva così rivendicare la spedizione come atto di difesa della fede, una risorsa che i re francesi sfruttarono con grande abilità. Tuttavia sostenere a lungo uno stato di guerra, indipendentemente dagli esiti delle sin- gole battaglie, richiedeva una grande capacità di tenere insieme alleati rivoltosi, di usare e remunerare clientele militari estese; in altre parole richiedeva una grande capacità di ac- cumulare e mobilitare risorse economiche. Filippo, più di altri, riuscì ad assicurare al regno una superiorità economica in grado di sostenere un apparato militare così imponente e incerto. Sulle entrate il regno di Filippo si mostrò superiore ai suoi concorrenti. Il budget del 1000 202.203, fortunatamente soprav- vissuto, mostra bene come il re francese fosse riuscito non solo a razionalizzare la conta- bilità e l'amministrazione locale, ma sfruttare con abilità le pieghe finanziarie dei rapporti feudali. Le entrate erano composte per la metà dei proventi delle rendite agricole del do- mino regio, per il 20% dalle tasse della città, e per la restante parte dalla giustizia, o da provenienza non specificata. La possibilità di sfruttare meglio il dominio regio fu sostenuta anche dalla creazione di una nuova figura di ufficiale pubblico, il balivo, responsabile del governo, della giustizia e della fiscalità in una circoscrizione definita. Migliorano anche le tecniche contabili, con la redazione di rendiconti mensili dell'attività in libri di entrate e uscite. Questa gestione di- retta del dominio assicurò altre entrate più stabili e prevedibili. L'amministrazione centrale inoltre era stata affidata ad un personale diverso. Scomparsi i grandi del regno, furono chiamati esponenti della media cavalleria e della nobiltà urbana; insomma un ceto ammi- nistrativo fedele al re, non legato da pericolose dipendenza verso i grandi vassalli del re- gno. Ma a rendere ragione della novità furono le entrate straordinarie, che riguardarono in gran parte tasse feudali. Filippo uso a piene mani gli elementi ideologici elaborati da Su- gerio, quando impose l'idea che il re non era tenuto a prestare omaggio a nessun principe 70 di cui era pure vassallo. Forte di questa superiorità politica, riuscire a sfruttare sul piano economico tali prerogative feudali. Richiese enormi somme per riassegnare i grandi feudi in caso di morte del vassallo; altrettante ne chiese per la custodia dei feudi regi nei mo- menti di minorità dell'erede; riuscì anche a monetizzare il mancato servizio militare, impo- nendo una tassa per assoldare dei “sergenti”. In sostanza struttura feudale e amministrativa del regno si svilupparono in parallelo e non in contrasto. Fu proprio la combinazione sapiente di strumenti giuridici ed economici diversi ad assicurare il successo della politica regia. Ancora prima di Bouvines, Filippo era diventato uno dei principi più potenti e solidi sul piano finanziario, in grado di resistere più a lungo nelle guerre locali, ma anche di offrire di più a tutti quei dominanti locali che aves- sero accettato la sottomissione al regno di Francia. Anche perché il regno era ancora un insieme di grandi feudi intorno ad un nucleo centrale in cerca di legittimazione. Mancava ancora l'Aquitania e soprattutto le contee del sud, in mano all'impero o controllate dalla dinastia “spagnole”. | — 4 I REGNI SPAGNOLI La Spagna del XI secolo era divisa in numerose con te con aspirazioni monarchiche, relegate in prevalenza nella parte settentrionale della penisola. Il grosso del territorio era ancora sottoposto al dominio musulmano. Il dominio arabo, che sotto varie forme sia pro- lungato per circa sei secoli, è stato letto dalla storiografia spagnola come una lunga pa- rentesi del regno visigoto, mai del tutto scomparso. Un regno cristiano avrebbe continua- to ad esistere, in tono minore, a nord, per poi risvegliarsi nell'XI secolo e iniziare una lenta ma inarrestabile riconquista. È evidente che questa visione trionfalistica pecca di alcune esagerazioni ideologiche. I regni spagnoli nell'XI secolo non erano esattamente regni, ma contee di dimensioni regio- nale, che occupavano solo la parte settentrionale della penisola. La contea di Barcellona rimase a lungo strettamente legata alle vicende della Francia meridionale; Navarra, Ara- gona, Leon di Castiglia erano invece formazioni territoriali estremamente fluida e ancora per tutto il XII secolo, la loro esistenza come regni fu intermittente. La Castiglia assorbì il Leon, ma con due fasi di separazione. Navarra e Aragona furono invece unite fino al 1134, per poi avere due sovrani diversi. Una maggiore stabilità fu raggiunta solo nel 200 avan- zato, quando le formazioni di carattere regio, Castiglia e Aragona, definirono meglio la loro natura territoriale. Anche l'identità etnica delle popolazioni era incerta. La lunga permanenza della domi- nazione araba aveva chiaramente creato una popolazione nuova, che solo dopo la fine del dominio musulmano si riconobbe come “ispanica”. Infine la separazione dei due mondi, cristiano e musulmano, non era così netta come ci si aspetterebbe. Furono innumerevoli i casi di collaborazione, protezione, scambio e al- leanza fra i re spagnoli e i diversi potentati delle città della frontiera. E ancora profondi erano i contatti di collaborazione nel XII secolo con alcuni califfi, senza contare il grande scambio fra la cultura musulmana e quella latina, favorito da un intenso lavoro di tradu- zione di opere nelle due lingue. Senza la crisi profonda e diffusa della dominazione almo- ravide fra XI e XII secolo la Spagna musulmana non avrebbe cessato di esistere. È vero tuttavia che la guerra l'infedele era da tempo un motivo ricorrente del linguaggio politico dei re spagnoli, soprattutto dopo l'avallo papale concesso alle spedizioni di cava- lieri francesi. I sovrani più impegnati nelle guerre di espansione, il re di Castiglia e quello di Aragona-catalogna ricorsero spesso a questo armamentario retorico quando affronta- rono conflitti armati con i califfati confinanti, e trovarono anzi nell'esaltazione religiosa del- le attività belliche un sostegno ideologico forte alle loro pretese monarchiche. Sì legittima- re un'ora in quanto liberatori, o almeno ci provarono. Così fu per Alfonso VI di Castiglia dopo la celebratissima conquista di Toledo nel 1085, o per l'occupazione delle Baleari da parte dei catalani e la presa di Saragozza da parte degli aragonesi (1118), anche se si 71 tratta sempre di vittorie passeggiare e gli Almoravidi ripresero presto le posizioni perdute. Le guerre che segnarono la prima metà del XII secolo furono tutto sommato poco decisi- ve sul piano territoriale. Sia le battaglie dei re spagnoli che le guerre di razzia dei principi musulmani furono episodi bellici di segno altalenante. Fino al 1115-1120 gli Almoravidi prevalsero; nei decenni successivi, alcune spedizioni cristiane ottennero qualche succes- so: la "cavalcata" di Alfonso VII verso Cordova e Cadice nel 1133 è rimasta famosa. Ma erano appunto razzie e saccheggi, non guerre di occupazione. La possibilità di uno scardinamento del sistema di governo musulmano fu aperta dalla crisi interna del regno almoravide. Provenienti dal Magreb, gli Almoravidi avevano esteso una pesante dominazione militare in tutta la regione andalusa. La rigidità dei costumi reli- giosi imposti dei loro capi, la differenza linguistica e culturale dall'Elite precedente e so- prattutto un regime fiscale opprimente resero il governo almoravide lontano e ostile alla popolazione andalusa. Le minoranze perseguitate non trovarono più ragioni per sostenere attivamente il loro dominio. La crisi era anche più profonda. La reazione degli Almoravidi partito al Marocco, dove una setta denominata degli Almohadi riuscì in un decennio a conquistare il Marocco e a espandersi in Andalusia. Intorno agli anni 1144-47 anche le maggiori città spagnole pas- sarono dalla parte degli Almohadi, che elessero capitale Siviglia. Per la riconquista questa mutazione segnò una sostanziale battuta d’arresto. Nel 1195 ad Alarcos l'esercito mu- sulmano, aiutato da alcuni cristiani ribelli, inflisse una severa sconfitta ad Alfonso VIII di Castiglia, provocando anche la ritirata degli avamposti fortificati nel sud. La reazione inizio nei primi anni del 200, con la proclamazione di una crociata antimu- sulmana nel 1211 da parte di Innocenzo III. Nel quadro del nuovo spirito bellico si colloca la vittoria del re castigliano a Las Navas nel 1212. Dopo questa data, la penetrazione nelle regioni sottoposte ai musulmani si fece più veloce: tra il 1212-40 i territori nelle mani dei principi cristiani, soprattutto del re di Castiglia, raddoppiarono e si moltiplicarono gli inse- diamenti, conquistando la regione dell’Estremadura e dell’Andalusia. Meno ampi furono i possedimenti acquisiti dal regno catalano-aragonese, anche se la conquista delle Baleari e del regno di Valencia apri alla dinastia uno scenario nuovo di proiezione verso il Medi- terraneo. La sottomissione politica dei territori veniva accompagnata da una vasta opera di popolamento delle regioni acquisite. In realtà un processo di graduale colonizzazione dei territori di frontiera andava avanti fin dall'XI secolo. La creazione di villaggi e città abitati da contadini e piccoli cavalieri era un tratto distintivo della riconquista. Un misto di colonizzazione agraria e militare che con- feriva agli abitanti una natura duplice di contadino-soldato. Le terre erano distribuite in base alla capacità militare delle persone e i cavalieri erano favoriti sia come proprietari sia come militari. Naturalmente queste iniziative di ripopolamento tenevano conto anche dei contesti sociali e militari dei luoghi colonizzati. Nella parte più settentrionale della penisola l'iniziativa dei cristiani era più chiara; ma in quella centrale intorno a Toledo, la popolazio- ne era necessariamente mista. Se ci spingiamo più a sud, nell'Andalusia musulmana, la presenza di villaggi fondati dagli ordini monastici militari era più consistente. In questa fase la questione etnica si pose solo nelle situazioni più complesse. Più la conquista si stabilizzò, più il destino delle popolazioni di origine musulmana divenne un problema, ri- solto il più delle volte con l'emarginazione economica e spaziale. Da ricordare il carattere pubblico di queste iniziative. Furono ire ad autorizzare l'inse- diamento, la divisione delle terre e anche le forme di autonomia. Più che in Francia, le cit- tà in genere i centri abitati godevano in Spagna di un'autonomia protetta, in uno sviluppo armonico di competenze locali e inquadramento regio del popolamento nelle regioni di frontiera. Questa peculiare organizzazione per insiemi sociali con diversi diritti e doveri condizio- nò in profondità la struttura politica dei regni. Ire si trovarono davanti a gruppi sociali con 1:00 fisionomia politica, provvisti di autonomia e con spiccata propensione a rivendicare 72 Costanza d'Altavilla era l'ultima esponente della famigli che più aveva contribuito a conferire una patina di unità alla multiforme presenza dei cavalieri normanni, sbarcati nel- l'Italia meridionale intorno al 1013-1016. I cavalieri normanni si erano insediati nelle regio- ni meridionali dell'Italia nei primi decenni del secolo per mettersi al servizio dei principi longobardi come mercenari. Un primo gruppo riuscire abbastanza presto a stabilirsi ad Aversa nel 1030, e a impadronirsi del principato di Capua nel 1058. Altri gruppi si espan- sero poco a poco in Campania, Calabria e Puglia, costruendo basi di un potere locale di- sperso ma con tendenze egemoniche regionali assai ambiziose. Fu un processo lungo e ci vuole almeno un secolo prima di poter parlare di un regno, ma la qualità del potere esercitato dei cavalieri francesi fu da subito avvertita come qualcosa di diverso. Le inizia- tive militari dei normanni cambiarono rapidamente la natura dei poteri locali. Il controllo esercitato sul territorio da questa aristocrazia militare fu violento e in edito, ed è ricordata in tutte le cronache e non sembra un motivo retorico. Inoltre non avevano un vero ordinamento gerarchico all'interno di un sistema istituzionale unico. La vecchia aristocrazia longobarda e bizantina in Campania in Puglia fu in buona parte sostituita dai cavalieri normanni o si dovettero adattare ai modi di gestione del potere di questi. Una vera dinastia di comandanti sovraregionale faticò ad affermarsi. Solo una cinquan- tina d'anni dopo i primi sbarchi, intorno al 1070, la dinastia degli Altavilla si impose come punto di riferimento di un coordinamento unitario fra i diversi territori conquistati. Presenti in Sicilia, in Puglia e in Calabria intorno al 1040, i vari discendenti della famiglia se però sfruttare bene le debolezze dei potentati bizantini, ma anche le contrapposizioni tra Papa e imperatore, cercando di legittimarsi presto entrambi i poteri: Drogone fu eletto conte di Puglia dal duca salernitano e duca nel 1047 dall’imperatore Enrico III. Il fratello Umfredo riprese il titolo di duca di Puglia alla sua morte e cercò un raccordo più stretto con il pa- pato di Roma; il titolo fu ripreso nel 1059 da un nuovo arrivato nella famiglia, Roberto, im- pegnato nei primi anni dopo il suo arrivo in azioni predatorie in Calabria; sempre nel 1059 ci fu un primo giuramento di fedeltà al Papa. Roberto e suo fratello Ruggero operarono su più fronti con un intento ormai non più occasionale. In Puglia occuparono Bari, ultimo avamposto bizantino nell'Italia meridiona- le, nel 1071; in Sicilia avevano iniziato una campagna contro i musulmani che portò alla conquista di Palermo nel 1072. La conquista, conseguita anche con l'appoggio papale, apri alla famiglia le strade per una posizione politica preminente nel gioco politico euro- peo. Il riconoscimento papale si rafforzò nel 1098 quando fu conferita a Ruggero in Sicilia una carica simile a quella di legato apostolico: egli ottenne così un controllo diretto sulle istituzioni ecclesiastiche nell'isola che aiuta moltissimo la costruzione di una nuova am- ministrazione pubblica. La ricostruzione di un dominato pubblico in Sicilia fu favorita anche dal modello di go- verno musulmano, accentrato e basato su un capillare controllo economico e politico-isti- tuzionale delle sue articolazioni locali. Proprio questo esempio a spinto probabilmente Ruggiero secondo, figlio di Ruggero I, a impostare un disegno monarchico che abbrac- ciasse tutti i territori dell'Italia meridionale, a cominciare dalla Puglia. Lo aiutò l'aver otte- nuto nel 1130 da Papa Anacleto secondo il titolo di re, in cambio di un riconoscimento di dipendenza vassallatica verso la Chiesa di Roma, titolo confermato da Papa Innocenzo II nel 1138 ed allora mai più messo in discussione. Tuttavia quando Ruggero provo a espor- tare queste forme di controllo sul continente, si moltiplicarono le congiure e le sollevazioni dei baroni, in particolare una violentissima nel 1160, repressa con insolita durezza. L'au- tonomia dell'aristocrazia normanna sul continente rimase a lungo un ostacolo serio alla tenuta della monarchia. Il regno normanno non era feudale: non ci fu alcuna distribuzione sistematica di con- cessioni dei territori una vera gerarchia di fedeltà regolava i rapporti interni tra l'aristocra- zia e il re. Piuttosto si era diffusa una concezione mista del possesso di terra: da un lato, esse erano state acquisite dai cavalieri durante la conquista delle regioni meridionali, ed 75 erano dunque sentite come proprie dai discendenti; dall'altro si conservava comunque un legame di fedeltà con il condottiero di riferimento, e si riconosceva ai capi un diritto sulle terre per averle conquistate. Davanti all'instabilità del ceto militare, i re normanni ricorsero anche ad altri strumenti di governo per assicurare una solida base economica alla monarchia. In primo luogo lo sfruttamento delle estese terre demaniali, di diretta pertinenza regia. Esso fu la chiave di volta del sistema economico normanno, non solo perché si crearono nuovi ufficiali pub- blici nelle città del dominio e quindi un apparato locale di controllo che garantiva getti fi- scali sicuri, ma anche perché nelle terre demaniali si sperimentarono con successo nuove forme signorili di sfruttamento del lavoro contadino. Più del ceto baronale, furono gli uffi- ciali regi a praticare con maggiore attenzione un controllo diretto del lavoro contadino e a prelevarne sotto varie forme il surplus disponibile. Anche sul piano legislativo i re normanni si mostrarono attivi. Prima nelle assise di Melfi del 1129 Ruggiero secondo proclamò una pace del regno. In una successiva assemblea del 1132 riaffermò l'obbligo di fedeltà per i baroni. Anche le più impegnative assise di Ariano del 1140 contengono tracce di un autentico sforzo di affermare la superiorità regia e il controllo pubblico sui baroni. Recuperando testi diversissimi, da fonti romane relative al potere imperiale, ire della dinastia Altavilla rivendicarono un potere con carattere di esclusività verso i sudditi latini, musulmani e greci; stabilirono una dipendenza dei baroni del re sul piano delle fedeltà militari e raggiunsero realmente una relativa egemonia politi- ca in tutte le regioni del regno. Gli strumenti usati erano una miscela di organizzazione amministrativa e di diritto feu- dale. I re cercarono in primo luogo di limitare le prerogative giurisdizionali dei baroni, at- traverso una rete di giustizieri regi che avevo cavano a sé le cause maggiori. Le comunità o i singoli potevano rivolgersi con una relativa facilità ai tribunali regi per diverse questioni. Il regno normanno, alla fine del XII secolo, viveva dunque in questa polarità di tensioni politiche: una forte instabilità della fedeltà locali dei baroni conviveva con un governo molto accentrato, culturalmente evoluto ed efficace sul piano giurisdizionale. | — 7 LA SUCCESSIONE IMPERIALE E IL REGNO DI FEDERICO II Il figlio di Enrico VI e di Costanza, Federico, ereditò subito il regno di Sicilia, ma per il titolo imperiale le cose erano più complicate. Il primo conflitto per la successione vedeva infatti contrapposti Filippo di Svevia e Ot- tone di Sassonia. Arbitro della competizione fu il Papa Innocenzo terzo, che cambiò più volte idea. Il Papa era però anche il tutore legale del giovane Federico, che poteva essere un altro pretendente all'impero, con la complicazione già ricordata: egli era già re di Sicilia e una nomina imperiale gli avrebbe consegnato anche il regno d'Italia, accerchiando completamente Roma. Gli eventi precipitarono pochi anni dopo. Nel 1211 Innocenzo ter- zo appoggiò Federico, che fu eletto re di Germania nel 1214. Usciti perdenti i suoi con- tendenti dalla battaglia di Bouvines, Federico fu prima eletto re dei romani e poi nel 1220 consacrato imperatore da Papa Onorio III. Ora nelle sue mani riuniva le sorti dell'impero e di tre regni, Germania, Italia e Sicilia. Federico II operò subito per un rafforzamento dei suoi domini nelle regioni meridionali. Qui agì duramente con successo nel recupero dei beni della sua casata e del regno, favo- rito dagli alleati degli Svevi e dai ministeriali, cavalieri di basso rango. Quando agiva come signore, Federico rafforza molto il controllo politico dei suoi domini personali, incremen- tando le forme di governo diretto con ufficiali pubblici e promuovendo le città del ducato. Quando però agiva come re di Germania le cose andavano in maniera diversa. Federi- co risiedette relativamente poco in terra tedesca e da lontano doveva creare le condizioni per mantenere la pace del regno attraverso compromessi continui. Più che dominare in maniera coercitiva le aristocrazie locali, doveva sforzarsi di non provocare ribellioni aper- te. Al momento dell'elezione imperiale nel 1220, Federico emanò un atto molto importan- 76 te per i futuri assetti del regno: un privilegio ai principi ecclesiastici di Germania in cui si concedevano amplissimi autonomie giurisdizionali, tali da rendere assai labile il controllo regio su estese porzioni del regno in mano alle chiese locali. Si trasformò in un pericoloso precedente politico. Lo si vide un decennio dopo, quando il figlio Enrico, per domare una ribellione dei prin- cipi tedeschi nel 1231, dovette concedere loro una serie di privilegi molto simile. Nono- stante la contrarietà di Federico, e gli confermo le concessioni nel 1233, rafforzando ulte- riormente l'autonomia dei principi. Anche in Sicilia, Federico operò per recuperare i beni usurpati dai nobili durante il pe- riodo della reggenza materna; la tendenza dell'aristocrazia a impadronirsi di beni pubblici non trovò limiti veri. Appena maggiorenne, Federico aveva formato un consiglio di giuristi incaricato di elencare tutte le possessioni del re e un inventario dei beni sottratti alla co- rona. Nel 1220 in un'assise legislativa valida per il regno, Federico ordinò una severa politica di recupero dei beni demaniali in mano ai baroni, con la perdita dei diritti per chi non pre- sentava titoli validi o li aveva contraffatti. L'operazione è segnata da un ricorso esplicito al diritto come regolatore dei rapporti tra il re e la nobiltà. Ancora una volta l'uso del diritto, pratiche amministrative e affermazione della potenza reggia andavano di pari passo. Nel 1231, Federico emanava a Melfi il più importante atto legislativo del suo regno: il Liber Augustalis, dove l'ideologia reggia riceveva una sistemazione di grande spessore cultura- le. Ma il regno d'Italia continuava a sfuggirgli. Divisa in distretti cittadini largamente auto- nomi, sotto il governo collettivo dei comuni, l'Italia centro-settentrionale aveva seguito una via parzialmente diversa dalle altre regioni. L'inquadramento regio fu più debole per tutto il XI secolo e metà del XII secolo, e lo sforzo di autogoverno delle città creò un si- stema di territori cittadini che non ebbe eguali in Europa. | — 8 CONCLUSIONI L'analisi dei contesti nazionali a messo in luce un quadro pieno di contrasti: i tentativi dei re di porsi come vertice di una configurazione sovraregionale che esisteva solo sulla carta, le contraddizioni generate dall'incerta fedeltà dei grandi, le tensioni continue con gli apparati pubblici promossi dai re. Se pensiamo alla costruzione di apparati monarchici nazionali, si tratta certamente di un processo interrotto, tutt'altro che risolto all'affacciarsi del 200. Se invece guardiamo alle soluzioni pratiche e agli strumenti di governo e di ammini- strazione, allora il giudizio cambia. I re si proposero come le autorità legittimate da un lato a ricomporre un quadro unitario di questi poteri dispersi, e dall'altro a creare un nuovo equilibrio fra le prerogative della potenza privata dei signori e l'esercizio di funzioni pub- bliche di coordinamento e pacificazione riservate al potere regio. Perché era questo che alla fine la doveva fare: assicurare una convivenza possibilmente ordinata, disciplinando la violenza del ceto militare e recuperando, almeno sul piano simbolico, le funzioni di con- trollo della vita politica degli antichi territori del regno. Qualche pretesa ulteriore fu avan- zata, ma si arrestò presto davanti alla natura delle cose. In sostanza, i re potevano contare sulla fedeltà dei territori, ma non sui territori in quan- to suoi dominati. Per tutto il XII secolo, con la mediazione dei signori regionali e dei prin- cipi rimase infatti una condizione inevitabile per determinare il successo e la durata delle monarchie. Rimase strutturale la tensione tra i progetti di centralizzazione e la difesa delle sfere di autonomia. Per promuovere le funzioni regie, i monarchi usarono metodi molto diversi tra loro; no- nostante la pretesa di superiorità, dovevano procedere in maniera empirica e graduale, tenendo conto delle reali capacità di imporre una fedeltà superiore ai loro vassalli. 77 Nel corso degli anni si rese necessario coinvolgere le forze sociali più attive nella vita politica della città. Si creò allora un "consiglio cittadino", formato da un centinaio di per- sone, in grado di affiancare i consoli nelle scelte più importanti. Lentamente prese piede nei comuni italiani una politica di tipo “parlamentare”. Sempre più spesso, nel corso dei primi decenni del XII secolo, i consoli si garantivano facendo approvare i propri atti dalla maggioranza del consiglio. Il principio di maggioranza entrò così nella politica del comune italiano. Era questo il fondamento della libertà delle città italiane: l'autonomia di scelta dei pro- pri governanti e le decisioni politiche legittimate dalla maggioranza di un'assemblea citta- dina eletta dagli stessi cittadini. Fra cittadini e istituzioni si stabiliva un legame diretto, raf- forzato da un giuramento reciproco, di natura pubblica, che legittimava i nuovi magistrati ad agire come rappresentanti ufficiali della comunità, e a imporre un ordine delle relazioni sociali garantito da strumenti coercitivi, e regolare la vita economica della collettività. Queste prime carte giurate mostrano quindi una città ormai consapevole della propria struttura istituzionale, e che un governo pubblico doveva avere un surplus di potere da contrapporre alle forze ostili o riluttanti a sottomettersi al volere di nuovi magistrati. La scelta di appartenere al comune, in altre parole, non era così libera. Le istituzioni comunali agirono subito come organo politico pubblico, con decisioni valide per tutti. Fu un processo di maturazione anche sul piano culturale e lessicale, come mostra la comparsa solo nei decenni finali del XII secolo della parola “comune”. Al comune inteso come forma di governo della città si può applicare il linguaggio della Repubblica, perché si tratta effettivamente di un'istituzione distinta dagli uomini, frutto dell'esigenza di auto- nomia espressa dalle città italiane nella seconda metà del XII secolo. Il governo delle città aveva così una direzione di sviluppo, proiettato verso la crescita dell'espansione, in una sorta di moto ascensionale connaturato alla forma politica comunale. | — 2 LE FUNZIONI DI GOVERNO Tra la fine del XII secolo e l'inizio del XIII secolo le città italiane affrontare una serie di sfide importanti: l'aumento demografico, concorrenti migratori che portavano in città per- sone di vari livelli sociali; l'ampliamento delle zone abitate, con la creazione dei sobbor- ghi; l'inserimento sociale dei nuovi arrivati, da integrare giuridicamente e politicamente; e infine la richiesta dei nuovi ceti urbani di ampliare gli spazi di partecipazione politica e di riformulare le istituzioni comunali secondo differenti equilibri sociali. La crescita economica e politica delle città portava inevitabilmente con sé nuove ten- sioni. Liti per il possesso della terra, conflitti di lavoro e incomprensioni creavano conti- nuamente occasioni di scontro, mettendo in pericolo la sopravvivenza del giovane organi- smo comunale. Il consolato si presentò subito come un organo superiore in grado di ri- solvere questi conflitti senza ricorrere alla violenza. Ben presto la giustizia divenne una funzione prioritaria della nuova magistratura. Con l'aiuto dei giudici e dei notai si instaura- rono delle corti comunali, aperta a tutti, dove era possibile presentare una lamentela e ot- tenere giustizia dopo un processo. Chi rompeva la pace della città veniva bandito e la sua casa la abbattuta. La giustizia ordinaria aveva però anche funzioni più pratiche: aiutava a contenere la dif- fusa conflittualità sui beni, consentiva ai più deboli di accedere al tribunale terzo in caso di dispute contro signori potenti; infine evitava la riproduzione ininterrotta di atti violenti. Non sempre si arrivava ad una sentenza, e pure la giustizia pubblica, proprio per questa sua capacità di sospendere i conflitti e di farli procedere su altri binari divenne una funzio- ne necessaria al mantenimento della vita associata e del comune come ente collettivo. Un altro compito fondamentale riguardava il mantenimento dell'istituzione comunale, che aveva bisogno continuo di entrate garantite da un costante afflusso di denaro da par- te dei cittadini. Essi dovevano essere convinti a pagare le tasse senza dare l'impressione di essere soggetti o sudditi di un potere dispotico. Le imposte in città erano infatti sempre 80 straordinarie, a differenza del contado. Pagare da libri in sostanza era un privilegio, ma questi pagamenti dovevano essere giustificati come necessaria contribuzione di tutti alle urgenze del momento. Essere cittadini era anche un dovere, liberamente assunto nel momento in cui si voleva abitare in città; e la traduzione materiale era appunto la contribuzione volontaria, ma allo stesso tempo doverosa, alle necessità finanziarie del Comune. Si legava così la condizio- ne giuridica di cittadino al pagamento delle imposte pubbliche. Anche l'amministrazione economica si rivelò un compito fondamentale dei consoli, con una serie di compiti che richiedevano non solo competenze tecniche nuove, ma anche un controllo del territorio circostante da cui dipendeva il sostentamento della popolazione urbana. Lo stretto legame della città con il territorio circostante fu una delle principali conse- guenze dell'affermazione del sistema comunale. Il rapporto con il territorio era rimasto comunque vitale grazie all'opera di coordinamento religioso ed economico assicurato dal vescovo, da cui dipendevano i sacerdoti sparsi nella diocesi. Ma nel XII secolo i comuni progettano di estendere il loro potere sull'intero territorio diocesano come naturale con- seguenza della superiorità politica del centro urbano rispetto al territorio. I gruppi dirigenti cittadini pensavano la città come “madre" del territorio”. I consoli sapevano bene che è un controllo effettivo e capillare delle sbagliatissime dominazioni locali era di fatto irrealizzabile. Si cercò di ottenere un potere di coordina- mento sul territorio circostante la città, soprattutto sul piano militare ed economico. Era importante disporre liberamente dei centri strategici disseminati nel territorio, e soprattut- to sul piano economico la possibilità di imporre delle tasse agli abitanti del contado. En- trambe queste funzioni non erano affatto considerate come naturali dagli abitanti del con- tado, gli apparivano anzi come una forma ingiusta di sottomissione politica, che la città non poteva imporre senza contropartite. Fu così che i comuni percorsero per vie diverse per ottenere dalle forze del contado un riconoscimento della propria superiorità politica. Con i signori disposti ad allearsi, mettendo a disposizione del comune le proprie for- tezze, si raggiunsero dei compromessi onorevoli. Molti di questi si inurbano e iniziarono una nuova vita politica come esponente di spicco del Comune, come avvenne nei comuni medio-piccoli relativamente deboli come Alba, Vercelli o Modena verso la fine del XII se- colo. In alcuni casi gli stessi signori, una volta donato il castello al Comune, lo ricevevano in feudo dai consoli conservandone il controllo di fatto. Nei casi più gravi si ricorreva alla forza, assegnando i castelli dei signori ribelli; a Genova per esempio l'azione armata del comune fu violenta fin dalla prima metà del XII secolo. Numerosi privilegi furono invece concessi alle comunità di villaggio che si sottraevano al dominio del signore. Molti di questi nuovi centri, chiamati villefranche, avevano una condizione giuridica ibrida: gli abitanti erano considerati cittadini, ma con forme di dipen- denza quasi rurale verso il Comune di pertinenza. Quando era possibile, infine, il Comune comprava direttamente i castelli situati in posizioni strategiche. L'acquisizione finanziaria si rivelò anzi la più duratura e forse più efficace forma di penetrazione del Comune sul ter- ritorio. Da considerare anche che il dominio su vaste zone del contado era spesso più virtuale che reale, e molte comunità erano contese con altre città. Per esempio, la parte occiden- tale del territorio senese era rivendicata anche da Arezzo e il Comune di Siena cercò di fondare le sue pretese su un'aggressiva politica fiscale che estendeva le imposte anche su quei luoghi di incerta sottomissione. Chiedere un censo alle comunità equivaleva di fatto ad affermarne il controllo. Questa fitta rete di patti e di compromessi intessuta da tutte le regioni dell'Italia centro- settentrionale, costituì la trama del potere della città sul contado. Era una trama a maglie larghe. Rimanevano fuori ancora ampie zone di territorio in mano alla nobiltà militare, che in alcuni casi riuscì a costruire dei veri e propri principati, politicamente omogenei e sot- 81 tomessi alla dinastia di una piccola “capitale": i Monferrato in Piemonte, il Patriarcato di Aquileia, la contea di Este. L'Italia medievale si presentava quindi non come un mosaico compatto di città, ma di tessere molto diverse. Tuttavia, all'inizio del XIII secolo alcune tendenze erano chiare, per esempio la rilevanza politica ed economica delle città sul mare: Genova, Pisa, Venezia, diventate grandi empori commerciali, ma anche centri conforti istituzioni cittadine. Pisa e Genova si lanciarono alla conquista del Mediterraneo occidentale, creando colonia nei principali approdi del tempo, dalle coste nordafricane alla Sicilia; inoltre una lotta lunga e violenta contrappose le due città per il dominio sulla Sardegna e la Corsica. Anche a Venezia costruì un ampio domi- nio sull'Adriatico e sui porti d'oriente usando sapientemente forza militare e penetrazione economica. Anche nell'Italia continentale abbiamo linee di espansione evidenti. Milano appariva già come una città di indiscussa supremazia politica ed economica nella regione padana. Dopo le campagne militari contro le città vicine, Milano divenne il terminale dei traffici commerciali tra l'Italia e le terre dell'impero, è un centro politico fortissimo, che irradiava la sua influenza su una vasta area sovra-regionale, dal Piemonte orientale all'Emilia set- tentrionale. Le città emiliane Piacenza, Parma, Reggio, Modena, Bologna, si erano giovate della ripresa dei commerci attivi lungo il Po e la via Emilia. Le città crescevano a ritmo sostenu- to, anche se i territori del contado non erano molto ampi e un'agguerrita piccola nobiltà di castello rendeva la vita politica interna alquanto agitata. La Toscana aveva molte città con territori piuttosto grandi, imparare lotta tra loro: Pisa, Siena, Arezzo, Lucca e Firenze si combattevano palmo a palmo i confini di territori ancora da definire. In Umbria e nelle Marche la dimensione dei centri urbani era di taglia minore, e certo il caso di Perugia. Erano centri dipendenti da un'economia agraria, abitati da una popola- zione mista di contadini, con piccoli laboratori artigiani, e di medi proprietari immigrati in città. Questo panorama ricchissimo di centri urbani rende ancora più sorprendente l'adozio- ne di un sistema istituzionale unico. Nel corso del XII secolo le città dell'Italia centro-set- tentrionale sperimentarono le stesse forme di governo e usarono un medesimo linguaggio per rappresentarsi e comunicare tra loro. A favorire questa omogeneità di fondo con cor- sero vari fattori: la circolazione di uomini e di idee, la spontanea diffusione di forme as- sembleari di autogoverno nelle comunità rurali, la funzionalità della forma consolare per governare città di diversa taglia e misura; E probabilmente la necessità di fronteggiare la sfida posta al sistema cittadino italiano dalle pretese dell'impero nei decenni tra il 1154-1183, sotto il regno di Federico I di Hohenstaufen. | — 3 LE CITTÀ ITALIANE E LO SCONTRO CONTRO FEDERICO BARBAROSSA Possiamo dire che l'importanza del periodo federiciano consiste proprio in questo am- pio e spesso violento processo di definizione politica delle istituzioni comunali davanti e contro l’imperatore. All'inizio del conflitto ci fu un'incomprensione reciproca, una profonda distanza fra modelli di comportamento che rendeva difficile il dialogo tra la cancelleria imperiale e i comuni lombardi. Vista da fuori l'Italia offriva un'immagine di unità, ma lo stesso tempo di distanza dei costumi dei modi delle terre dell’impero. Si capiva subito che per il giovane imperatore l'Italia sarebbe stata una spina nel fian- co. Il primo contatto fu traumatico: Federico vide arrivare in sua presenza, durante una riunione tenuta Costanza nel 1153,2 ambasciatori di Lodi vestiti di stracci, con una pe- sante croce di legno sulle spalle, simbolo dei dolori che i milanesi avevano inflitto alla cit- tadina lombarda. Federico I poteva anche tollerare una guerra tra città, ma solo l'impera- 82 no e interno allo stesso tempo. Il Popolo cerco di cambiare il Comune secondo i propri indirizzi di governo. Ben presto le società avanzarono richieste di natura politica come riservare i membri delle società popolari una quota di posti in consiglio, a far pagare le tasse a tutti secondo le proprie ricchezze, ridurre i privilegi dei nobili, impiegare le risorse per opere pubbliche, creare alleanze utili agli scambi commerciali e soprattutto assicurare una pace interna della città. Questo in sintesi il programma iniziale dei primi movimenti di Popolo, tra gli anni 20 e gli anni 30 del 200. Davanti a queste pressioni, il sistema consolare si rivelò in- capace di superare le divisioni interne e di soddisfare le richieste di apertura dall’esterno. Alcune città presero atto di questa crisi e cercarono soluzioni alternative. Una via fu quella di sostituire i consoli con una magistratura di emergenza. Questo ma- gistrato fu chiamato podestà, ed era un rettore unico, eletto per un anno è investito dei maggiori poteri di governo della città. I primi incarichi furono dati a podestà locali, grandi esponenti della nobiltà urbana, ma presto la scelta si dimostrò infelice, perché la rivalità interna aumenta invece di diminuire. Allora si decise di chiamare come podestà delle per- sonalità esterne, con uno stipendio adeguato a pagare i giudici e i notai al suo seguito. Il podestà forestiero dava maggiori garanzie di imparzialità rispetto alle lotte interne, non creava poteri personali e soprattutto toglieva le forze politiche cittadine un motivo di scontro. Era un progresso notevole infatti il compromesso funzionò. Nel giro di qualche decennio, tra il 1190 e il 1220, tutte le città passarono dal regime dei consoli al governo del podestà forestiero, con istituzioni simili e problemi comuni. Il regime podestarile era un sistema complesso. Il podestà si presentava come uno snodo centrale della vita politica cittadina, E molti si specializzarono nella politica itineran- te, e ricoprirono la carica in diversi comuni, spesso seguiti dei figli che continuavano a ri- coprire magistrature forestiere. Il podestatario era divenuto per molti una vera professione. Furono scritti manuali spe- cifici per istruire i podestà sui possibili modi di parlare e di presentarsi in pubblico. La legge era creata dagli stessi cittadini nei consigli, che sotto il regime assunsero un'importanza molto maggiore. Per compensare il potere consegnato nelle mani del ma- gistrato forestiero, bisognava infatti rafforzare il consiglio comunale, allargato a centinaia di cittadini, che divenne così il cuore politico del Comune, perché al suo interno si pren- devano le scelte principali per la vita politica ed economica della città. Il podestà propo- neva gli argomenti da discutere, i membri del consiglio discutevano sulla proposta e alla fine decidevano se approvarla o respingerla con una votazione a maggioranza, che pote- va essere palese o segreta. Il principio di maggioranza, per di più espresso in segreto, suonava come rivoluzionario alle orecchie del ceto nobiliare, e apriva le porte ad un modo di fare politica completa- mente diverso. Alleanze familiari continuavano ad esistere, ma ora bisognava elaborare programmi politici più complessi, che tenessero conto degli interessi generali o comun- que di gruppi sociali consistenti, se volevano essere approvati in consiglio. L'intero siste- ma sembrava girare intorno a questo rapporto bilanciato tra podestà e organi consiliari, in un sistema istituzionale originale e di grande spessore ideologico. Rispetto al secolo precedente tuttavia trovare una sintesi generale degli interessi citta- dini era diventato molto più difficile. Innanzitutto erano aumentati gli abitanti. Moltissimi erano immigrati dal territorio circostante o da altre città, e in genere poco specializzati, addensati nei quartieri periferici. La società urbana fu scossa da questo flusso e fu necessario trovare nuove forme di integrazione nelle strutture urbane: molti di- vennero lavoranti salariati, altri riuscirono a trasformarsi in artigiani in proprio. Il ceto artigianale emerse prepotentemente sia sul piano economico che su quello poli- tico, con le corporazioni che contavano ormai diverse migliaia di membri. Iscriversi alle Arti era diventato dunque molto importante per i cittadini del XIII secolo. In primo luogo per un motivo economico, dato che le corporazioni controllavano il lavoro 85 e stabilivano i prezzi delle merci e i salari dei lavoranti; quindi per poter aprire un'attività bisognava essere iscritti all’arte. La seconda ragione era di natura politica, dato che il peso delle Arti nella vita pubblica era aumentato enormemente nella seconda metà del 200. I consoli delle Arti erano confluiti in un consiglio unitario detto Popolo, che prendeva decisioni sempre più importanti per tutta la città. In molti comuni peraltro alla fine del 200 fu liberalizzata l’iscrizione alle Arti, non dovendo per forza esercitare il mestiere, ma ba- stava avere l'intenzione di appartenere a quella società e avere sufficienti conoscenze per essere accettati. Il passaggio a società pienamente politiche e non più solo corporative siano dunque compiuto. | — 5 IL GOVERNO DELLE CORPORAZIONI NEL DUECENTO Dalla seconda metà del 200, le Arti si candidarono al governo della città il nome di una nuova idea di comunità, fondata sul lavoro artigianale e sui commerci, e su una giusta di- visione delle spese pubbliche e sulla pace sociale. In un primo momento, il Popolo dupli- cò le istituzioni comunali, affiancando al podestà e al consiglio del Comune, un proprio magistrato, sempre forestiero e a tempo, chiamato il Capitano del Popolo, che guidava il Consiglio del Popolo; poi nei comuni in cui riuscì a prevalere instaurò un nuovo governo dominato direttamente dal gruppo dirigente delle Arti. Una volta giunto il Popolo al potere, si formarono presto al suo interno gruppi egemoni che influenzarono l'indirizzo di fondo della politica comunale nelle singole città. Ci fu un'alleanza a più livelli, spesso non coordinati, fra i grandi commercianti i banchieri che tendevano a limitare sia la partecipazione politica sia la libertà d'azione economica dei gruppi artigianali minori. A sera il dominio si saldò con le compagnie mercantili; a Bologna i banchieri finanziavano di fatto il Comune, ma in realtà furono i notai a influenzare in modo diretto l'indirizzo politico del governo. Essi si dimostrarono, anche gli altri comuni, i custodi gelosi e i dirigenti esecutori della politica di controllo totale che caratterizzò le cit- tà italiane nella seconda metà del 200. Il processo di razionalizzazione delle pratiche di governo subì infatti una brusca accele- razione. Sì censirono in primo luogo i residenti e quindi i contribuenti. Le dichiarazioni dei contribuenti venivano trascritte in grandi registi e alla somma dei beni dichiarati veniva attribuito un valore totale che rappresentava la sintesi della sua ricchezza. Fu un'operazione lunga e costosa, che aprì la via all'adozione di un criterio proporzio- nale nella raccolta delle imposte pubbliche. Sul piano ideologico si trattò di una mezza rivoluzione, perché per la prima volta si intaccavano i patrimoni più ricchi; sul piano prati- co le cose andarono in maniera diversa. Le cautele prese dalla nuova oligarchia furono efficaci: i capitali mobili sfuggivano all’estimo; gli sconti per i crediti non pagati erano concessi con generosità; infine dare i soldi al Comune era avvertito come un investimen- to. In base a questi elenchi generali si elaborarono liste "secondaria" di appartenenti ai consigli, alle società territoriali e corporative, agli uffici comunali, con la possibilità di in- crociare i dati ogni volta che le esigenze amministrative richiedevano di isolare un gruppo particolare di persone. Non sfugge il significato politico di questo sistema. Il presupposto di questa rivoluzione della prassi documentaria fu il controllo delle condizioni individuali dei cittadini, da attuare con strumenti completi. Tutti gli aspetti delle relazioni tra i cittadini e le istituzioni erano ormai immessi in strumenti "contabile" che misuravano l'affidabilità o meno dei singoli cittadini. Anche la politica repressiva del Comune si adeguò all'uso di questi mezzi più sofisticati e si formarono elenchi di appartenenti alla "parte" riconosciuta come nemica e posta al bando. La giustizia divenne più severa, si concessero ai giudici poteri speciali per scoprire punire severamente le infrazioni contro l'ordine pubblico. 86 Inoltre si presero provvedimenti severi contro le speculazioni economiche dei grandi proprietari. In città si pose un limite ai prezzi degli affitti, mentre fu vietato tassativamente di esportare grano fuori dal contado o di ammassare frumento nei periodi di carestia. In generale il contado fu oggetto di una profonda ristrutturazione nelle sue articolazioni amministrative. Negli ultimi decenni del 200 le pretese delle città comunali aumentarono: divisero il territorio per zone amministrative corrispondenti grosso modo a prolungamenti dei quartieri cittadini; allora interno, queste partizioni furono suddivise a loro volta in aree minori, affidate ad un ufficiale cittadino; i castelli furono invece controllati direttamente da contingenti militari. Soprattutto si impose alle comunità del contado una serie di doveri fiscali che scaricavano una parte rilevante del costo del mantenimento della città. Anche la disciplina dell'accoglimento dei comitatini in città si fece più rigida. Nonostante queste tensioni, il Comune di Popolo ricercava una legittimità più alta del regime podestarile: senza dubbio una legittimità fondata sulla disciplina, ma anche su una reale compartecipazione agli interessi collettivi raggiunta attraverso un sistema di rappre- sentanza a catena. I meccanismi elettivi delle corporazioni moltiplicavano i rappresentanti delle singole società in piccoli consigli societari, che a loro volta eleggevano i Priori o gli Anziani. Così come molti provvedimenti esaminati nei consigli maggiori partivano da im- pulsi provenienti dalle società di Arti. In tal senso, i governi popolari erano relativamente più aperti legalisti e partecipati dei regimi precedenti e successivi. Non per questo dura- rono più allungo: la tensione tra la tendenziale apertura delle istituzioni e la necessità di una gerarchia interna delle forme di partecipazione rese instabili le conquiste politiche del Popolo. La divisione in fazioni si era diffusa durante le guerre contro Federico I e soprattutto contro Federico II, tra il 1226 e il 1250. Fu in questo periodo che le famiglie e le città si contrapposero in guelfi e ghibellini. Naturalmente la scelta di aderire ad una fazione di- pendeva da fattori diversi, di carattere sociale e spesso anche personale, più che da una reale fedeltà ad una delle parti. In molte città le parti divennero un'istituzione, con propri consigli e podestà. In tal modo le parti offrirono ai loro aderenti un'altra via di accesso al potere, che permetteva gruppi politici trasversali di influenzare la guida politica delle città. Ma la conflittualità au- mentava, e per questo il Popolo, pur essendo spesso alleato ad una parte, cerco di com- battere l'eccessiva carica di violenza, facendo del tema della pace l'ideale politico della città. Si trattava di un tentativo di sostenere l'equilibrio assai fragile tra governi di popolo e fazioni grazie ad un potente molla ideologica che legittima se governi sempre più "di parte”. La pace era suo modo un "atto di forza”, andando imposta e protetta, e forniva la mo- tivazione ideologica per prendere provvedimenti di emergenza. Molti comuni di Popolo emanarono a fine 200 delle leggi speciali per assicurare la pace interna contro i "magnati", ovvero tutti quei "grandi" che si opponevano al Comune e lo minacciavano con atti di sovversione violenta. A queste persone fu vietato di assumere cariche comuna- li, imposto un regime speciale nelle questioni giudiziarie; e infine a molti di coloro che non rispettavano questi precetti, fu combinato il bando e l'esilio dalla città. Proprio in questi anni di forte divisione interna si affermò la teoria del "bene comune" come fine ultimo della politica, con riferimento alla Politica di Aristotele. Naturalmente il Popolo, nella sua opera di propaganda, si presentò come l'unica forma di governo in gra- do di raggiungere il bene comune. Un'immagine quasi profetica, di una città rigenerata da una forza salvifica di natura politico-religiosa. Ideali e realtà purtroppo non coincidevano. Il bene comune fatico ad essere raggiunto senza ricorso a strumenti repressivi contro gli avversari e non fu considerato affatto tale dalla parte perdente. In molte città l'esperimento del Popolo finì precocemente, E il potere fu assunto da una personalità di prestigio, spesso proveniente da famiglie nobiliari. Non subito e non ovunque tuttavia nelle città "signorili", i consigli comunali furono sciolti o la- 87 teva assolvere; e il potere di concedere una dispensa dall'osservanza di alcune norme canoniche. Il sistema delle dispense si sviluppò rapidamente, accogliendo un numero crescente di richieste nelle materie che disciplinavano il matrimonio, la concessione di benefici e le carriere degli ecclesiastici. Nel corso del XIV e XV secolo le cause provenienti da tutte le diocesi europee ammontarono a diverse decine di migliaia. La Chiesa romana aveva dunque raggiunto una centralità indiscussa nel mondo politi- co e religioso del medioevo europeo. Aveva maturato strumenti di governo delle proprie istituzioni, di guida spirituale e ideologica delle masse dei fedeli, di salvaguardia delle sue prerogative politiche ed economiche. Ma le sfuggiva il controllo pieno delle sensibilità re- ligiosa è presente nelle società medievali sempre più articolate e complesse sul piano so- ciale ed economico. | — 2 NUOVE FORME DI RELIGIOSITÀ MONASTICA: GLI ORDINI MENDICANTI La rinascita delle città, dei commerci, l'affermarsi di nuovi ceti sociali e di nuove esi- genze religiose portavano inevitabilmente una moltiplicazione di esperienze che speri- mentavano forme diverse di vivere il messaggio cristiano. Un fermento a cui la Chiesa guardava con sospetto e interesse, divisa tra l'esigenza di sorvegliare ogni forma di co- municazione religiosa che minacciasse il monopolio della parola riservatole, e la volontà di integrare queste vite religiose plurime in un sistema elastico, da essa disciplinato. In questo contesto di grandi conflitti tra una chiesa sempre più centrata sul Papa di Roma è una massa di fedeli che chiedeva nuovi spazi di vita religiosa dentro e fuori le isti- tuzioni, presero forma due ordini di mendicanti: i predicatori fondati da Domenico di Cale- ruega e i minori di Francesco di Assisi. Proponevano un modello di vita vicino alla povertà del Vangelo, fondato sulla rinuncia ai beni, sul lavoro come sostentamento, sulla carità e sulla predicazione aperta a tutti nelle piazze. Questa rinuncia ai segni del potere tipici del monachesimo tradizionale di rese più credibili come pastori e guide spirituali, e riuscirono a svolgere un ruolo di mediazione importantissimo. Da un lato furono in grado di mantenere nell'ortodossia una gran parte dei fedeli più critici verso le ricchezze della Chiesa istituzionale, garantendo per secoli la possibilità di vivere, da laici, un'esperienza comunitaria di tipo monastico. Allo stesso tempo divennero anche uno strumento di controllo delle coscienze e di repressione dell'eterodossia in tutte le sue forme: ormai inseriti pienamente nel corpo istituzionale della Chiesa come predica- tori e confessori, fu affidata all'inquisizione contro l’eresia, un tribunale speciale contro i crimini ideologici e politici che si sovrappose con severità inflessibile alla normale giustizia vescovile. L'origine dei domenicani è strettamente legata alla lotta anticlericale, che fu condotta intensamente in Francia meridionale agli inizi del 200. E fu proprio attraversando quelle terre che un canonico spagnolo, Domenico da Caleruega, al seguito del vescovo di Osma, decise di prestare la sua opera missionaria per contrastare l’eresia. Domenico si rese presto conto che la predicazione dei frati cistercense, da tempo abituati ad un'aperta ostentazione di potere e poco incline alle controversie dottrinarie, era spesso inefficace se non controproducente. Il “catarismo” che si trovavano ad affrontare si basava su un'ac- cesa contestazione dei poteri sacramentali della Chiesa più che sull'affermazione di una vera fede dualista. Gli eretici conoscevano il Vangelo e imitavano lo stile di vita delle co- munità apostoliche. La contestazione delle richieste avanzate da una Chiesa potente e saldamente ancorata all'egemonia signorile sulle campagne trovava sempre più ascolto nelle popolazioni locali. Domenico ebbe l'intuizione di unire una predicazione esemplare con una preparazione dottrinale in grado di rispondere alle teorie degli eretici. Scelse così di presentarsi vestito umilmente e a piedi e di accettare il confronto con tutti, cercando di persuadere i fedeli che la povertà non era in contrasto con la fede ed era possibile anche all'interno della Chiesa cattolica. Era una via promettente per il recupero di quelle posizioni di contesta- 90 zione della Chiesa troppo spesso condannate come eretiche. Sostenuto inizialmente dal vescovo di Tolosa, Domenico organizzò un primo gruppo di seguaci che aumenta nel cor- so degli anni Venti e Trenta del Duecento in maniera notevole. Il nuovo ordine fu approva- to da papa Onorio III nel 1216, e nel 1221 furono redatte le Costituzioni, che definirono le forme di vita in comune: promozione della povertà individuale e dell'elemosina come so- stentamento, intensa attività di predicazione in accordo con i vescovi locali, vita in comu- ne nei conventi, formazione di un capitolo generale che doveva eleggere un maestro ge- nerale dell’ordine. Caratteristica principale dei predicatori fu tuttavia la formazione culturale richiesta ai nuovi frati, necessaria per contrastare con argomenti teologici corretti le teorie degli ereti- ci. Una formazione scolastica o poi universitaria fu da subito un criterio necessario per entrare nell’ordine. Nei conventi doveva esserci anche un insegnante di teologia per i gio- vani monaci e lo studio era parte integrante della vita conventuale. Naturalmente questa tensione culturale favorita un lato un reclutamento di persone già dotate di titolo accade- mico, dall'altro l'ingresso nell'università di maestri provenienti dall'ordine di predicatori. Famosissimi furono alcuni teologi che insegnavano nelle università come Alberto Magno e Tommaso d’Aquino, ma anche grandi giuristi. L'origine dei minori è legata indissolubilmente alla figura di Francesco d'Assisi, nato nel 1182 da un ricco mercante, e lentamente convertito ad una vita religiosa che presentava fin da subito caratteri di spiccata originalità. Francesco infatti usava un linguaggio nuovo per indicare la sua conversione alla vita evangelica e soprattutto si comportava in maniera anomala sia per il ceto di provenienza sia per le forme religiose allora in voga. Egli pone come inizio della sua conversione l'incontro con i lebbrosi. Bisognava iniziare dagli ultimi a scorgere in tutte le forme di emarginazione una traccia della presenza di Cristo. Fu un'intuizione fecondissimi, che animò la scelta di povertà assoluta e di rinuncia a tutti se- gni di potere che Francesco abbracciò subito dopo l'incontro con i lebbrosi. Tra il 1207 e il 1208 inizio la predicazione itinerante con i primi fratelli, portando il suo messaggio e il suo esempio nelle regioni dell'Italia centro-settentrionale. Sappiamo poco di questo pe- riodo. Maggiori indicazioni fornisce la regola "non bollata" del 1221, dove si presentano alcu- ni punti fissi dell'ordine minoritico: I fratelli dovevano rinunciare a tutti i beni, donarli ai po- veri, vestire semplicemente di una tunica di panno vecchio, lavorare sempre per fuggire l'ozio, non avere possessi né individuali nei comuni ed evitare in tutti modi il contatto con il denaro; solo nel caso in cui non fosse stato loro pagato il prezzo del lavoro potevano ricorrere all’elemosina. Rinunciando ad ogni forma di possesso, Francesco obbligava i suoi frati a scoprire il valore spirituale e non monetizza abile delle persone e dei loro biso- gni, che dovevano essere soddisfatte ricorrendo alle elemosine e allo scambio gratuito. La ricerca di beni doveva quindi essere limitata al soddisfacimento dei bisogni naturali e il valore delle cose era determinato dalla loro utilità in caso di necessità. Non era una fuga dal mondo, né una critica di natura sociale, né tantomeno un attacco alla Chiesa ricca e potente di Roma. Era il tentativo difficilissimo di conciliare una visione spirituale della presenza nel mondo dei cristiani con le necessità della vita quotidiana del- la sua comunità. La povertà per Francesco aveva infatti due dimensioni: una esterna, che prevedeva appunto la rinuncia totale alle cose materiali al possesso; è una seconda inter- na, che richiedeva invece la rinuncia alla propria interiorità per consentire a Dio di entrare nell'animo umano e di portarlo verso la salvezza. Un patto che si rinnovava mediante l’eucaristia. Per questo Francesco predicava la penitenza e l'eucarestia come compimen- to naturale del percorso di salvezza del fedele, e obbligava i suoi frati al rispetto assoluto per i sacerdoti investiti della funzione indispensabile di amministrare i sacramenti. Tuttavia i conflitti interni ed esterni all'ordine erano comunque destinati a crescere. L'ordine doveva essere inquadrato in un sistema di regole comuni, anche se i confratelli faticavano a seguire una spiritualità così alta come quella proposta da Francesco. Nel 91 1220 Francesco rinunciò a guidare la fraternità e chiese al Papa un cardinale protettore che si prendesse cura dell’ordine. Ugolino d’Ostia, cardinale di curia (e futuro Papa Gre- gorio nono), divenne il cardinale di riferimento dei minori e scrisse insieme a Francesco la seconda regola dell'ordine, questa volta approvata ufficialmente da Papa Onorio III nel 1223. La seconda regola era più stringata della prima: prevedeva un'articolazione istitu- zionale più chiara e soprattutto un controllo maggiore sugli ingressi nell’ordine. Negli ultimi anni Francesco accentuò la dimensione mistica della sua ricerca. Si ritirò sul monte della Verna e lì ricevette il dono delle “stimmate”. Ribadì i punti fermi della sua spiritualità, ma avverti anche la distanza che si era creata tra la fraternità di pellegrini itine- ranti che aveva immaginato all'inizio, e l'ordine che aveva sotto gli occhi, formato sempre più da chierici e impegnato in funzioni di governo al servizio del Papa. Nel Testamento chiedeva ancora ai suoi frati di non farsi coinvolgere nelle cose di mondo, e di vivere del proprio lavoro in povertà. Chiedeva anche ai suoi successori di leggere il Testamento as- sieme alla Regola, di considerarlo come un atto fondante dell'identità minoritica. Morì nel 1226 e fu beatificato dopo solo due anni da Gregorio IX. Il suo culto inizia prestissimo, e l'identificazione con la corporeità di Cristo ne fece su- bito una figura eccezionale e inarrivabile. La memoria di Francesco, le sue vere parole e i suoi scritti divennero presto un campo di battaglia intorno all’ordine. Nel 1230 Gregorio IX emanò una bolla che limitava l'osservanza stretta dei precetti evangelici contenuti nella lettera di Francesco. Nel 1239 il capitolo Generale dei minori riservò il reclutamento solo a chi era già chierico: era la sanzione ufficiale di quella che viene chiamata la “sacerdotaliz- zazione” dell’ordine, vale a dire il pieno inserimento dei minori nell'istituzione ecclesiasti- ca. Nel 1254, dopo diverse missioni in Lombardia in Francia, ai minori, insieme ai predica- tori, fu assegnato l'ufficio di inquisitori contro l’eresia. Nei decenni successivi l'ordine torno a dividersi su innumerevoli temi: Sulla natura del messaggio francescano, che non andava interpretato ma vissuto in prima persona; sull'a- desione ad un modello radicalmente evangelico di povertà; sulle forme organizzative del- l'ordine ormai diffusi in tutti i paesi europei. All'inizio del trecento la formazione di un nu- cleo duro di rigoristi della povertà chiamati "spirituali" creò una spaccatura profonda nel- l'ordine dei minori. La ricerca di una povertà assoluta fu portata alle sue estreme conse- guenze: l'ordine stesso non doveva possedere nulla, a imitazione di Cristo. A parte la dif- ficoltà oggettiva, la pretesa che Cristo stesso non avesse possessi rendeva incerta la po- sizione della Chiesa ufficiale. Il papato reagì, in accordo con la maggioranza dell'ordine, prima isolando e ponendo gli spirituali, poi vietando le posizioni teoriche più estreme infi- ne, dal 1319, eliminando i “fraticelli” come eretici. | — 3 I MENDICANTI E L’INQUADRAMENTO DEI FEDELI Entrambi gli ordini ebbero uno sviluppo eccezionale sul piano religioso e culturale: en- trarono nelle scuole e nelle università, ti vennero ascoltati consiglieri, guidarono le autorità laiche e si posero come nuovi pastori di anime. Ebbero infatti il privilegio di predicare e confessare, celebrare messa e accogliere i morti, in aperta concorrenza con il clero ordi- nario, che si vide minacciato nel monopolio della cura delle anime. Il successo dei mendicanti come predicatori fu enorme, e si dovette alla capacità di presa sulla realtà cittadina da parte dei frati, spesso provenienti dai ceti medi urbani. Una conoscenza diretta dei problemi, dei punti deboli e delle aspirazioni delle classi artigianali e mercantili, che aiuta moltissimo a impostare una nuova tipologia di predicazione per “esempi”. L'uso di un linguaggio piano e la semplificazione dei problemi teologici permi- sero ai frati di trasmettere ai fedeli i modelli di comportamento eticamente positivi. In molti manuali di predicazione si insisteva contro le tentazioni della cupidigia e della superbia. Come rimedio si proponevano appunto all'umiltà e la penitenza: vale a dire la necessità di riconoscere che le sorti umane dipendono da Dio e di accettare la propria condizione sociale come parte di un disegno superiore che garantiva l'armonia della co- 92 Quando però Federico ruppe violentemente con il papato e venne scomunicato dal Papa durante il concilio di Lione nel 1245, si trova improvvisamente additato come eretico e massimo nemico della Chiesa. La lotta del papato contro l'imperatore si trasformò in una crociata per la difesa della fede, che proseguì anche contro i suoi eredi e contro i suoi seguaci, dopo la morte di Federico nel 1250. Rimanevano in Italia potentissimi dominati fedeli al partito dell'imperatore e oppositori della Chiesa, a cominciare dal più forte capo ghibellino del momento: Ezzelino da Romano, che aveva creato un potentato Inter cittadi- no tra Padova, Treviso e Verona; un dominio tirannico di estrema violenza, che fornì alla Chiesa romana un modello di tiranno eretico destinato a lunga fortuna. Nei documenti papali che chiamavano la crociata, egli non era solo violente, ma un vero agente del de- monio. Propaganda, chiaramente. Eppure lo stretto legame che si è creato in questi anni tra potere e peccato, tra atti di governo e religiosi, ci dice che ormai la stessa nozione di po- tere politico stava cambiando: l'eresia era diventato reato politico, i comportamenti dei fedeli venivano esaminati sul piano dell'ortodossia religiosa, e la fedeltà politica doveva andare di pari passo con la fedeltà ai dogmi. Essendo dunque chiamato in causa il potere politico in generale, era chiaro che il Papa non poteva essere l'unico a usare l'armamenta- rio ideologico religioso costruito intorno all’eresia. Federico Secondo, sulla scorta del di- ritto romano, lo aveva dimostrato: l'eresia colpiva l'impero e l'ordine civile. E contro l'ere- sia potevano e dovevano intervenire ira cristiani dell'Europa medievale. Due episodi, entrambi legati alla figura del re di Francia Filippo IV il Bello, devono esse- re ricordati come emblematici di questa nuova via di affermazione del potere regio: il con- flitto con Bonifacio VIII e il processo contro i templari. Due atti che cambiarono sensibil- mente la natura del potere regio e i suoi compiti di guida anche religiosa del regno. Il conflitto con Bonifacio VIII verteva su due elementi fondamentali della politica pontifi- cia: la difesa dell'immunità della Chiesa dal fisco e dalla giustizia dei re. Per due volte in- vece Filippo IV il Bello aveva forzato la mano: la prima, imponendo una tassa al clero francese in occasione della guerra; la seconda mettendo sotto processo un vescovo, in teoria esente da tribunali laici. In entrambi i casi la reazione di Bonifacio fu violentissima: minacciò il re di scomunica, richiamò all'ordine, riaffermò in una bolla il potere assoluto del Papa su tutti i principi laici. La Chiesa, in quanto guida unica, aveva il potere su en- trambe le spade, anche quella secolare, che doveva essere usata approfitto della Chiesa e su ordine del sacerdote; naturale quindi la subordinazione del potere temporale e quello spirituale. Non era la prima volta che le idee teocratiche entravano nel teatro politico europeo. Ma lo scontro verteva sulla capacità di esercitare un potere reale su un territorio. Bonifacio, eletto Papa nel 1294 dopo le contestatissime dimissioni di Celestino V, era un papà po- tente, di grande cultura giuridica, spregiudicato nel governo della Chiesa e violento nel rapporto con i poteri laici. Ma aveva molti punti deboli: le lunghe lotte contro la rivale fa- miglia romana dei Colonna, le continue resistenze dei comuni allo Stato della Chiesa; una fronda dei cardinali suoi oppositori sparsi in mezza Europa. Filippo il Bello uso invece lo scontro per affermare una reale indipendenza del re di Francia da poteri superiori. Inoltre, accusando Bonifacio di essere un pontefice hai letto il legalmente, si reggeva avvero protettore della Chiesa. Aiutato da un agguerrito gruppo di giuristi, Filippo inviò in Italia il suo cancelliere Guglielmo di Nogaret, che fece prigioniero Bonifacio ad Anagni costringendolo a non pubblicare la bolla di scomunica contro il re; dopo un mese, nel giugno del 1303, Bonifacio morì, e si aprì una delle più importanti crisi del pontificato medievale. Il processo a Bonifacio venne aperto la prima volta nello stesso anno 1303 e ripreso poi nel 1308 e nel 1311. Due lunghe serie di accuse imputavano al Papa defunto ogni sor- ta di nefandezze, dipingendolo come un Papa eretico, minaccia per la Chiesa e per la cri- stianità. Le pressioni del re per una condanna furono fortissime, anche se la curia rimane- 95 va prudente. Il processo a Bonifacio si intrecciava tuttavia con un'altra causa celebre in- tentato dal re di Francia, questa volta contro i templari; entrambi i processi andavano a detrimento della curia pontificia “esiliata” dal 1309 ad Avignone. L'insofferenza del re verso i templari francesi era cresciuta nei primi anni del trecento in seguito alle ardite sperimentazioni monetarie del re. Filippo aveva bisogno di denaro, ma i templari, che custodivano il tesoro regio, gli negarono prestiti ingenti. Non si sa se questo rifiuto o l'idea di impossessarsi delle ricchezze dell'ordine spinsero il re a preparare una offensiva giudiziaria senza precedenti. Filippo fece arrestare i generali dell'ordine e tutti i templari del regno. I capi di imputazione erano numerosi e giravano intorno al nesso tra eresia, culto demoniaco e condotte sessuali illecite. Davanti a questo atto il re doveva agire perché investito da Dio della funzione di protet- tore della fede. Il lessico è importante: i templari eretici erano contro la natura, nemici del "patto sociale" tra gli uomini, e attentavano all'ordine del mondo. Quest'ordine doveva essere difeso dal re, davanti a un Papa "dormiente" che non reagiva. In pochi anni il reato di stregoneria, di patti segreti con il demonio, uniti a comporta- menti sessualmente illeciti, divenne un modulo di accusa molto usato nei casi di opposi- zione politica e di lesa maestà. La gravità dell'attacco restituiva in positivo i contorni della maestà da difendere. L'autorità politica si presentava dunque come la protettrice dell'or- dine del mondo voluto da Dio. Per questa via, il re e il Papa procedettero, per un certo tempo, in parallelo. I processi lanciati da Giovanni XXII tra il 1315 e il 1320 erano i segni evidenti di un pa- pato sotto attacco: confinato ad Avignone da un decennio, il papato doveva governare la cristianità da una città piccola, lontana dall'Italia e sotto l'influenza diretta, se non proprio il controllo, del re di Francia. Eppure il lungo settantennio avignonese rappresentò per la Chiesa un momento di for- te sviluppo delle pratiche amministrative di gestione dei beni e degli affari. I registri ponti- fici acquistarono una forma più matura, il controllo dei legati si fece più attento, la conta- bilità fece progressi enormi. In sostanza sul piano istituzionale, il periodo avignonese non rappresenta affatto il declino della Chiesa in cattività. Sul piano politico le cose erano cambiate: la costruzione di una maestà reggia si era impossessata di strumenti e idee della Chiesa, e aveva mostrato con quale forza il re di Francia avesse rivendicato per sé la difesa della fede e dell'ordine naturale come un mandato di Dio. Il ritorno del papato a Roma nel 1378 non riuscì a pacificare la Chiesa. L'elezione del Papa italiano urbano sesto fu contestata dei cardinali francesi che elessero a loro volta Clemente VII, insediato ad Avignone. La spaccatura fu tale da provocare per decenni una divisione delle osservanze nei diversi paesi europei. La divisione fu un fatto importante perché mise in luce la debolezza storica del papato nel rappresentare l'unità religiosa dei regni europei. Davanti a questi limiti evidenti, la stessa istituzione pontificia fu messa in discussione. Si sviluppò un vasto movimento riformatore che vedeva la Chiesa come un organo tendenzialmente collettivo, fondato sulla collegialità del concilio; una visione orga- nica che affidava il potere sovrano all'assemblea dei vescovi. Il concilio di Basilea elaborò una teoria ultra-democratica, identificando il concilio stesso, come assemblea dei vesco- vi, con la Chiesa. Questa radicalità portò all'abbandono del partito riformatore da parte dei poteri laici che prima lo avevano sostenuto. Il movimento si affievolì e del suo programma rimase solo il diritto di deporre un Papa eretico. Alla fine il Papa Martino V tornato a Roma riuscì a imporre la conferma della supremazia papale. CAPITOLO 2— LA COSTRUZIONE DELLO SPAZIO POLITICO DEI REGNI EUROPEI 96 | — 1 LA DIFFICILE COSTRUZIONE DI UNO SPAZIO POLITICO DEI REGNI DI FRANCIA E INGHILTERRA Nessuna evoluzione lineare riscontrabile nel corso dei due secoli in esame. Anzi, un dato comune che emerge da questa sequenza di eventi è proprio la diffusa attenzione contro la forma monarchica, attaccata su tutti i fronti: sui criteri di successione, sui poteri da esercitare, sulla legittimità delle richieste rivolte ai sudditi. Mai come nel XV secolo, l'esistenza stessa delle monarchie è stata messa in discussione e ridefinita secondo le necessità del momento. Matrimoni, morti e battaglie continuano essere importanti per tut- to il XV secolo come momenti di ridefinizione degli spazi politici dei singoli regni europei. Una rete di eventi dinastici si sovrapponeva ad una geografia politica dei regni in maniera disordinata e artificiale. Tuttavia da queste tensioni fortissime emerge un dato di fondo: l'estrema flessibilità della forma monarchica. Le monarchie sopravvissero a dispetto dei re e si inventarono anche grazie alla loro debolezza, alla possibilità di rimodellare velocemente i sistemi di governo in caso di necessità. Si poteva affidare il regno di un reggente, trasmetterlo ai figli o accettare l'elezione da parte dei grandi; prendere un altro re come proprio, unendo co- rone di paesi diversi; si poteva anche non avere alcun re e affidare il governo ad un consi- glio di grandi. Le monarchie europee usarono tutti gli strumenti a disposizione per far fronte alle tensioni politiche istituzionali che le minacciavano. Teniamo questo filo rosso come guida per ricostruire le linee evolutive degli Stati mo- narchici basso medievali, iniziando dei regni di Francia e Inghilterra. La Francia bassomedievale partiva avvantaggiata nella costruzione di un regno nazio- nale. Poteva giovarsi dell'eredità di almeno due grandi sovrani: Luigi IX che governò a lungo, dal 1226 al 1270; e Filippo IV il Bello, in carica tra 1285 e 1315. Sotto Luigi IX, il re- gno di Francia si era esteso fino a comprendere le regioni meridionali della Linguadoca. Ma era cresciuta ancora di più la sfera delle competenze riservate alla: egli riprese a legi- ferare ufficialmente, emanando numerose ordinanze; le più note riguardavano le inchieste contro gli ufficiali regi e i loro abusi. Disponendo un’indagine imparziale, il re si poneva al di sopra del suo apparato amministrativo, come protettore di sudditi ingiustamente ves- sati. La giustizia divenne sempre di più un attributo sovrano, e Luigi IX ne fece una virtù quasi religiosa, una dimensione etica del suo governo. Sotto Filippo il Bello l’apparato centrale si fece sempre più pesante e pervasivo. Le fi- nanze furono rinnovate aumentando molto il carico fiscale sui sudditi; la giustizia rimase strettamente nelle mani del re, che estese le sue pretese sulle persone e i beni della Chie- sa. Filippo IV rimase poi famoso per lo scontro con Bonifacio VIII e il processo ai templari iniziato nel 1307. Sotto di lui l’azione regia interna sembra non avere limiti: messo sotto controllo il papa, il re si lanciò in ardite speculazioni finanziarie, cambiando più volte il va- lore della moneta ufficiale. L’esperimento fu un mezzo disastro sul piano economico, su- scitando numerose opposizioni nei confronti della sua politica. I limiti delle pretese regie furono evidenti sotto il successore Luigi X. Nel 1315, una ri- volta dei baroni del regno costrinse il re a concedere un’ampia autonomia politica ai paesi ribelli. Fu un episodio importante perché le carte della libertà presentate dai vari principati regionali misero sotto accusa proprio le funzioni pubbliche basilari della monarchia, il con- trollo della giustizia e la fiscalità. La tenuta del regno era a rischio, con conseguenze gravi per tutta la sua esistenza, come si vede bene qualche decennio dopo, quando iniziò una lunga guerra con gli inglesi. Con l'esaurirsi della dinastia Capetingi (1328) e il passaggio del regno alla linea dei Va- lois, si riaccese il contenzioso con l'Inghilterra, che avanzava pretese dinastiche sul trono francese in virtù della parentela di Edoardo III con i Capetingi. Fu una guerra cruciale per la Francia, non solo perché durò a lungo, ma perché mise in luce le debolezze del sistema politico francese: un esercito pesante e lento, basato ancora sui cavalieri; una scarsa ca- 97
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