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Riassunto Storia Moderna di Vittorio Criscuolo, Appunti di Storia Moderna

Riassunto Storia Moderna misto appunti lezioni di Vittorio Criscuolo

Tipologia: Appunti

2019/2020

Caricato il 21/12/2020

BigLucio
BigLucio 🇮🇹

4.5

(178)

13 documenti

Anteprima parziale del testo

Scarica Riassunto Storia Moderna di Vittorio Criscuolo e più Appunti in PDF di Storia Moderna solo su Docsity! 6 – LE FORME E LE STRUTTURE DEL POTERE 6.1 – LO STATO MODERNO Stato di diritto e Stato nazionale: Lo Stato moderno è una forma storicamente definita che si è fermata agli inizi del XIX secolo. Esso si caratterizza come un organismo politico dotato di piena sovranità sul territorio e sugli individui, in quanto dispone del monopolio legittimo della forza. In tal senso lo Stato moderno è stato di diritto, che regola la società attraverso un ordinamento giuridico uniforme, e assume la forma di un ente, come una persona giuridica distinta rispetto agli individui che ne esercitano le funzioni. Esso ha assunto anche il carattere di Stato nazionale, in quanto organizzazione politica di una popolazione che ha maturato una coscienza della propria identità. Questo tipo di Stato è sorto storicamente dalla rivoluzione francese, che diede l'impulso decisivo alla nascita della moderna idea di nazione. Naturalmente il fatto che lo Stato abbia assunto il compito di eseguire la volontà di una comunità nazionale è stato gravido di conseguenze negative. Crisi dello Stato nazionale? Lo Stato nazionale, seppur principale protagonista della politica internazionale, sta vivendo una fase di profonda crisi, tanto che si è parlato di un irreversibile tramonto. In particolare colpisce la perdita di significato del concetto di sovranità in una società globale. Del resto esso appare inerme di fronte alla minaccia come terrorismo, guerra nucleare, pericoli per l’ambiente o pandemie globali, fenomeni che nessun governo è in grado di contrastare da solo. 6.2 – LO STATO DI ANTICO REGIME Alcune correnti storiografiche hanno individuato nell’indirizzo assolutistico di alcune monarchie un’anticipazione di molti aspetti dello stato moderno. Si sono contrapposti, negli ultimi anni, quanti ritengono anacronistica questa interpretazione. Non c’è dubbio che verso la metà del XV secolo si fece strada un processo di rafforzamento del governo centrale volto a limitare le prerogative della nobiltà feudale, della Chiesa e delle autorità periferiche. La parola “Stato” cominciò proprio allora ad affermarsi nel significato attuale, come dimostra il trattato De principatibus di Machiavelli del 1513. L’evoluzione del concetto di sovranità: Nel medioevo il potere sovrano (superaneus, “che sta sopra”) non aveva il carattere di assolutezza. Esso non era esclusivo ma si poneva al di sopra di una molteplicità di poteri ai quali era affidata l’amministrazione, la giustizia, le imposte ecc. L’autorità del sovrano non si esercitava quindi con un comando diretto ma doveva affermarsi attraverso un complesso sistema di mediazione e di transazioni con i poteri subordinati. Al superamento di questa visione contribuì la rinascita nell’XI sec. del diritto romano, che impose il concetto di Imperium, inteso come potere al quale è connaturato il comando, espressione di un’assoluta supremazia. I termini del moderno concetto di sovranità si trovano già nell’opera di Bodin del 1576 Le Six livres de la République dove egli indica come principale caratteristica della sovranità il potere di dare leggi ai sudditi senza il loro consenso. La legge prevale sulle altre fonti del diritto (consuetudinario o romano) proprio in quanto espressione della volontà del sovrano. Su queste basi Bodin, riprendendo una formula del diritto romano, affermava che il sovrano è al di sopra delle leggi delle quali è lui stesso l’artefice. In realtà la monarchia dell’età moderna fu ben lontana dall’assolutismo descritto dai suoi teorici. Lo stesso Bodin non pensava che il potere del monarca fosse illimitato (le sue decisioni dovevano essere rispettose dei precetti del diritto naturale e della legge divina e inoltre non potevano derogare a quelle leggi che riguardano la struttura stessa del regno e il suo assetto fondamentale. Come la legge salica del 1328). Certo in questo periodo si cominciò a considerare la "corona" come ente distinto rispetto alla figura del re, primo passo verso l'elaborazione del concetto di Stato come persona giuridica; tuttavia rimase ben viva la tradizionale concezione patrimoniale dello Stato, per cui l’autorità del sovrano si fondava sul possesso di un certo territorio da parte di una dinastia. Manuale di Storia moderna Riassunto di di Vittorio Criscuolo Luciano Bramante 1 I confini tra stati: di conseguenza i confini si presentavano spesso in modo non definito: un territorio apparteneva a un sovrano per diritto dinastico, per cui la linea di confine segnava appunto il limite di tale diritto; a questo si sovrapponevano poi, molto spesso senza coincidere, i limiti delle circoscrizioni ecclesiastiche, e quelli di molteplici interessi privati e pubblici (per alcuni territori di cui era titolare, l’imperatore era vassallo del re di Francia il quale a sua volta esercitava la sovranità sui territori compresi nei confini dell'impero). Solo dopo la rivoluzione francese il confine assunse il significato di limite della sovranità con la funzione di separare due comunità nazionali ben identificate. Appare chiaro allora che non è esatto definirle monarchie nazionali proprio perché non si è ancora affermata la moderna idea di nazione. In questi limiti vanno intesi anche i riferimenti al patriottismo: nell'età moderna ci sono alcuni momenti di manifestazione di amor di patria da parte delle popolazioni, ma questo sentimento era animato dall'attaccamento alla dinastia regnante o dalla volontà di difendere il territorio o ancora dall’odio nei confronti dello straniero. In definitiva si colgono con chiarezza alcune trasformazioni delle strutture del potere e nei modi del suo esercizio, per cui si può ritenere valida la periodizzazione tradizionale. Tuttavia per l’età prerivoluzionaria è opportuno parlare di stati di antico regime come forme intermedie fra la realtà politica medievale e lo stato ottocentesco . 6.3 – L’ESPERIENZA POLITICA DELL’ITALIA RINASCIMENTALE Gli stati italiani rappresentarono un importante laboratorio nel quale si formarono precocemente molte delle innovazioni che si sarebbero sviluppate nell’organizzazione delle grandi monarchie europee. Diedero un contributo di rilievo il pensiero politico, fra gli altri, di Machiavelli e di Gucciardini. Tuttavia gli stati italiani, sia le repubbliche, sia le signorie trasformate poi in principati, rimasero legati alla civiltà comunale della quale avevano preso origine e proprio per la loro natura di Stati cittadini non riuscirono a creare una struttura amministrativa efficiente e moderna. 6.4 – LA CONCEZIONE DEL POTERE La sacralità dell’istituto monarchico: bisogna tenere ben presente l’aura di sacralità, espressa nelle forme e nei simboli, attraverso i quali il re si presentava ai suoi sudditi, fonte primaria della loro obbedienza, fedeltà e devozione. Molto significativa era la cerimonia del sacrae dei re di Francia che avveniva a Reims in ricordo della conversione di Clodoveo del 496: l’arcivescovo in Geova il corpo del re in nove punti con l’olio della santa pollo. In questa cerimonia il re prendeva la comunione sotto le due specie (sia il pane che il vino), come appunto gli ecclesiastici, aspetto che evidenziava il carattere non laico della sua persona. Questa sacralità si manifestava concretamente nel rito della guarigione degli scrofolosi (la cerimonia si svolse per l’ultima volta nel 1824 alla salita di Carlo X). Un potere ereditario: fondamentale era il carattere ereditario della monarchia; la continuità dinastica esprimeva il permanere dello Stato al di là della persona fisica del re. Il carattere elettivo della corona rappresentava invece un elemento di debolezza: si guardi il caso della Polonia. La teoria della regalità si fondava sul principio, affermato da Paolo di Tarso , dell'origine divina di ogni potere . La filosofia scolastica a partire da Tommaso d’Aquino avevo aggiunto le parole per populum , in modo che l'origine divina non fosse diretta ma mediata attraverso il popolo. Questo poneva il re in posizione inferiore rispetto al papa. Contro quelle posizioni si schierarono molti fautori della monarchia di diritto divino i quali sostennero che il re riceve la sua corona direttamente da Dio, senza l'intermediazione del popolo, e che quindi è responsabile solo di fronte a lui. Solo nel 700’ si fece strada, attraverso le affermazioni programmatiche di alcuni sovrani illuminati (Federico II di Prussia e Giuseppe II d’Austria), una concezione che potremmo definire “laica” della monarchia, come funzione al servizio del benessere della collettività. 6.5 – DUALISMO ISTITUZIONALE Manuale di Storia moderna Riassunto di di Vittorio Criscuolo Luciano Bramante 2 Occorreva stabilire un prelievo fiscale sistematico e continuativo: fu questo l’obiettivo principale degli stati di antico regime, e fu proprio questo il principale terreno di scontro fra il monarca e le assemblee cetuali. Anche per questo aspetto gli sforzi degli Stati non furono in grado di superare ostacoli e vincoli ereditati dalla tradizione, che impedirono lo stabilimento di un sistema finanziario coerente e razionale. Non a caso tutti gli Stati furono costantemente assillati dalla cronica difficoltà finanziaria. Intanto non vi era un bilancio attendibile poiché i flussi erano gestiti da una miriade di casse ed enti particolari, e non si arrivò mai a un’effettiva centralizzazione amministrativa; si procedeva di consueto a far fronte alle esigenze del momento imponendo contribuzioni occasionali o prestiti forzosi. Quanto al sistema fiscale non vi era uniformità perché erano in vigore regimi diversi (es. la città era privilegiata rispetto alla campagna) e pesavano esenzioni e privilegi: anche nella stessa imposta si registravano situazioni assai differenziate. Pesò anche il persistere di una concezione patrimoniale della finanza, che indusse molti Stati, per quanto concerne le imposte indirette, a dare in appalto la riscossione a finanzieri privati, che anticipavano le somme necessarie al tesoro pubblico e poi provvedevano all’esazione. 6.12 – LA POLITICA ESTERA Nel medioevo le relazioni fra gli Stati erano affidate ad ambascerie occasionali. Furono gli stati italiani dell'età umanistico-rinascimentale a porre le basi della diplomazia moderna, prevedendo l'invio di un rappresentante permanente presso i governi stranieri. Questo precoce sviluppo fu reso necessario dal sistema di equilibrio instauratosi fra i principali Stati della penisola dopo la pace di Lodi del 1454 . Quest'esempio fu poi seguito da tutti i principali paesi europei . Esauritasi ormai la sua missione universale, anche lo Stato della Chiesa inviò suoi rappresentanti permanenti (nunzi) presso le principali corti europee. Nello stesso periodo si posero anche le prime basi del cerimoniale e delle norme che regolavano l’attività diplomatica. Non mancarono, a causa di questioni di precedenza, incidenti anche gravi (scontri e duelli). La pace di Vestfalia del 1648 che chiuse la guerra dei Trent’anni, pose le premesse per il riconoscimento di una comunità internazionale di Stati considerati in via di principio uguali per dignità e prerogative. La frattura della riforma modificò significativamente la dinamica delle relazioni in quanto i conflitti religiosi assunsero un peso crescente, talora decisivo, nella formazione di alleanze. 6.13 – GLI SVILUPPI DELLA TECNICA MILITARE I progressi militari, richiedendo maggiori risorse, furono il principale motivo del rafforzamento dell’amministrazione statale. Un aspetto centrale fu l’uso della polvere da sparo, però il perfezionamento delle armi da fuoco fu lento per cui gli effetti si fecero sentire tardi, dopo che altri fattori avevano già contribuito al superamento della guerra medievale. La prima novità fu la formazione di eserciti iterarmi , ovvero la cavalleria era affiancata da arcieri e dalla fanteria. La cavalleria pesante iniziava ad apparire superata (battaglia di Azincourt). Soprattutto risultò decisivo l’avvento delle fanterie (l’ordine svizzero: fitta muraglia di picche, portate orizzontalmente sopra la testa da file che si muovevano in formazioni compatte a forma di quadrato, protetti ai fianchi da arcieri. La centralità della fanteria impose una nuova forma di reclutamento: il re, mentre per schierare la cavalleria dipendeva dai signori feudali, poteva ora liberarsi e assoldare le fanterie (importanza delle entrate regolari). Le fanterie svizzere furono a lungo considerate invincibili, e per questo assoldate e imitate (lanzichenecchi di Massimiliano) ma il loro predominio durò solo fino al XVI, vista la crescente importanza delle armi da fuoco che portò a un ulteriore evoluzione della tecnica militare. Sparirono archi e balestre poiché l’archibugio non richiedeva un minuzioso addestramento. Si può osservare che il permanere della cultura cavalleresca alimentò un giudizio negativo sulle armi da fuoco (solo a fine 700’ fu ammessa nel duello la pistola). Con l’introduzione della baionetta sparirono anche le picche. Rimase il problema della lentezza dei tiri ma il problema fu superato a fine 500’ quando l’esercito olandese applicò contro gli spagnoli la tecnica del fuoco a salve successive: moschettieri disposti su più file sparavano alternativamente. Ovviamente divenne decisivo l’addestramento delle truppe. L'artiglieria a lungo non Manuale di Storia moderna Riassunto di di Vittorio Criscuolo Luciano Bramante 5 fu decisiva a causa del trasporto e della scarsa precisione. Solo a fine 400’ i progressi portarono a cannoni più leggeri e precisi che risultarono notevoli nell'assalto alle fortificazioni. Il castello medievale diventò quindi indifendibile e la risposta fu la costruzione di fortezze bastionate di forma poligonale, che comportava costi enormi. La loro diffusione portò a una guerra statica, incentrata su lunghi assedi. Cambiò anche il mestiere del soldato: le truppe, sottomesse a un capillare addestramento, erano composte da professionisti mercenari al soldo di volta in volta delle potenze impegnate in guerra. 7 – IL SISTEMA DEGLI STATI ALLE SOGLIE DELL’ETÀ MODERNA Il quadro politico all’inizio dell’età moderna era segnato dal declino del papato e dell’impero. La Chiesa romana conobbe una profonda crisi già con la cattività avignonese (1305-78) e poi col grande scisma di Occidente (1378-1417). La corona imperiale era ancora connaturata da un’idea di universalità (che risaliva alla teoria secondo la quale Carlo Magno aveva riportato la dignità imperiale dall’Oriente all’Occidente). Ma da tempo ormai era caduto il principio un solo imperatore al mondo, che gli attribuiva il rango di autorità sopra a tutti i poteri. Già gli inizi del XIV l'impero si era dimostrato incapace di sostenere le sue aspirazioni verso l’Italia e di fatto aveva sempre più ristretto il suo campo d’azione all’area tedesca (nel XV entrò in uso l’intitolazione Sacro Romano Impero della nazione germanica, ufficializzata nel 1512). 7.1 – IL SACRO ROMANO IMPERO L’impero era una confederazione di oltre 350 stati di fatto largamente autonomi. Un passaggio fondamentale si era avuto con la Bolla d’oro del 1356 di Carlo IV che assegnava le lezioni alla corona imperiale a sette principi: re di Boemia, Margravi io di Brandeburgo, duca di Sassonia, conte del Palatinato e gli arcivescovi di Treviri, Colonia e Magonza. Organo centrale era la Dieta , le cui deliberazioni avevano valore di legge generale. Convocato dall’imperatore con frequenza irregolare, essa era divisa in 3 ordini: principi elettori, Collegio dei principi e dei signori territoriali (120 principi ecclesiastici, 40 principati e 140 signori minori) e il Collegio dei rappresentanti delle città libere (85). Dal 1438 il titolo di imperatore era diventato appannaggio della casa di Asburgo che lo tenne fino al 1806. Questa continuità dinastica, rafforzata dalla consuetudine di fare eleggere, quando era ancora in vita l’imperatore, il suo successore, diede indubbiamente maggior peso alla corona imperiale. La casa di Asburgo fin dal XIV aveva stabilito il centro del suo potere nelle Alpi orientali (Stiria, Carinzia, Carniola e Tirolo). Gli Asburgo nel 1453 presero quindi ufficialmente il titolo di arciduchi d’Austria, mentre erano stati costretti a rinunciare al controllo del territorio svizzero (dove era sito il castello di famiglia). 7.2 – LA CONFEDERAZIONE SVIZZERA Il primo nucleo della confederazione fu rappresentato dalla lega stretta nel 1291 fra le comunità alpine di Uri, Unterwalden e Schwytz. Pur non disconoscendo l’autorità degli Asburgo, la lega era animata da un forte spirito di indipendenza, che attrasse poi altre comunità alpine come Glarona e Zug e città come Lucerna, Zurigo e Berna. Nel 1353 la Confederazione comprendeva quindi 8 Stati (cantoni). Nel corso del XIV la confederazione riuscì a emanciparsi dagli Asburgo sconfiggendoli nelle battaglie di Morgarten (1315) e di Sempach (1386) e, infine, respinse con la vittoria di Dornach anche il tentativo di Massimiliano, riuscendo con la pace di Basilea (1499) a ottenere di fatto l’affrancamento dall’impero. Ad inizio 500’ i confederati si erano rafforzati con nuove adesioni: Friburgo, Solothurn, Basilea, Sciafussa e per ultimo Appenzell nel 1513 . A questa data quindi si era formata la cosiddetta antica Confederazione, fatta da 13 cantoni, riconosciuta ufficialmente solo alla pace di Vestfalia del 1648 e che sarebbe sopravvissuta fino al 1798. Grazie alla formidabile fanteria svizzera la Confederazione perseguì un’ambiziosa politica di espansione, verso lo Stato di Milano e verso le valli del Rodano e del Reno, contro Savoia e Borgogna. Manuale di Storia moderna Riassunto di di Vittorio Criscuolo Luciano Bramante 6 7.3 – FRA IMPERO E FRANCIA: IL DUCATO DI BORGONA Sotto i duchi di Borgogna si formò uno Stato che durò un secolo ma ebbe una decisiva importanza nella formazione degli equilibri politici all’inizio dell’età moderna. Esso ebbe un’origine tipicamente feudale, poiché fu concesso al primo duca Filippo l’ardito (figlio minore del re di Francia). I duchi erano quindi principi di sangue, legati al re da un patto di fedeltà e di obbedienza. Tuttavia fin dall’inizio essi adottarono una spregiudicata politica volta a creare un ampio Stato di fatto indipendente (nella guerra dei cent’anni si schierarono con l’Inghilterra). Attraverso conquiste e accordi dinastici essi acquisirono il controllo di un vasto territorio che andava dalle Fiandre fino alla Franca contea. Dalla splendida reggia di Digione esse gareggiavano in potenza e prestigio con il re di Francia. Il loro stato era quanto mai eterogeneo, diviso in tre tronconi e composto da territori molto diversi per lingua e costumi. Proprio per dare continuità territoriale l'ultimo duca, Carlo il Temerario, tentò di conquistare la Lorena ma si scontrò con la potenza militare svizzera e cadde in battaglia (1477). La sconfitta dell’esercito borgognone, espressione dell’aristocrazia feudale, a opera dei montanari e contadini elvetici rappresenta con efficacia le profonde trasformazioni sociali espressioni dell’evoluzione della tecnica militare. A quel punto il re Luigi XI prese la Borgogna, l’Artois e la Franca contea, mentre l’arciduca Massimiliano di Asburgo, sposando la figlia del Temerario, Maria di Borgogna, ottenne i Paesi Bassi (importante eredità per la politica di Carlo V). 7.4 – MASSIMILIANO D’ASBURGO Imperatore dal 1493 era un uomo intelligente, pieno di ambiziosi, avventurosi progetti ma costantemente ostacolato dalla cronica mancanza di risorse. Egli riuscì a rafforzare la propria autorità e a creare una solida amministrazione finanziaria ma a livello imperiale dovette scontrarsi con le resistenze dei principi territoriali riluttanti a rinunziare, anche in parte alle proprie prerogative: la legislazione e la giustizia restarono per rogativi e condivise fra l’imperatore e i ceti (Stände). Nella Dieta del 1495 egli ottenne solo l’istituzione di una tassa, il soldo comune, che la Dieta avrebbe dovuto approvare ogni anno. Impegno presto disatteso: Massimiliano per assoldare truppe dovete trattare di volta in volta con i principi. I risultati delle sue iniziative politiche furono perciò veramente deludenti. All'inizio del suo regno ottenne dal re Carlo VIII l’Artois e la Franca contea ma non riuscì a ripristinare l’autorità imperiale in Italia, e dovette rinunciare di riportare all’obbedienza la confederazione elvetica. Dalla politica matrimoniale vennero i maggiori successi: dal matrimonio con Maria, e l’acquisizione dei Paesi Bassi, sarebbe arrivata la straordinaria eredità del nipote Carlo. Nel 1515 Massimiliano organizzò anche il matrimonio dell’altro nipote Ferdinando con una sorella di Luigi Jagellone, re di Boemia e di Ungheria, ponendo le premesse perché anche questi due Stati fossero acquisiti dagli Asburgo. 7.5 – IL REGNO DI FRANCIA La monarchia francese all'alba dell'età moderna presentava ancora un carattere feudale (il re era il vertice della gerarchia di vassalli). Un primo passo verso l'unificazione fu la vittoria sui re inglesi, i quali nel 1453 persero tutti i loro possedimenti sul suolo francese (tranne Calais). Eliminata, con la morte di Carlo il temerario, la minaccia dello Stato borgognone, la monarchia poté stabilire la sua autorità in Provenza e sull’Anjou grazie all’estinzione delle rispettive dinastie. Quanto all’altro grande Stato feudale, la Bretagna, la figlia dell’ultimo duca, Anna, fu obbligata a sposare l’erede al trono francese, Carlo VIII (1483-98) e alla morte di questi il suo successore Luigi XII (1498-1515). Il legame fra Bretagna e Francia fu rinnovato con il matrimonio fra Claudia, figlia di Anna e Luigi, e Francesco di Valois-Angoulême, erede al trono, sul quale salì nel 1515, incorporando così anche il territorio bretone. Fu grazie all’idea di mantenere l’integrità del paese contro lo straniero che la monarchia poté rafforzare il proprio potere. Già nel 1439 Carlo VII, per combattere gli inglesi, aveva imposto la taglia (tassa che gravava sui contadini) e la rinnovò annualmente senza più chiedere l'autorizzazione degli Stati generali, Manuale di Storia moderna Riassunto di di Vittorio Criscuolo Luciano Bramante 7 Alessandro (1501-06) una convenzione per cui senza il suo consenso non avrebbe potuto stabilire niente di nuovo dello Stato. Gli Jagelloni alla fine del XV estesero ancora la loro influenza sistemando un membro della loro famiglia, Ladislao, sui troni di Boemia e Ungheria, rimasti vacanti nel 1476 e nel 1490. Anche in questi Stati si determinò un forte indebolimento della monarchia, perché Ladislao fu obbligato dai nobili riconoscere i loro privilegi. Danimarca, Svezia e Norvegia, dall’unione di Kalmar nel 1397 erano uniti in regime di legame personale sotto l’egemonia dei re Danesi. 7.9 – LA RUSSIA Tra gli Stati soggetti alla dominazione dell'Orda d'oro cominciò a emergere già agli inizi del 300’ il Ducato di Moscovia, che ampliò i propri confini. Il fondatore dello Stato russo fu Ivan III il Grande (1462-1505) che occupò la Repubblica di Novgorod, assumendo il titolo di sovrano di tutta la Russia. All’interno limitò il potere dell'aristocrazia, ai quali contrappose un ceto di nuovi nobili legati alla monarchia attraverso la concessione di terre che potevano essere revocate ad arbitrio del sovrano. Molto importante fu il trasferimento del metropolita ortodosso da Kiev a Mosca, in quanto la Chiesa contribuì al rafforzamento dell’autorità monarchica e insieme sviluppò i primi elementi di un’identità non solo religiosa ma anche culturale dello Stato russo. Unico sovrano di fede ortodossa, Ivan sposò una nipote dell’ultimo imperatore di Costantinopoli e si pose come erede spirituale della corona bizantina. Egli usò sporadicamente il titolo di Zar (che univa il titolo di Caesar e quello di Khan). In tal senso lo Stato russo aveva il compito di garantire la vittoria del cristianesimo ortodosso, e dell’elemento slavo, sul paganesimo e sul cattolicesimo. Nasceva così una teoria che si radicò profondamente nella popolazione e che avrebbe avuto importanti sviluppi nel corso della storia russa. L’opera fu proseguita dal figlio Basilio III (1505-33) e poi dal figlio di questi, Ivan IV il terribile (1533- 1584) che assunse formalmente il titolo di Zar. Molto più incisiva e brutale divenne l’azione della monarchia per limitare i poteri della grande nobiltà; egli infatti contrappose alla Duma (Consiglio), dominata dai boiari, un’assemblea territoriale cetuale ( Zemskij sobor ). Egli sancì con alcuni decreti il processo di asservimento del mondo contadino e formò il primo nucleo di un esercito di professione. Ivan IV sconfisse i tartari e occupò i khanati di Kazan e di Astrakhan, sottoponendo al suo dominio tutto il corso del Volga fino al Mar Caspio. Nel 1560 la morte della moglie, che aveva arginato le sue tendenze violente, aprì una seconda fase nella quale Ivan IV colpì con straordinaria crudeltà i suoi oppositori (nel 1570 Novgorod, sospettata di intesa con la Polonia, fu saccheggiata e incendiata). Sul finire del suo regno Ivan, aprendo una tendenza di espansione che sarebbe stata poi centrale nella politica estera russa, attaccò la Livonia nel tentativo di dare alla Russia uno sbocco al Baltico, ma fu sconfitto da Polonia e Svezia. Gli successe il figlio Fëdor (1584-1598), debole e malato di mente. La guida dello Stato fu assunta perciò del ministro Boris Godunov, già uomo di fiducia di Ivan, che istituì il patriarcato di Mosca. Alla morte di Fëdor, Godunov fu eletto zar da un’Assemblea territoriale. La sua situazione divenne però precaria a causa di una terribile carestia e delle accuse, non provate, di aver ucciso il figlio minore di Ivan, Dimitrij. Dovette anche contrastare un’invasione di cosacchi e polacchi guidati da un monaco che si spacciava per Dimitrij. Alla sua morte nel 1605 si aprì per la Russia un periodo di completa anarchia, nel quale comparvero altri falsi Dimitrij, finché nel 1613 un’Assemblea generale elesse zar il tredicenne Michail Fëdorovič Romanov (1613-45), portando sul trono la dinastia che vi sarebbe rimasta fino alla rivoluzione del 1917. 7.10 – L’IMPERO OTTOMANO L’evento più importante fu la prepotente espansione dell’impero ottomano. Dopo la conquista, Costantinopoli divenne capitale. Nel XIV gli ottomani si estesero nei Balcani, tanto che nel 1388 il califfo di Baghdad conferì al sovrano il titolo di sultano. Maometto prese in seguito la Grecia, la Serbia, la Bosnia, l'Albania, Valacchia e Moldavia, giungendo a ridosso del regno di Ungheria. L'espansione interessò anche il Mar Nero che, dopo l’acquisizione del khanato di Crimea, divenne un mare interno dell’impero. Il sultano Selim I (1512-20) combatté contro l’impero persiano dei Safawidi, occupando Manuale di Storia moderna Riassunto di di Vittorio Criscuolo Luciano Bramante 10 Armenia e Kurdistan; quindi sottomise la Siria e sconfisse i mamelucchi. L’influenza ottomana si estese quindi sull’Egitto e sugli Stati del Nordafrica, divenuti vassalli dell’impero. Gli successe Solimano I il Magnifico (1520-66) che prese Rodi, e, occupando Baghdad, arrivò fino al Golfo Persico. La conquista di Belgrado rese concreta la minaccia nel cuore dell’Europa cristiana. Con la conquista dell’Egitto, dal quale dipendevano la Mecca e Medina, i sultani si imposero come capi spirituali di tutto l’Islam sunnita. Alla base dell’espansionismo vi era la solida struttura dell’impero. Le entrate erano fornite dall’imposta pagata dai musulmani per le terre avute in concessione, dalla tassa dei non musulmani e dai dazi. La giustizia era fondata sui precetti coranici. Sin dal XIV la potenza ottomana fu fondata sulla formazione di un esercito regolare costituito dalla fanteria dei giannizzeri (prigionieri di guerra e leva coatta di bambini cristiani). La cavalleria era composta da notabili i quali, in cambio delle entrate delle terre a loro concesse, erano tenuti a fornire truppe. In base al diritto ottomano tutte le terre, tranne quelle riservate ai bisogni del culto, appartenevano al sultano. Nell’insieme la condizione del mondo contadino era migliore rispetto all’Europa, sia per le imposte statali moderate, sia per l’assenza di ogni servaggio; schiavi erano prigionieri di guerra cristiani. Con l’espansione nel Mediterraneo l’impero acquisì una posizione strategica nei commerci. 9 – UMANESIMO E RINASCIMENTO 9.1 – LE ORIGINI DELL’UMANESIMO Sviluppatosi dapprima in Italia fra 300’ e 400’, l’umanesimo fu un programma di radicale rinnovamento culturale ed educativo incentrato sulla rinascita dei grandi modelli dell’antichità classica. Il termine humanista, usato nel 500’, indicava colui che, ispirandosi alle lezioni dei grandi maestri della cultura classica, sì dedicava allo studio e all’insegnamento delle discipline umanistiche, letteratura, grammatica e retorica. Gli stessi umanisti individuarono le origini della nuova cultura nell'opera di Petrarca (1304- 74). L'umanesimo si sviluppò in particolare nelle città dell'Italia centro-settentrionale. Esso fu l'espressione delle aspirazioni e della visione del mondo di quei ceti emergenti che animarono la civiltà comunale: cadde allora il monopolio della cultura detenuto dall’autorità ecclesiastica e, tramontata progressivamente la figura del dotto medievale, il chierico, si affermò una nuova classe intellettuale di formazione laica. I destinatari della nuova cultura furono dunque uomini di palazzo, segretari e funzionari delle magistrature cittadine, maestri, esperti di diritto, notai, professionisti, uomini del mondo del commercio e degli affari. L’umanesimo mise a disposizione di questi gruppi un patrimonio di conoscenze linguistiche, oratorie e storiche che fornì loro quella consapevolezza culturale che ne giustificava la vocazione a porsi come nuova classe dirigente. Quindi al centro del pensiero umanistico c’era l’idea che l’uomo di lettere dovesse partecipare attivamente alla politica della sua città. Si è parlato perciò di umanesimo civile, soprattutto a Firenze, che ebbe cancellieri umanisti come con Coluccio Salutati, Leonardo Bruni e Poggio Bracciolini. La crisi delle libertà comunali modificò il quadro nel quale si era affermato il primo umanesimo: gli umanisti furono chiamati soprattutto illustrare con le loro opere la figura dei signori e dei principi e a formare i quadri dell’apparato burocratico-amministrativo dei nuovi regimi. Ormai letterati e artisti trovavano protezione e sostegno per la loro attività nel mecenatismo delle grandi famiglie (Gonzaga, Este, Montefeltro). Mutò così anche l’immagine dell’umanista: da uomo integrale, scienziato, artista, tecnico, e partecipe della vita politica cittadina, diventava un cortigiano, intellettuale uomo di mondo, attento le belle maniere, maestro dell’arte della dissimulazione, pronto a celebrare i fasti del principe e del mondo aristocratico. In questa evoluzione vi era il germe della crisi del sapere umanistico, che perse l’impatto rinnovatore delle origini e proseguì sempre più una vuota eleganza formale. Nel frattempo però la cultura umanistica si era staccata dalle sue radici italiane e si era trasformata in un fenomeno europeo, che fece sentire la sua influenza fino in Ungheria, Boemia e Polonia. Il metodo critico e storico che essa impose divenne patrimonio comune di tutta la cultura dell’epoca, e si intrecciò in vario modo con le inquietudini e le attese provocate dalle radicali trasformazioni politiche e religiose. Manuale di Storia moderna Riassunto di di Vittorio Criscuolo Luciano Bramante 11 9.2 – LA RISCOPERTA DELLA CULTURA CLASSICA Per realizzare il progetto di rinascita degli studi classici, gli umanisti riportarono alla luce tanti testi. Ancora più importante fu la riscoperta del greco, generalmente ignorato dalla cultura occidentale (Salutati istituì a Firenze la prima cattedra di greco). Alla diffusione della lingua greca concorsero anche i dotti bizantini riparati in Italia dalla minaccia ottomana (Aurispa tornò in Occidente con 238 manoscritti). In tal modo fu recuperato quasi tutto il corpo della letteratura greca che oggi conosciamo. In particolare si impose la filosofia di Platone. In generale la rinascita della cultura classica favorì un allargamento della circolazione dei testi latini e greci, divenuta ancora più grande grazie la rapida diffusione della stampa a caratteri mobili, messa a punto a Magonza da un orafo tedesco, Johann Gutemberg a metà XV. Le tipografie si diffusero in tutta Europa e si formarono biblioteche, la prima delle quali fu proprio quella di Petrarca. 9.3 – CONTINUITÀ O ROTTURA? L’idea di rottura è stata contestata a più riprese da i medievisti, discutendo proprio il punto sul quale si è fondata la periodizzazione dell’età moderna, affermatasi grazie all’opera di Burckhardt. Nel 2014, Le Goff, ricordando che nel corso del medioevo vi furono diversi momenti nei quali si tentò di far rivivere lo spirito dell’antichità, ha prospettato l’idea di un lungo medioevo che si sarebbe concluso a metà XVIII. Il medioevo certamente ammirò e amò il mondo antico; le opere portate alla luce degli umanisti non modificarono il quadro d’insieme della letteratura latina, e anche per quanto riguarda la cultura greca essa era stata ben presente nel pensiero medievale, tanto che la filosofia di Aristotele era diventata, a partire da metà XIII, la base dell’insegnamento universitario. Con il movimento umanistico cambiò radicalmente il modo di studiare e di interpretare: a segnare la differenza fu la disciplina della filologia, ovvero l’analisi critica storica del testo. Questo metodo implicava innanzitutto il ripristino della versione originale, ripulita dagli errori, travisamenti, deformazioni dei copisti o degli antichi interpreti. Cambiò anche radicalmente l’atteggiamento: nella cultura medievale i grandi autori dell'antichità erano citati come depositari di verità assolute, il pensiero umanistico invece seppe collocare le opere antiche nel loro contesto storico-culturale, alla luce del quale potevano essere intese nel loro vero significato: l’Aristotele degli umanisti è un filosofo non più costretto nella gabbia del pensiero cristiano. Un esempio celebre è offerto da Lorenzo Valla e il caso della donazione di Costantino L’abisso esistente fra la nuova cultura e quella medievale nel rapportarsi all’eredità classica si può misurare sul piano linguistico: gli umanisti consideravano con disprezzo il latino dei chierici, modellato sulle forme grammaticali volgari, e imposero come norma del parlare e dello scrivere l’imitazione della lingua latina dell’età classica, e in particolare del modello ciceroniano. Alla ricerca di chiarezza e di eleganza corrispose anche nella stampa la sostituzione del gotico con il corsivo italico. Al centro della prospettiva umanistica c’era la rivalutazione della parola, del discorso, tant’è che la tipica forma delle opere del periodo fu, secondo il modello platonico, il dialogo. Inoltre connaturata alla cultura umanistica fu fin dalle origini una vocazione pedagogica, che in tese rinnovare completamente criteri e metodi dell’insegnamento nell’intento di arrivare alla formazione di un uomo integrale, vale a dire capace di sviluppare con consapevolezza ogni aspetto della sua natura razionale. 9.4 – L’ARTE La capacità di lanciare uno sguardo nuovo sulle cose e sulla stessa interiorità dell'uomo si manifestò nel mondo dell'arte. Nelle età precedenti avevano prevalso preoccupazioni di carattere religioso e per cui Manuale di Storia moderna Riassunto di di Vittorio Criscuolo Luciano Bramante 12 Non a caso in molti scritti del periodo alle celebrazioni della virtù, intesa come capacità dell’uomo di dirigere gli eventi, si contrappone la fortuna, il fato, che ostacola i disegni dell’uomo e ne vanifica gli sforzi. Alla luce di queste considerazioni si comprende la radice più vera della profonda religiosità di un'epoca che Burckhardt erroneamente giudicò irreligiosa. La crisi religiosa porrà l'individuo solo, sgomento, di fronte al mistero della salvezza e alla infinita maestà di Dio. Erano questi i prezzi della modernità. 9.8 – ERASMO DA ROTTERDAM Egli perseguì l'ideale di un umanesimo cristiano, nel quale la rinascita degli studi classici si coniugava con il ritorno allo spirito evangelico del cristianesimo delle origini. Figlio illegittimo di un ecclesiastico, fu ordinato sacerdote nel 1492, ma si dedicò per tutta la vita alla libera attività intellettuale che lo portò a viaggiare per tutta l’Europa. La sua formazione fu fortemente influenzata dalla Vita comune, comunità dedite allo studio, all’assistenza e all’istruzione; questi gruppi perseguivano uno stile di vita semplice, una religiosità interiore animata dal desiderio di ispirarsi al modello di Cristo. Erasmo acquisì precocemente una solida formazione umanistica, che integrò con l’apprendimento del greco. Molto importante furono gli amici inglesi More e Colet, i quali lo accostarono ad alcuni temi della filosofia platonica. La sua opera di rinnovamento si espresse con l’applicazione della filologia anche alle sacre scritture, programma esposto nella prefazione alle Annotationes al Nuovo Testamento di Lorenzo Valla, opera da lui ritrovata e pubblicata nel 1505. Qui Erasmo presenta la filologia come una disciplina umile, serva di tutte le scienze. Poi però, con un efficace artificio retorico, la serva filologia si trasforma nella disciplina più utile di tutte. Proprio in nome della critica filologica scientificamente fondata Erasmo afferma quindi di non accettare l’autorità degli antichi, e degli stessi padri della Chiesa, rivendica il diritto della libera ricerca intellettuale di procedere nei suoi studi senza incontrare ostacoli o limitazioni. Qui davvero si riconosce la piena maturazione di una coscienza moderna. Erasmo portò a compimento il suo progetto dando alle stampe nel 1516 il Novum istrumentum, che presentava il testo greco del nuovo testamento, con una nuova versione in latino e un apparato di annotazioni critiche. L'opera pose le basi della moderna critica biblica: la Bibbia vista come un libro storico, che occorreva analizzare con la critica filologica. Egli si fece fautore di un ritorno alle origini anche nel sentimento religioso, che egli voleva semplice e puro, fedele allo spirito evangelico. Nei suoi scritti egli criticò gli eccessi della devozione, il culto delle reliquie, i digiuni, le veglie, le mortificazioni della carne, i pellegrinaggi, insomma tutte quelle forme di religiosità esteriore che riteneva estranee al vero spirito del cristianesimo. Il suo ideale di vita cristiana si trova espresso con efficacia nella parte conclusiva dell’Elogio alla follia, pubblicata nel 1511 in Inghilterra. Lo scritto nacque come uno scherzo con More. È la stessa follia, intesa qui nel significato del termine stultitia, cioè come inesattezza, che declama un’orazione in elogio di sé stessa davanti a un pubblico di suoi seguaci. Nella prima parte la follia dimostra che senza di lei nessun aspetto della vita potrebbe esistere. Infatti se gli uomini si lasciassero guidare dalla saggezza sarebbero indotti da questa a non compiere molte delle loro azioni. Erasmo, per bocca della follia, paragona la vita a una rappresentazione nella quale ognuno degli attori porta una maschera. Nella seconda parte l'opera sviluppa una satira della società : re e principi, nobili, grammatici, poeti, filosofi, teologi, uomini di Chiesa, tutti ostentano una falsa sapienza che in realtà non è che follia. Folli i principi a distruggere con continue guerre ricchezze e vite umane. Folli i teologi che pretendono di svelare con infinite sottigliezze i misteri della fede e sono pronti a bollare come eretici coloro che non si adeguano alle loro tesi. Folli ancora vescovi, cardinali e papi, più attratti dei beni mondani che da quelli spirituali dei quali dovrebbero essere amministratori. Ma la parte più interessante è quella conclusiva, nella quale propone un parallelo fra il platonismo e il cristianesimo, concordi nell’interpretare la realtà sulla base di una contrapposizione fra anima e corpo, spirito e materia. Nella filosofia di Platone l’anima è prigioniera del corpo e tende a staccarsene per ricongiungersi al mondo delle idee, dal quale proviene. Analogamente coloro che si sforzano di seguire il Manuale di Storia moderna Riassunto di di Vittorio Criscuolo Luciano Bramante 15 modello di Cristo disprezzano le cose terrene e gli aspetti materiali. Tuttavia solo pochi sono capaci di vivere con tanta profondità il messaggio cristiano, e per questo sono derisi e disprezzati come folli dalla gente comune. La gente infatti è attratta soprattutto delle cose visibili, dai beni materiali. Alla luce della contrapposizione fra visibile e invisibile, materiale e spirituale, Erasmo interpreta tutte le pratiche di pietà, e così negli stessi sacramenti finisce per svalutare drasticamente l’aspetto esteriore. Questa concezione razionalistica dell’eucarestia ha una portata potenzialmente eversiva, il rifiuto dell'esteriorità (il pane e il vino) finisce per ridurre il sacramento a una cerimonia simbolica: viene proposta qui una prospettiva che sarebbe stata seguita proprio dalle correnti più radicali della riforma protestante. Naturalmente non era certo questa l’intenzione di Erasmo, e non a caso, anni dopo, confesserà che alla luce degli sviluppi certe cose non le avrebbe scritte. Il suo è un cristianesimo etico: non è importante ciò che si crede, cioè la dottrina e i dogmi, ma come si vive. Il cristiano solo sforzandosi di seguire l'esempio di Cristo può " risorgere a nuova vita ” : si vede qui come l’idea della rinascita, centrale nella cultura umanistica, si sia è affermata attraverso il pensiero erasmiano anche nell’ambito del cristianesimo. 11 – LA RIFORMA PROTESTANTE 11.1 – LE PREMESSE Da tempo era viva nella cristianità l’aspirazione a una riforma che ponesse fine alla corruzione della Chiesa. La crisi dello scisma d’Occidente (1378-1417) fu risolta al concilio di Costanza con l’elezione di Martino V ma, nello stesso concilio, il ruolo del papato fu messo in discussione dall’affermazione delle dottrine conciliariste. I papi del 400’ si impegnarono perciò a ripristinare la propria autorità, quindi a centralizzare il potere papale, in particolare la giurisdizione degli affari ecclesiastici e l’assegnazione delle principali cariche. La spregiudicata gestione romana provocava un diffuso malcontento fra i fedeli, in particolare in quei territori che, come la Germania, erano soggetti a un vero e proprio sfruttamento a causa della mancanza di un solido potere centrale. In particolare urtava l’attribuzione dei benefici a uomini che si limitavano a incassare e trascuravano i propri doveri pastorali. Nel 1511 Massimiliano aveva promosso i Grovamina Germanicae nationis, che denunciavano la rapacità della curia romana. Le critiche non si limitavano a condannare il lusso e la mondanità della curia ma, grazie alla cultura umanistica, desideravano un rinnovamento spirituale, il rifiuto della Scolastica e la volontà di una ripresa degli studi sulle sacre scritture. Questi orientamenti trovavano come punto di riferimento l’opera di Erasmo. Egli del resto, era stato preceduto da alcuni riformatori radicali che avevano già proposto molti dei temi che avrebbe sviluppato: l’inglese John Wyclif (1330-84) e il movimento a lui ispirato dei lollardi, e il teologo di Praga Jan Hus (1369-1415), che aveva negato il magistero papale e proclamato Cristo il solo capo della Chiesa. Questa visione della comunità ecclesiale ebbe conseguenze sulla concezione dell’eucarestia: caduta la distinzione fra ecclesiastici e laici anche questi ultimi potevano assumere la comunione del pane e del vino, quindi sotto l’una e l’altra specie (utraque specie). La riforma luterana cadde quindi in un terreno ben pronto a riceverla. Tuttavia per capire la genesi della riforma va considerato il percorso di Lutero per risolvere il problema che lo angosciava: la salvezza dell’uomo. Manuale di Storia moderna Riassunto di di Vittorio Criscuolo Luciano Bramante 16 11.2 – LUTERO Martin Luther nacque in Turingia nel 1483 da Madre borghese e padre di origine contadina. Studiava giurisprudenza all’Università di Erfurt quando nel 1505 decise di entrare nel convento degli eremiti agostiniani dove due anni dopo prese il sacerdozio. Decisione presa, secondo il suo stesso racconto, dal pericolo corso per la caduta di un fulmine: lo atterrì la prospettiva di una morte senza confessione. In effetti la sua esperienza religiosa fu sempre condizionata da una vera ossessione per il problema della salvezza: egli concepiva la vita come una lotta contro il demonio. Giunse addirittura a bestemmiare poiché sentiva di odiare in cuor suo quel Dio crudele, che aveva predestinato alla dannazione la maggior parte dell'umanità. Consigliato dal suo superiore, si dedicò agli studi biblici e divenne lettore di teologia all'Università di Wittemberg; e proprio in un ciclo di lezioni sull’Epistola ai romani di Paolo di Tarso trovò la rivelazione della quale andare in cerca: “il giusto vivrà in virtù della fede”. Sì delineava così il punto fondamentale della dottrina luterana, la giustificazione per sola fede. La concezione pessimistica dell’uomo indusse Lutero a negargli qualsiasi ruolo o arbitrio: per la sua natura irrimediabilmente corrotta dal peccato originale, le opere dell'uomo apparentemente meritevoli sono inquinate dall'orgoglio, dall'ipocrisia, dell'egoismo. Egli non dà alcun valore a opere compiute per timore di punizioni o per desiderio di ricompensa. La salvezza è un dono di Dio. L’uomo ha in questo un ruolo assolutamente passivo. Non si può sapere chi né perché, ma qualcuno sarà chiamato: questo è scritto nel Vangelo, che diventa così per Lutero la promessa di salvezza. Dalla riflessione di Lutero emergeva al centro la figura di Cristo, morto sulla croce proprio per redimere l’umanità dal peccato. Il Dio dell’ira si convertiva nel Dio di misericordia. Nel 1517 aveva già maturato il suo pensiero teologico; però non pensava di essersi posto al di fuori della tradizione ecclesiastica. Fu un evento occasionale, lo scandalo delle indulgenze, a indurlo a una presa di posizione che sarebbe divenuta poi l’atto di inizio della Riforma. 11.3 – LA QUESTIONE DELLE INDULGENZE Alberto di Hohenzollern, già titolare di due vescovati, ambiva a ottenere anche l’arcivescovato di Magonza; e per questo ottenne una dispensa papale dietro pagamento. Il Papa concesse perciò ad Alberto il permesso di lanciare nei suoi territori una campagna di vendita delle indulgenze il cui ricavato sarebbe stato diviso a metà: una parte serviva ad Alberto per restituire la somma anticipata dai banchieri, l’altra serviva a contribuire alla costruzione della basilica di S. Pietro. Lutero probabilmente non conosceva i termini di questa operazione, ma quando vide la spregiudicatezza con la quale i predicatori cercavano di convincere la popolazione, prese posizione con la redazione in latino di 95 tesi che, secondo una tradizione non verificata, affisse alla porta della cattedrale di Wittemberg alla vigilia di Ognissanti del 1517. I predicatori incaricati da Alberto, promettevano ai fedeli non solo la remissione delle pene ma anche il perdono dei peccati, a prescindere da un sincero pentimento (quando la monetina tintinnava nella cassa l’anima volava dal purgatorio al paradiso). In realtà la denuncia di questi incredibili abusi era condivisa da molti, ma la presa di posizione di Lutero aveva radici ben più profonde, che solo col tempo sarebbero apparsi evidenti. Intanto egli condannava le indulgenze perché incitavano il cristiano a intraprendere una scorciatoia per sfuggire alle sue colpe, mentre invece ogni uomo, doveva innanzitutto maturare un sincero e profondo pentimento per i propri peccati, e quindi cercare e amare le pene: “il Signore Gesù Cristo, dicendo fate penitenza ha voluto che tutta la vita dei fedeli sia una penitenza” (tesi 1). D’altra parte le convinzioni maturate circa la natura irrimediabilmente corrotta dell’uomo inducevano Lutero a negare la radice stessa della pratica delle indulgenze: per lui non esisteva alcun tesoro dei meriti dei santi perché nessun uomo può avere un merito agli occhi di Dio. 11.4 – LA ROTTURA CON ROMA Manuale di Storia moderna Riassunto di di Vittorio Criscuolo Luciano Bramante 17 Da Zurigo la riforma si diffuse in molte città svizzere (Berna e Basilea), e ciò comportò un conflitto con i cantoni originari (Schwyz, Uri e Unterlwalden) rimasti cattolici. Un ulteriore motivo di contrasto fu l'ostilità di Zwingli nei confronti del servizio militare all'estero. Il riformatore per contrastare i cantoni cattolici e i loro alleati, il Papa e l'imperatore, concepì una lega europea, e tentò anche di stabilire un accordo con i luterani, rivelatosi impossibile proprio a causa della questione della presenza reale nell’eucarestia. Alla fine i cantoni protestanti dovettero combattere da soli contro quelli cattolici, che furono sconfitti nella battaglia di Kappel (1531) nella quale perse la vita lo stesso Zwingli. Per effetto di questa sconfitta l’espansione della Riforma nella Svizzera tedesca si arrestò; sarebbe proseguita nella Svizzera francese grazie a Calvino. Il successore di Zwingli, Heinrich Bullinger , stipulò nel 1549 con la Chiesa calvinista di Ginevra un accordo che sancì di fatto l’unione delle due confessioni riformate elvetiche. 11.8 – CALVINO Jean Cauvin nacque in Francia nel 1509. Il padre lo destinò dapprima alla carriera ecclesiastica e poi lo avviò agli studi giuridici. Il giovane ebbe una solida formazione umanistica. Nel 1534 fu costretto a lasciare la Francia per sfuggire alle persecuzioni di Francesco I. Rifugiatosi a Basilea pubblicò nel 1536 la Institutio religionis christanae (tradotta poi in francese) dove esponeva già la sostanza della sua dottrina. Lasciata Basilea si recò alla corte di Ferrara, quindi, trovatosi a passare per Ginevra, decise di stabilirvisi per aiutare l’amico Guillaume Farel nel suo tentativo di consolidare la recente adesione della città alla Riforma. Attraverso questa scelta Ginevra mirava a sottrarsi, con l’aiuto di Berna, al controllo del vescovo, signore feudale della città che, sostenuto dai duchi di Savoia, tendeva a imporre la propria autorità sulle magistrature comunali. Fin dall’inizio quindi l’azione di Calvino, che intendeva porre la Chiesa riformata al centro della vita cittadina, si scontrò con gli orientamenti del governo cittadino, che nel 1538 lo esiliò. Calvino si recò a Basilea e poi a Strasburgo ma già nel 1541 fu richiamato a Ginevra, dove l'oligarchia patrizia si era resa conto che per contrastare l’egemonia di Berna, era indispensabile ricorrere alla sua energica guida spirituale e alla sua capacità di organizzatore. Da questo momento l'azione riformatrice di Calvino si identificò con la città. 11.9 – LA DOTTRINA DI CALVINO Il pensiero di Calvino è incentrato sul principio dell'onnipotenza di Dio che governa il creato nella sua infinita sapienza secondo i suoi imperscrutabili disegni. Da queste premesse deriva la dottrina della doppia predestinazione che sviluppò un aspetto già implicato nella teologia luterana: Dio crea solo pochi preordinati alla salvezza mentre destina la maggior parte dell’umanità alla perdizione eterna. I decreti divini sono incomprensibili all'uomo, e sono perciò insindacabili e indiscutibili. Essere eletti è un atto di misericordia, per il quale i prescelti non possono vantare alcun merito; così come i dannati non hanno alcun diritto di lamentarsi della loro sorte, giacché questa è la loro natura. Questa concezione assai dura diventava per il calvinista una potente fonte di energia positiva, purché egli avesse la forza di lasciarsi alle spalle il pensiero della propria salvezza individuale. Per Calvino infatti è inutile e sbagliato macerarsi nel timore e nell’attesa del proprio destino, il quale è già deciso e quindi immodificabile. Naturalmente anche per Calvino la chiesa invisibile degli eletti è celata nella mente divina e inconoscibile all’uomo. Nessuno può dire io sono stato scelto. Vi sono però dei segni presuntivi che Dio ci abbia arruolato: l’adesione alla Chiesa, quindi il condurre una vita morigerata, e l’attuazione della vocazione che Dio ci ha assegnato nel mondo. Per quanto concerne il primo punto, fondamentale è il ruolo dei sacramenti, e in particolare dell’eucarestia, rispetto alla quale Calvino, se negava la presenza reale del corpo e del sangue di Cristo, nemmeno la riduceva come Zwingli a una mera celebrazione simbolica: la Cena era per lui un momento essenziale di comunione spirituale con Dio. Ma soprattutto centrale era il concetto di vocazione: Dio ha stabilito per ciascuno il dovere da compiere sicché il cristiano che adempie ai disegni divini trova una grande consolazione e conferisce a ogni atto un valore religioso, di Manuale di Storia moderna Riassunto di di Vittorio Criscuolo Luciano Bramante 20 testimonianza della gloria di Dio. Era questa la matrice del tipico attivismo delle comunità calvinista , e anche della sostanziale diversità dal concetto di Chiesa di Lutero. Questi in effetti non aveva mai dato grande importanza alla realtà terrena, orientando tutta la vita del cristiano nell’attesa del regno di Cristo. Calvino riteneva invece che il corso della storia fosse governato dalla Provvidenza divina. A differenza di quella luterana, la chiesa calvinista si poneva dunque come una Chiesa militante, impegnata ad agire nel quadro della storia. 11.10 – L’ETICA PROTESTANTE E LO SPIRITO DEL CAPITALISMO Volume di due saggi pubblicati ad inizio 900’ da Max Weber, afferma che il concetto di vocazione, inducendo il calvinista e interpretare i profitti conseguiti nella sua attività come una prova del fattore divino avrebbe contribuito al sorgere della mentalità capitalistica. La tesi ha avuto molta fortuna. In effetti Calvino, in contrasto col diritto canonico, considerò lecito l’interesse sul prestito di produzione o d’investimento. Anche il tempo, considerato sacro, assunse un valore diverso nella Ginevra calvinista: il suo impiego nell’intera collettività fu regolato in maniera rigorosa e aveva un evidente impatto sull’attività lavorativa. Tuttavia non ci sono negli scritti di Calvino indizi significativi per poter interpretare in chiave economica il suo concetto di vocazione. La tesi di Weber deve essere considerata sul piano sociologico, non su quello storico: egli, esaminando le società calviniste nei secoli successivi, individua un modello tipico di mercante che considerava il suo guadagno come una benedizione divina e quindi, vivendo in modo estremamente frugale, lo utilizzava o per reinvestirlo nella sua impresa o a soccorso dei poveri. 11.11 – GINEVRA CITTÀ DI DIO Al suo ritorno a Ginevra Calvino gettò le basi della struttura della sua Chiesa. Secondo il modello del Nuovo testamento, egli istituì quattro ordini: i pastori o ministri, riuniti nella Venerabile compagnia dei pastori, responsabili del culto e della predicazione, i dottori, ai quali era affidata l’educazione e la difesa dell’ortodossia, i diaconi, che si occupavano dell’assistenza ai malati, e 12 anziani laici (presbiteri) scelti dal Consiglio cittadino fra i suoi membri con il compito di vigilare sulla vita cristiana dei cittadini. Diversamente da Lutero, Calvino garantì quindi l’indipendenza della Chiesa dallo Stato , che non poteva intromettersi nella vita della comunità riformata. Non fu però una teocrazia giacché potere politico e religioso rimasero distinti. Il governo fu sempre nelle mani del Piccolo consiglio, espressione del patriziato (solo dal 1555 i riformatori disposero della maggioranza al suo interno e lo stesso Calvino solo nel 1559 ottenne lo status di borghese che gli dava il diritto di votare nelle elezioni delle magistrature cittadine). Tuttavia egli, attraverso gli organi della sua Chiesa, impose una rigorosa disciplina, che tese a trasformare la città in una Repubblica di santi: proibito il gioco con le carte, vietati i nomi di battesimo non presenti nella Bibbia, puniti i balli immorali e gli abbigliamenti lussuosi . Lo Stato era responsabile, nella prospettiva calvinista, della realizzazione di questo grandioso progetto di rigenerazione cristiana: i due poteri erano chiamati ad agire di concerto. In tal senso si può parlare di bibliocrazia, poiché la legge della Bibbia fu posta a fondamento di tutta la vita sociale, politica ed economica della città. Non mancarono, nella vita di Calvino, polemiche e contrasti con le autorità cittadine: molti ambienti manifestarono malumori e ostilità nei confronti dell’austero modello di vita. Per parte sua Calvino non amò mai particolarmente Ginevra: fu completamente estraneo al patriottismo di Zwingli. La sua azione riformatrice si legò in modo indissolubile alla città anche perché si impose come la principale garante della sua autonomia: Ginevra (che solo nel 1815 sarebbe entrata nella Confederazione elvetica) grazie all'adesione alla riforma si costituì in Repubblica indipendente. Inoltre a Ginevra molti cattolici furono espulsi mentre per contro arrivarono profughi fuggiti alle persecuzioni da Spagna, Francia e Italia. 11.12 – IL CASO SERVETO Manuale di Storia moderna Riassunto di di Vittorio Criscuolo Luciano Bramante 21 Il concetto di Chiesa militante spiega la grande intransigenza di Calvino contro gli oppositori. Miguel Serveto, medico spagnolo che aveva divulgato posizioni contrarie al dogma della trinità, di passaggio a Ginevra, fu riconosciuto, processato e bruciato vivo nel 1553 per anabattismo e antitrinitarismo. Calvino, interpellato come teologo, si pronunciò a favore della condanna capitale. L’episodio ebbe grande eco in tutta Europa e innescò una polemica fra il riformatore e numerosi dissidenti, molti dei quali italiani, che criticarono l’uso della violenza in materia di fede, contrario allo spirito di Cristo. 11.13 – GEOGRAFIA DELLA RIFORMA La diffusione del luteranesimo in Germania fu sicuramente favorita dal fatto che esso dava la possibilità ai principi di confiscare le ingenti proprietà della Chiesa. La fine del mondo feudale è ben caratterizzata dalla decisione di Alberto di Hohenzollern, gran maestro dell’ordine dei cavalieri teutonici, di secolarizzare i beni dell’ordine costituendoli in Ducato di Prussia sotto la dinastia della sua famiglia e trasformando i cavalieri in feudatari laici. La guerra dei contadini segnò un arresto dell’espansione della Chiesa luterana in Germania per il timore di rivolgimenti sociali diffuso nella nobiltà e borghesia cittadina. Dopo il 1525 il cattolicesimo riguadagnò varie zone e rimase saldo nella Germania meridionale . Convinto che la corona gli assegnasse la missione di ripristinare l’unità cristiana, Carlo V si impegnò per superare la divisione religiosa della Germania. Dopo aver sconfitto la Francia e ottenuto il controllo dell’Italia, egli minacciò alla Dieta di Spira del 1529 di rimettere in vigore gli editti contro il luteranesimo approvati alla Dieta di Worms. Contro questo disegno si alzò la protesta di 6 principi e di 14 città che avevano aderito alla Riforma (entra in uso allora il nome di protestanti per i seguaci delle nuove dottrine). L'anno seguente alla Dieta di Augusta il principale collaboratore di Lutero, Filippo Melatone, presentò, in vista di un tentativo di conciliazione, una versione particolarmente moderata dei principi della teologia luterana, la Confessio Augustana. Caduta ogni possibilità di accordo per l’intransigenza dei cattolici, i principi luterani rifiutarono di sottomettersi a Carlo V e si riunirono nel 1531 nella lega di Smalcalda. Il luteranesimo si stabilì anche nell’Europa settentrionale, dove Danimarca, Norvegia e Svezia erano unite dall’unione di Kalmar del 1397. Il passaggio alla Riforma fu dovuto da motivazioni politiche, legate alla volontà dei sovrani di incamerare i beni della Chiesa e di controllare le nomine ecclesiastiche. Dal 1523 la Svezia si sollevò contro il re danese Cristiano II e si dichiarò indipendente, affidando la corona a Gustavo Vasa. Il nuovo sovrano si impadronì dei beni del clero e nel 1527 favorì la costituzione della prima Chiesa nazionale protestante. In realtà il luteranesimo si affermò solo col tempo nella coscienza della popolazione in Svezia e nella Finlandia. Nel 1525 Cristiano II perse il trono in favore dello zio, Federico I. Sotto il suo successore, Cristiano III , di fede protestante, il luteranesimo fu proclamato nel 1536 religione di Stato . La Chiesa luterana fu imposta con la forza alla Norvegia e Islanda. Esaurita l’espansione del luteranesimo l’ala marciante della riforma divenne il calvinismo in virtù dell’attivismo. In Germania i calvinisti (detti riformati) penetrarono nel Palatinato e nel Württemberg. Le chiese riformate si diffusero in Francia (ugonotti) e furono protagoniste delle guerre di religione, e nei Paesi Bassi, dove animarono la lotta contro il predominio spagnolo. Una notevole penetrazione del calvinismo si ebbe anche in Ungheria, Polonia e Boemia. Poi penetrò in Inghilterra e si impose in Scozia come religione nazionale. 11.14 – LA NASCITA DELLA CHIESA ANGLICANA Anche in Inghilterra il distacco da Roma fu originato da cause esclusivamente politiche. Enrico VIII nel 1534 si attribuì, con l’Atto di supremazia, il titolo di capo supremo della Chiesa anglicana. Sotto di lui le uniche novità furono la soppressione dei conventi e l'introduzione della Bibbia in volgare. Solo in seguito la Chiesa anglicana si aprì all'influenza delle dottrine protestanti. Sotto il regno di Elisabetta I (1558- 1603), si sviluppò una corrente ispirata alla tradizione calvinista che per il suo rigoroso moralismo fu chiamata puritanesimo. Essa ebbe un ruolo molto importante nelle vicende dell’Inghilterra nel XVII secolo. Manuale di Storia moderna Riassunto di di Vittorio Criscuolo Luciano Bramante 22 L’equilibrio della penisola fu rotto dalla decisione di Carlo VIII di rivendicare i suoi diritti della casa di Angiò (che aveva da poco acquisito) sul regno di Napoli . Egli si garantì la neutralità della Spagna (a cui cedette proprietà sui Pirenei) e dell’imperatore Massimiliano (al quale diede Franca contea e Artois). Il suo tentativo fu incoraggiato da vari componenti della società italiana. Fra questi Ludovico il Moro che reggeva lo stato di Milano come tutore del nipote di Gian Galeazzo che a sua volta aveva sposato una principessa aragonese, per cui la dinastia al potere a Napoli era il principale ostacolo che impediva a Ludovico di usurpare il potere ai danni del nipote.  1494 – Carlo VIII scende in Italia con un forte esercito e un’artiglieria che impressionò tutti. A Milano fu ricevuto amichevolmente da Ludovico e quindi proseguì verso Firenze, dove il figlio di Lorenzo il Magnifico, l’inetto Piero Medici, in cambio dell’incolumità della città gli consegnò le chiavi delle principali piazzeforti dello Stato. Decisione che suscitò a Firenze una viva opposizione che costrinse Piero a fuggire, ristabilendo così il regime repubblicano  in questi eventi ebbe un ruolo decisivo il frate Girolamo Savonarola (denunciatore della corruzione della Chiesa, chiamava Alessandro VI simoniaco). Annunciò di aver visto in sogno una spada sanguinante calare su Roma: quando, con Carlo VIII a Firenze, sembrò materializzarsi la punizione divina la popolazione fiorentina cerco di lui un punto di riferimento. Così il frate, pur senza assumere cariche pubbliche, esercitò una notevole influenza sulla vita politica della Repubblica: fu allargata la base popolare con l'istituzione di un Consiglio grande di 3000 cittadini. Nel contempo Cristo fu proclamato signore di Firenze, che sarebbe divenuta la nuova Gerusalemme. Ai sostenitori del frate (piagnoni) si opposero gli arrabbiati, favorevoli all’oligarchia, e i partigiani dei medici (palleschi). Scomunicato dal Papa, Savonarola fu condannato al rogo come eretico e giustiziato (1498). Questa 1° Repubblica Fiorentina (1494-1515) sopravvisse alla sua morte, ma si trovava in una situazione sempre più precaria, in quanto dipendeva interamente dal sostegno della Francia.  1495 – conquista di Napoli: Carlo VIII a Roma si accordò facilmente con il papa e quindi poté prendere la città senza combattere. Il re di Napoli Alfonso II di Aragona abdicò in favore del figlio Ferrandino (Ferdinando II), che non potendo opporsi fuggì mentre Carlo VIII entrava a Napoli ricevuto dei baroni. Gli stati italiani e lo stesso Ludovico il Moro (morto nel frattempo Gian Galeazzo), compresero che l’insediamento della Francia a Napoli rappresentava una grave minaccia.  Lega tra Venezia, Milano, Alessandro VI e anche Ferdinando il cattolico e Massimiliano  Carlo VIII dovette abbandonare Napoli e risalire la penisola. Si scontrò con le forze della lega nella battaglia di Fornovo sul Taro ma riuscì ad aprirsi il passo per ritornare in Francia.  Ferrandino poté ritornare sul trono ma dovette cedere a Venezia Brindisi e alcuni porti sull’Adriatico. L’avventura di Carlo VIII non lasciò cambiamenti di rilievo, se non la nascita della Repubblica Fiorentina, ma aveva dimostrato in maniera evidente la debolezza del sistema politico italiano. 12.3 – IL DUCATO DI MILANO AL CENTRO DELLA CONTESA Morto nel 1498 Carlo VIII senza eredi, la corona passò al cugino Luigi XII che riprese i progetti di intervento in Italia puntando però alla conquista del milanese (in quanto discendente di Valentina Visconti).  Luigi XII si accordò con Venezia, alla quale promise Cremona e la Ghiara d’Adda, con la Confederazione elvetica e con Alessandro VI, che ottenne in cambio per il figlio l’investitura del Ducato di Valentinois.  Isolato, Ludovico si rifugiò da Massimiliano (marito di sua nipote Bianca Maria Sforza). Tentò poi di riconquistare il suo Stato ma fu sconfitto a Novara (1500) e finì la sua vita prigioniero in Francia. Manuale di Storia moderna Riassunto di di Vittorio Criscuolo Luciano Bramante 25  1500 – Trattato segreto di Granada: Quindi Luigi XII puntò al regno di Napoli e perciò si accordò con Ferdinando il cattolico (Possessore della Sicilia) stipulando il trattato che prevedeva la spartizione del regno fra Spagna e Francia. Il re di Napoli, Federico I (cugino di Ferdinando) cedette senza combattere. Al re di Francia furono dati Campania e Abruzzi, mentre alla Spagna toccavano Calabria e Puglia. Ma presto scoppiò fra i due alleati il conflitto che volse a favore della Spagna, grazie alla superiorità dei tercios, guidati da Gonzalo di Cordóba  La battaglia di Garigliano ( 1503 ) fu una disfatta per Luigi XII costretto a stipulare l’armistizio di Lione ( 1504 ) che sancì l’appartenenza del regno di Napoli alla Spagna. 12.4 – L’AVVENTURA DI CESARE BORGIA Figlio di Alessandro VI, Cesare Borgia, con le forze messegli a disposizione da Luigi XII, riuscì a crearsi un dominio personale fra la Romagna e le Marche. Machiavelli ne fece un punto di riferimento essenziale della figura del principe nuovo da lui delineata nel trattato De principatibus. In effetti, al di là dei metodi utilizzati, Cesare Borgia riuscì con la sua azione a consolidare il dominio del papa in territori nei quali la sua autorità era puramente nominale. La morte improvvisa del padre pose fine alla sua impresa. Dopo un brevissimo pontificato di Pio III fu eletto infatti Giulio II (Giuliano della Rovere), grande nemico dei Borgia. 12.5 – LA LEGA ANTI-VENEZIANA Giulio II proseguì la politica di tentativo di controllo di tutto il territorio dello Stato pontificio. Guidando personalmente le truppe nonostante l'età, ristabilì la sua autorità su Perugia e Bologna. Nel perseguire questo programma si urtò inevitabilmente con il più forte Stato, Venezia, che aveva approfittato della caduta di Cesare Borgia per occupare Rimini e Faenza. In effetti Venezia si era attirata col suo espansionismo molte ostilità: aveva preso i porti sull’Adriatico al regno di Napoli, Cremona e la Ghiara d’Adda allo Stato milanese (ora sotto la Francia), Gorizia, Trieste e Fiume all’imperatore Massimiliano.  Lega di Cambrai: Giulio II la organizza con Ferdinando, Luigi XII, Massimiliano, e vari principi italiani.  1509 – sconfitta ad Agnadello (Crema) Venezia perde tutte le conquiste della terraferma. La Repubblica veneziana con un abile azione diplomatica fece leva sui contrasti tra il Papa e la Francia per uscire dal suo isolamento. Del resto i membri della coalizione avevano ormai recuperato i territori. Negli anni seguenti Venezia riuscì a recuperare i possedimenti di terraferma. Da allora la Repubblica assunse un atteggiamento prudente, partecipando alle guerre d’Italia solo per difendere il suo territorio, e dopo il 1529 evitò di farsi coinvolgere nello scontro fra la Francia e gli Asburgo. 12.6 – “FUORI I BARBARI!” Ripresa la Romagna, Giulio II volle recuperare il Ducato di Ferrara, che considerava un feudo pontificio ma che era sostenuto dalla Francia. Perciò si accordò con la Confederazione elvetica contro Luigi XII.  Concilio di Pisa: Luigi XII reagì convocando un concilio che avrebbe dovuto deporre Giulio II.  la lega Santa: Il Papa a sua volta riunì il V concilio lateranense, e organizzò contro la Francia una coalizione che univa svizzeri, Venezia, Ferdinando e anche il re d’Inghilterra. L’iniziativa fu giustificata con la parola d’ordine “fuori i barbari” ma certo non si trattava di una liberazione dallo straniero.  1512 – battaglia di Ravenna: la Francia riuscì a sconfiggere le forze nemiche ma l'arrivo di un corpo svizzero costrinse Luigi XII ad abbandonare Milano, dove rientrò il figlio di Ludovico, Massimiliano. Ferdinando occupò il regno di Navarra, alleato della Francia. Manuale di Storia moderna Riassunto di di Vittorio Criscuolo Luciano Bramante 26 La sconfitta francese segnò anche la fine della prima Repubblica Fiorentina (che si era mantenuta all’ombra della Francia); un corpo di spedizione spagnolo ristabilì in città la signoria dei Medici, il cui potere fu rinsaldato l’anno dopo quando fu eletto papa Leone X, ovvero Giovanni, figlio di Lorenzo il Magnifico. Proprio nel 1513, dopo la fine della prima Repubblica Fiorentina, Machiavelli scrisse dei De principatibus, dove prendeva atto lucidamente della crisi del sistema politico italiano e del modello repubblicano. 12.8 – CONCLUSIONE DELLA PRIMA FASE DELLE GUERRE D’ITALIA Luigi XII morì nel 1515 senza eredi diretti, per cui il trono passò a Francesco I, appena ventenne.  1515 – battaglia di Marignano (Melegnano): Egli scese in Italia e con un forte esercito affrontò le truppe messe insieme da Spagna, Milano e Impero. La battaglia segnò la sconfitta dei mercenari svizzeri, nerbo della coalizione. La Francia occupò Milano e stipulò una pace perpetua con gli svizzeri.  1516 – pace di Noyon: sancito l’equilibrio raggiunto  i francesi a Milano e gli spagnoli a Napoli. L’anno precedente era stato dichiarato maggiorenne Carlo d’Asburgo, che poté assumere così il governo dei Paesi Bassi e nel 1516, alla morte del nonno Ferdinando, ereditare anche il trono di Spagna. 12.8 – CARLO V Carlo visse nelle Fiandre che Massimiliano affidò al padre Filippo. Alla morte di questi, Carlo divenne sovrano dei Paesi Bassi (retti dalla zia Margherita d’Austria). Carlo, si formò quindi in un ambiente dominato dagli ideali cavallereschi, eredità che ebbe enorme peso.  1516 – proclamato re di Spagna come Carlo I alla morte del nonno Ferdinando, e non reggente, come avrebbe voluto il Consiglio di Castiglia (erede legittima era la madre). Quando nel 1517 si recò in Spagna dovette confrontarsi con la difficile realtà di uno stato formato da due regni distinti e attraversato da conflitti religiosi. L'impatto non fu positivo: non piacque questo adolescente straniero, che non parlava castigliano ed era circondato da dignitari fiamminghi e borgognoni, ai quali distribuì cariche a danno della nobiltà locale; le Cortes opposero una sorda resistenza alle sue richieste di sostegno finanziario.  1519 – eletto imperatore del S.R.I come Carlo V: mentre era in Spagna, la morte del nonno Massimiliano gli portò i domini austriaci ma si aprì il problema della successione imperiale  Questa prospettiva era pericolosa per la Francia che, accerchiata dai domini asburgici. Francesco I pose addirittura la sua candidatura alla corona imperiale, ma era impossibile che l’aristocrazia tedesca potesse accettare un re straniero. Oltre alla tradizione dinastica, giocò a favore di Carlo il sostegno di ricchi mercanti e banchieri di Augusta, che anticiparono le somme per convincere gli elettori. La straordinaria eredità fu certo favorita dal caso ma fu anche il frutto di una strategia matrimoniale. Carlo convocò nuovamente le Cortes per chiedere un sussidio finanziario e quindi, lasciata la reggenza ad Adriano di Utrecht, partì per le Fiandre. Esplose allora il mal umore con la rivolta delle città (comuneros): moto autonomistico, che intendeva difendere le prerogative della comunità contro i funzionari regi. La rivolta si estese rapidamente e assunse una matrice popolare, avanzando rivendicazioni sociali contro il potere dei nobili e dei ricchi. Per questo motivo la nobiltà sulle prime non sfavorevole, si schierò a difesa dell'ordine. La sconfitta degli insorti a Villalar (1521) segnò la fine del movimento. Carlo V comprese allora la necessità di tenere conto delle tradizioni della realtà del regno spagnolo. Lasciata la Spagna, Carlo si trovò subito a fronteggiare l’unità religiosa della Germania minacciata dalla Manuale di Storia moderna Riassunto di di Vittorio Criscuolo Luciano Bramante 27 organizza quindi una spedizione dove riesce a conquistare Tunisi e a insediare un re cristiano. Francesco I si alleò addirittura ai turchi per sconfiggere Carlo, senza successo. Barbarossa non fu catturato e le scorrerie continuarono. Nel 1538 la flotta cristiana sconfitta al largo dell’Epiro dalla potenza ottomana. Quindi fu una situazione di continua precarietà. Inoltre le divisioni all’intero della stessa cristianità (Venezia voleva difendere e garantire la parte orientale del Mediterraneo, Carlo quella occidentale) non favoriva la compattezza necessaria a combattere gli ottomani. Nel 1541 Carlo organizzò una spedizione contro Algeri, ma partì tardi, in autunno, proprio per non incrociare la flotta ottomana, stanziata nei porti d’inverno: ma la natura fece il suo corso con le sue tempeste. In Italia il dominio spagnolo, consolidato, fu comunque oggetto di problemi. Francesco I tentò più volte di scardinare la politica spagnola, con l’aiuto del Barbarossa. Carlo doveva fare i conti anche con l’ambigua posizione del papa (da capo della cristianità era necessario l’appoggio contro i turchi, ma da sovrano territoriale, aveva interessi avversi a quelli universalistici di Carlo V), infatti Paolo III cercò sempre più autonomia: nel 1545 scisse i territori di Parma e Piacenza, eretti in ducato per il figlio Pierluigi Farnese, assassinato poi dal governatore spagnolo. La questione protestante è preminente. Lutero viene condannato come eretico, ma i principi territoriali sostennero la riforma. Essi infatti avevano enormi interessi nel sostenerla  abolendo il legame con Roma secolarizzavano tutti i beni della Chiesa, arricchendo e rafforzando i loro domini e indebolendo di conseguenza l’autorità dell’imperatore. Così i veri protagonisti della vita tedesca furono i principi territoriali che ottennero larghe autonomie. L’impegno di Carlo volge quindi nel tentativo ti favorire una conciliazione tra la chiesa riformata e quella di Roma. Ciò avviene nella Dieta di Augusta (1530) nella quale Melantone presentò una versione della riforma protestante molto moderata, ma il tentativo di conciliazione fallì. Carlo non aveva mezzi per imporsi con la forza, quindi fece pressioni sul pontefice per riunire un concilio che portasse ad una riforma della Chiesa e ad un rientro per le chiese che si erano staccate. Ma il papa era restio, anche se la conciliazione era attesa da tutti. E ormai era passato più di un decennio dalla rottura e intanto stavano emergendo nuovi protagonisti con la chiesa zwingliana e calvinista. Carlo con le varie guerre in corso non riuscì a concentrarsi sulla questione tedesca e religiosa. I principi si organizzarono nella Lega di Smarcalda e la contrapposizione diventò, oltre che religiosa, anche politica e militare. Un ultimo tentativo fu la Dieta di Ratisbona, fallita. Carlo questa volta si impegnò direttamente sul piano militare, vincendo sui principi luterani (quadro di Tiziano). Carlo sembrava sul punto di imporre la pacificazione religiosa sulla Germania. Nel 1545 il Concilio di Trento si era finalmente riunito, ma non si arrivò ad una conciliazione, anzi, l’abisso si era approfondito. I principiati territoriali tedeschi ormai erano consolidati nelle loro pretese. In Francia, Enrico II, si allea con i principi protestanti per battere Carlo che fugge precipitosamente. In cambio Enrico II ricevette i vescovati di lingua francese (Metz, Toul e Verdun): Carlo prese atto della rottura e delegò al fratello la contrattazione della pace di Augusta (1555) che vide riconosciuta la presenza della chiesa luterana su suolo europeo. Fu concesso solo ai principi di scegliere se essere cattolici o protestanti: i sudditi dovevano adeguarsi. È quindi una tregua tra le due confessioni, non una vera soluzione. Altra clausola è il reservatum ecclasiasticum: non era più possibile secolarizzare i beni di Roma passando alla riforma e diventando quindi principi di quei territori. Con la pace di Augusta si segna un fallimento nella politica di Carlo. L’idea di ripristinare l’unità del mondo cristiano era fallita. Egli quindi, già da tempo, meditava di abdicare. Rinunciò così ai Paesi Bassi (1555), in una cerimonia a Bruxelles alla presenza del figlio Filippo II, a cui viene lasciata la corona di Spagna (1556). La corona imperiale invece fu lasciata al fratello Ferdinando. (vedere testo sulle istruzioni lasciate nel 1548 da Carlo al figlio Filippo). Bilancio dell’esperienza di Carlo: Si parla di un’idea di unità europea (interpretazione un po' forzata). L’idea di impero, l’idea del ruolo superiore dell’imperatore del suo obbligo morale di mantenere la pace, l’unità religiosa: va letta in chiave laica, in chiave umanistica e Dantesca (De Monarchia). Oppure, come tende la storiografia spagnola, interpretare Carlo V come colui che prosegue la Reconquista attuata dai suoi nonni a difesa della cristianità. Nessuna di queste interpretazioni è soddisfacente  Lo scacchiere era molto ampio; le diverse sovranità di Carlo V implicavano azioni e obbiettivi diversi e a volte contrastanti tra loro. Egli di volta in volta si occupa di uno degli obbiettivi dei suoi domini ma spesso non riesce a portarle a termine per mancano risorse ma Manuale di Storia moderna Riassunto di di Vittorio Criscuolo Luciano Bramante 30 anche e soprattutto per la vastità dell’impero, che crea problemi che spesso si sovrappongono  es. si dimostra signore delle Fiandre nel 1525 quando obbliga Francesco I a cedergli la Borgogna, fa il Re di Spagna con le guerre ottomane, e incarna l’imperatore quando tenta di sanare l’unità religiosa. Un episodio significativo è nel 1544 quando, nel tentativo di pacificarsi con la Francia, doveva cedere o le Fiandre o Milano. Ma la rinuncia delle Fiandre era importante dal punto di vista dinastico. Milano però era fondamentale per i possedimenti spagnoli, e i consiglieri della corona spagnola spingevano in quel verso. Questo rappresenta un episodio emblematico per la condizione di Carlo. Lo scacchiere era troppo ampio, non aveva la forza finanziaria e quindi anche militare. Ma la sua gestione non la si può definire del tutto fallimentare. Infatti, lasciava al figlio un ricchissimo regno di Spagna, che grazie anche ai metalli preziosi provenienti dall’America, forniva enormi risorse, oltre che ai famosi tercios. La corona imperiale era prestigiosa ma priva di effettivo potere politico. I domini spagnoli, sotto Carlo, vengono anche estesi. Ma non bisogna considerare Carlo V come la rinascita dell’idea imperiale. Certo, la cerimonia dell’incoronazione papale apparve piuttosto fuori dal tempo, ma Carlo seppe anche essere un sovrano moderno. In Spagna fondò un’amministrazione centralizzata, che lascò al figlio. L’elemento di fondo è quello dinastico, ad unire l’Europa è il senso del patrimonio della famiglia Asburgo. Il suo potere era di dimensione dinastica, ed è l’aspetto prevalente. È significativo il fatto che, ormai stanco alla fine della vita, sia tornato alle origini, alla Borgogna, a Bruxelles. È la prima sovranità alla quale rinuncia, dandola al figlio. È qui che vuole dare un forte segnale di legame con la regione. L’abdicazione colpì i contemporanei, proprio per la volontà di lasciare le ansie e le apprensioni e il logorio del potere, per ritirarsi in un convento in Spagna e prepararsi alla morte. Questo ci dice anche, anche se egli fu sicuramente guidato nelle sue scelte dagli orientamenti politici (fu proprio un realista da quel punto di vista) ma era mosso da una profonda e sincera religiosità, chiave per comprendere molti aspetti della sua vicenda politica. LA CONTRORIFORMA A lungo il termine è stato usato per indicare la reazione del papato alla riforma protestante: inizialmente fu impiegato per indicare la riconquista forzata di territori passati alla chiesa protestante. Quindi una risposta politica in difesa del papato come istituzione, messa in discussione dai riformatori. La storiografia cattolica ha inteso imporre la nozione di “riforma cattolica”, parallelo alla controriforma ma autonomo. Infatti, secondo gli studi di Jedin, la voglia di rinnovamento era già presente nelle Chiesa cattolica, prima della riforma protestante. Quindi si deve parlare di riforme, al plurale. L’apertura degli archivi dell’Inquisizione (1998) ha ridimensionato questa interpretazione: emerge una dura lotta interna alla Chiesa tra le fazioni moderate e quelle intransigenti, in cui risultò prevalente la fazione intransigente, sfociando in un rafforzamento dell’istituzione papale e nella penetrazione dell’Inquisizione nella vita culturale e sociale. Alla luce di ciò va bene mantenere il concetto di Controriforma, anche se va riconosciuto l’approfondimento dalla storiografia cattolica. Lo studente deve interrogarsi su questa contrapposizione storiografica e valutare gli elementi che possono portare all’una o all’altra interpretazione. Già prima di Lutero si erano levate richieste di Riforma (Savonarola, Erasmo e la fioritura di nuovi ordini religiosi) quindi la nozione di Jedin appare giustificata in questo senso. Quando si aprì la spaccatura con le tesi di Lutero nel 1517, tutti guardavano alla necessità di un Concilio che ponesse intanto di fronte riformatori e cattolici per un dialogo, un confronto, e al contempo si riformassero quegli abusi da tempo denunciati da varie parti alla Chiesa. Lutero disse che l’unico luogo in cui avrebbe discusso le sue tesi sarebbe stato un Concilio, a 3 condizioni: Libero (senza l’autorità del papa), Cristiano (che tenesse conto delle sole sacre scritture) e in Germania. Lo stesso Carlo V cercò di far convocare un Concilio, facendo pressioni nel 1530 su Clemente VII. Manuale di Storia moderna Riassunto di di Vittorio Criscuolo Luciano Bramante 31 Ma perché il Concilio arrivò solo nel 1545 a Trento ? Sicuramente pesò la condizione di guerra europea tra la Francia e l’Impero. Il motivo principale fu la difficoltà del papato di richiedere un concilio a causa del timore che, come nei concili del XV, sarebbe stata messa in discussione l’autorità stessa del papa a favore delle dottrine conciliariste. (vedi Consilium de emendanda ecclesia 1537)  Commissione, richiesta da Paolo III, che mise a nudo i mali che travagliavano la Chiesa ai quali occorreva mettere mano, prima di confrontarsi con la riforma protestante. Questo documento denunciava e toccava direttamente le prerogative del papa: criticava la distribuzione dei benefici (come la vendita delle indulgenze appunto); dichiarava che non è lecito per il pontefice “procacciarsi guadagno di sorta”; denunciava nettamente l’ignoranza e l’impreparazione del clero; denunciava che i benefici venissero assegnati in base esclusivamente a interessi politici o finanziari (cruciale nelle idee di Lutero) e infine l’abuso dei cardinali a cui venivano conferiti uno o più vescovati. Ma questo documento non ebbe conseguenze. Paolo III, anche se promosse questa iniziativa, era molto impegnato nelle questioni politiche italiane e nel fare gli interessi della propria famiglia (Parma e Piacenza); dovettero quindi passare altri 8 anni per un Concilio. Nel frattempo le idee rivoluzionarie erano spesso pubblicate in anonimo e si diffusero anche in Italia (soprattutto Venezia), in tutti gli strati della società, dagli ecclesiastici e predicatori agli intellettuali e professionisti, nonché ai contadini. Un forte radicamento popolare ebbero le comunità anabattiste (radicatisi popolarmente in Veneto) e aderirono anche i valdesi. In un primo tempo la rottura non fu percepita come insanabile e molti speravano di ricomporre i dissensi sulla base di un rinnovamento della Chiesa che venisse incontro almeno ad alcune delle proposte dei riformatori. Si diffusero perciò posizioni non ben definite (sensibili alle istanze della Riforma ma non disposte ad una aperta rottura con Roma) e si manifestò la tendenza a gruppi clandestini. Molti italiani di rilievo, una volta evasi alla persecuzione, divennero personaggi importanti dei territori riformati. Ci fu anche una diffusione di idee di spiritualità religiosa che aveva una sua specificità che, sviluppando soprattutto gli aspetti spirituali della fede (tradizione umanistica), li portava a staccarsi dalle varie confessioni religiose, seguendo una strada diversa  importante fu la figura di Juan de Valdés che, fuggito dalla Spagna, si recò a Napoli, dove creò un circolo di suoi seguaci, di forte impronta aristocratica, frequentato da personaggi come Giulia Gonzaga e anche da altri prelati come Reginald Pole, che si legarono a questa dottrina imbevuta di spiritualità. Valdes predicava una diretta illuminazione di Dio, amore mistico che lo stacca da tutte le cose materiali. Quindi svanisce completamente la necessità di organizzazione di una Chiesa: l’individuo parla direttamente con Dio, superando le stesse sacre scritture. Di qui la completa indifferenza nella cerimonia esteriore. Ciò che contava era la fede profonda,  atteggiamento nicodemitico. Alcuni dei suoi seguaci finirono sul rogo (Carnisetti), ma quando qualcuno di loro si recò nell’Europa protestante, la loro formazione si scontrò con l’organizzazione delle chiese e la loro rigorosa dell’ortodossia. Quindi questi gruppi SPIRITUALI diventarono eretici due volte, per entrambe le fazioni; e non mancarono contrasti. In questo contesto si inseriscono le critiche a Calvino dopo l’esecuzione di Miguel Serveto. Uno dei loro principali temi era la tolleranza, di ascendenza erasmiana: non si usa la violenza in materia di fede; questo urtava con l’intransigenza calvinista. Infatti la fiammella della tolleranza religiosa si sviluppa in questi gruppi spirituali (Sozzini). La diffusione della Riforma protestante in Italia suscitò molto allarme u po’ ovunque. Di qui anche l’esigenza di una risposta da Roma e la spinta per avere un Concilio. Ma quando si aprì il Concilio di Trento ormai tutti i tentativi di dialogo, spinti da Carlo V, erano falliti (Pace di Augusta, Dieta di Ratisbona, 1541). Contarini in quelle occasioni cercò disperatamente un accordo ma fallì, morendo prima del concilio, nel 1542. Quando si aprì il concilio, anche se l’Italia era già “inquinata” dalla riforma, era passato troppo tempo e, essedo falliti tutti i precedenti tentativi di dialogo, il solco era ormai insanabile. Infatti proprio per reagire alla Riforma, a Roma, su spinta di Carafa, nell’estate del 1542 , Manuale di Storia moderna Riassunto di di Vittorio Criscuolo Luciano Bramante 32 In definitiva dal concilio iniziò un percorso che, attraverso l’età moderna, nel 1870, al concilio Vaticano, porterà all’affermazione dell’infallibilità del papa. Questa è una linea di sviluppo che la Chiesa cattolica che sfocia nel 1870 e che influenza gli sviluppi successivi: oggi le questioni aperte dal Concilio vaticano II (1959), e poi riaperte con le dimissioni di Ratzinger e il conseguente pontificato di Francesco, fortemente riformatore, riguardano proprio la centralità del ruolo della curia e l’organizzazione e le competenze dei vari organi ecclesiastici. Oggi arrivano molte resistenze dagli organi centrali al papa, che tende a rivalutare il ruolo dei vescovi e delle chiese locali e nazionali. Ma come si muove il corpo della Chiesa? Anche qui il concilio apre una fase nuova. Quella modernità religiosa, quell’’individualizzazione del sentimento religioso, per certi versi drammatico di dialogare con l’angoscia della propria coscienza, si propone in forme diverse  la religiosità muta: si approfondisce nella coscienza dell’individuo. Questo avviene proprio grazie all’opera del concilio. Il sacramento centrale in questo fu la confessione. I Gesuiti furono grandissimi confessori, in grado di guidare le coscienze individuali. La confessione fu certamente l’arma più efficace contro la Riforma. Il protestante infatti, difronte all’angoscia della solitudine, trovava la salvezza solo nelle Sacre scritture; nel cattolico la consolazione della coscienza avviene nel sacramento della confessione. La confessione presenta un duplice aspetto: oltre a rappresentare la consolazione, diventò anche uno strumento di controllo, l’orecchio attraverso il quale la Chiesa conosceva gli orientamenti sentimenti della massa dei fedeli. Il sacerdote diventava un giudice, dietro il quale si stagliava l’Inquisizione: chi confessava di aver letto libri proibiti non riceveva la soluzione ma era invitato a denunciare l’inquisitore la provenienza dei libri, le circostanze e gli eventuali complici. Molti processi inquisitoriali nacquero da questi autodenunce. La confessione era anche un’apertura verso un nuovo approccio con la fede: si affermava la comunione frequente, grazie ai gesuiti. Si affermò come una consuetudine nel mondo cattolico, una costante presenza del sacramento nella vita del cristiano, in cui trovata consolazione. Anche questo è un elemento di modernità, di rinnovamento (Riforma). Dopo l’Inquisizione cambiarono profondamente le cose: si esaurì lo spazio per i gruppi rinnovatori che avevano sperato un dialogo con i protestanti. Personaggi come Erasmo svaniscono. Coloro di ascendenza erasmiana, compresi i prelati, speranzosi in un’unita cristiana, devono gettare la spugna. Gli spazi di dialogo sono esauriti. Una volta estirpata l’eresia, la chiesa si concentrò sul controllo sociale e culturale delle masse. L’età della Controriforma infatti ha pesato profondamente sull’Italia: il disciplinamento della società, con i suoi processi inquisitoriali, portò a galla vecchie credenze magiche, diritti pagani e superstizioni, diffuse nella popolazione. Si intensificò la lotta contro la stregoneria, che interessò tutta Europa, sia nei paesi cattolici sia in quelli protestanti, che fu condotta anche dalle autorità laiche. L’attenzione a questi fenomeni si sviluppò quindi in un più ampio disegno di controllo e di omologazione della cultura popolare che, attraverso una penetrante opera di indottrinamento delle masse (predicazioni, grandi spettacoli e la forza persuasiva di grandi cerimonie), impose un modello di morale coerente con la Controriforma. Per quanto concerne l’alta cultura, l’Inquisizione combatté tutti gli aspetti dell’eredità umanistico- rinascimentale: attraverso l’Indice dei libri proibiti, l’autorità ecclesiastica colpì le opere filosofiche e culturali (Galileo, Erasmo, Bruno) che contrastavano la dottrina cattolica. Emblematiche le vicende di Giordano Bruno (bruciato sul rogo) e Galileo Galilei (costretto ad abiurare). Gravida di conseguenze fu l’opposizione alla circolazione della Bibbia in volgare (inserita tra i libri proibiti). Il concilio di Trento dichiarò che il cristiano deve attenersi alla parola di Dio solo per mezzo dell’autorità ecclesiastica. Non c’è libertà di interpretazione: la parola di Dio poteva passare solo tramite la mediazione del clero, le masse italiane furono indirizzate verso una religiosità attenta soprattutto agli aspetti esteriori e grandiosi del culto ma povera di autentica, vissuta spiritualità. Manuale di Storia moderna Riassunto di di Vittorio Criscuolo Luciano Bramante 35 FILIPPO II (1556-1598) E L’ORIGINE DELLE GUERRE DI RELIGIONE A partire da Filippo II si può considerare questa età come delle guerre di religione, che terminò alla fine della guerra dei 30 anni (1648). Infatti in questo periodo si fronteggiarono le forze cattoliche contro quelle protestanti. Le questioni religiose si intrecciarono ai programmi politici. Con l’affermazione della Controriforma il papato si rafforzò, ottenendo il primato nel mondo cattolico. La politica della Controriforma sviluppò un’aggressiva iniziativa politico-religiosa che farà sentire i suoi effetti in Italia, che è sede esclusiva dell’Inquisizione romana. Ciò non fu privo di tensioni con gli stessi sovrani cattolici, gelosi della loro autorità, poiché Roma, con le sue iniziative, rischiava di limitare in maniera significativa questa sovranità. Non c’è da sorprendersi che in Francia i Decreti di Trento non furono pubblicati, se non nel 1616 da un’iniziativa unilaterale del clero francese, proprio per quella tendenza a mantenere le tradizionali autonomie della chiesa gallicana. Può sorprendere invece la riluttanza della Spagna ad accettare alcune decisioni del papa che ledevano l’autorità del sovrano; infatti i decreti conciliari furono pubblicati insieme a una clausola che affermava che essi non potevano limitare l’autorità del sovrano. Ancora più eclatante è la mancata ricezione dei Decreti nel S. R. I., dove ormai, dopo la pace di Augusta, l’autorità imperiale era stata di fatto limitata e svuotata di senso dai principi territoriali. Nel mondo protestante si affermò soprattutto l’attivismo calvinista, mentre il luteranesimo si limitò agli stati tedeschi e, dopo qualche influenza nei paesi scandinavi, arrestò la sua espansione. L’ala marciante fu appunto il calvinismo: a Ginevra si formavano pastori, inviati poi in Europa a creare chiese sul modello di Calvino. In Inghilterra con lo Scisma di Enrico VIII (Atto di supremazia, 1534) la chiesa anglicana non Manuale di Storia moderna Riassunto di di Vittorio Criscuolo Luciano Bramante 36 riconosceva più l’autorità di Roma, ponendosi sotto la guida del sovrano, che ne diventava il capo (questo comportava che ad ogni successione al trono si poteva realizzare un cambiamento di rotta religiosa: Maria la Cattolica è un esempio). Con Elisabetta I (figlia di Enrico VIII e Anna Bolena) si raggiunse un equilibrio che stabilizzò la Chiesa anglicana in una posizione intermedia, ovvero che aderiva ad alcuni aspetti della riforma protestante ma, in maniera un po’ eclettica, non prendeva una posizione netta: fuse molti aspetti in una chiesa ibrida (rimase la struttura vescovile cattolica ma mantenne il Book of common prayer). All’inizio del suo regno ella si mosse con molta prudenza; la sua collocazione nello schieramento protestante era obbligata perché figlia di un matrimonio non riconosciuto da Roma: agli occhi dei cattolici era quindi una sovrana illegittima; infatti, quando nel 1570 il papa la scomunicò, apparve chiara l’inconciliabilità tra l’assetto della chiesa anglicana e quella cattolica  inevitabilmente l’Inghilterra si pose, anche se con prudenza, come un punto di riferimento per le forze protestanti. Grazie alla crescita economica e navale divenne un punto di riferimento internazionale protestante contro l’offensiva soprattutto della Spagna di Filippo II. Con le abdicazioni (1556) Carlo V lasciò al fratello la corona imperiale e al figlio, Filippo, la Spagna più tutti i possedimenti: le Fiandre, i domini italiani e le colonie americane. Filippo II quindi ricevette la parte più solida e ricca e si pose in continuità con il padre, anche se la sua personalità era molto diversa. Egli sposò Maria la Cattolica nel 1554 (figlia di Enrico VIII, regina d’Inghilterra) che le portò il supporto inglese, ma solo fino alla sua morte (1558). La sua politica ebbe inizialmente qualche successo: Filippo II portò a compimento le guerre per il predominio europeo che si erano fermate (tregua di Vaucelles –di 5 anni), sconfiggendo Enrico II (figlio di Francesco I) nella battaglia di San Quintino ( 1557 ) e ottenendo la pace di Cateau Cambresis ( 1559 ) che sancì, in Italia in particolare, il predominio spagnolo (a garanzia della pace Filippo sposò la figlia di Enrico, Isabella di Valois). La politica italiana era ormai marginale nello scacchiere europeo, ma non va dimenticato il papa Paolo IV Carafa che, mentre all’interno si scagliava nella lotta all’eresia con la Spagna, sul piano internazionale si schierò contro la Spagna, come punto di riferimento per la Francia. Il baricentro si era ormai spostato verso nord, nelle Fiandre (come dimostra Cateau Cambresis). Anche nel Mediterraneo la sua politica seguì la linea del padre. Nel 1571 a Lepanto , Filippo II, con Venezia e altre potenze cristiane, sconfisse a la flotta ottomana , segnando l’arresto dell’espansione ottomana nel Mediterraneo. In quest’occasione emersero i contrasti tra Venezia (che mirava a ripristinare il suo ruolo nel Mediterraneo orientale e a contrastare l’attacco ottomano a Cipro, a cui però poi dovette rinunciare con un trattato coi turchi) e la Spagna che invece aveva interesse a tutelare il Mediterraneo occidentale: alla fine, il successo non fu sfruttato fino in fondo. Lepanto fu l’ultima grande battaglia navale secondo le forme tradizionali (abbordaggio). I cristiani trionfarono per la superiorità dell’equipaggiamento e nell’abilità nell’uso delle armi da fuoco. Successivamente, con la marineria a vela e potenti batterie di cannone, le battaglie navali si basarono più sull’affondamento a distanza. Altro successo avvenne quando ottenne il controllo del Portogallo , dove intervenne con le armi rivendicando diritti del suo primo matrimonio . Con l’unificazione delle corone (di circa 60 anni), anche se il Portogallo mantenne la sua autonomia, l’impero coloniale portoghese fu esposto agli attacchi dei nemici della Spagna (Olanda e Inghilterra), causando quel malcontento che 60 anni dopo portò alla separazione. Anche nella struttura amministrativa emerge una certa continuità: il sistema di consigli di Carlo V venne mantenuto e solo leggermente coretto  Vi erano diversi consigli nei quali venivano prese le decisioni più importanti: erano sia organi consultivi che rappresentativi. Filippo II mostrò continuità col padre anche nei confronti della grande aristocrazia, confinandola: il re prendeva le decisioni in un organo più ristretto (come le altre monarchie europee)  il tipico centralismo della monarchia spagnola si affermò anche con Filippo. I quadri dell’amministrazione erano composti da giuristi formati in università spagnole e non venivano impiegati uomini delle grandi casate aristocratiche. Le differenze col padre emergono invece nella struttura decisionale: sotto Carlo V era semplice; con Filippo invece si burocratizza molto. Infatti, tutta l’enorme massa di carta di documentazioni e richieste Manuale di Storia moderna Riassunto di di Vittorio Criscuolo Luciano Bramante 37 In Francia la pace di Cateau Cambresis (1559) durò perché stava iniziando un periodo di guerre civili che impedirono alla corona di riprendere i conflitti europei anti-asburgici. Le guerre di religione furono innescate da un fatto occasionale. Già sotto Enrico II si era realizzata una notevole diffusione delle idee calviniste nelle regioni a sud della Bretagna, fino alla Navarra francese e ai confini con il Piemonte. I calvinisti francesi, gli ugonotti, erano un numero significativo e si stavano dando un’organizzazione (1559 a Parigi si riunisce clandestinamente il 1° sinodo delle chiese riformate francesi), in continuo contatto con Calvino a Ginevra. Quindi già sotto Enrico II si era sviluppata una politica repressiva, anche se machiavellica perché mentre sul territorio era impegnato a reprimere l’eresia, non esitò ad allearsi con i principi protestanti contro Carlo V. Gli ugonotti trovarono proseliti principalmente nelle grandi città, fra professionisti e commercianti, ma si giovarono soprattutto di una massiccia adesione dell’altra aristocrazia (più di 1/3 fra i nobili). Non c’è dubbio che la religione riformata fu per la nobiltà francese, reduce della lunga guerra europea, un'occasione per approfittare della debolezza della monarchia e riconquistare e consolidare il proprio primato sociale. Si schierarono con i calvinisti la regina di Navarra, Giovanna d’ Albret e la famiglia aristocratica Montmorency Chantillon, a cui apparteneva il capo politico degli ugonotti, l’ammiraglio de Coligny. A difesa dell’ortodossia cattolica era invece schierata la potente famiglia dei Guisa. Nel 1559 a Enrico II successe il figlio Francesco II, sedicenne, sposato con Maria Stuart; in questo periodo il governo fu nelle mani del duca di Guisa, zio della regina. Morto Francesco dopo appena un anno, salì al trono il fratello Carlo IX (1560-1574), che aveva appena 10 anni, per cui il potere fu assunto come reggente della madre Caterina de Medici, che essendo straniera, indebolì ulteriormente agli occhi dei principi la monarchia. Proprio in questo anno si aprono gli Stati Generali d’Orleans (1560), dove nel discorso di Michel de l’Hopital (documento Ariel) viene illustrata la politica di Caterina che, donna abile e astuta, cercò di mantenere solida la monarchia, inserendosi in un delicato equilibrio tra le fazioni protestanti (ugonotti) e cattoliche (nobili di Guisa), in attesa della maggior età dei figli che avrebbe poi rafforzato l’istituto regio. La politica di Caterina De Medici inizialmente la portò a fare delle concessioni agli ugonotti (culto privato entro le mura urbane e libero fuori dalle mura). Questo suscitò la violenta reazione cattolica, culminata nel Massacro di Vassy (1562) guidato dal Guisa. Allora Caterina per bilanciare il potere dei Guisa appoggiò i protestanti, (1570 pacificazione di Sant-Germain) garantendogli delle piazzeforti (La Rochelle). L’ammiraglio di Coligny entrò nel consiglio dove acquisì una certa influenza su Carlo IX. A conferma del peso politico del partito ugonotto vi fu il matrimonio tra Enrico di Borbone re di Navarra (leader del movimento calvinista), figlio di Antonio di Navarra, e la sorella del Re, Margherita . Non sfugga che nel frattempo la Spagna sta intervenendo nei Paesi Bassi per schiacciare la rivolta, e Coligny sembrava voler dare alla politica estera un indirizzo anti-spagnolo, quindi la faccenda assunse un risvolto internazionale. Non a caso la Spagna si accordò con Caterina, la quale era tuttavia intimorita dalla politica calvinista e dalla loro crescente influenza (per questo la sua politica venne incolpata di essere macchiavellica). La reazione dei Guisa alla politica di Coligny, con il tacito benestare di Caterina, sfociò in un massacro dei calvinisti nella Strage di San Bartolomeo (1572) a Parigi, che era colma di calvinisti per le nozze tra Enrico di Borbone e Margherita. La strage si propagò da Parigi ad altre parti della Francia. Enrico di Borbone si salvò convertendosi al cattolicesimo Questo evento, così tragico, provocò la radicalizzazione delle posizioni: si affermarono, in entrambe le fazioni, le teorie dei “monarcomachi”, che giustificavano la resistenza al tiranno, affermando il diritto di deporre e perfino uccidere i sovrani che opprimessero la vita religiosa dei Manuale di Storia moderna Riassunto di di Vittorio Criscuolo Luciano Bramante 40 sudditi (che avverrà con Enrico III ed Enrico IV). Si sviluppò però anche un orientamento che aspirava alla pacificazione del regno: nacque così il partito dei politiques, cattolici moderati che individuarono l’unica via d’uscita dalle guerre civili in un rafforzamento della monarchia; tra questi spicca Jean Bodin che pubblica I Sei Libri sullo stato, dove viene espresso il concetto moderno di monarchia, dove il monarca può imporre ai suoi sudditi una legge senza il loro consenso. Alla morte di Carlo IX, con la successione di Enrico III (1574), iniziò l’ultima fase: La guerra dei 3 Enrichi, che vide contrapposti il re Enrico III, Il capo della lega Enrico di Guisa ed Enrico di Borbone, che, fuggito, era tornato alla fede calvinista e si mise a capo della fazione ugonotta. In questa parte vediamo il trionfo dell’assassinio politico. Enrico III decise di liberarsi dallo strapotere della lega, sostenuta dalla Spagna, e fece uccidere Enrico di Guisa, alleandosi poi con Enrico di Borbone e ponendo d’assedio Parigi (1589). Fu però a sua volta assassinato da un frate domenicano. Prima di morire indicò come successore Enrico di Borbone  Enrico IV. La presenza di un calvinista sul trono di Clodoveo era una novità inaudita. La Spagna entra in soccorso dei cattolici, ma con abilità Enrico IV si pose come garante dell’unità nazionale, poiché i francesi vedevano nell’intervento spagnolo un tentativo di dominazione. Enrico venne quindi accettato da gran parte della popolazione e, convertendosi al cattolicesimo (cerimonia a Chartres, non a Reims, 1594), fece cadere l’esigenza di combattere un re eretico e venne accolto anche da Parigi e fu accettato anche dal papa. Enrico poté così scacciare gli spagnoli sconfiggendo Filippo II e firmando la pace di Vervins, che ribadiva le clausole della pace di Cateau Cambresis. Nello stesso anno emana l’Editto di Nantes del 1598 (Documento Ariel), che pose fine alle guerre di religione; il cattolicesimo fu riconfermato religione dello Stato ma i calvinisti ottennero libertà di culto e di coscienza; a garanzia gli ugonotti si videro riconosciuto il possesso di un centinaio di piazzeforti. Era una novità assoluta poiché questa volta la libertà di coscienza veniva garantita agli individui, e non ai sovrani, come nella pace di Augusta. Infatti l’editto non fu una pace ma una tregua che lasciò le cose com’erano. In Inghilterra da tempo Elisabetta era a sostegno delle forze protestanti. Ella venne dichiarata illegittima e scomunicata nel 1570 dal papa, causando il suo deciso sostegno ai Paesi Bassi e agli Ugonotti in Francia. Sul piano commerciale inizia l’ascesa navale dell’Inghilterra, che esercitava una guerra di corsa contro i galeoni spagnoli (Francis Drake). Era una guerra in atto, di fatto tra Inghilterra e Spagna. Filippo II cercò invano più volte prendere la mando di Elisabetta in nome del legame dinastico con Maria la Cattolica, ma la regina rifiutò sempre. Il conflitto esplose apertamente con l’esecuzione di Maria Stuart, che nel frattempo era diventata regina di Scozia, paese che intanto era passato al calvinismo e che quindi cacciò la regina che si rifugiò da Elisabetta. Ma Maria, per motivi dinastici, era anche una pretendente cattolica al trono inglese, quindi fu accusata di intrigo e giustiziata da Elisabetta. Quest’esecuzione fu l’occasione per aprire il conflitto fra l’Inghilterra e Spagna. Quindi Filippo II organizzò l’Invincibile Armada per controllare la Manica. Ma questa flotta non riuscì a congiungersi con quella di Alessandro Farnese che partiva dalle Fiandre. Le navi inglesi, più piccole, riuscirono a scacciare gli spagnoli che, costretti a circumnavigare l’Inghilterra, tornarono con solo 60 galeoni dei 130 iniziali (1588). L’intervento spagnolo fallito in Francia e culminato con la pace di Vervins, segnò la fine delle pretese della Spagna sui domini francesi. Ma il risvolto peggiore fu sul piano interno, dove la situazione finanziaria era drammatica. Già nelle Cortes, nel 1595, si segnalava che il tesoro che arrivava dall’America finiva in altri paesi per acquistare prodotti di lusso e manifatture poiché le produzioni interne erano in forte crisi per le spese di guerra o finiva a garanzia dei prestiti ottenuti dai finanzieri, spesso genovesi. La crisi si aggravò sotto i successori di Filippo. Manuale di Storia moderna Riassunto di di Vittorio Criscuolo Luciano Bramante 41 16 – LA GUERRA DEI TRENT’ANNI Premesse: La pace di Augusta (1555) e l’editto di Nantes (1598) erano concepiti come tregue da entrambe le parti. Si era preso atto di dover tenere distinti gli assetti politici dalle divisioni religiose, ma restava la convinzione generale che non fosse possibile l’unità politica senza l’unità di fede. I cattolici in particolare erano animati dalla volontà di riconquistare gli spazi perduti. 16.2 – LA FRANCIA DA ENRICO IV AL CARDINALE RICHELIEU Pacificata la Francia, Enrico IV si accinse con energia alla ricostruzione, rafforzando la struttura amministrativa e limitando i poteri dei governatori. Regolò in maniera definitiva l'annosa questione delle venalità delle cariche: con un editto del 1604 gli officers ebbero riconosciuta l’eredità degli uffici  dando la sanzione formale della formazione di una nobiltà di roba o di toga. Al suo assassinio (1610) il figlio, Luigi XIII, aveva solo 9 anni, e la reggenza fu affidata alla moglie Maria de Medici. Ovviamente nel momento di debolezza della monarchica la grande nobiltà si mosse per rivendicare il suo ruolo e impose alla reggente la convocazione degli Stati generali che si riunirono nel 1614-15. Maria nel 1616 affidò il potere a un favorito toscano, Concino Concini, che diede alla politica estera un indirizzo filospagnolo, scelta sostenuta dal partito dei devoti (cattolici). A questa linea si opponevano quanti ritenevano indispensabile proseguire la politica antiasburgica abbozzata de Enrico IV. In un clima di incipiente guerra civile Luigi XIII decise di prendere le redini del potere: nel 1617 fece assassinare il Concini e confinò Maria nel castello di Blois. In questa fase si impose un giovane vescovo, Armand-Jean duca di Richelieu, distintosi durante i lavori degli Stati generali. Egli assunse un ruolo di mediatore del dissidio fra il re e sua madre, guadagnandosi la fiducia di Luigi XIII e divenendo in breve il principale responsabile della politica francese. Maria, dopo vari tentativi, nel 1630 fuggì nei Paesi Bassi spagnoli. Richelieu pose fine all’opposizione della nobiltà feudale, guadagnandosi il sostegno delle città e dei ceti produttivi incentivando il commercio e affrontò il problema degli ugonotti i quali, grazie alle garanzie Manuale di Storia moderna Riassunto di di Vittorio Criscuolo Luciano Bramante 42 evangelica. Divenne inevitabile lo scontro tra i due. Inoltre dall'esito del conflitto dipendeva la composizione della Dieta elettorale, nella quale hai tre elettori cattolici (arcivescovo di Treviri, Colonia e Magonza) si contrapponevano i tre principi protestanti di Sassonia, Brandeburgo e Palatinato; se questo ultimo avesse avuto anche la corona boema i cattolici sarebbero restati in minoranza. La risposta cattolica fu quanto mai pronta: mentre un esercito spagnolo invadeva il Palatinato, l'esercito imperiale e quello del duca di Baviera sottomisero i territori austriaci e quindi sconfissero gli insorti nella battaglia della Montagna Bianca (1620), presso Praga. Federico V fu costretto a fuggire nei Paesi Bassi e nel 1623 fu privato del suo stato e della dignità di principe elettore. Le province ribelli furono sottoposte a un processo di ricattolicizzazione forzata: i nobili che non vollero convertirsi dovettero emigrare e abbandonare le loro terre. Si determinò così una redistribuzione di proprietà terriere a favore della nobiltà cattolica. Infine nel 1627 Ferdinando cancellò la tradizionale autonomia del regno di Boemia: la corona fu resa ereditaria e le prerogative degli Stati drasticamente ridimensionate. 16.11 – GUERRA DEI TRENT’ANNI: LA 2° FASE (DANESE) Con la destituzione dell'elettore palatino i rapporti nella Dieta erano pericolosamente sbilanciati a favore dei cattolici. Si aggiunse nel 1625 la decisione di Ferdinando di dare al duca di Baviera la dignità elettorale del Palatinato. La Sassonia allora chiese aiuto al re di Danimarca Cristiano IV, luterano e parente di Federico V. Nel 1625 egli passò il fiume Elba ma fu sconfitto dagli eserciti della lega cattolica. Decisivo il contributo di Wallenstein, nobile boemo convertito al cattolicesimo che si pose al servizio degli Asburgo. Egli ottenne estesi territori confiscati ai protestanti dopo la vittoria della Montagna Bianca e costituì in Boemia settentrionale un proprio dominio, del quale fu investito con il titolo di duca di Friedland. Wallenstein fu il più famoso tra gli imprenditori della guerra e armò un esercito di 24.000 uomini. Sconfitto, Cristiano vide i suoi territori invasi anche dalle truppe bavaresi e dovette firmare la pace di Lubecca (1629). Anche la seconda fase della guerra si concluse con la vittoria cattolica. A Ferdinando II sembrò quindi giunto il momento per una resa dei conti con i protestanti: nel 1627, sulla base della pace di Augusta, impose la restituzione dei beni secolarizzati dopo il 1552 (voleva riportare il tempo indietro di 80 anni) e obbligò i protestanti dei territori cattolici a convertirsi. 16.12 – GUERRA DEI TRENT’ANNI: LA 3° FASE (SVEDESE) A difesa della causa protestante ma soprattutto per perseguire l'egemonia sul Baltico intervenne nel 1630 Gustavo II Adolfo, che ottenne l'alleanza della Sassonia e del Brandeburgo, e fu sostenuto dall'aiuto finanziario della Francia. Wallenstein era uscito di scena, ritiratosi nei suoi domini. Gustavo Adolfo, penetrato in Pomerania, ottenne una serie di successi con rapidi spostamenti e attacchi fulminei (nacque la leggenda del “leone del Nord”). Mentre un esercito sassone occupava la Boemia, egli sconfisse le forze imperiali (1631) e si aprì la strada verso la Germania meridionale: occupò Magonza, Treviri e Colonia, quindi penetrò nell’Alsazia ed entrò a Monaco di Baviera costringendo il duca alla fuga. La Spagna inviò truppe a sostegno ma così facendo si espose all'offensiva delle Province unite che ottennero importanti successi e posero sotto assedio Maastricht. Ferdinando II richiamò Wallenstein nominandolo comandante supremo con pieni poteri. Questi mise insieme un esercito di 100.000 uomini, scacciò i sassoni dalla Boemia e affrontò Gustavo II Adolfo. Lo scontro a Lützen (1632) si risolse in una vittoria svedese. Nella battaglia però perse la vita Gustavo Adolfo. La guerra passò quindi nelle mani del cancelliere, reggente in nome della figlia di Gustavo Adolfo, Cristina. Il cancelliere svedese si pose a capo di una coalizione di principi tedeschi. Intanto si acuiva a Vienna la diffidenza nei confronti di Wallenstein, che fu assassinato (1634). Nel frattempo la guerra volse in favore degli eserciti imperiali e spagnolo che sconfissero gli svedesi (1634). A questo punto la Sassonia e il Brandeburgo decisero di uscire dal conflitto stipulando con l’imperatore la pace di Praga (1635) in cambio della sospensione dell’editto di restituzione. Restavano in armi solo le truppe svedesi. Il cancelliere svedese si accingeva ad avviare trattative di pace quando la Francia decise di entrare nel conflitto (1635). Manuale di Storia moderna Riassunto di di Vittorio Criscuolo Luciano Bramante 45 16.13 – GUERRA DEI TRENT’ANNI: LA 4° FASE (FRANCESE) L’intervento francese mutò molto decisamente la natura della guerra: non si trattava più di una guerra civile tedesca per motivi di religione, ma di una ripresa dello scontro fra gli Asburgo e la Francia . Perciò Richelieu, pur essendo un cardinale cattolico, non esitò ad appoggiare i principi protestanti. Al suo fianco combatterono la Svezia e le Province unite, sempre impegnate contro la Spagna, che nel frattempo dovette affrontare alcune gravissime crisi interne. Infatti, fallita l’Unione de las armas, fu costretta ad un ulteriore inasprimento della pressione fiscale. Nel 1640 ci fu la rivolta dei catalani. Nel 1641 la Catalogna si pose sotto la protezione della Francia (ciò portava effetti gravi poiché il regno catalano era in prima linea nella guerra con la Francia sui Pirenei). Anche la nobiltà portoghese insorse e proclamò l’indipendenza del Portogallo, affidando la corona a Giovanni IV Braganza. Preso atto del fallimento il Guzmán fu licenziato da Filippo IV nel 1643. Il governo di Madrid dovette dichiarare una nuova bancarotta nel 1647 e fronteggiare anche le rivolte di Napoli e Palermo. 16.15 – GUERRA DEI TRENT’ANNI: LA PACE DI VESTFALIA Il corso della guerra divenne progressivamente sfavorevole agli Asburgo.  1637 – gli olandesi avevano ripreso Breda e avevano tagliato la via di Spagna (da Milano a Bruxelles)  1639 – battaglia delle Dune: importante vittoria sul mare degli olandesi  1643 – i francesi sconfiggono i formidabili tercios spagnoli  1648 – pace di Vestfalia: stipulati fra le varie potenze dei trattati (Francia e impero; Svezia impero; province unite e Spagna); non trattarono Francia e Spagna che infatti proseguirono fino al 1659.  La Spagna riconobbe l’indipendenza delle Province unite e le loro acquisizioni territoriali.  La Francia mantenne vescovati di Metz, Toul e Verdun.  La Svezia ottenne la parte occidentale della Pomerania, mentre quella orientale fu acquisita con il vescovato di Magdeburgo dall’elettore del Brandeburgo.  L’impero portò al 1624 il limite, sanando così le secolarizzazioni dei beni ecclesiastici avvenuti fino a quella data, dopo la quale invece sarebbe rimasto l’obbligo di restituzione per i principi passati alla riforma. Le concessioni della pace di Augusta furono estese ai calvinisti.  La Baviera ottenne l'Alto Palatinato e mantenne la dignità elettorale  Il Basso Palatinato fu assegnato al figlio di Federico V, Carlo Ludovico I, al quale fu restituito il titolo di elettore. I membri del collegio elettorale salirono così a otto. Il rifiuto del papa Innocenzo X di riconoscere i trattati di pace evidenziò la crisi del ruolo internazionale del papato. La guerra dei trent’anni segnò anche il fallimento del tentativo di Ferdinando II di rafforzare la corona imperiale (ai principi fu riconosciuto il diritto di fare alleanze e di promuovere guerre purché non rivolte all’imperatore). Egli non poteva fare guerra e stipulare paci, né imporre tasse senza il consenso della Dieta. Restava la terribile eredità di un conflitto segnato da brutalità e violenze, che aveva distrutto risorse e aveva portato allo stremo le condizioni della popolazione. Indice significativo sono i dati sull’andamento demografico: la Germania perse probabilmente quasi un terzo della popolazione. Manuale di Storia moderna Riassunto di di Vittorio Criscuolo Luciano Bramante 46 LE RIVOLUZIONI INGLESI Con la morte di Elisabetta I si estingue la dinastia Tudor, sale quella Stuart con Giacomo I nel 1603, già re di Scozia come Giacomo VI (figlio di Mary Stuart). Si crea solo un’unione dinastica tra i due regni, unificati successivamente nel 700’. Le questioni che si sviluppano nel corso del 600’ sono due:  ISTITUZIONALE: concerneva il ruolo del Parlamento poiché la prerogativa era di rafforzare la monarchia; soprattutto di avere un apparato finanziario che si potesse affrancare dal consenso del Parlamento. Si cercò quindi di attuare una svolta di tipo assolutistico e si scontrarono con il Parlamento. Esso era diviso in due rami: La Camera Alta (Lord), in cui sedeva la nobiltà titolata e gli esponenti della chiesa anglicana, e la Camera Bassa (Comuni), elettiva a suffragio censitario. La funzione fondamentale del Parlamento era votare per l’imposizione di imposte e, come in tutti i paesi occidentali in età moderna, giocava un ruolo fondamentale questo dualismo istituzionale. Sulla questione delle imposte quindi avviene lo scontro con la corona. La struttura parlamentare è simile a quella attuale, ma bisogna evitare una connotazione troppo contemporanea poiché essa era più una riunione di interessi privati, che contrattavano con il re per dargli il sostegno finanziario. Non era il centro della vita politica dello stato, dove si discutevano le grandi questioni. Erano assemblee convocate e sciolte secondo il desiderio del sovrano. Dopo la Rivoluzione divenne il centro politico del paese. Nel corso del 500’ era molto accresciuto il ruolo della Camera dei Comuni (fondamentali nello scontro di Enrico VIII con Roma).  RELIGIOSA: La svolta avvenne grazie allo scisma di Enrico VIII. La situazione era particolare. Era uno scisma senza eresia ma sotto Edoardo VI ed Elisabetta I raggiunse un’identità protestante, nonostante mantenesse alcune peculiarità tra cui la struttura vescovile (non aveva aderito alle organizzazioni gerarchiche protestanti). D’altra parte era una posizione di SINCRETISMO, ovvero una posizione di fatto Manuale di Storia moderna Riassunto di di Vittorio Criscuolo Luciano Bramante 47 che si sentivano chiamati da Dio. Carlo nel 1646 dovette arrendersi agli scozzesi, che l’anno seguente lo consegnarono al Parlamento dietro pagamento. Si chiude così la prima fase della guerra civile. Si apre la 2° fase: nessuno pensava che si potesse fare a meno della monarchia, si poneva quindi il problema dell'accordo con il re. Questo compromesso risultò impossibile intanto per la resistenza opposta da Carlo I ma soprattutto a causa delle divisioni nel fronte puritano. Emersero intanto le profonde differenze del movimento puritano: la maggioranza in Parlamento era detenuta dai presbiteriani (richiamo alla Chiesa di Scozia), calvinisti austeri e intransigenti, che, essendo stati aboliti i vescovi nel 1646, intendevano imporre una Chiesa di Stato, strutturata sul modello scozzese, con la formazione di sinodi composti dei ministri del culto e da anziani laici (i presbiteri). L’altra ala dei puritani, gli indipendenti o congregazionalisti, a cui era legato Cromwell, rivendicava invece l’autonomia delle congregazioni religiose ed era favorevole a un regime di tolleranza per le varie confessioni (salvo che per i cattolici). Inoltre si formò un vero partito politico, il movimento dei levellers: partito di forte radicamento popolare che rivendicava misure per alleviare la miseria delle masse ma che non metteva in discussione la proprietà privata. Essi chiedevano perciò il diritto di voto per tutti i maschi adulti liberi. Sul piano religioso erano favorevoli a una completa libertà di coscienza. Essi chiesero anche l'abolizione della Camera dei Lord. Questo programma trovò un notevole consenso tra i soldati dell’esercito , tra i lavoratori e tra i contadini. Essi perseguirono un programma di netta impronta democratica, quindi l’abolizione della monarchia. Si aprì così la fase che vide contrapposti il Parlamento, controllato dei presbiteriani, di orientamento moderato e ostilissimi alle sette religiosi dissidenti, e l'esercito, nel quale trovarono seguito sia il non conformismo religioso sia il radicalismo politico dei livellatori. I presbiteriani, spaventati, pensarono che fosse meglio accordarsi col re pur di garantire l’ordine, e cercarono di sciogliere l’esercito, o di mandarlo a combattere contro gli irlandesi. Ai tentativi dei presbiteriani, l’esercito, che si era dato organizzazione interna, occupò Londra e si impadronì del re. In questa fase Cromwell si mosse con molta prudenza: non condivideva l’estremismo delle sette e dei livellatori ma non volle perdere il controllo dell’esercito, vera base del suo prestigio e forza politica. Accettò quindi un confronto con le posizioni radicali dell’esercito (dibattito di Putney, documento Ariel), dove apparve evidente la distanza rispetto alle posizioni dei livellatori, esposti al dibattito dal colonnello Rainborough “ il più povero ha una vita da vivere come il più ricco. L'uomo più povero d'Inghilterra non è affatto tenuto a obbedire al governo che egli non ha avuto voce nel creare”. L'opposizione dei capi dell'esercito e di Cromwell a queste richieste fu che i diritti civili spettavano a tutti ma che solo i proprietari potevano avere il diritto di voto (come in una società per azioni, vota chi ha interessi: si difende quindi il diritto censitario, vota chi ha rendita di almeno 50 scellini). Proprio mentre si chiudevano i dibattiti, Carlo riuscì a fuggire e si accordò con gli scozzesi, accettando il presbiterianesimo in cambio del loro sostegno, e fomentò una rivolta realista nel Galles. Cromwell, resosi conto che ogni accordo con il re era impossibile, sconfisse realisti e scozzesi. Emerge qui la figura dell’abile stratega e organizzatore, dotato di lucidità politica: visto che anche i contrasti politici e religiosi rendevano ancora impossibile un accordo generale, la spaccatura fra esercito e Parlamento poteva essere risolta solo con un colpo di stato: il 1648 arrestò 45 parlamentari e impedì l’accesso a Westminster ad una novantina di deputati presbiteriani. Ciò che restava della Camera dei Comuni, senza il consenso dei Lord, processò e condannò a morte Carlo I (decapitato nel 1649). Subito dopo il Parlamento abolì la Camera dei Lord e proclamò la Repubblica (Commonwealth) di Inghilterra, Scozia e Irlanda. Tutto sommato Cromwell aveva realizzato 2 dei 3 punti del programma dei levellers : l’abolizione della monarchia e l’abolizione della Camera dei Lord. Però era fermamente convinto a non accettare il 3°, il suffragio universale. Manuale di Storia moderna Riassunto di di Vittorio Criscuolo Luciano Bramante 50 Nasce il periodo in cui Cromwell sostanzialmente governa l’Inghilterra, periodo molto delicato da gestire: non solo doveva confrontarsi con i radicali (levellers) ma anche con fiammate realista in Irlanda e in Scozia, dove il figlio di Carlo I fu riconosciuto da scozzesi e irlandesi come re, Carlo II. Inoltre in quel periodo alcuni contadini occuparono alcune terre comuni e iniziarono ad ararle (diggers), infatti il loro leader considerava contrari ai principi del cristianesimo la proprietà privata e vagheggiava una forma di comunismo agrario di matrice biblica, un egalitarismo di stampo evangelico. Ovviamente fu durissima la reazione dei proprietari, che stroncarono sul nascere queste iniziative radicali. Il Parlamento stabilì che in attesa di nuove elezioni un Consiglio di Stato avrebbe gestito il potere (controllato di fatto dei capi dell'esercito). I levellers ripresero la loro agitazione quando il loro leader John Lilburne denunciò in un opuscolo ‘’le nuove catene dell’Inghilterra’’. Cromwell represse questi movimenti, incarcerò Lilburne, e riprese il pieno controllo dell’esercito. Le istanze democratiche ed egalitarie, esauritisi gli spazi di azione politica, rifluirono del mondo religioso: si diffuse allora la setta degli uomini della quinta monarchia, alla quale aderì lo stesso Lilburne, che, secondo il libro di Daniele, vivevano nell'attesa millenaristica del regno della perfetta giustizia. Molti aspetti li ricollegavano agli anabattisti, come il pacifismo, il rifiuto del giuramento e lo spirito egualitario. Anch’essi emigrarono nel nuovo mondo, dove si raccolsero nella colonia della Pennsylvania fondata nel 1681 e il nome della città Philadelphia (amore fraterno) esprime bene il loro spirito. Questa situazione, che durerà dal 49 al 58 (morte di Cromwell), non trovò una sua definizione sul piano politico-istituzionale. Infatti si parla di lungo interregno , dove non ci fu assetto nuovo . Ci furono vari tentativi di legittimare il regime tramite una legge elettorale e la nomina di un nuovo Parlamento ma in realtà non riuscirono. Ci fu anche una proposta a Cromwell di assumere la monarchia ma egli rifiutò. Fu quindi eletto Lord Protettore, titolo poi reso ereditario, e governò fino alla sua morte. Di fatto la sua fu una dittatura fondata sul potere dell’esercito. Egli riprese la vocazione marinara con l'Atto di navigazione (1651) stabilì che nei porti inglesi potessero attaccare solo navi inglesi o dei paesi dai quali provenivano le merci; colpendo direttamente gli interessi degli olandesi e provocando infatti fra l'Inghilterra e le Province unite tre guerre. Egli inoltre mosse guerra alla Spagna, alla quale nel 1655 strappò la Giamaica. Gli successe il figlio Richard che si rivelò incapace di governare e lasciò il potere dopo pochi mesi. Ci fu quindi il tentativo di restaurare la monarchia. Carlo II si impegnò a garantire la libertà di coscienza, di rispettare le prerogative del Parlamento e di concedere un ampio perdono a quanti avevano partecipato alla rivoluzione. Il nuovo Parlamento eletto nel frattempo votò per il ritorno di Carlo II (1660). La restaurazione della monarchia era anche frutto della stanchezza di un paese logoro della sanguinosa guerra civile e della volontà di stabilità delle classi dirigenti aristocratiche e borghesi. Oltre alla monarchia si ristabilì proprio l’assetto precedente alla rivoluzione: si ristabilì la Chiesa anglicana come chiesa di stato anche se in realtà si riprese la tradizione inglese di tolleranza delle posizioni diverse (sempre per il motivo che bastava fare ossequio al re, capo della Chiesa). D’altra parte, si ristabilì la centralità del Parlamento, e fu quindi messo in vigore il vecchio sistema elettorale che i levellers volevano modificare (rimarrà in vigore fino al 1832). Ovviamente, anche se non in maniera drastica, i problemi un po’ si riproposero: Carlo II tendeva ancora a una politica indipendente dal Parlamento, e il Parlamento ne condizionava la politica estera. Carlo II quindi si accordò con Luigi XIV che lo finanziò con sussidi in cambio di una politica estera di sostegno al suo espansionismo, cosa che ovviamente non piacque al Parlamento. Carlo inoltre era incline al cattolicesimo. Il Parlamento quindi si preoccupò di porre un argine al rinnovarsi dei tentativi assolutisti della monarchia  come la legge habeas corpus: un cittadino, dopo l’arresto, doveva essere processato davanti al giudice e non più arbitrariamente (pratica usata dai monarchi per reprimere gli oppositori politici); e sul piano religioso il Test Act (Ariel): per assumere cariche pubbliche bisognava giurare fedeltà alla Chiesa anglicana e alle sue dottrine. Manuale di Storia moderna Riassunto di di Vittorio Criscuolo Luciano Bramante 51 Con Carlo II il conflitto non esplose, era troppo forte la tendenza a evitare l’abisso di una nuova rivoluzione. Si formarono 2 orientamenti politici (non radicali):  Tories: conservatori, difensori dell’autorità monarchica;  Whigs: più liberali, aperti a un rinnovamento, fautori della centralità del Parlamento; Una svolta si ebbe quando salì al trono Giacomo II (fratello di Carlo II), ebbe due figlie sposate a principi protestanti (Guglielmo III d’Orange e Giorgio di Danimarca). Questo tranquillizzava il Parlamento in vista della futura successione protestante. Egli era notoriamente cattolico e già dai suoi primi atti favorì i cattolici: l’editto di indulgenza. Ma visto che era garantita la successione protestante, il Parlamento scelse di non urtare con queste tendenze cattoliche. L’elemento di rivolta si ebbe quando Giacomo II, che aveva sposato una principessa Este in seconde nozze, ebbe un figlio maschio cattolico (che sarebbe salito al trono prima delle sorelle). Prospettandosi una dinastia cattolica, per il Parlamento diventò intollerabile. Ci si rivolse al marito di Maria, Guglielmo III d’Orange (1689). Giacomo II fuggì e il Parlamento ritenne il trono vacante, chiamando Guglielmo e Maria a regnare. Con l’Act of Settlement (1701) stabilì la successione al trono che garantisse la natura protestate. Salirono prima Maria e poi Anna di Danimarca, mentre fu esclusa la linea cattolica del figlio, Giacomo III. Infatti nessun cattolico salì più sul trono inglese e la linea Stuart fu esclusa per sempre. Erede più vicino ad Anna era il duca di Hannover di dinastica tedesca, e infatti salirono poi Giorgio I, Giorgio II e Giorgio III di dinastia tedesca. Questi regni si separeranno con la regina Vittoria, che essendo donna non poteva regnare in Hannover, che infatti si staccò dal regno inglese. Questa svolta fu chiamata “gloriosa rivoluzione”, dovuta alla chiamata del Parlamento, senza spargimenti di sangue. Non fu solo un cambio o intervento nella linea dinastica. Maria e Guglielmo dovettero accettare il Bill of rights: il Parlamento reclamava la sua centralità; escludeva per il futuro ogni tentativo di rinnovare una monarchia assolutistica, reclamava il principio del “nessuna tassazione senza rappresentanza” e la regolarità di riunire il Paramento. Fu ripreso anche il triennal act. Ma soprattutto si stabilì una prassi parlamentare, col tempo, che diede una caratteristica sempre più moderna, anticipazione del moderno regime parlamentare . Infatti, a differenza della Francia, il re non poteva nominare ministri uomini di sua fiducia, ma si afferma la prassi per cui il re doveva insediare al governo il leader del gruppo politico che aveva vinto le elezioni. Si stabiliva quel legame tra potere legislativo ed esecutivo legato al Parlamento. Il governo deve avere la maggioranza, ovvero la fiducia in Parlamento. In questi anni i modello assolutistico è Luigi XIV ma in Inghilterra si afferma una diversa realtà: poteri separati. Parlamento eletto con potere legislativo, monarca con potere esecutivo. Motivi del fallimento: in Inghilterra non c’erano le radici dell’assolutismo (Chiesa non soggetta al sovrano, esercito non permanente, città prive di una forte aristocrazia feudale). John Locke (Ariel), pensatore politico alle origini dell’illuminismo. Breve trattato sul governo (1690) dove emergono i punti di un modello costituzionale peculiare dell’Inghilterra: l’editto di un altro (del re) in qualunque forma concepita e appoggiato da qualunque forma di governo, non può avere il valore e l’obbligazione di una legge, essa infatti non può essere modificata o alterata. È un modello del contrattualismo, gli uomini rinunciano alla loro libertà e si sottomettono a leggi comuni. Il potere supremo (quello legislativo) è del popolo. Il sovrano è colui che detiene il potere esecutivo e ad egli si giura fedeltà non in quanto supremo legislatore, ma in quanto supremo esecutore della legge. Ma se l’esecuzione cessa di essere rappresentazione e volontà pubblica, e delibera secondo la sua privata volontà, egli non ha più diritto all’obbedienza, poiché si deve obbedienza solo alla volontà pubblica della società  Viene legittimata la destituzione di Giacomo II e l’intervento del Parlamento nell’appoggiare i Manuale di Storia moderna Riassunto di di Vittorio Criscuolo Luciano Bramante 52 delle opere sono dedicate a rappresentazioni del mare. Qui è rappresentata la cattura della nave inglese Prince Royal in una delle guerre anglo-olandesi. LE 7 PROVINCE del Nord: Forte spirito autonomistico e indipendentistico, ciascuna gelosa delle proprie prerogative e tradizioni. Il loro legame era esile  solo l’alleanza le legava ma per il resto mantennero istituzioni autonome e distinte. L’unico organo centrale erano gli Stati Generali , riuniti all’Aia, formati dai rappresentanti eletti dai singoli stati provinciali. Si è detto che più che una Repubblica era un insieme di repubbliche. Gli Stati generali dovevano decidere all’unanimità e questo comportava la fragilità del loro stesso organismo, destinato a non resistere alle prove del tempo. In realtà l’assetto politico era incentrato su due cariche che nel corso dell’età moderna si alternarono in un complesso dualismo istituzionale:  Statolder: ovvero l’antico governatore, comandante dell’esercito e della flotta. In Olanda, Zelanda e in altre province era attribuita tradizionalmente alla dinastia d’Orange, emblema dell’indipendenza; era espressione soprattutto dei patriziati urbani e dei gruppi mercantili, eredi dello spirito erasmiano e inclini quindi a una larga tolleranza religiosa.  Gran pensionario: non era una carica federale ma solo dell’Olanda, ovvero era il presidente degli Stati provinciali d’Olanda. Egli però assumeva in certi periodi un tale peso e prestigio che con lui trattavano i rappresentanti delle potenze straniere e lui prendeva le decisioni più importanti. Questo ci fa capire come l’organismo reggeva grazie all’Olanda; la provincia più ricca, potente e importante, che versava quasi il 60% delle imposte federali dello stato. Alternanza al potere di queste due cariche, lo Statolder prevaleva nei periodi di guerra, mentre nei periodi di pace si eclissava ed emergeva il Gran Pensionario. Erano espressione di realtà diverse. Dietro al primo c’era la nobiltà, infatti egli aveva una corte prestigiosa e legava a sé le più importanti famiglie aristocratiche. Inoltre era molto popolare tra il popolo minuto. Invece dietro al Gran Pensionario c’era la borghesia o i patriziati urbani. Due mondi socialmente diversi. Essi erano contrapposti anche sul piano religioso (si veda la controversia teologico-politica arminiani-gomaristi conclusa nel 1619). Di fondo erano due tendenze che convissero in un dualismo dialettico spesso non privo di conflitti. Convivevano infatti un orientamento principesco-monarchico (Statolder) e uno repubblicano (Gran Pensionario). I territori delle 7 province avevano un ricco commercio, una buona tradizione finanziaria e una crescita esponenziale della popolazione. Inaugurata la Borsa di Amsterdam (1611) divenne il principale centro commerciale e finanziario dell’Europa. A metà 600’ l’Olanda aveva la più grande flotta mercantile del mondo e le sue navi erano presenti in tutti i mari: forte fu il colonialismo, con la fondazione delle società per azioni delle Indie orientali e occidentali e il relativo commercio. Queste compagnie approfittarono inizialmente del desiderio dei sovrani locali di affrancarsi dalla soggezione lusitana e promossero azioni militari contro i possedimenti del Portogallo. Grande sviluppo ebbe anche la pesca delle aringhe. Particolare rilievo ebbe l’Industria editoriale-tipografica grazie alla libertà di cui godeva l’Olanda, che, affrancata dalla censura cattolica, diventò il più importante centro europeo. Alcune province erano rurali (Frisia, Gheldria) con un’aristocrazia, presentando una realtà diversa anche dal punto di vista sociale. In Olanda, invece, c’era una fiorente e dinamica borghesia mercantile e finanziaria; molto legate alle attività marinare  Carrettieri del mare: noleggiavano le loro navi per far spostare le merci, assumendo un grosso peso nel commercio di intermediazione. Nelle grandi città si Manuale di Storia moderna Riassunto di di Vittorio Criscuolo Luciano Bramante 55 erano formati i patriziati urbani: famiglie arricchite dal commercio o dalla finanza che diventavano i reggenti delle cariche più importanti. Frazionamento anche religioso: La metà della popolazione era cattolica. Poi c’era una forte presenza di calvinisti (1/3 della popolazione). Poi minoranze di ebrei, settari e anabattisti. Il frazionamento religioso corrisponde al particolarismo di questi stati. Infatti non mancarono aspri contrasti: ad inizio 600’ si diffuse nel paese la dottrina del teologo Harmensz (Arminio), che si distaccò del rigido predestinazionismo calvinista sostenendo che l’uomo può in parte cooperare con la grazia. Le sue tesi furono contestate dai calvinisti più intransigenti, dei quali era principale esponente Francois Gomar. Su questa controversia teologica si innestò il conflitto politico fra lo Statolder Maurizio di Nassau (gomarista) e il Gran pensionario Oldenbarneveldt (arminiano); qui sì celava la contrapposizione fra le tendenze degli Orange a estendere l’influenza sullo stato e la tradizione repubblicana e federale dei patriziati e della borghesia mercantile . Ebbe la meglio Maurizio di Nassau, che fece arrestare e giustiziare il Gran Pensionario. Nel 1618-19 si riunì un sinodo di teologi calvinisti che condannò formalmente la dottrina arminiana. A parte questo furono oasi di tolleranza e convivenza religiosa. Guerre anglo-olandesi: Dopo la fine della guerra degli 80 anni, dove aveva avuto grande rilievo lo Statolder, si aprì un periodo di pace nel quale si affermò la figura del Gran Pensionario Johan de Witt. Ma l’Inghilterra stava diventando la nuova avversaria. Infatti, quando Cromwell promulgò l’Atto di navigazione (1651), istituì in pratica un atto di guerra commerciale contro l’Olanda: secondo l’atto, nei porti inglesi potevano attraccare solo navi inglesi. Questo colpiva il commercio d’intermediazione olandese e diede avvio a 3 guerre, che furono anche conflitti teorici  con il giurista Ugo Grozio gli olandesi affermavano la libertà dei mari, alla quale rispose Jhon Selden con mare clausum, il diritto di imporre l’esclusiva sulla navigazione mondiale. Con l’affermazione della potenza inglese vi fu il progressivo declino di quella olandese. Le prime 2 guerre (1652-54 e 1665-67) furono soprattutto commerciali ed ebbero uno sviluppo nel nuovo mondo (New Amsterdam divenne New York). La 3°, del 1672-78, ebbe invece valore diverso poiché intervenne la Francia di Luigi XIV, che si era posto come obiettivo del suo espansionismo le Province Unite e perciò si era accordato con Carlo II. Quindi oltre che fronteggiare le navi inglesi, bisognava affrontare le truppe terrestri francesi. Egli invase le Province unite e le occupò in gran parte. Agli olandesi non rimase che aprire le dighe e i canali per ostacolare i movimenti degli occupanti. Gli eventi segnarono il trionfo del partito orangista, favorevole alla guerra a oltranza: Guglielmo III d’Orange nuovamente nominato Statolder in Olanda. Il Gran pensionario de Witt venne ucciso da una folla di calvinisti. Guglielmo ottenne l’alleanza dell’impero e della Spagna, mentre nel 1674 i comuni obbligarono a Carlo II ad uscire dal conflitto. Luigi XIV ritirò le truppe. Dalla pace (1678) uscì sconfitta la Spagna, costretto a cedere alla Francia la Franca contea e alcuni territori dei Paesi Bassi meridionali. Le Province unite assunsero coscienza della loro natura repubblicana nella lotta al monarca assoluto. Nascerà poi il legame degli Orange e la famiglia inglese che si tramuterà in chiave commerciale. 18 – IL SEICENTO: UN SECOLO DI TRANSIZIONE 18.1 – UN SECOLO DI CRISI? La storiografia ha a lungo considerato il 600’ come un’epoca segnata da una crisi generale (demografica, economica, politica e culturale-sociale). Lo storico marxista Eric Hobsbawm interpretò questi problemi come conseguenze del processo di transizione dal sistema feudale al mondo di produzione capitalistico. Altri studiosi hanno evidenziato le politiche di accentramento delle monarchie, che comportarono un Manuale di Storia moderna Riassunto di di Vittorio Criscuolo Luciano Bramante 56 enorme aumento del carico fiscale sulle società. L'attenzione degli storici si è anche concentrata sullo addensarsi di ribellioni e rivoluzioni (rivolte contadine, separatismo della Catalogna e distacco del Portogallo dalla Spagna, rivoluzione inglese, moti anti-spagnoli a Napoli e Sicilia, Fronda in Francia). Ma con il progredire delle ricerche l’idea stessa di una crisi generale è apparsa sempre più inadeguata: se crisi vi fu, assai differenti furono i tempi e i modi e soprattutto le soluzioni dei vari paesi. Demograficamente non c’è dubbio che si esaurì la crescita, caratteristica del secolo precedente: Germania, Spagna e Italia si ritrovarono in una stagnazione demografica; invece Inghilterra, Paesi Bassi, Russia e paesi scandinavi conobbero un aumento della popolazione. In generale l’Europa ebbe una crescita modesta. In economia vi fu una recessione generale, ma in alcuni paesi essa fu l’occasione per riconversioni di produzione e importanti innovazioni. Da uno sguardo complessivo risulta evidente una tendenza che sarebbe proseguita: la progressiva marginalizzazione dell’area mediterranea e un parallelo spostamento dei traffici verso l’Europa atlantica. Nel complesso il seicento fu una fase di transizione, nella quale mutarono importanti cambiamenti economici, politici e culturali. Si affermò la rivoluzione scientifica ma d’altra parte raggiunse la sua massima intensità il fenomeno arretrato della caccia alle streghe. 18.2 – LA RIVOLUZIONE SCIENTIFICA Già nell'età umanistico-rinascimentale si era affermato nell'arte e nel pensiero un nuovo modo di guardare la natura. Come punto di partenza per la rivoluzione scientifica si pone la pubblicazione nel 1543 dell'opera De revolutionibus orbium coelestium di Copernico. La sua teoria eliocentrica era in contrasto con la Bibbia: di qui il netto rifiuto di Lutero e Calvino, e la condanna della Chiesa di Roma. Sul piano scientifico la concezione aristotelico-tolemaica dell’universo fu smentita da Keplero, il quale provò che i pianeti seguono un’orbita ellittica, e soprattutto da Galilei, che, grazie al suo cannocchiale, scoprì le leggi del moto e fece cadere la distinzione tra mondo celeste e mondo sublunare dimostrando che tutti i corpi sono della medesima materia e sono retti dalle stesse leggi. Dalla teoria eliocentrica trasse le conclusioni più radicali il filosofo Giordano Bruno che sostenne l’esistenza di una pluralità di mondi in un universo infinito e privo di un centro: cadeva così l’antropocentrismo. Bruno pagò il suo pensiero con il rogo mentre Galilei, convocato a Roma dal Sant’Uffizio, fu costretto ad abiurare la dottrina copernicana. Si parla di rivoluzione scientifica non per le scoperte ma perché si affermò il moderno concetto di scienza . A tal fine occorreva superare la concezione dell’ermetismo rinascimentale di un mondo animato da forze occulte e misteriose. Un primo passo in tal senso fu l’affermarsi della concezione meccanicistica della natura e degli organismi viventi, alla quale contribuì la fisica di Cartesio e la scoperta della circolazione del sangue, concepita come un sistema idraulico-meccanico. Colui che divulgò con grande efficacia i caratteri del moderno sapere scientifico fu l’inglese Francis Bacon: lo scienziato non parte da alcuni principi stabiliti per ricavarne verità assolute (metodo deduttivo), ma utilizza il metodo induttivo e sperimentale, ovvero egli dall’osservazione della realtà ricava i dati che poi elabora formulando ipotesi che verifica sperimentalmente, finché non individua la causa dei fenomeni osservati. Cadde l’idea, propria della tradizione ermetica, per cui solo pochi sono in grado di penetrare i segreti della natura. I risultati del sapere scientifico sono pubblici e verificabili da tutti. Il progresso risulta quindi dal lavoro collettivo di una comunità di studiosi. In questo processo non furono le università, spesso rimaste legate alla tradizione aristotelica, ma le accademie scientifiche, istituzioni appena nate volte a facilitare i confronti tra studiosi. Ciò pose le premesse per il superamento del principio di autorità. 18.3 – LA CACCIA ALLE STREGHE Sulle convinzioni diffuse nel mondo antico che esistessero individui dotati di facoltà straordinaria ma anche di provocare il male attraverso formule magiche, si innestò nel corso del medioevo la tradizione cristiana che, suffragata dalla Bibbia e dalla Chiesa, affermava la presenza nel mondo del diavolo. Il concetto di stregoneria si affermava sulla convinzione che i poteri magici di alcuni individui derivassero da un patto con il diavolo. Molto importante per la diffusione di queste credenze fu il manuale a uso Manuale di Storia moderna Riassunto di di Vittorio Criscuolo Luciano Bramante 57 Dopo il trattato di Cateau Cambrésis la penisola conobbe fino agli inizi del 600’ un lungo periodo di pace. Venezia, dopo la pace con l’impero ottomano (1573) poté rilanciare i suoi traffici con l’Oriente. Ma a 600’ iniziato questa fase di crescita si esaurì e si manifestò sempre più una netta inversione di tendenza, preludio della crisi degli anni tra il 1620-60. Furono colpite innanzitutto le esportazioni di manufatti ed attività di intermediazione finanziaria. Emblematica la drastica caduta dei movimenti di navi nei porti di Genova e Venezia. Quest’ultima, dagli anni 30 fu tagliata fuori del commercio delle spezie, controllate ormai dei portoghesi e dagli olandesi. Tra le cause di questa brusca frenata dell’economia si possono annoverare le guerre della Valtellina e del Monferrato, gli effetti della guerra dei Trent’anni sull’economia della Germania, tradizionale sbocco dei prodotti italiani, le epidemie di peste, e le frequenti carestie dovute al peggioramento delle condizioni climatiche provocate dalla cosiddetta piccola glaciazione. Ma la storiografia ha insistito sulle cause endogene: l’incapacità delle manifatture cittadine di far fronte alla concorrenza degli altri paesi, che si imposero nel settore laniero con prodotti di minore qualità . Sulla produzione italiana pesò negativamente la forza contrattuale delle corporazioni, che imponevano salari alti ed elevati standard, e spesso si opponevano alle innovazioni. Non a caso resistettero solo le imprese artigianali specializzate in prodotti di lusso, per i quali la qualità era più importante del costo. Nella seconda metà del 600’ vi fu una ripresa demografica soprattutto nelle campagne, per cui si determinò un’inversione del rapporto fra realtà urbana e mondo rurale. In diverse zone si realizzò un decentramento della produzione nelle campagne, con sensibili abbassamenti del costo della manodopera (fustagno). Le novità del settore agricolo e nelle manifatture interessarono soprattutto l'Italia settentrionale, per cui si accentuò il divario rispetto il meridione. In conclusione l'Italia all'alba del 700’ aveva in gran parte recuperato sul piano demografico ed economico la recessione seicentesca ma si evidenziò la grande distanza tra la penisola e i progressi compiuti degli Stati europei più dinamici. 19.2 – LA SOCIETÀ Già a fine 500’ si manifestò nelle classi agiate una tendenza a investire nella proprietà fondiaria. Infondo era un comportamento non dissimile da quello prevalente nel ceto mercantile di tutta Europa. Anche in Olanda molti mercanti tendevano a un certo punto a ritirarsi dagli affari per promuovere l’ascesa sociale della famiglia. Tuttavia si ridussero drasticamente in Italia coloro che erano disposti a investire nel commercio o nelle manifatture. Questi processi rispondevano al prevalere di una chiusa mentalità aristocratica che portava i gruppi più agiati a privilegiare la proprietà della terra come fonte di prestigio e base di promozione sociale (il collegio dei giureconsulti di Milano nel 1570 ammetteva fra i suoi membri, ai quali spettava il rango di nobili, chi esercitava mercatura all'ingrosso; ma nel 1593 equiparò questa attività al vile commercio e quindi incompatibile con lo status aristocratico). 19.3 – LA CULTURA E L’ARTE La cultura e l’arte dell’Italia seicentesca guardarono a un pubblico ormai soprattutto aristocratico. Si isteriliva la grande lezione dell'umanesimo, utilizzato ormai nelle scuole come un prontuario di regole stereotipate per lo studio delle lingue antiche. All'amore del classicismo per la semplicità e la naturalezza delle forme si sostituì il gusto “barocco” (bizzarro). Non mancarono eccellenze artistiche (Caravaggio) o scientifiche, ma si interruppe, tranne che in ristretti ambiti, la feconda circolazione di idee con l’Europa, la cui ripresa fu infatti nel 700’ il principale obiettivo degli intellettuali dalla filosofia dei Lumi . Pesò decisamente lo spirito della Controriforma: il disciplinamento morale e spirituale della Chiesa permeò ogni aspetto. Il rigoroso controllo della circolazione delle idee impose nella vita intellettuale una pesante cappa di conformismo, rispetto alla quale le uniche vie di uscita erano la dissimulazione o la ribellione. 19.4 – IL QUADRO POLITICO Manuale di Storia moderna Riassunto di di Vittorio Criscuolo Luciano Bramante 60 Nel periodo della dominazione spagnola l'assetto politico italiano fu sostanzialmente stabile. I soli cambiamenti furono l'acquisizione da parte dello Stato della Chiesa di Ferrara (1598), per l'estinzione degli Este, e del ducato di Urbino per l'estinzione dei Della Rovere, e inoltre il passaggio del marchesato di Saluzzo ai Savoia (1601). L’ egemonia della Spagna andava al di là dei territori direttamente controllati e si esercitava su tutti gli stati italiani, con l’eccezione di Venezia; inoltre la vita politica era fortemente condizionata dal potere della Chiesa di Roma. Mancava del resto negli stati italiani, a differenza delle monarchie europee, un potere politico in grado di creare un argine efficace alle intromissioni della Chiesa. Il papato disponeva della rete dei tribunali dell'Inquisizione, un'autorità extraterritoriale, e poteva chiedere l’estradizione. D’altra parte la Chiesa stabilì un legame con le classi dirigenti degli Stati italiani, che trovavano nella carriera ecclesiastica una preziosa opportunità per sistemare i cadetti e le figlie. 19.5 – IL DUCATO DI SAVOIA Rientrato, dopo la pace di Cateau Cambrésis, nei suoi Stati, Emanuele Filiberto (1553-80), vincitore della battaglia di San Quintino, pose le basi per un rafforzamento militare con la formazione di un esercito permanente. Lo spostamento della capitale a Torino fu la naturale conseguenza di orientare la politica estera verso la penisola italiana. Il successore Carlo Emanuele I (1580-1630), dopo aver subito la reazione di Enrico IV, ottenne il marchesato di Saluzzo con la pace di Lione (1601) ma dovette cedere alla Francia alcuni territori transalpini. Alla morte del successore Vittorio Amedeo I (1630-37) si aprì una grave crisi dinastica con un conflitto fra la reggente Cristina (madre del minore Carlo Manuele II) e i fratelli del defunto Vittorio Amedeo I. L’intervento francese risolse la crisi nel 1643. 19.6 – IL GRANDUCATO DI TOSCANA Retto dai Medici. Ad Alessandro successe Cosimo I (1537-74), figlio di Giovanni delle bande nere. Anche se mantenne i Consigli, egli li esautorò sovrapponendogli un apparato burocratico aperto a funzionari talora provinciali, che dipendevano direttamente da lui. Egli si riservò il potere di fare leggi e tutte le decisioni più importanti. Riuscì ad annettersi la Repubblica di Siena (1557). La sua opera fu proseguita dai figli Francesco I e Ferdinando I, che promosse la nascita e lo sviluppo del porto di Livorno. L’economia fu caratterizzata dalla crisi delle manifatture. Il tradizionale legame con Roma guidò la politica dei successori, dando un'impronta conservatrice. Qui si colgono i limiti dello Stato di derivazione comunale: non si uniformò il territorio. Lo “Stato vecchio” (Firenze) rimase distinto dallo “Stato nuovo” (Siena). 19.7 – LA REPUBBLICA DI GENOVA Dopo il passaggio di campo di Doria (1528) era di fatto sotto il protettorato della Spagna, sia per la funzione centrale del porto, dove arrivavano le truppe avviate poi attraverso il milanese verso le Fiandre, sia perché i banchieri genovesi erano diventati principali finanziatori della monarchia spagnola. Durante la crisi dell’attività manifatturiere, i prestiti, soprattutto alla Spagna, consentirono alla grande finanza genovese di dominare il mercato del credito e accumulare ingenti fortune. Bisogna comprendere il ruolo del Banco di San Giorgio  la Repubblica affidava al Banco la gestione del debito pubblico, concedendogli come garanzia l'entrata delle principali gabelle e perfino l'amministrazione di possedimenti (Corsica). Basandosi su questo patrimonio, il Banco emetteva quote del debito pubblico, che davano un interesse ed erano molto ricercate. Tuttavia esso era amministrato dalle stesse famiglie che avevano il controllo delle istituzioni cittadine, e infatti non a caso il Banco finanziava la Repubblica quando questa ne faceva richiesta. In pratica il patriziato genovese privatizzò le entrate pubbliche mettendole in una solida cassaforte, il Banco, a riparo dalle vicende politiche. Le ripetute bancarotte della Spagna imposero una riconversione della politica finanziaria e indussero molte famiglie a privilegiare investimenti fondiari. Manuale di Storia moderna Riassunto di di Vittorio Criscuolo Luciano Bramante 61 Luigi XIV, deciso a rompere il tradizionale legame di Genova con la Spagna, nel 1684 bombardò la città. In seguito Genova mantenne in politica estera una prudente neutralità. 19.8 – LO STATO DELLA CHIESA Il rafforzamento del centralismo romano derivato dalla crisi religiosa del 500’ portò il papa ad affermarsi come monarca assoluto del mondo cattolico. Ma i papi erano anche sovrani di uno Stato temporale e si impegnarono nella costruzione di un apparato burocratico centralizzato. Questo processo assunse però caratteristiche particolari proprio a causa del duplice ruolo del papato: tutta l'amministrazione era guidata da ecclesiastici, che fornivano anche i quadri della diplomazia (nunziature). Il Concistoro fu privato dei suoi poteri e suddiviso in una serie di congregazioni (riorganizzazione di Sisto V del 1587). Non vi furono più casi di grande nepotismo; rimase però il piccolo nepotismo, che caratterizzò lo Stato nell’età moderna.  19.9 – L’opera missionaria della Chiesa L’inizio dell’opera missionaria cattolica si può ricondurre al 1523 quando 12 francescani spagnoli furono inviati a evangelizzare i popoli dei territori conquistati da Cortes. Essi incontrarono però enormi difficoltà poste dalle relazioni con gli indios. Intanto la croce si presentò accompagnata dalla spada, e fu quindi accostata alle violenze. I battesimi collettivi erano conversioni di facciata, dietro ai quali persistevano gli antichi culti, tant’è che fu esportata l’Inquisizione. Sì comprese progressivamente che occorreva studio, preparazione e continuità nel tempo. Protagonisti di questa svolta furono in particolare i gesuiti. Nacque allora il moderno concetto di missione che portò alla nascita a Roma di collegi per la formazione dei missionari nello studio delle lingue e delle civiltà.  19.10 – La vita religiosa L’iniziativa missionaria si rivolse anche le classi popolari. Infatti fu praticata una capillare attività di omologazione di credenze e comportamenti ai principi tridentini. Nelle zone rurali furono organizzate dai gesuiti delle vere missioni popolari che regolarono e assorbirono quel fondo di superstizioni e antichi riti pagani. Fu un indottrinamento di intere comunità, che fece leva sugli effetti scenografici di processi e riti collettivi per coinvolgere i fedeli. Il divieto dei volgarizzamenti della Bibbia impedì alla popolazione italiana una conoscenza diretta della parola di Dio; la devozione popolare si espresse perlopiù nella ripetizione di preghiere e formule in una lingua sconosciuta, il latino. 19.11 – LA REPUBBLICA DI VENEZIA La sconfitta di Agnadello (1509) e la perdita di Cipro (1571) avevano indotto Venezia a un atteggiamento di prudente difesa dei suoi possedimenti, che la portò a rimanere neutrale nei conflitti internazionali. Nel corso del 500’ accrebbe fra le magistrature il potere del Consiglio dei 10, che si impose ai danni del Senato. Questa tendenza fu osteggiata nel Maggior consiglio dai "giovani", patrizi che si batterono per il ripristino dei poteri del Senato, e che ritenevano necessaria una politica estera più risoluta nei confronti della Spagna e Roma. Si opponevano i “vecchi”, convinti che fosse invece inevitabile mantenere un atteggiamento prudente. La prima occasione per i giovani fu il conflitto con la Santa sede in occasione dell’arresto di due preti colpevoli di reati comuni. Roma chiese che fossero giudicati del foro ecclesiastico. Al rifiuto di Venezia Paolo V Borghese lanciò sulla repubblica l’interdetto. Venezia respinse l’interdetto ed espulse i gesuiti, obbedienti al papa. La crisi dell’interdetto si aggiungeva a un vasto contenzioso tra la Repubblica e Roma, che contestava la legislazione sulla proprietà ecclesiastica. Nella difesa veneziana si distinse un frate servita, Paolo Sarpi (che in seguito scrisse la Storia del concilio tridentino, dove mostrò i danni del potere totale rivendicato dal Papa sul mondo cattolico), che contestò la pretesa della Chiesa di costituire un corpo separato, obbediente al Papa e non soggetto alle leggi dello Stato. La polemica ebbe un ampio risalto europeo (agli Stati generali del 1614, sull’esempio veneziano, si sostenne di non accogliere i decreti tridentini, pubblicati poi per iniziativa del clero). La vertenza fu risolta dell’azione di Francia e Spagna: l’interdetto fu cancellato e i preti furono dati all’ambasciatore francese che li consegnò a Roma. Gli anni in cui Venezia era stata la regina del mare erano finiti per sempre, del resto nello stesso Adriatico si faceva sentire la concorrenza di Ancona e Dubrovnik. I Patrizi Manuale di Storia moderna Riassunto di di Vittorio Criscuolo Luciano Bramante 62 ribelli vi erano rivalità e divisioni, né mancava una certa ostilità nei nobili di spada verso la nobiltà di toga, definita nobiltà di penna. Inoltre la popolazione, provata dalla guerra civile e dalla carestia vedeva nella restaurazione dell’autorità monarchica la sola garanzia di pace. Il ritorno a Parigi del re (1652) e poi quello di Mazzarino l’anno dopo, sancirono la fine di questo periodo. Nel 1654 ebbe luogo la cerimonia di Luigi XIV a Reims. Tornato al potere Mazzarino poté riprendere il rafforzamento della monarchia e, grazie all’alleanza con Cromwell, finire vittoriosamente la guerra con la Spagna. La pace dei Pirenei (1659) consentirono di portare il proprio confine occidentale ai Pirenei. Il trattato prevedeva anche il matrimonio tra Luigi XIV e Maria Teresa, figlia di Filippo IV, (alla quale la Spagna dava 500.000 ducati di dote in cambio della sua rinuncia alla corona di Madrid). 20.3 – LA PRESA DEL POTERE DI LUIGI XIV Alla morte di Mazzarino (1661) Luigi 14 dichiarò immediatamente di voler assumere in prima persona il governo della Francia. Allora ventiduenne, egli si applicò con passione E si era formato soprattutto alla scuola di Mazarino. D'altra parte i torbidi anni della fronda, con ripetute fughe della capitale, contribuirono a far nascere in lui il desiderio di rendere impossibile un ritorno dell'anarchia feudale. Egli prendeva le decisioni più importanti nell’Alto Consiglio e quelle finanziarie del Consiglio delle finanze. Egli tolse ogni potere politico ai nobili e scelse come ministri uomini di origini modeste e dipendenti esclusivamente dal suo favore: ministri della guerra Le Tellier e delle finanze Colbert. Colonna portante dell’amministrazione erano gli intendenti, ristabiliti da Mazzarino dopo la Fronda, funzionari preposti alle generalità (circoscrizioni istituite nel 1542). Luigi XIV rafforzò i loro poteri ed estese le loro funzioni: inviavano resoconti sulla realtà locale, eseguivano le direttive del governo nelle province e sovraintendevano il pagamento delle imposte, della giustizia e dei lavori pubblici. A questo proposito la storiografia a molto sfumato il tradizionale assolutismo di Luigi XIV . Infatti il mito del Re Sole fu opera della rappresentazione di sé stesso che egli volle diffondere. La realtà però era ben diversa: in Francia (cap.6) la matassa di privilegi, immunità e consuetudini che caratterizzava la società d’antico regime ostacolava gli sforzi di centralizzazione della direzione politica. Non a caso dopo la sua morte ripresero vigore i Parlamenti, che lungo il 700’ tornarono ad essere il principale freno dell’assolutismo monarchico. 20.4 – VERSAILLES La volontà di Luigi XIV di imporre un’immagine altissima della propria regalità si espresse nella grandiosa reggia di Versailles, dove egli si circondò di un migliaio di cortigiani, ministri, funzionari e servitori (10.000 persone). Così facendo egli staccò la nobiltà della terra, sulla quale aveva fondato la sua potenza. Le spese della sfarzosa vita di corte misero a dura prova i patrimoni di molte famiglie, costrette perciò a dipendere da pensioni e donativi da parte del re. Si stabilì così fra i cortigiani una gerarchia dell’onore, i cui gradi dipendevano dal favore del re, che tutti facevano a gara per conquistarsi. 20.5 – LE FINANZE Il principale problema era naturalmente il risanamento finanziario, al quale si dedicò Colbert con la nomina di Controllore generale delle finanze. Occorreva innanzitutto combattere sprechi e malversazioni; fu istituita quindi una Camera di giustizia che multò i finanzieri che avevano accumulato grandi fortune speculando sul bisogno di denaro dello Stato (processo Fouquet). In realtà Colbert non era stato meno spregiudicato nell’accumulare somme per Mazzarino e per sé, e continuò anche in seguito. In ogni caso il Tesoro con questi sistemi, con le multe e con la lotta a chi sfuggiva alla tassazione, alleggerì la propria posizione, tanto che fu possibile una notevole riduzione della Taglia. Il peso fiscale fu spostato sulle imposte indirette; la loro riscossione però fu data con un solo contratto di concessione e non più con vari contratti di appalto; ciò consentì di aumentare gli introiti. Si raggiunse così un livello di Manuale di Storia moderna Riassunto di di Vittorio Criscuolo Luciano Bramante 65 entrate quasi pari alle uscite, prima che, con la ripresa delle guerre (1672) si squilibrò nuovamente l’assetto finanziario. 20.6 – L’ECONOMIA La politica economica di Colbert è un tipico esempio di modello mercantilistico. La sua azione si concentrò sullo sviluppo delle manifatture, nell'intento di realizzare un attivo nella bilancia commerciale per consentire la crescita della moneta circolante. La produzione fu favorita con la creazione di manifatture di Stato a capitale pubblico che godevano di esenzioni fiscali. Per facilitare la circolazione delle merci migliorò la rete stradale e costruì canali (Canal du Midi che collega Atlantico e Mediterraneo). Rafforzò anche la marina e diede impulso all’espansione coloniale. La sua politica economica è stata criticata per la scarsa attenzione all’agricoltura, votata alla mera sussistenza. Anche per questo e per le enormi spese belliche, il ventennio colbertiano non diede grandi risultati nell’immediato, ma pose le basi della crescita del secolo successivo. 20.7 – I PROBLEMI RELIGIOSI Il primo problema fu la diffusione del giansenismo, una corrente spirituale culturale che si richiamava all'opera di Cornelius Jansen, professore in Belgio. Nel suo scritto egli affermò, sulla base del pensiero agostiniano, che solo la grazia può dare all’uomo la volontà e la forza di fare il bene, ma la grazia è concessa da Dio solo a coloro che egli vuole salvare. Proponeva quindi in ambito cattolico il pessimismo della Riforma ma precisava che, mentre il predestinazionismo calvinista distrugge il libero arbitrio, per Agostino la grazia non agisce dall'esterno ma dall'interno, facendo in modo che la volontà cooperi con essa. Il rigorismo giansenista influenzò molti ecclesiastici e intellettuali, trovando il suo centro nel monastero di Port-Royal (Parigi). Già osteggiato da Richelieu e poi da Mazzarino, fu considerato da Luigi XIV un pericoloso elemento di divisione nel cattolicesimo, ma un primo tentativo si concluse con una tregua, visto il profilarsi del conflitto con Roma sulle regalie, ovvero del diritto dello Stato di ricevere le entrate delle diocesi rimaste vacanti. Luigi XIV estese questo diritto, già riconosciuto nelle diocesi settentrionali, anche quelle meridionali, suscitando la protesta di Innocenzo XI. Luigi rispose convocando l’assemblea del clero francese (1682), la quale promulgò 4 articoli che esponevano i principi fondamentali del gallicanesimo; in essi si affermava che nella sfera temporale il re dipende direttamente da Dio, e inoltre si riproponeva la superiorità del concilio sul Papa. Luigi ordinò che fossero insegnati nelle università e che erano parte integrante della legislazione. Innocenzo XI reagì rifiutandosi di investire i vescovi nominati dal re, per cui molte diocesi rimasero vacanti, e Luigi per ritorsione occupò Avignone. Alla fine la crisi fu risolta con un compromesso: i 4 articoli non furono insegnati nelle università, ma rimasero validi come base del gallicanesimo. In questi anni Luigi affrontò anche il problema della minoranza degli ugonotti, che già Richelieu aveva privato di garanzie politiche e militari: era un nodo decisivo in vista della realizzazione dell’unità religiosa che tanto gli stava a cuore. Gli ugonotti (circa 1 milione) furono prima sottoposti a vessazioni attraverso l’applicazione restrittiva delle clausole dell’editto di Nantes. Poi si passò alla pressione con l'alloggio forzato presso gli ugonotti di contingenti di dragoni. La conseguenza fu spesso la conversione in massa al cattolicesimo. Infine con l'editto di Fontainebleau (1685), Luigi XIV revocò l'editto di Nantes poiché, a suo dire, la maggior parte dei calvinisti si era convertita. 200.000 ugonotti lasciarono la Francia portando altrove i loro capitali e le loro capacità professionali. Gravi furono gli effetti sulla politica estera che contribuì a isolare diplomaticamente la Francia alienandole la simpatia del mondo protestante (sempre sostenuto invece da Richelieu in funzione anti-asburgica). Negli ultimi anni si fece sempre più vivo nell’animo del re il sentimento religioso. Ciò pesò sulla sua decisione di sradicare la presenza giansenista. Fece chiudere il monastero di Port-Royal (1709) e poi lo fece demolire per evitare che diventasse luogo di culto. Infine egli sollecitò da Clemente XI l'emanazione di una bolla Unigenitus (1713), che condannava 101 proposizioni gianseniste. L'accettazione della bolla Manuale di Storia moderna Riassunto di di Vittorio Criscuolo Luciano Bramante 66 ferì i sentimenti gallicani di gran parte del clero in quanto smentiva la battaglia del 1682 a difesa della libertà gallicana. Il movimento giansenista sopravvisse alle persecuzioni e si diffuse in Olanda e in Italia, dove divenne oggettivamente una forza di opposizione all’assolutismo monarchico e insieme al centralismo romano. 20.8 – L’ESERCITO L’obiettivo principale di Luigi XIV era la gloria. Le spese militari assorbirono ogni anno più del 50% del bilancio (in alcuni il 75%). Come per le altre principali potenze europee, gli effettivi dell’esercito crebbero costantemente (400.000 nel 700’). Il ministro della guerra La Tellier e in particolare suo figlio riorganizzò l'esercito sottoponendolo al controllo di intendenti, introdusse una ferrea disciplina e rese più moderno l'armamento, garantì ai soldati paghe regolari e uniformi. Al reclutamento tradizionale di mercenari fu aggiunta nel 1688 una coscrizione regolare per sorteggio fra i celibi della parrocchia, formando una milizia con compiti di difesa territoriale. Molto importante fu anche l’opera sulle fortificazioni con l’erezione di una cintura di piazzeforti a difesa della frontiera orientale dall’Olanda all’Alsazia. 20.9 – LE GUERRE Inizialmente Luigi mirò l’espansione in direzione delle Fiandre e si guadagnò con ingenti donativi l'alleanza o la neutralità degli Stati germanici e di Carlo II. L'occasione fu offerta dal matrimonio, abilmente negoziato da Mazzarino, con Maria Teresa. Filippo IV, prima di morire (1665) stabilì che dopo il successore, il figlio Carlo II, l’eredità sarebbe toccata alla figlia di secondo letto Margherita Teresa, escludendo la moglie di Luigi in base alle clausole della pace dei Pirenei. Poiché però la Spagna non aveva mai pagato i 500.000 scudi, Luigi XIV contestò il testamento di Filippo e rivendicò per la moglie l’eredità di diversi territori nei Paesi bassi spagnoli (dove in base al diritto di devoluzione solo i figli di primo letto erano eredi legittimi). Iniziò la guerra di devoluzione appunto, e occupò numerose piazzeforti. Iniziativa suscitò preoccupazioni nell’Olanda, che stipulò un’alleanza con Inghilterra e Svezia per fermarlo. Luigi XIV fu costretto perciò a stipulare la pace di Aquisgrana (1668), che gli permise comunque di conservare le conquiste fatte nei Paesi Bassi. A questo punto le Province unite diventarono il suo principale obiettivo e si inserì nella 3° guerra anglo-oladese. Fu questo il punto più alto della potenza di Luigi XIV, che con generosi finanziamenti legò a sé molti principi tedeschi. I prestiti furono forniti dalle Camere di riunione, corti di esperti giuristi che rispolveravano antiche consuetudini e pratiche feudali per rivendicare alla Francia vari territori. Così furono annesse 10 città dell’Alsazia e altri territori sulla frontiera orientale. Azioni militari vere proprie invece portarono all’occupazione di Strasburgo e di Casale Monferrato. Nel 1684 la Spagna entrò in guerra ma non riuscì a evitare che la Francia occupasse il Lussemburgo. Ciò fu possibile anche perché Leopoldo I era impegnato a fronteggiare l’aggressione dell’impero ottomano. 20.16 – LA LEGA DI AUGUSTA Liberatosi dalla minaccia ottomana, Leopoldo I poté impegnarsi a contrastare l’espansionismo francese, stipulando una lega difensiva ad Augusta (1686) con la Spagna, Province unite e Svezia. La lega evidenziava l’isolamento diplomatico di Luigi XIV e segnò l’inizio della sua discesa, poiché fu il primo nucleo della coalizione che combatté contro la Francia nelle guerre dei 9 anni e nella guerra di successione spagnola. Questi impegni militari infatti richiesero un enorme sforzo finanziario e fu necessario istituire due nuove imposte, la capitazione (per tutti gli uomini, anche privilegiati) e il decimo (imposta patrimoniale). In tal modo il re ribadiva il diritto della monarchia di tassare i suoi sudditi senza chiedere il consenso degli Stati generali. La popolazione, colpita da una gravissima carestia, fu ridotta allo stremo e diede vita a diverse rivolte. L’annuncio della sua morte (1715) fu accolta da manifestazioni di gioia. Poiché l’erede per linea dinastica, Luigi d’Angio, aveva cinque anni, si aprì un nuovo periodo di reggenza. Manuale di Storia moderna Riassunto di di Vittorio Criscuolo Luciano Bramante 67 21.6 – IL RAFFORZAMENTO DELL’ AUSTRIA Con la guerra di successione spagnola l’Austria ottenne i Paesi Bassi spagnoli (Belgio e Lussemburgo) e si sostituì alla Spagna come potenza egemone in Italia. Inoltre ottenne un altro importante successo contro gli ottomani, che avevano attaccato Venezia. L’Austria intervenne al fianco di Venezia sulla frontiera ungherese (1716) e con la pace di Passarowitz (1718) recuperò l’intero territorio dell’Ungheria storica, e la Serbia settentrionale con Belgrado. Grazie queste acquisizioni ad inizio 700’ l’Austria aveva le dimensioni di una grande potenza. Tuttavia si trattava di territori ancora arretrati, nei quali si praticava un’agricoltura ferma alle forme tradizionali, affidata perlopiù al lavoro servile. D’altra parte i possedimenti asburgici erano un mosaico di domini uniti solo dal vincolo dinastico , per ciascuno dei quali era necessario di volta in volta contrattare le imposte con le assemblee cetuali. Solo nei domini ereditari era stata creata un'amministrazione centrale più solida. Un altro motivo di rafforzamento fu il processo di ricattolicizzazione forzata nei domini ereditari e nella Boemia, imposta come motivo di coesione e di identità. Carlo VI, non avendo ancora avuto figli, doveva affrontare il problema assai delicato della successione. Lo fece con la Prammatica sanzione (1713), nella quale affermò la indivisibilità dei domini asburgici che stabilì l’ordine di successione al trono; era un ulteriore motivo di indebolimento, perché egli dovette avviare faticose trattative con la Dieta imperiale, con i vari suoi domini e con gli altri Stati europei per ottenere l’accettazione del documento. POLONIA Cronica debolezza della monarchia, ostaggio dell’aristocrazia padrona della Dieta. La crisi fu aggravata dall’affermazione del liberum veto, principio per il quale anche un solo membro della Dieta poteva bloccare le decisioni. A metà 600’ il ricorso frequente a questa consuetudine, e il carattere elettivo della corona, favorì l’ingerenza delle potenze straniere, legate alle fazioni nobiliari o religiose (Russia).  1648 – I cosacchi insieme ai contadini ucraini insorsero ponendosi sotto la protezione della Russia. Intanto si rinnovò il conflitto con la Svezia, che mirava allo sbocco sul mare, essenziale per la Polonia.  1655 – Carlo X Gustavo occupa Varsavia e Cracovia e costringe Casimiro a fuggire. La Polonia fu salvata dal popolo contro gli invasori e dall’intervento in guerra di Danimarca, Leopoldo e Brandeburgo.  1660 – pace di Oliva: la Polonia cedette alla Svezia la Livonia e rinunciò alle prerogative feudali sul Ducato di Prussia riconoscendo la sovranità del Brandeburgo. In seguito dovrà cedere alla Russia parte dell’Ucraina con Kiev.  1668 – tentativo di rafforzare la monarchia di Giovanni Casimiro suscitò una guerra civile ed egli dovette abdicare. La cronica anarchia istituzionale, la crisi economica e l’aggravarsi dell’asservimento dei contadini diedero vita a ripetute rivolte avviando la Polonia verso un processo di decadimento, fino ad aprire una contesa fra pretendenti sostenuti da diverse potenze straniere:  1697 – Fu eletto il candidato austriaco, l’elettore di Sassonia Augusto II SVEZIA & DANIMARCA Con la pace di Vestfalia si era rafforzata ottenendo la Pomerania occidentale, una sponda sul Baltico sud-occidentale e una finestra sul mare del Nord con i ducati di Brema e Verden.  1654 – La figlia di Gustavo Adolfo governò senza sposarsi e abdicò per il cugino di famiglia tedesca, Carlo X Gustavo  1658 – Dopo il fallimento polacco e l’attacco danese riuscì a far capitolare Copenhagen. Ma a contrastare la sua potenza intervenne in guerra l’imperatore e l’elettore del Brandeburgo.  1660 – pace di Oliva: la Danimarca dovette cedere la Scania, perdendo il controllo esclusivo dell’accesso al Baltico. La Svezia raggiunse qui l’apogeo della sua potenza e all’interno si avviò verso un regime assolutistico. Carlo XI, succeduto minorenne al padre Carlo X ottenne il sostegno della borghesia e si impose, come egli stesso dichiarò agli Stati nel 1693 come “sovrano assoluto”. PRUSSIA Gli Hohenzollern con la secolarizzazione dei beni dell’ordine dei cavalieri teutonici (1525) ottennero il Ducato di Prussia, Stato vassallo del re di Polonia. Con la pace di Vestfalia avevo ottenuto anche la Pomerania orientale, e i vescovati di Minden e di Magdeburgo, uniti al Brandeburgo. Erano possedimenti privi di contiguità territoriale e molto diversi fra loro: nei territori occidentali, cattolici, i contadini erano liberi, in quelli orientali, luterani, c’è una agricoltura povera fondata sul selvaggio.  1653 – Dieta di Brandeburgo: Federico Guglielmo ottiene dai ceti i sussidi finanziari per creare un esercito permanente, e in cambio conferma i privilegi fiscali dei nobili (Junker) garantendo loro la servitù contadina. Nel contempo costruì una burocrazia stabile con commissari e commissariati. Sì delineò fin d’allora il compromesso sul quale si fondò l’assolutismo burocratico-militare caratteristico della Prussia moderna: il sovrano obbligò la nobiltà a servire lo Stato in cambio della sua mano libera nei confronti del contadiname.  1660 – pace di Oliva: Federico Guglielmo ottenne solo l’affrancamento del Ducato di Prussia dalla Polonia. Egli si dedicò alla creazione di un vero stato unito con una politica comune.  1701 – il figlio, Federico III ottenne il titolo regio dall’imperatore e divenne Federico I di Prussia. Ma non proseguì la politica del padre Manuale di Storia moderna Riassunto di di Vittorio Criscuolo Luciano Bramante 70  1713 – il successore Federico Guglielmo I di Prussia creò le basi per la potenza prussiana. Definito il re sergente per la sua passione militare, spese enormi somme per l’esercito, per il quale fece una riforma importante  prevedeva la divisione del territorio in cantoni e stabilì che gli uomini validi ogni cantone dovessero essere arruolati e istruiti ogni anno. L’esercito raggiunse 80.000 e effettivi. Egli centralizzò la macchina burocratica e cercò di incentivare una politica di tipo mercantilistico, e di favorire l’aumento della popolazione, anche accogliendo profughi per motivi di religione. Riuscì anche ad accrescere il territorio ottenendo nel 1721 dopo la guerra del Nord la Pomerania e la foce dell’Oder. RUSSIA Con Michele III Romanov fu ristabilita la tradizionale concezione che il sovrano è fonte di tutti i poteri e protettore della Chiesa. L’Assemblea nazionale (Zemskij sobor) fu convocata sempre meno fino a scomparire. Il compito di assistere lo zar fu preso dalla Duma dei boiari.  1645 – Il figlio Alessio I vide la sua politica di modernizzazione ostacolata dall’arretratezza della società. Le città non erano centri di attività economiche distinti dalla campagna, e limitato era il commercio interno, mentre quello estero era controllato da stranieri. Lo sviluppo economico era ostacolato dalla mancanza di uno sbocco sul mare (1617 cedette la costa baltica alla Svezia e a Sud aveva il Khanato di Crimea). Espansione in Siberia su Kiev. Gli zar crearono una nuova nobiltà in contrapposizione ai boiari, cedendo ai nuovi terreni in proprietà, dapprima revocabile ma poi piena e quindi ereditaria. I ceti non avevano un proprio status e proprie prerogative e non vi erano gruppi sociali per esprimere le classi dirigenti. L’unico vero ceto era il clero ortodosso, inquadrato nel patriarcato. Tuttavia la Chiesa era subordinata allo Stato.  1689 – il figlio Pietro portato al potere da un colpo di Stato dopo un’aspra lotta familiare. Frequentando il quartiere straniero di Mosca maturò la convinzione della superiorità occidentale. Per questo fece un viaggio in Olanda dove lavorò in incognito come carpentiere, in Inghilterra e in Germania. Dovendo tornare in fretta per la rivolta, che represse con ferocia, reclutò in Occidente centinaia di lavoratori specializzati. Diede quindi grande sviluppo alle miniere di ferro e all’industria siderurgica. Per l’esercito stabilì una leva di 1 uomo ogni 20 famiglie contadine; l’addestramento fu affidato a ufficiali stranieri. Pper pagare tutto ciò confiscò molti monasteri e impose una tassa su ogni maschio. Egli seguì una linea assolutistica, limitando i poteri della nobiltà e della Chiesa. Divise il territorio in 12 governatorati per le imposte . Nel 1722 introdusse la tavola dei ranghi, che prevedeva nella carriera militare, civile e di corte diversi livelli. Con questo sistema intendeva legare la nobiltà allo Stato. Ebbe grande successo in politica estera, dapprima sul Mar Nero, conquistando Azov (1696). Il suo principale obiettivo era ottenere uno sbocco sul Baltico così attaccò insieme alla Danimarca la Svezia dando inizio alla guerra del Nord (1700). Dopo una prima sconfitta, riorganizzò le forze sulle coste del Baltico fondò la città di San Pietroburgo. Quando la Svezia attaccò la Russia, Pietro, anticipando la tattica della terra bruciata, ritirò metodicamente le sue truppe distruggendo le risorse e sconfisse l’esercito svedese stremato dal freddo e dalla fame. La pace di Stoccolma (1720) sancirono la fine della potenza della Svezia, la quale cedette alla Russia tutta la costa baltica (Lituania, Estonia e Car Elia), alla Prussia la Pomerania e all’Hannover i porti di Brema e Verden. L’ETÀ DEI LUMI Definizione celebre di Immanuel Kant, “Sapere aude. Abbi il coraggio di servirti del tuo proprio intelletto”. Con l’Illuminismo l’uomo diventa adulto; si emancipa dalla sua minore età e può lasciarsi guidare dalla sua ragione senza la guida di altri  Rifiuto del principio di autorità. Importante il saggio del filosofo e matematico Jean-Baptiste D’Alembert Saggio sugli elementi della filosofia (1750), che affermò che l’umanità stava vivendo un momento di rinnovamento intellettuale, definito come “età della filosofia”. Questo mutamento del termine filosofia era dovuto ai progressi della scienza della natura, dipesi dal metodo sperimentale, che avevano esteso “un nuovo metodo” anche allo studio dell’uomo e della società. Si tratta del modo di come si sono acquisite nuove conoscenze, cioè della forma che il pensare, ovvero la filosofia, ha assunto. In tal senso va inteso il termine philosophes con il quale gli illuministi furono definiti. “Una nuova luce che si estese su molti argomenti”. L’origine di questa luce è il metodo scientifico-sperimentale delle scienze naturali. L’illuminismo segna una rottura nella storia culturale umana perché si impegna a usare questo metodo in ogni campo del sapere umano (politica, economia, diritto, religione). Questo è un modo di vedere la realtà del 700’, espressione soprattutto della cultura francese, ma in realtà studi hanno mostrato correnti diverse, non tutte improntate sull’esaltazione della ragione. L’illuminismo è un universo variegato, tanto che si dovrebbe parlare di illuminismi, anche per le differenze che ha assunto nei vari ambiti europei. Ma la definizione di D’Alembert è utile poiché ci da una chiave di lettura per spiegare gran parte delle novità che si affermano sul piano intellettuale in quel periodo. Alle origini di questa rivoluzione intellettuale troviamo la riflessione, di fondamentale importanza, dell’inglese John Locke, Saggio sull’intelletto umano  Una critica all’innatismo, cioè che non esistono idee innate nell'uomo, altrimenti esse dovrebbero essere conosciute anche dagli idioti e dai selvaggi; ne consegue che le idee derivano esclusivamente delle impressioni suscitate dell'uomo dalla realtà esterna (il caldo) o della realtà interna (il dubbio). Questa è la radice della filosofia dell’empirismo che caratterizza l’illuminismo: l’esperienza è l’unica fonte della conoscenza. Di qui l’importanza della centralità dell’analisi. Emerge inevitabilmente la consapevolezza dei limiti della conoscenza: se questa Manuale di Storia moderna Riassunto di di Vittorio Criscuolo Luciano Bramante 71 non può che basarsi sui dati che forniscono all’uomo i sensi, essa è imperfetta, ma è l’unica guida della quale l’uomo dispone. Se il dialogo era stato il modello letterario preferito dagli umanisti, la forma tipica della filosofia illuministica fu invece il saggio, componimento breve che analizza con metodo scientifico una singola questione, offrendo risultati provvisori , nella consapevolezza che gli sviluppi della ricerca modificheranno in seguito le conclusioni raggiunte, aprendo nuove prospettive e approfondimenti. Si coglie l’elemento di provvisorietà per la consapevolezza che la conoscenza progredisce di continuo, e quindi un elemento di fiducia nel progresso. Lo schema ciclico dell’Umanesimo (ritorno in auge dell’antichità classiche) negli illuministi è un progresso lineare  Il sapere è destinato ad affermarsi. Importante quindi fu la divulgazione; essi si impegnarono perciò a favorire la più ampia circolazione delle nuove idee. Molto importante fu la diffusione della stampa periodica: comparvero giornali impegnati a divulgare a un pubblico più ampio la nuova cultura. Iniziativa dei milanesi Verri e Beccaria, con la pubblicazione de Il Caffè, per diffondere la luce del nuovo pensiero europeo nella società italiana. In che modo agisce nell’ambito della MORALE, ovvero nelle norme che regolano i comportamenti umani? Come in una scienza dimostrativa: nella fiducia che l’analisi biologica e psicologica dell’uomo consente di individuare i meccanismi che determinano le sue scelte. La morale ha quindi fondamenti scientifici, ed è ora separata dalla religione. Non a caso si afferma per la prima volta la possibilità di una società di atei  l’ugonotto rifugiatosi in Olanda Pierre Bayle sostenne una società di atei fondata sulla morale ispirata esclusivamente ai dettami della ragione. La volontà di studiare in modo razionale ogni aspetto dell’uomo implicava la separazione anche dell’intellettualità e dell’arte dalla religione. Questo però non implica un rifiuto della religione in sé ma un diverso modo di intendere il suo ruolo, una netta distinzione dei rispettivi ambiti di competenza, alla luce dell’utilità che essa può avere nella felicità degli individui. Quando si parla di luce che spazza vie le tenebre, si pensa anche alle guerre di religione, obbrobrio per la nuova cultura che valorizza la tolleranza e la libertà di fede. Al centro c’è la volontà di elaborare una religione su base naturale e razionale, che criticava il dogmatismo, la credenza nei miracoli e nella magia e il formalismo di riti e cerimonie; una concezione di religione nella quale tutti, anche le fedi non cristiane, possano riconoscersi: il deismo. Il principio erasmiano cinquecentesco di ridurre il credo religioso a pochi contenuti fondamentali per evitare contrasti, qui giungeva alla sua maturazione. Ovviamente non mancarono forme più radicali, che spinsero più in là la critica alla religione: ambienti atei e materialisti diffusero una letteratura clandestina che dipinse la religione come un’impostura dei preti, i quali abilmente sfruttavano la paura della morte per dominare a loro vantaggio le coscienze degli uomini. Un altro ambito in cui opera il pensiero illuminista è il DIRITTO. Tra le più importanti opere italiane troviamo Dei delitti e delle pene, di Beccaria. “il freddo esaminatore della natura umana”, ovvero lo scienziato, il filosofo, analizza le leggi esistenti, il diritto, sulla base di un criterio di carattere scientifico, valutando per ogni legge la sua utilità; se essa corrisponde agli interessi e bisogni degli uomini per i quali quelle leggi sono state fatte. Su questa base egli critica il diritto esistente e ne prospetta uno nuovo dove la legislazione deve tendere a realizzare “la maggior felicità possibile per il maggior numero possibile”. Ancora emerge come l’obiettivo del filosofo deve essere quello di realizzare la felicità e il metodo quello dell’analisi scientifica. Egli prospetta come, grazie al secolo dei lumi, si sia “accesa fra le nazioni una tacita guerra di industrie, la più umana e più degna di uomini ragionevoli”, quindi l’idea che anche l’economia si sviluppa in una convivenza pacifica. Egli Delinea un diritto penale nuovo in cui prevalga una concezione quasi matematica: calcolare il danno alla società e commisurare un’esatta corrispondenza per la pena. Manuale di Storia moderna Riassunto di di Vittorio Criscuolo Luciano Bramante 72 Chiesa e la sola arma è la ragione. Per combattere il fanatismo gli uomini vanno illuminati, va creata un’opinione pubblica favorevole al progresso. Obiettivi sono realizzabili solo con l’aiuto del sovrano.  D’Alembert: il segreto per realizzare il progresso è l’accordo tra sovrani e philosophes .  D’Holbac: Il sovrano assoluto è l’unica possibilità di riforma, poiché egli ha la forza per farla.  Helvetius: giudizio negativo sulla Francia: non vede in Luigi XV un sovrano illuminato. Lancia quindi uno sguardo positivo ad altre realtà europee (Russia, Prussia). Egli è proprio una massima di Federico Secondo: niente di meglio che un governo si arbitrario ma sotto principi giusti e virtuosi. Questa linea si afferma in larga parte nell’illuminismo europeo  Beccaria: critica radicale del diritto penale, fondato su pene ingiuste dove gli inquisiti spesso non conoscevano nemmeno le accuse ed erano sottoposti a torture e pene di morte. Egli quindi espone l’idea di un diritto penale umano, in cui c’è una corrispondenza penale razionale, quasi matematica. Trasmette un’immagine positiva dei sovrani d’Europa e del nuovo tipo di monarchia che si stava affermando. La felicità dei sudditi dipende dall’accrescimento di questi sovrani: tanto più sono assoluti quanto più riescono ad attuare le riforme poiché si affrancano dall’aristocrazia, dalla Chiesa e da tutti gli ordini intermedi. Egli quindi auspica e si aspetta una riforma dai sovrani assoluti. Gli obbiettivi di fondo che l’illuminismo affida ai sovrani illuminati erano: 1- libertà intellettuale, combattere il fanatismo favorendo la circolazione di nuove idee (esisteva ancora l’Inquisizione e l’illuminismo fu infatti condannato); 2-togliere peso ai poteri intermedi (aristocrazia); 3- limitare il potere della Chiesa, quindi una riforma dell’educazione. L’illuminismo europeo, nonostante l’ammirazione per l’Inghilterra, non mirò tanto a una libertà politica (rappresentanza dei cittadini) ma piuttosto alla libertà intellettuale, alla libera circolazione delle idee. Infatti i philsophes auspicavano l’accrescimento e dell’assolutismo del sovrano. PRUSSIA Questo stato di fatto non esisteva a metà 600. Esistevano una serie di territori sottoposti alla sovranità della famiglia Hohenzollern, di cui il più importante era la marca del Brandeburgo, acquisita dalla famiglia fin dal 1415: un territorio in realtà povero, arretrato e privo di grandi risorse ma importante perché dava accesso alla dieta elettorale. Infatti gli Hohenzollern sedevano tra i 7 principi elettori. I nuovi territori furono poi acquisiti in vario modo e a vario titolo, andando a costituire un insieme variegato di territori senza contiguità territoriale. In particolare, il territorio di Prussia, acquisito nel 1525, quando il Gran Maestro dell’ordine Teutonico, passando alla Riforma protestante, aveva secolarizzato quei territori (Alberto di Hohenzollern, ma non lo stesso legato alle indulgenze e Lutero). Questa Prussia orientale era un feudo del regno polacco. Quindi nel lato orientale troviamo Brandeburgo e Prussia che, dal punto di vista economico-sociale, erano terre di servaggio, dove spadroneggiava la nobiltà proprietaria sui contadini, obbligati a un duro lavoro gratuito. Invece ad Occidente erano stati acquisiti territori staccati tra loro nella zona della Renania: il ducato di Kleve, Ducato di Gheldria e Contea di Mark. Questi territori erano molto diversi dal punto di vista economico- sociale da quelli orientali: territori progrediti economicamente dove i contadini erano liberi e molto limitato era il potere della nobiltà. Diverse anche dal punto di vista religioso: questi territori erano cattolici, mentre Prussia e Brandeburgo erano protestanti luterani (mentre gli Hohenzollern per tradizione erano calvinisti). Forte particolarismo istituzionale: in ciascuno di questi territori il sovrano doveva fare i conti con le assemblee di tipo cetuale per imporre le imposte, e ciascuna di queste Diete mirava ai soli interessi nel proprio ambito, costituendo un limite forte alla modernizzazione dell’amministrazione e al rafforzamento politico-militare. Un riflesso di questo particolarismo fu che, in fondo, gli Hohenzollern Manuale di Storia moderna Riassunto di di Vittorio Criscuolo Luciano Bramante 75 erano i più importanti proprietari terrieri del paese e, nella gestione della loro proprietà, non si differenziavano dagli altri proprietari nobili: prevale quindi l’aspetto privatistico della gestione, della vita di questi stati  non c’è ancora concetto di patrimonio statale che serve a rafforzare e migliorare la condizione di uno Stato. Federico Guglielmo di Brandeburgo, il Grande elettore (1640-88): Il primo che cercò di rafforzare lo Stato e che pose le basi per la formazione dello Stato prussiano. Cercò di ampliare i territori con nuove conquiste ma con risultati modesti (guerra dei 30 anni). Nel 1660 riuscì ad affrancare la Prussia dalla soggezione feudataria polacca, ma in generale non ebbe grossi successi in politica estera proprio per la difficoltà di creare una forza militare significativa. I suoi obiettivi furono un’amministrazione più forte, una solidità finanziaria in grado di sostenere l’espansione, ma soprattutto raggiungere l’unità territoriale per sfruttare le risorse di tutti i territori in una politica comune. Secondo il tipico percorso di formazione di uno Stato moderno, gli Hohenzollern tentarono di limitare le prerogative delle assemblee cetuali imponendo una tassazione costante e sicura per poi costruire un esercito permanente (miles perpetuus) che non dipendesse dalle concessioni della Dieta  ci riuscì in Brandeburgo prima e poi in Prussia, mentre non riuscì nei territori occidentali. Infatti nella Dieta del Brandeburgo (1653) egli riuscì a ottenere un sussidio finanziario che gli diede la possibilità di formare il primo nucleo di un esercito permanente (poi 30.000 alla sua morte), ma in cambio garantì alla nobiltà il pieno dominio sul mondo contadino  questo accordo caratterizzerà tutta la storia successiva dello Stato. Finanziariamente, alle entrate del demanio (il re era il più ricco proprietario), si aggiunsero imposte riscosse regolarmente. Sul piano fiscale ci fu una netta differenziazione tra città e campagna: in città furono stabilite delle imposte indirette sui prodotti di consumo, mentre nelle campagne vigeva una contribuzione fondiaria che gravava sul mondo contadino. Questo l’altro grande successo di Federico: attraverso queste entrate, oltre a creare un esercito permanente, creò le basi di un’amministrazione centrale. Il nome stesso dell’organismo creato come organo centrale dell’amministrazione indica l’importanza decisiva dell’aspetto militare: Commissario generale per la guerra. L’altro aspetto da sottolineare è il ruolo decisivo dell’aristocrazia, la potente classe degli junker che dominavano nel mondo rurale. L’articolazione dell’amministrazione mostra bene questo aspetto: mentre il Commissario demaniale e quello cittadino, che avevano il compito di controllare gli introiti provenienti dal demanio e le accise, erano dominati dall’amministrazione centrale, il Commissario rurale era invece espressione della nobiltà, era colui che presiedeva al reclutamento e all’ organizzazione contribuzione fondiaria. Quindi un ruolo decisivo dell’aristocrazia nella stessa struttura dell’amministrazione dello Stato. Federico III, divenuto poi Federico I di Prussia (1688- 1713): figlio di Federico Guglielmo, gli Hohenzollern ottengono il titolo di re di Prussia (ecco perché il cambio nome). Non ottenne grandi successi ma diede un contributo al rafforzamento dello Stato. Possiamo ricordare la fondazione dell’Accademia di Berlino da parte del filosofo Leibniz. Questo contribuirà a fare di Berlino una grande capitale culturale europea. Federico Guglielmo I, il re sergente (1713-40): figlio di Federico, pose le basi della grande potenza militare prussiana. Egli visse per l’esercito: vestì stabilmente l’uniforme militare, era legato al mondo della caserma con rammarico della moglie. Spese molto per ingaggiare soldati alti 1,80 per il reggimento dei granatieri Potsdam e attuò la riforma dell’esercito: divise i territori orientali in cantoni e stabilì che la popolazione di questi cantoni dovesse essere sistematicamente addestrata e che gli uomini validi di ogni cantone dovessero essere arruolati ( Kantosystem). D’altra parte, non usò Manuale di Storia moderna Riassunto di di Vittorio Criscuolo Luciano Bramante 76 molto la forza militare, anche perché vincolato da scrupoli religiosi poiché era legato alla tradizione calvinista della famiglia (chiaro anche nei consigli lasciati al figlio). Era in competizione con l’Austria: la crescita dello stato prussiano creava le premesse per l’antagonismo con gli Asburgo (che durerà per tutto il 700’ e sfocerà nella guerra franco-prussiana per l’unificazione). Per rafforzare l’apparato dello Stato introdusse riforme amministrative: creò Direzione generale della guerra, delle finanze, del demanio che centralizzava la direzione dell’amministrazione dello Stato nei 3 rami fondamentali. Egli adottò una politica mercantilistica (come negli altri stati europei) volta a favorire i prodotti: commercio e manifattura. In tal senso importante fu la colonizzazione dei territori orientali: l’originaria e prevalente etnia slava fu profondamente germanizzata (processo sviluppato anche dal figlio). Riuscì ad accrescere il territorio ottenendo la Pomerania con Stettino dopo la Guerra del Nord (1721). COMPOSIZIONE DEGLI ESERCITI. Per capire la specificità della sua azione bisogna soffermarsi sul modo di istituire l’eserciti: prima formati in larga parte da volontari che si arruolavano per libera scelta (spesso per necessità di guadagnarsi da vivere o di sfuggire alla giustizia). Scelta poi definitiva poiché diventavano soldati mercenari, professionisti. (la geografia del reclutamento era ben delineata in Europa: venivano soprattutto dalle zone di montagna più povere, in particolare dalla Germania del nord, Austria, Svizzera. Una geografia chiara che indicava zone povere). Importante nel reclutamento era l’aspetto privatistico, che raggiunge l’apice durante la guerra dei 30 anni: i sovrani si affidavano ad appaltatori privati, veri imprenditori della guerra, per fornire contingenti militari in tempi brevi. Questi però spesso arruolavano con metodi spicciativi nelle osterie del paese. Ad ogni modo formavano eserciti in gran parte stranieri e non di sudditi del principe. In cambio avevano vitto ma importante era la prospettiva del bottino (questo spiega la crudezza di molti eventi bellici del 600’). Il vantaggio era che diminuiva il rischio di diserzione in quanto erano professionisti della guerra, il mestiere della loro vita (ma c’era il rischio che passassero al nemico). I sudditi invece erano più esposti dalla diserzione in quanto, provenendo dal mondo contadino, durano la stagione dei lavori agricoli erano molto spinti a lasciare il campo di battaglia per tornare alle loro terre. Già nel 600 si cercò di superare questo aspetto dando ruolo più importante allo Stato nella gestione dell’esercito. Svezia, Russia, Francia fanno tentativi di addestrare una parte della popolazione all’esercizio militare per affiancare i mercenari. Federico Guglielmo quindi diede un importante radicamento territoriale al suo esercito con il Kantonsystem, fermo restando che il nucleo era formato da mercenari scelti con grande cura e spesa. Queste forme di reclutamento territoriale sono diverse dalla leva di massa (che si svilupperà con la riv. francese). Per ora c’è ancora una struttura dominata dall’aristocrazia che grava con questo ulteriore peso sul mondo contadino. Il contadino le era soggetto 2 volte: serviva la stessa classe degli junker sia come contadino che come soldato (carattere d’Ancien Regime). Federico riuscì a legare a sé l’aristocrazia prussiana, dandole una forte connotazione di servizio: oltre al predominio dei nobili nella campagna, questi vennero anche chiamati a servire il sovrano ed ebbero il monopolio degli alti gradi dell’esercito. FEDERICO II (1740-86): successe al padre ottenendo un’eredità importante: 3 milioni di abitanti e più di 80.000 soldati. Era un esercito “nazionale” (con dei limiti), e la nobiltà era statalizzata, legata alla monarchia. Premesse per la sua potenza. Nonostante i consigli del padre (scheda Ariel) “di non intraprendere nessuna guerra ingiusta e di non diventare un aggressore” sempre nel rispetto della morale ispirata dalla fede in Dio, di forte tradizione calvinista, egli seguì un’altra strada. Infondo era una personalità diversa dal padre e la sua giovinezza fu segnata dal conflitto con lui, così grave che a un certo punto lo portò a un fallito tentativo di fuggire dal regno. Era un sovrano intellettuale con la passione per la letteratura e la filosofia e fu anche musicista; entrò in contatto con Voltaire , con cui ebbe rapporti per tutta la vita e che nel 1740 (anno del suo trono) gli curò l’opera “Antimachiavel”, in cui criticava la figura del principe delineata da Machiavelli, ovvero il Manuale di Storia moderna Riassunto di di Vittorio Criscuolo Luciano Bramante 77 aveva il compito di garantire la vittoria del dell’ortodossia, e dell’elemento slavo, sul paganesimo e sul cattolicesimo. Nasceva così una teoria che si radicò profondamente nella popolazione e che avrebbe avuto importanti sviluppi. L’opera fu proseguita dal figlio Basilio III (1505-33) e poi dal figlio, Ivan IV. Ivan IV il terribile (1533-1584) che assunse formalmente il titolo di Zar e ampliò i territori sconfiggendo i tartari e sottoponendo al suo dominio tutto il corso del Volga fino al Mar Caspio. Molto più incisiva e brutale divenne l’azione della monarchia per limitare i poteri della grande nobiltà; egli infatti contrappose alla Duma (Consiglio), dominata dai boiari, un’assemblea territoriale cetuale ( Zemskij sobor ). Inoltre egli sancì con alcuni decreti il processo di asservimento del mondo contadino e formò il primo nucleo di un esercito di professione. A fine regno Ivan, aprendo una tendenza di espansione che sarebbe stata poi tipica della Russia, attaccò la Livonia per avere uno sbocco sul Baltico, ma fu sconfitto da Polonia e Svezia. Gli successe il figlio Fëdor (1584-98), debole e malato di mente, quindi la guida fu assunta dal ministro Boris Godunov, già uomo di fiducia di Ivan, che istituì il patriarcato di Mosca. Seguì un periodo di anarchia (“epoca dei torbidi” con i falsi Dimitri) finché l’Assemblea cetuale (Zemskij sobor) elesse zar il tredicenne Michail Fëdorovič Romanov (1613- 45), portando sul trono la dinastia che vi sarebbe rimasta fino alla rivoluzione del 1917. Questa assemblea cetuale fu convocata sempre più di rado e finì per scomparire, mentre il compito di assistere lo zar fu assunto dalla Duma dei boiari . Nel 600’ l’espansione si rivolse a Est, verso la Siberia, terre inospitali per motivi climatici, e portò i confini fino alla costa del Pacifico. Si presentava come un paese lontano dal mondo: povero, arretrato e scarsamente popolato. Le città non erano centri di attività economiche distinti dalla campagna, e limitato era il commercio interno, mentre quello estero era controllato da stranieri. Vi erano poche manifatture e la vita economica era basata ancora su un’agricoltura rudimentale: la terra era proprietà dell’aristocrazia fondiaria (secondo servaggio). Lo sviluppo economico era ostacolato dalla mancanza di uno sbocco sul mare, se si esclude il porto di Arcangelo bloccato dei ghiacci per buona parte dell’anno (infatti aveva dovuto cedere nel 1617 tutta la costa baltica alla Svezia e a sud doveva confrontarsi con il Khanato di Crimea che impediva l’accesso al Mar Nero, e dal quale arrivavano incursioni tartare). LA VITA ECONOMICO-SOCIALE: caratterizzata dalla presenza del secondo servaggio, molto diverso dalla situazione occidentale (in realtà fino al 500’, anche per motivi di scarsa densità, i contadini potevano lasciare le terre del padrone, pagando una penale, per andare a lavorare da altri nobili. Ma questa possibilità si esaurisce nel corso del 600’  decreti di Ivan IV). Condizione dei contadini ulteriormente aggravata nel 1649 con un ukaz (decreto) che cancellava ogni limite alla possibilità di un padrone di inseguire i contadini fuggiaschi, che vennero quindi vincolati alla terra e persero molte libertà personali . Può essere utile leggere il decreto del 1661 (scheda Ariel). Il malessere del mondo rurale esplodeva periodicamente in violente rivolte, come quella del cosacco del Don Sten’ka Razin (67-71). L’aristocrazia possedeva un enorme quantità di terra e aveva un grande potere sociale. Nel mondo russo mancava la piccola proprietà; non vi erano gruppi sociali per esprimere i quadri dell'amministrazione, e i ceti non avevano come in Occidente un proprio status e proprie prerogative, in quanto tutti dipendevano dallo zar. L'unico vero ceto era il clero ortodosso, inquadrato nel patriarcato; tuttavia la Chiesa era subordinata allo Stato. Gli zar tentarono di limitarne il potere, ma le terre revocabili concesse da Ivan III alla nuova aristocrazia divennero poi ereditarie e questa nuova aristocrazia si fuse con la vecchia, creando un assurdo predominio sociale che limitava il potere dello zar attraverso la Duma dei boiari. L’ASPETTO RELIGIOSO: anche qui la Russia era caratterizzata da un forte tradizionalismo che si opponeva alla modernizzazione e all’apertura. Emblematico il rifiuto della società alle riforme del patriarca Nikon (scheda Ariel) che riguardavano riti e liturgia: il programma non presupponeva una rinascita di Manuale di Storia moderna Riassunto di di Vittorio Criscuolo Luciano Bramante 80 spiritualità o di sentimento religioso (quindi niente a che fare con la Riforma protestante), ma intendeva combattere l’eccessivo formalismo delle cerimonie e la superstiziosa ignoranza del clero, correggendo gli errori nella traduzione dal greco e nella copiatura dei libri liturgici. La riforma concerneva quindi solo la liturgia e i riti (segno della croce con 3 e non con 2 dita). Questo urtò gran parte dei russi che rifiutarono l'imposizione dei modelli greci e rimasero fedeli alle forme del culto tramandate dai padri: si formò così dal 1656, il movimento dei "vecchi credenti" (scismatici), che furono espulsi dalla Chiesa e duramente perseguitati. Queste correnti tradizionaliste divennero una forza di opposizione all’influenza straniera e alla modernizzazione della società, che riemergerà più volte nel corso della storia russa. Già nel 600’ Michele e poi il figlio Alessio (1645-76) cercarono di riorganizzare lo Stato russo limitando il potere dell’aristocrazia col sostegno della Chiesa ortodossa (1666 sancito il primato del potere imperiale su quello ecclesiastico). Pietro I il grande (1682-1725) fu il fondatore della Russia moderna, infatti col suo regno impose alla Russia di aprirsi al mondo occidentale con un’azione molto odiata da tutti gli strati della popolazione. Figlio di secondo letto di Alessio, fu proclamato zar con il fratellastro Ivan e fu portato al potere come unico zar da un colpo di stato, dopo un’aspra lotta fra le famiglie delle due mogli. Visse la sua giovinezza lontano dal Cremlino, frequentando la comunità straniera di Mosca, dove maturò precocemente la convinzione della superiorità del mondo occidentale rispetto all’arretratezza della Russia. Egli fu attirato soprattutto dagli aspetti tecnologici e dell’organizzazione militare, e proprio per approfondire le sue conoscenze organizzò la “grande ambasceria” (97-98), ovvero un viaggio in Olanda, dove lavorò in incognito come carpentiere, in Inghilterra e in Germania. Dal viaggio reclutò molti tecnici, artigiani e lavoratori per trapiantare in Russia quelle conoscenze. Non era però un’apertura alla cultura occidentale, non fu un sovrano illuminato: gli importava rafforzare l’economia e l’esercito, ovvero le classiche linee della politica assolutistica. POLITICA ESTERA: il principale obbiettivo era ottenere uno sbocco sul baltico, controllato dalla Svezia. A tal fine nel 1700 attaccò la Svezia insieme alla Danimarca e al Duca di Sassonia (anche re di Polonia), dando inizio alla guerra del Nord (1700-21). Poté quindi fondare la nuova capitale San Pietroburgo (1703) sulle coste baltiche: zona di difficile approvvigionamento, fu un lavoro immane. Ma in 10 anni divenne una grande capitale europea, dove si stabilì l’aristocrazia, nella quale si diffusero costumi e lingue occidentali. Egli impose un drastico cambio di costume per gli aristocratici (taglio della barba, calendario giuliano, l’uso dei numeri arabi). POLITICA INTERNA: tipica dei sovrani assoluti  limitare il potere dell’aristocrazia e della Chiesa sottoponendole al suo controllo. Sul piano istituzionale esautorò la Duma dei boiari creando un Senato di 9 membri, che eseguiva le sue direttive. Impose ai nobili un servizio alle dipendenze dello Stato, introducendo una tavola dei ranghi (1722) che prevedeva diversi gradi nella carriera militare, civile e di corte: a un certo livello si diventava nobili. Non era un meccanismo per scalare la gerarchia sociale ma solo un meccanismo per inquadrare i nobili, fin da quando erano giovani cadetti, al servizio dello Stato, in particolare quello militare. Era una società statica. Non c’era classe intermedia o mobilità sociale. Contribuì a fondare accademie militari nelle quali impiegò personale straniero, soprattutto tedesco, per importare l’esperienza dell’esercito prussiano. Nel 700’ non rinnovò la carica di patriarca e alla testa della Chiesa ortodossa pose un santo Sinodo di funzionari che rispondevano a lui: amplificando la sottomissione della Chiesa allo Stato. Migliorò anche l’amministrazione e la riscossione delle imposte. La sua politica provocò grave malumore nel paese. L’impulso rinnovatore cadde dall’alto in una società che non l’aveva maturato e lo subì in alta misura. L’altro limite era che la sua azione si basava sulla pressione sul mondo contadino: la tassa della capitazione gravava su esso e sempre da esso dovevano venire le forze militari. Inoltre furono i contadini a lavorare in condizioni difficili per la costruzione di Pietroburgo. Costruì anche i primi insediamenti industriali, da lui parte questa limitata forma di industrializzazione in Russia, ma nelle miniere e nelle officine non c’erano capitali privati o operai, ci lavoravano i contadini. Formò anche il primo nucleo della marina russa. Va ricordato anche Manuale di Storia moderna Riassunto di di Vittorio Criscuolo Luciano Bramante 81 l’aspetto asiatico-barbarico del despota: emblematica è la vicenda del figlio che, non adeguandosi al modello di erede del padre, fuggì a Napoli (allora austriaca). Convinto di tornare con un salvacondotto fu condannato a morte e morì in carcere. Le riforme di Pietro, pur imposte dall’alto a una società che in gran parte gli era ostile, avviarono un processo di occidentalizzazione che non si sarebbe più fermato. Dopo una serie di sovrani di scarso rilievo, l’azione di modernizzazione di Pietro I fu ripresa dalla figlia Elisabetta I (1741-62), che favorì l’apertura alla cultura europea e fondò l’Università di Mosca. Combatté contro la Prussia nella guerra dei 7 anni. Le successe il nipote Pietro III, che, essendo un fervente ammiratore di Federico II, pose fine al conflitto consentendogli di uscire da una situazione molto difficile. La sua posizione filo-prussiana suscitò malcontento nell’esercito e a corte. Infatti egli fu detronizzato da una congiura di palazzo dietro la quale vi era la moglie Caterina II (1762- 96), principessa tedesca che divenne zarina di tutte le Russie. Fu una donna intelligente e colta, animata da una volontà di intervenire, salì al trono con l’immagine di una sovrana illuminata che avrebbe portato riforme. Fu in contatto con intellettuali illuministi come Diderot e vari ambienti intellettuali occidentali. Primi atti di riforma: nazionalizzò i beni della Chiesa ortodossa per dare alle finanze statali la possibilità di sostenere le sue riforme (anche perché doveva risolvere la situazione finanziaria dopo la guerra dei 7 anni). Si diffusero periodici, accademie e scuole elementari, fu un periodo di vivacità culturale e le classi alte si aprirono all’influenza occidentale e alla lingua francese. L’atto più ambizioso fu la riforma della legislazione, per la quale convocò una commissione composta da più di 500 rappresentanti della nobiltà, degli abitanti delle città e dei contadini di Stato, incaricata di redigere un nuovo codice di legge. In questo si ispirò a Montesquieu, ai dettami della filosofia occidentali. Ma questo manifesto dell'assolutismo illuminato, che poneva come scopo della legge alla pubblica felicità, si rivelò uno strumento di propaganda, destinato a restare senza risultati significativi: la Commissione fu sciolta l'anno dopo senza aver portato a termine il suo compito. Mancava, a sostegno di reali riforme, un ceto medio ampio e sufficientemente colto. Ci fu un evento che segnò il rapido esaurirsi delle prospettive di riforma di Caterina: rivolta di Pugačëv (1773) che rappresentò un messaggio di liberazione per le masse contadine (scheda Ariel). Nei suoi proclami Pugačëv si presenta e si firma come Pietro III redivivo: una sfida ulteriore a Caterina, richiamando il delitto che l’aveva portata al trono. Egli fece leva sul tradizionalismo russo, sui vecchi credenti (scismatici), componente che aveva rifiutato le riforme ed era rimasta fedele alle icone della ‘’vecchia, Santa Russia”, contro la modernizzazione di Caterina (in diretta contiguità con quella di Pietro il Grande). Fece appello al popolo cosacco, guerriero e libero, deciso a non farsi trasformare in contadiname dalla “maledetta razza dei nobili”. Riferimento ai bagni penali, officine fondate da Pietro il Grande, al peso delle imposte sul mondo contadino, cos’ come l’obbligo di servire nell’esercito. Solo due anni dopo Pugačëv verrà catturato e giustiziato a Mosca, ma la rivolta, accompagnata da feroci atti di violenza, si estese rapidamente, coinvolgendo tutti gli strati della società. Si apre una seconda fase: Caterina, spaventata, abbandonò ogni velleità riformatrice e riconobbe che l’unico sostegno necessario era quello dell’aristocrazia. Qui si forma il modello dell’autocrazia russa: una società statica, senza articolazione sociale, e la nobiltà si pone come principale sostegno del trono (solo nel 1861 la servitù della gleba fu abolita da Alessandro II, con grave ritardo storico). Infatti nel 1785 emanò una “Carta della nobiltà”, nella quale ribadì e ampliò i privilegi della nobiltà (scheda Ariel). Se nel 1767 Caterina aveva definito disonorevole che i servi fossero trattati come bestiame, ora estese e Manuale di Storia moderna Riassunto di di Vittorio Criscuolo Luciano Bramante 82 di coesione nel tessuto sociale. La creazione di un unico blocco costituì il vero cuore del potere asburgico. La coesione non divenne solo istituzionale, ma anche finanziaria, costituendo una vera base di potere. Questa unificazione non era facile da estendere agli altri territori. Eugenio di Savoia (condottiero che vinse diverse battaglie per gli Asburgo nella guerra di successione spagnola) suggerì a Carlo VI (1711-40) che, per accrescere le finanze e la forza militare sarebbe stato necessario fare della monarchia “un tutto unico”. Questo processo di integrazione era molto difficile: per esempio, il Regno d’Ungheria, anch’esso divenuto ereditario, era dominato da un’aristocrazia gelosa dei propri privilegi e autonomie. Inoltre, Carlo VI, non avendo avuto ancora figli maschi, doveva affrontare il problema assai delicato della successione. Lo fece promulgando la Prammatica sanzione (1713) nella quale affermò la indivisibilità dei domini asburgici e stabilì l’ordine di successione al trono; era questo un ulteriore motivo di indebolimento, perché egli dovette avviare faticose trattative con la Dieta imperiale, con i vari suoi domini e con gli altri Stati europei per ottenere l’accettazione del documento. Ma quando improvvisamente l’imperatore morì, nel 1740, la situazione si complicò perché si manifestarono gli appetiti delle altre potenze che contestarono la successione di Maria Teresa per approfittare e avanzare pretese territoriali ai danni degli Asburgo. GUERRA DI SUCCESSIONE AUSTRIACA (1740-48) Maria Teresa (1740-80) sposò il granduca di Toscana Francesco Stefano di Lorena. A nulla valse l’accettazione della Prammatica sanzione da parte delle potenze straniere e degli organi cetuali dell’Impero. Maria Teresa non poteva accedere al titolo imperiale in quanto donna, quindi ella pensava di far eleggere il marito. Inoltre negli stessi domini ereditari vigevano regole diverse, che in alcuni casi escludevano la successione femminile. In particolare a rivendicare l’ereditarietà dei propri domini furono l’elettore di Baviera e il Re di Polonia in quanto avevano sposato figlie del defunto Giuseppe I, aizzati da Spagna e Francia, intenti a sfruttare queste debolezze per impadronirsi di alcuni territori. La guerra fu scatenata da Federico II di Prussia appena salito al trono che, approfittando del momento difficile, invase e occupò la Slesia senza alcuna dichiarazione formale di guerra; come già accennato, la Slesia era una provincia ricca con importanti manifatture. L’anno seguente Francia e Baviera lanciarono l’offensiva occupando Boemia e Moravia. Maria Teresa si rivolse alla nobiltà ungherese la quale, in cambio del rinnovo di privilegi, esenzioni e garanzie fiscali, fornì un’importante sostegno militare. Inoltre ella poté contare sull’aiuto dell’Inghilterra e dell’Hannover, delle Province unite e del Re di Sardegna. Ma fu una situazione comunque difficile, anche perché, sulla terraferma, l’Inghilterra non era in grado di dare un forte sostegno. Si sviluppa anche un aspro conflitto coloniale tra Francia e Inghilterra dove prevalse la superiorità della marina inglese. Sul piano continentale, con la Pace di Aquisgrana 1748, Maria Teresa riuscì a mantenere l’unità dei suoi domini (rinunciando alla Slesia) e la fine della guerra. Questa pace portò alla definitiva presenza nella penisola italiana della famiglia Borbone: Carlo di Borbone aveva conquistato nel 1735, (guerra di successione polacca) il Regno di Sicilia e ora nel 1748 l’Austria rinuncia ai ducati di Parma e Piacenza dove si insedia Filippo di Borbone, anche lui figlio del Re spagnolo Filippo V e Isabella Farnese. GUERRA DEI 7 ANNI (1756-63): La ripresa di un conflitto europeo fu determinata dalla volontà di Maria Teresa di riconquistare la Slesia. Federico II, per prevenire la minaccia austriaca, stipulò con la Gran Bretagna un trattato per impedire il passaggio di truppe straniere sul territorio tedesco (desiderio di Giorgio II di garantire la sicurezza dell’Hannover). Il cancelliere austriaco Kaunitz fu l’artefice di questa guerra e del rovesciamento delle alleanze, infatti egli si alleò con la Francia (da tempo in guerra coloniale con gli inglesi voleva garantirsi da eventuali attacchi in Europa). Alla fine, con la defezione della Manuale di Storia moderna Riassunto di di Vittorio Criscuolo Luciano Bramante 85 Russia (ammirazione di Pietro III), Federico II riuscì a uscire da una situazione difficile di accerchiamento e a mantenere il possesso della Slesia. L’alleanza tra Francia e Austria pose fine alla lunga rivalità franco- asburgica e fu anche molto importante per l’Italia che, venuta meno la storica competizione, poté godere di un lungo periodo di pace (fino a Napoleone). La fine della guerra dei 7 anni rese ancora più urgente la necessità di riforme interne nello Stato asburgico, dunque Maria Teresa proseguì le riforme già avviate di rafforzamento. I risultati più importanti furono raggiunti grazie a una separazione tra giustizia e amministrazione nel blocco austro- boemo: sul modello prussiano, istituì un Direttorio che si occupò delle imposte, esautorando di fatto le cancellerie di Austria e Boemia. L’obiettivo era di curare finanziariamente lo Stato, dissestato dalle enormi spese della guerra, e di creare un apparato amministrativo più solido per riscuotere le imposte: si impose ai ceti che le imposte votate avessero validità decennale e non occasionale, aumentando gli introiti e consentendo una programmazione delle spese. Questa centralizzazione amministrativa, classico modello di ogni politica assolutistica, non interessò gli altri domini (Belgio, Lussemburgo, Milano, Ungheria). Giuseppe II (1780-90): Un impulso importante alle riforme venne anche grazie a lui che, morto Francesco Stefano, già dal 1765 fu associato al trono alla madre: in realtà vi fu una gestione condivisa tra Maria Teresa, Kaunitz e Giuseppe II. Kaunitz, cancelliere abile e influenzato dalla filosofia settecentesca, diede alla politica austriaca un’impronta modernizzatrice; nella stessa direzione premeva Giuseppe II. Maria Teresa promosse riforme, come l’obbligo per ogni parrocchia di istituire una scuola elementare, oppure la riforma nell’università di Pavia. AMBITO RELIGIOSO: si affermò una politica giurisdizionalista, ovvero la rivendicazione dello Stato di controllare la compagine ecclesiastica nell’intento di creare una Chiesa nazionale, affrancata da Roma (vietato il diritto d’asilo, abolita l’Inquisizione, diminuzione della censura e del controllo delle pubblicazioni). Nei domini ereditari secolarizzò molte chiese e monasteri. Tuttavia, avendo Maria Teresa degli scrupoli religiosi, non riuscì ad adottare in pieno la politica più radicale suggerita dal figlio e da Kaunitz. Infatti solo dopo molte esitazioni accettò la soppressione dell’ordine dei Gesuiti. La politica giurisdizionalista fu espressa con chiarezza nelle istruzioni segrete di Kaunitz per la Lombardia (scheda Ariel): Tutto ciò che non è stato stabilito da Gesù è stato costituito da enti temporali, quali la Chiesa, quindi lo Stato ha il diritto di intervenire a sua volta. Tra le più importanti innovazioni nel milanese troviamo il catasto, realizzato con metodi moderni: il terreno veniva rilevato particella per particella, dando una fotografia esatta del patrimonio fondiario milanese. Da un lato aumentò notevolmente gli introiti, dall’altro, stabilendo un prelievo fisso del 4%, incentivava gli agricoltori a migliorare il rendimento del terreno (tutto ciò che avrebbero ricavato in più veniva escluso dalla tassazione), contribuendo allo sviluppo dell’agricoltura lombarda. CAMPO PENALE: dove si era levata anche la voce di Beccaria, Vienna dovette modificare il diritto penale, scontrandosi con il patriziato milanese che aveva la sua roccaforte nel Senato (massimo organo giurisdizionale milanese). A fatica le riforme furono realizzate, tra le più discusse ricordiamo l’abolizione della tortura realizzata con ritardo negli anni Ottanta (dal figlio). Ciò è emblematico nel mostrare come l’impulso riformatore in Italia sia sempre venuto da fuori (in Toscana dai Lorena, a Napoli dai Borbone). LIMITI DELLA POLITICA RIFORMATRICE: Maria Teresa, nei territori in cui non era riuscita una centralizzazione della sua autorità, fece fatica  il tentativo di limitare il peso delle corvée (robot) in Ungheria fallì a causa dell’opposizione della nobiltà magiara, fiera custode dei privilegi del regno e della propria immunità fiscale. Giuseppe II, alla morte della madre (1780), imporrà una linea più radicale. Manuale di Storia moderna Riassunto di di Vittorio Criscuolo Luciano Bramante 86 Si è molto discusso tra gli storici sulla continuità o meno del regno di Maria Teresa con quello del figlio Giuseppe II. Certamente possiamo dire che ci fu un salto di qualità: Giuseppe II tendeva ad una politica riformatrice molto radicale, soprattutto in ambito ecclesiastico (“giuseppismo”). Nell’eliminazione e confisca degli ordini religiosi proseguì nella politica già avviata dalla madre, ma intervenne anche in alcuni aspetti dove non si era mai intervenuti  Fin da inizio regno emanò la “ patente di tolleranza ”, (1781) che ruppe la tradizionale fedeltà della corona asburgica alla Chiesa di Roma, infatti concedeva a protestanti e greco-ortodossi (non agli hussiti) la libertà di culto ( scheda Ariel ) e la possibilità di accedere agli impieghi civili e militari ( scheda Ariel ). Nel contempo liberò gli ebrei da gran parte delle misure discriminatorie. Egli era mosso, oltre che da una sincera adesione ai principi di tolleranza, dal desiderio di servirsi di tutti i sudditi che potevano dare un utile contributo all’economia e alla amministrazione . Rimaneva l’esclusiva per il cattolicesimo di essere professato pubblicamente (le altre solo privatamente). Roma era fermamente ostile all’opera riformatrice di Giuseppe, tant’è che nel 1788 papa Pio VI Braschi si recò a Vienna per convincere l’imperatore a recedere da questi provvedimenti, ma senza successo. Il “giuseppinismo” tendeva a subordinare la Chiesa allo Stato, sul modello di una Chiesa nazionale che, riconoscendo il primato spirituale del papa, fosse comunque legata allo Stato e usata come elemento di rafforzamento (punto sul quale la tipica politica assolutista fa leva; creare una Chiesa subordinata in tutti gli aspetti (anche dogmatici) alla volontà dello Stato). Egli quindi soppresse i seminari diocesani e li sostituì con seminari generali gestiti dallo Stato, riservandosi così il diritto di formare il clero in prima persona. Giuseppe II era comunque un buon cattolico, ma era anche ispirato da un cattolicesimo evangelico, lontano dal tradizionale cattolicesimo asburgico, cioè barocco, ricco di manifestazioni . Infatti egli interviene anche a regolare aspetti liturgici, nei quali la politica giurisdizionalista non era mai entrata in merito: disciplinò processioni, pellegrinaggi, cerimonie, limitando il fasto esteriore e colpendo le consuetudini superstiziose del mondo popolare (culto reliquie)  gli ecclesiastici avrebbero dovuto essere dei funzionari al servizio dello Stato, favorendo quindi uno strumento di controllo sulla società. RIFORME ECONOMICO-SOCIALI: Molto incisivi e radicali furono i tentativi di modernizzazione. Abolì la servitù personale dei contadini e promosse la formazione di un catasto non solo nel blocco austro- boemo ma anche in Ungheria. Con un decreto (1789) stabilì la trasformazione dei robot in denaro e fissò al 30% anche la tassazione sulle proprietà del contadino, comprendente anche la quota del signore, in modo da lasciare il 70% del reddito al contadino. Anche in questo caso le riforme trovarono la resistenza dell’aristocrazia, soprattutto magiara, e non vennero mai realizzate (anche perché nel 1790 Giuseppe morì). L’imposizione del tedesco come lingua dell’amministrazione vide una reazione negativa di molte amministrazioni (Galizia, Ungheria). Ad urtare gli ungheresi fu anche la scelta di Giuseppe di trasferire a Vienna la prestigiosa corona di Santo Stefano. Alla morte di Giuseppe II la situazione europea era molto cambiata. Gli echi della Rivoluzione arrivano fino all’Impero. Già alla sua morte serpeggiava il malumore e venti di rivolta erano forti in Ungheria, sempre gelosissima delle sue prerogative (infatti la nascita formale del dualismo Austro-Ungarico avverrà solo a metà 800’), mentre i Paesi bassi belgi erano insorti proclamando l’indipendenza da Vienna (il Belgio era baluardo della Controriforma, e le riforme di Giuseppe erano troppo radicali). Il successore, Leopoldo II (1790-92) fu costretto ad annullare molti provvedimenti presi dal fratello e a fare ampie concessioni ai patriziati locali. Era cambiato il clima in Europa: mentre la politica giurisdizionalista di Giuseppe II era volta a limitare il potere della Chiesa, la Rivoluzione Francese rese necessario per le monarchie assolute fare della Chiesa un alleato, vista la sua forte presa sulle masse popolari, per scongiurare la diffusione dei principi rivoluzionari. CONCLUSIONI: sul manuale Criscuolo ha preferito definire come “età delle riforme” ciò che spesso viene chiamato “assolutismo illuminato”, poiché quest’ultimo è un termine postumo, che ai contemporanei sarebbe apparso come un ossimoro perché dispotismo e lumi erano agli opposti. Inoltre nel guardare l’opera di questi sovrani “illuminati” troviamo molti limiti: Federico II fu legato si ai philosophes, ma le sue scelte furono basate sul rafforzamento dello Stato; Caterina II fondamentalmente fallì nel suo Manuale di Storia moderna Riassunto di di Vittorio Criscuolo Luciano Bramante 87 7-8-9. La repubblica, nel quale o il popolo tutto (democrazia) o una parte di esso (aristocrazia) esercita il potere, trova il suo principio nella virtù, ovvero nella disposizione dei cittadini a sacrificare il proprio interesse individuale per garantire il bene e l’interesse comune. Se viene meno la virtù, la Repubblica non può più reggersi e inevitabilmente decade. La monarchia, nella quale uno solo governa, ma non arbitrariamente, dovendo rispettare leggi stabilite, si fonda sull’onore, ovvero sulle prerogative di ceti e istituzioni gelosi del proprio rango e del proprio ruolo. Nel dispotismo invece uno solo regge lo Stato senza leggi né freni, a suo arbitrio; esso perciò si fonda sulla paura, perché tutti sudditi, uguali di fronte al potere immenso del despota, possono in ogni momento essere privati della vita o dei beni. La definizione di repubblica fondata sulla virtù ebbe estrema fortuna nel 700’ (vedi Robespierre) ma nella sua opera ha un ruolo marginale, infatti egli evidenzia con lucidità la crisi del modello repubblicano: Egli ammirò molto le repubbliche antiche (scrisse un’opera importante sulle cause della grandezza e della decadenza dei romani), ma davanti alla realtà del suo tempo, egli assume una visione molto più distaccata e tutto sommato pessimistica nei confronti della repubblica (punto 8): essa emerge come un modello storico, che si rifà all’antichità, quindi solo un modello letterario visto sui libri. Infatti, nel suo tempo, egli si confronta solo con repubbliche oligarchiche (Genova, Venezia, le province unite), che sono al di fuori della grande politica internazionale e che vivono delle loro ricchezze commerciali e finanziarie. In questi Stati non vi era più traccia delle eroiche virtù di cui avevano dato prova le repubbliche antiche. Il quadro politico settecentesco era incentrato invece sulla contrapposizione tra monarchia moderata e dispotismo, infatti il cuore del suo lavoro è tutto su questa contrapposizione. 10-11-12. I tre tipi di regime si differenziano anche per la dimensione territoriale: la Repubblica è adatta a piccoli territori, la monarchia ai medi e il dispotismo alle grandi estensioni. Queste leggi agiscono in modo meccanico, necessari: se una Repubblica amplia con le conquiste il suo territorio, non può reggersi ma, come era accaduto all’antica Roma (riferimento alla Repubblica Romana dopo le conquiste), deve per forza di cose evolvere verso un regime monocratico. Secondo lui, per leggi fisiche, la repubblica deve evolvere in una monarchia. Lo stesso vale per la monarchia che, se si estende oltre i suoi medi confini, deve necessariamente diventare un sistema dispotico. In questi punti troviamo già l’idea moderna di Europa. Egli considerava il dispotismo particolarmente adatto alle sterminate pianure dell’Asia, mentre l’Europa, per la sua struttura geografica e per la sua storia, era terra di libertà. Per l’Asia si può pensare all’Impero ottomano e alla Cina come modello; ma per l’Europa, qual è il modello di monarchia temperata? L’Ighilterra! 13-14-15-16. Nell’opera individua l’Inghilterra come modello di monarchia fondata sulle leggi, affermatesi con la gloriosa rivoluzione (1688): in essa la libertà, intesa come garanzia per ciascuno della propria vita e dei propri beni, era fondata (già mostrata da Locke) sulla separazione dei tre poteri: legislativo, esecutivo e giudiziario. Quindi freni ed equilibri bilanciano i poteri: “perché non si possa Manuale di Storia moderna Riassunto di di Vittorio Criscuolo Luciano Bramante 90 abusare del potere bisogna che il potere freni il potere”. Al contrario “presso i turchi, ove questi tre poteri sono riuniti nel sultano, regnava un terribile dispotismo”. 17-18-19. Tuttavia Montesquieu guardava l'Inghilterra con gli occhiali di un aristocratico francese: più che un'assemblea rappresentativa (come la Camera dei Comuni), a suo parere erano soprattutto gli ordini intermedi, vale a dire la nobiltà e le varie magistrature, che, difendendo le loro prerogative, garantivano il carattere moderato della monarchia, impedendo una sua evoluzione verso il modello dispotico: “senza monarca non esiste nobiltà; senza nobiltà non esiste monarca”. Nella prospettiva degli illuministi bisognava limitare il potere dei corpi intermedi (Voltaire); Montesquieu va in tutt’altra direzione, ritenendo necessario il loro rafforzamento. In realtà sappiamo che il modello inglese stava evolvendo verso un modello parlamentare, in cui il potere esecutivo (il governo) era espressione della maggioranza che si formava in Parlamento: questa era la principale limitazione del potere del re, che non poteva far altro che investire a capo del governo la forza che aveva vinto le elezioni. Nonostante la sua esperienza in Inghilterra egli non colse la natura parlamentare del modello inglese. 20-21-22-23-24-25. Non a caso egli pone l’accento sul potere giudiziario (la magistratura, quindi di un corpo intermedio) e non su quello legislativo. Si denota qui come egli abbia in testa la Francia, dove i Parlamenti limitano il potere della monarchia assoluta, e non l’Inghilterra. Perfino il clero, che egli giudica un male per lo Stato, è un male utile se esso serve come barriera per non far degenerare la monarchia in dispotismo. Perché dà tanta importanza al dispotismo, nella sua opera, se era così lontano dall’Europa? 26-27-28. Pur senza fare il suo nome, si denota come Montesquieu, nel punto 27, parla espressamente di Luigi XIV: il quale aveva voluto abolire le prerogative dei signori feudali, della nobiltà, del clero e delle città, restringendo “lo Stato alla capitale, la capitale alla corte, la corte alla propria unica persona” Emerge anche la critica alla sua politica estera d’espansionismo: se lo stato si allarga, la deriva è autoritaria. Infatti, nelle ultime due frasi del punto 28 si evidenzia il sollievo di Montesquieu nel fallimento della politica espansionista del Re Sole: il suo è un punto di vista tipicamente aristocratico. Montesquieu fotografa la realtà dell’Europa del suo tempo. Da un lato la monarchia inglese, che non comprende del tutto, con il suo sistema liberale moderato; sul continente non ci sono le condizioni per cui si stabilisca il regime inglese rappresentativo, ma esistono gli ordini a garanzia di libertà nell’Europa del tempo. Dall’ altra parte il dispotismo, che non esiste solo in Asia, ma ha rischiato di affermarsi anche in Europa con la politica di Luigi XIV. Per questo motivo si inserisce in quel filone aristocratico anti dispotico, che fiorì dopo la morte di Luigi XIV, il quale affermava che la monarchia non doveva eliminare ma garantire le prerogative della nobiltà. Si comprende qui l’attualità dell’opera: un uomo del 700 trovava nella sua opera le reali alternative possibile. Montesquieu si pone come il fondatore del modello di pensiero liberal-moderato ma è anche profondamente radicato nel suo tempo: se certamente il suo pensiero, di freni ed equilibri, è fra i temi classici del pensiero politico, nel contempo Montesquieu guardava sicuramente più al suo passato che al futuro, consacrando la matrice aristocratica della monarchia francese che era stata messa in discussione dall’azione dispotica di Luigi XIV. Il pensiero di fondo di Montesquieu è: il potere deve essere moderato. Nella Restaurazione, il pensiero di Montesquieu si porrà davvero come esponente di quel movimento liberal-moderato, ancora oggi attivo nel dibattito. JEAN JACQUES ROUSSEAU Rousseau (1712-78) nato a Ginevra. In gioventù non diede segno di grande intelligenza. Dopo aver girato varie città d’Europa, approda a Parigi, dove si lega Manuale di Storia moderna Riassunto di di Vittorio Criscuolo Luciano Bramante 91 all’ambiente illuminista, in particolare a Diderot, che, con D’Alembert, stavano dando avvio alla grande impresa dell’Enciclopedia. Pubblicò in quest’opera molti articoli dedicati alla musica. La svolta sarà nel 1750, quando pubblica il Discorso sulle scienze e sulle arti, che lo inserisce nel panorama intellettuale europeo. Lui stesso racconta l’inizio della sua carriera di intellettuale come “ l’illuminazione di Vincennes”: Diderot era stato imprigionato nel castello di Vincennes. Nel dirigersi a trovarlo, lesse su un giornale l’indicazione di un concorso, bandito dall’Accademia di Digione, che aveva per titolo “Se il rinascimento delle arti abbia contribuito a migliorare i consumi”, che scatenò in lui una profonda ispirazione: "La mia mente fu abbagliata da mille luci; una folla di idee feconde si presentarono tutte insieme con una forza e una confusione tali da provocare in me un turbamento inesprimibile”. Il quesito dell’Accademia di Digione risentiva naturalmente dell’orgoglio del secolo dei lumi, convinto di aver raggiunto uno sviluppo tale da distaccarsi dal secolo precedente. Il quesito quindi avrebbe implicato una risposta necessariamente positiva; invece il ginevrino rovesciò provocatoriamente l’immagine della società settecentesca della quale andavano orgogliosi gli illuministi. L’Accademia gli assegnò un premio e l’opera fu pubblicata. [Questo primo discorso (scheda Ariel), insieme al secondo Discorso sull’origine dell’uguaglianza (1755), rappresenta, oltre che l’avvio, la 1° fase del pensiero politico di Rousseau, cioè una fase improntata sulla critica della società. La 2° fase invece sarà contrassegnata dalle opere Contratto sociale ed Emile (1762), in cui egli si convince che, dopo la nascita della società, fosse impossibile per l’uomo recuperare l’innocenza e la semplicità delle origini.] Discorso sulle scienze e sulle arti (1° fase) Egli non critica questo o quel regime ma esprime un radicale rifiuto della società, la quale aveva irrimediabilmente corrotto l’uomo, rendendolo egoista e malvagio. Quindi colpiva al cuore l’idea del progresso dell’Illuminismo. L’opulenza e lo splendore delle grandi città, la raffinatezza dei costumi, delle arti e della cultura nascondevano la profonda miseria morale dell'infelicità della popolazione. (2.) Critica la mancanza di personalità dell’individuo e la conseguente omologazione della società. (3.) Critica le grandi città: “abbiamo fisici, geometri, chimici, astronomi, poeti, musicisti, pittori; ma non abbiamo più cittadini: o se ancora ce ne restano, dispersi nelle nostre campagne abbandonate, là muoiono indigenti e disprezzati”. (4.) Evidenzia la virtù, scienza degli uomini semplici: “Ecco la vera filosofia”, non le arti, l’astronomia o altre scienze del suo tempo, ma la virtù dell’uomo semplice. Richiama l’antica Grecia, dove egli simpatizzava per Sparta e non Atene. “cerchiamo di porre questa gloriosa distinzione che un tempo si notava tra due grandi popoli: che l’uno sapeva parlare bene, l’altro sapeva per operare”. (Questa prospettiva viene proiettata nella 2° fase, dove viene approfondito il tema della disuguaglianza. La fase in cui Rousseau condannata la società come concetto) Discorso sull’origine dell’uguaglianza (1° fase) La sua analisi parte dall’uomo, da un punto di vista fisico e biologico. Infatti, alla civiltà dell’Europa settecentesca egli contrapponeva i semplici costumi dell’uomo primitivo, l’uomo prima della società, che, libero da ogni vincolo, anche familiare, non aveva che pochi bisogni ed era guidato solo dall’istinto. Rousseau negava quindi il valore positivo dello sviluppo delle conoscenze, delle scienze e delle arti: la vera filosofia era la semplicità e la naturalezza, originaria virtù che l’uomo primitivo aveva perduto unendosi ai suoi simili in una società fondata sulla proprietà privata, e quindi sulla disuguaglianza. Questo è il “peccato originale” che ha portato all’infelicità dell’uomo. Va notato che egli, nato calvinista, si era convertito al cattolicesimo, per poi ritornare al calvinismo (1755). Il modello calvinista ha quindi una certa importanza. (3.) Emerge l’atto di unione tra gli uomini, che si legano tra loro perdono la propria indipendenza naturale, per soddisfare i reciproci bisogni che non sono più elementari, indispensabili (come quelli del selvaggio che ha solo bisogno di ricavare dalla natura in cui vive il sostentamento). Questi bisogni evoluti, legano gli uomini in una rete di relazioni che scontentano tutti e rendono tutti schiavi: “ il ricco Manuale di Storia moderna Riassunto di di Vittorio Criscuolo Luciano Bramante 92 CONCLUSIONI La provocazione nel discorso del 1750 fu causa della rottura di Rousseau con i vari circoli di Parigi e anche la causa della rottura con Diderot; questo perché aveva scardinato e colpito la fiducia dell’Illuminismo nei confronti del progresso e della scienza. Rousseau pone un modello di società che, deviando nettamente dal pensiero illuministico del suo tempo, rivalorizza la sensibilità, il sentimento, sia nazionale che religioso, l’amor per la patria (è infatti, spesso, considerato un preromantico). Egli si definisce cittadino di Ginevra, ciò contrasta con lo spirito internazionale degli illuministi, convinti di appartenere ad un’unica grande compagine che era il Mondo, al di là dei confini nazionali. Anche nei confronti della sua patria, Ginevra, subì una cocente delusione perché il Contratto sociale, oltre che a Parigi, fu condannato anche lì. Questa fu la svolta: si rese conto della struttura oligarchica della città, governata da un ristretto patriziato conservatore. Scriverà le Lettere scritte dalla montagna, dove critica fortemente il governo di Ginevra che aveva idealizzato durante la sua assenza. C’è una rottura profonda con la stessa tradizione ginevrina. Gli ultimi anni lo vedranno vittima di manie di persecuzione. La Rivoluzione Francese riconobbe in lui uno dei padri fondatori, tanto che nel 1794 le sue ceneri vennero portate nel Pantheon. POSIZIONE DI CRISCUOLO: Egli quindi si pose fuori dalla cultura dei Lumi? In fondo egli rifiuta l’idea di progresso e del cosmopolitismo illuminista. Lo possiamo considerare illuminista o anticipa la sensibilità romantica? Il modo in cui affronta i problemi è illuminista: il modello elaborato era un tentativo fatto su basi razionali, attraverso un’analisi della natura umana e delle origini della società; ovvero il metodo illuminista. Per quanto riguarda il discorso sulle riforme è lontano dai filosofi, che avevano esaltato le monarchie illuminate: i sovrani sono dei despoti. Ma fra le forme di governo egli mostrò di preferire l'aristocrazia elettiva, nella quale i migliori, ovvero i saggi, governano la moltitudine. Restava ben fermo nel suo pensiero lo schema di fondo della civiltà dei lumi: la missione degli intellettuali di guidare i propri simili verso la felicità. Rimane quindi l’idea del filosofo che analizza la realtà e ne ricava la ricetta risolutiva. Quindi Rousseau non si discosta dalle radici analitico-scientifiche e fu certamente un uomo del suo tempo. Manuale di Storia moderna Riassunto di di Vittorio Criscuolo Luciano Bramante 95 LA RIVOLUZIONE FRANCESE (1786-89) La causa immediata della rivoluzione francese fu una grave crisi finanziaria (gli interessi del debito pubblico assorbivano ogni anno metà delle entrate), dovuta in buona parte alle spese per il sostegno degli americani nella guerra d’indipendenza. Più volte si era tentato senza successo di porre rimedio all’inefficienza del sistema fiscale, fondato su un insieme di imposte, stabilite dalla necessità del momento, in tempi e con modi diversi (nei pays d’états, province di recente annessione, bisognava contrattarle): la taglia, gravava esclusivamente sui contadini e l’ammontare complessivo era fissato ogni anno e poi ripartito tra loro; la capitazione era un’imposta sul reddito; il ventesimo colpiva immobili, commercio e rendite. Il problema era che queste ultime due imposte, che dovevano gravare anche sul clero e sulla nobiltà, in realtà venivano totalmente eluse da queste due categorie. Quindi andavano ad aggiungersi al carico, già pesante, che gravava solo sui contadini (formato anche da imposte indirette come l’odiata gabella, la cui riscossione era appaltata a società di finanzieri). Tra le cause concatenanti, fu paradossalmente l’aristocrazia a dare inizio alla crisi rivoluzionaria che avrebbe portato alla caduta dei suoi privilegi, opponendosi alle misure finanziarie predisposte dal governo per sanare la situazione finanziaria. A tal fine fu chiamato inizialmente Necker (ginevrino, calvinista), che divulgò il primo bilancio pubblico dello Stato francese: seppur si trattava di un bilancio “accomodato”, ebbe un’enorme impatto poiché divulgò, per la prima volta, i costi delle pensioni elargite dal re ai nobili di corte, con i rispettivi nomi. Tutta l’aristocrazia fece enormi pressioni su Luigi XVI per licenziare Necker. Il sostituto fu Calonne, che, consapevole che non era possibile aggravare ulteriormente i contadini, sottolineò che occorreva far pagare almeno in parte le imposte a coloro che ne erano di fatto esenti. Quindi egli prospettò l’istituzione di una “sovvenzione territoriale”, imposta da pagare in natura da parte di tutti i proprietari fondiari, compresi nobili ed ecclesiastici. Egli cercò anche di stimolare l’economia con la libera circolazione dei grani, agevolando il mercato interno con l’abolizione delle barriere doganali. Qui entrò in gioco la personalità di Luigi XVI che, influenzato dalla moglie Maria Antonietta e dagli ambienti reazionari di corte, non appoggerà mai con convinzione le riforme proposte dai suoi ministri: il re fu costretto a licenziare Calonne e a nominare Brienne, arcivescovo di Tolosa, il quale non poté che riproporre la sovvenzione territoriale, modificata in un tributo fisso da pagare in denaro. Fu necessario presentare i decreti al Parlamento di Parigi, il quale rifiutò di registrare la sovvenzione e, rinnovando una vecchia tradizione, si attribuì addirittura un ruolo costituzionale ( 1788 ), ergendosi a custode delle leggi fondamentali del regno: tra cui lo strano richiamo alla necessità del consenso degli Stati Generali (che però non venivano convocati da 150 anni) per imporre nuove imposte, divenendo il vero difensore dell’aristocrazia e mostrandosi ancora come il vero ostacolo alla monarchia. A questo punto Luigi XVI provò addirittura ad abolire il Parlamento di Parigi e a ridurre le competenze degli altri Parlamenti, ma i provvedimenti suscitarono in provincia vivaci proteste e tumulti, per cui fu costretto a ritirarli. Brienne si dimise dopo aver promesso la convocazione degli Stati generali per il 1 maggio dell’anno seguente. Il re richiamò al governo Necker, ritenuto favorevole alle riforme. Gli Stati Generali erano quindi chiamati a convalidare le imposte volte a sanare la drammatica situazione finanziaria. Necker sapeva che, per far approvare le imposte che gravassero anche su clero e nobiltà, doveva appoggiarsi al Terzo Stato. In questa prospettiva, nel regolamento elettorale egli attribuì una rappresentanza doppia del Terzo Stato rispetto a quella degli altri due ordini. Egli però lasciò aperta la questione decisiva della modalità del voto: il raddoppio del terzo Stato sarebbe stato inutile se si fosse Manuale di Storia moderna Riassunto di di Vittorio Criscuolo Luciano Bramante 96 votato per ordine (come da tradizione) e non per testa. Ma Necker non osò sciogliere questo nodo perché sapeva di non avere il pieno appoggio del re. Lo scenario politico cambiò di colpo: il tradizionale conflitto tra monarchia e nobiltà perse rilievo e si impose invece il programma del Terzo Stato che, accantonate le polemiche contro l’assolutismo, mise sotto accusa l’egoismo dei privilegiati. Diventa uno scontro tra i ceti privilegiati e la massa della popolazione, che rivendicava un ruolo che l’antico regime non gli aveva mai riconosciuto. La monarchia si erse ad arbitro, sempre più incline a sostenere il clero e la nobiltà, condannando sé stessa sempre di più. Le elezioni per i deputati (ogni ordine eleggeva i propri separatamente) coinvolsero in profondità la società francese, in un clima di grande attesa. Il suffragio fu in effetti molto ampio (nelle campagne furono ammessi al voto tutti i capifamiglia oltre i 25 che pagavano una qualsiasi imposta). Contestualmente varie assemblee dovevano raccogliere lamentele e richieste (cahiers de doléances) che i deputati avrebbero presentato al re. Nel loro insieme queste richieste mettevano in discussione l’intero sistema istituzionale e sociale, e esprimevano ostilità nei confronti dell’assolutismo, ma manifestavano anche una totale fedeltà della figura del re. La prima seduta degli Stati Generali si riunì il 5 maggio 1789 a Versailles: parteciparono 1165 deputati, dei quali la metà faceva parte del Terzo Stato.  CLERO (0,5% della pop): possedeva circa l’8% della terra e godeva di numerosi privilegi: esente da tassazione, contribuiva alle finanze statali con doni gratuiti, e disponeva di tribunali propri. Tuttavia il grosso della ricchezza dell’ordine era appannaggio soprattutto dell’alto clero (vescovi, abbati, canonici), in larga misura appartenenti alla nobiltà (allora i 139 vescovi erano tutti nobili). Perfino la decima confluiva delle entrate dell’alto clero. Il regolamento elettorale favorì il basso clero , che inviò 200 curati sul totale di 291 deputati. Il basso clero, di estrazione plebea, spesso condivideva la vita e la mentalità dei contadini. In seguito le divisioni interne al clero avranno un ruolo decisivo nella crisi.  NOBILTÀ (1% della pop): anch’esso presentava al suo interno posizioni molto differenziate: le condizioni della nobiltà di corte erano diverse da quelle della nobiltà di provincia, che, avendo spesso difficoltà finanziarie, tendeva a inasprire il prelievo sui contadini. Vi era poi la nobiltà di toga, installata al vertice dell’amministrazione e del sistema giudiziario, vera casta inamovibile. Non a caso furono questi i più attivi difensori dei privilegi dell’ordine, ostinatamente attaccati ai diritti signorili ; i grandi aristocratici avrebbero tranquillamente rinunciato ad una percentuale dei loro privilegi. Alla fine di 270 deputati solo una minoranza di nobili liberali (90) era propensa ad accettare l’eguaglianza giuridica e a diventare semplici cittadini: fra essi il marchese de La Fayette.  TERZO STATO (98,5% della pop): tutti i francesi che non erano né ecclesiastici né nobili. Comprendeva tutti, dai più ricchi imprenditori, finanzieri, appaltatori, al più povero mendicante. Eppure il sistema elettorale favorì il prevalere degli strati superiori del Terzo Stato: tra i 578 deputati prevalsero esponenti delle professioni liberali: avvocati, imprenditori, finanzieri, intellettuali (Bailly). Nessun artigiano o contadino fu eletto. Significativo che alla guida del Terzo vi fossero un nobile, Mirabeau, e un ecclesiastico, l’abate Sieyès , teorico che espose il programma del Terzo in un opuscolo Qu’est-ce que le Manuale di Storia moderna Riassunto di di Vittorio Criscuolo Luciano Bramante 97
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