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Riassunto storia romana dalle origini alla fine dell'impero, Sintesi del corso di Storia Romana

riassunto storia romana, dalle origini alla fine dell'impero

Tipologia: Sintesi del corso

2021/2022

Caricato il 14/06/2023

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aurora-ledda 🇮🇹

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Scarica Riassunto storia romana dalle origini alla fine dell'impero e più Sintesi del corso in PDF di Storia Romana solo su Docsity! Storia romana Dalle origini alla fine dell’impero 1 Etruschi origine ed espansione: Gli etruschi sono la popolazione più importante dell’Italia pre-romana. Le loro origini sono abbastanza incerte, vediamo appunto che diversi autori come Dionigi di Alicarnasso ed Erodoto ci forniscono le loro versioni. La ricerca archeologica e stroica moderna ha potuto constatare che l’origine degli etruschi si colloca tra VII e VII secolo a.C come punto di incontro di due tipi di processi: da un lato si pensa ad un’evoluzione della struttura interna delle società e delle economie locali, dall’altro si riconosce l’importanza che su queste esercitano influenze esterne, in primo luogo i rapporti con le colonie greche presenti nell’Italia meridionale. Nella loro fase di massima espansione tra il VII e VI secolo a.C gli etruschi controllavano gran parte dell’Italia centro-occidentale e competevano con i greci e i cartaginesi per le principali rotte marittime. Gli etruschi si organizzarono fin dalle origini in città indipendenti governate da sovrani, che poi furono sostituiti da magistrati eletti annualmente. La società etrusca si distinse per un carattere profondamente aristocratico; il governo delle città era infatti nelle mani di un gruppo ristretto di proprietari terrieri e di ricchi commercianti. Il processo di espansione degli etruschi subì una prima battuta di arresto nel 530 a seguito di una battaglia navale, in cui peraltro non ci è chiaro il vincitore, ingaggiata con i Focei. Anche l’espansionismo verso l’Italia meridionale fu arrestato, quando nel 474 subirono una sconfitta a cura da parte dei greci di Siracusa. Nella religiosità etrusca ha un’importanza particolare la concezione dell’aldilà. Il defunto è immaginato continuare la propria esistenza nella tomba, che viene perciò concepita come un prolungamento della dimora del vivo, nella quale devono trovar posto cibi e bevande e i simboli dello status sociale. Agli etruschi interessava molto la corretta interpretazione dei segni della volontà divina visibili in terra. Di qui l’importanza attribuita all’aruspicina, attraverso l’esame delle viscere degli animali sacrificati per riti religiosi. L’aruspicina si basa sulla concezione di una fondamentale unità cosmica secondo cui negli organi si riprodurrebbe il volere dell’universo. L’alfabeto etrusco è un riadattamento a quello greco, nonostante l’etrusco non sia una lingua indoeuropea. I testi che sono giunti fino a noi sono composti per lo più da brevi formule, nelle quali spesso compare il nome del defunto. Pochi sono i testi di una certa estensione, come per esempio il liber linteus di Zagabria ( fatto di bende di lino che ricoprivano una mummia acquistata in Egitto e contenente un calendario religioso.) Roma: I primi storici dei quali possiamo tuttora leggere, in forma più o meno completa, le narrazioni su Roma arcaica vissero nel I sec a.C e sono Tito Livio e Dionigi di Alicarnasso. Lo scopo principale di Dionigi di Alicarnasso nell’esposizione della storia di Roma arcaica è quello di dimostrare che i romani erano una popolazione di origine ellenica, spiega come il popolo romano si fosse formato dalla fusione di successive ondate migratorie provenienti dalla Grecia. La versione più nota e diffusa della leggenda delle origini di Roma inserisce la fondazione di Alba Longa e la dinastia dei re Albani tra l’arrivo di Enea nel Lazio e il regno di Romolo. 2 convocare il senato e le assemblee popolari. Solo alcune delle competenze religiose dei precedenti monarchi non sarebbero state trasferite ai consoli, ma ad un sacerdote, chiamato Rex sacrorum in onore della vecchia fase della monarchia, esso non poteva rivestire cariche di natura politica. Nella sfera religiosa rimase sempre di competenza dei consoli il controllo degli auspici, il potere cioè di interpretare il volere degli dei riguardo le decisioni della vita pubblica. Tutte le magistrature ordinarie dello stato romano avevano la durata della carica di un anno. Al primo anno della repubblica risalirebbero i questori: originariamente in numero di due, assistevano i consoli nella sfera delle attività finanziarie. In caso di necessità i supremi poteri della repubblica potevano essere affidati ad un dittatore, esso non veniva eletto da un’assemblea popolare, ma da un interrex, da un console o da un pretore. Era affiancato da un magister equitum (cioè comandante della cavalleria). Dati i suoi poteri straordinari il dittatore poteva restare in carica per un massimo di sei mesi. I flamini, rappresentavano la personificazione del dio stesso. In particolare le tre supreme divinità della prima Roma repubblicana: Giove, Marte e Quirino. Dodici flamini minori erano poi addetti al culto di altrettante divinità. I tre più importanti collegi religiosi, quelli dei pontefici, degli auguri e dei duoviri sacris faciundis, avevano poteri che superavano ampiamente la sfera culturale e coinvolgevano direttamente la politica. Il collegio dei pontefici, guidati da un pontefice massimo, costituiva la massima autorità religiosa dello stato, ai pontefici tra l’altro spettava la nomina dei tre flamini maggiori. Il collegio degli auguri aveva invece la funzione di assistere i magistrati nel loro compito di trarre gli auspici e di interpretare la volontà degli dei, affinché un atto pubblico potesse essere considerato valido. Ciò avveniva soprattutto attraverso l’osservazione del volo egli uccelli. L’autorevole parere degli auguri consentiva al senato o a un magistrato di bloccare immediatamente ogni procedimento. Per tale motivo le funzioni del collegio augurale avevano anche un’importanza politica. I duoviri sacris faciundis erano incaricati di custodire i libri sibillini, un’antichissima raccolta di oracoli, in greco, che nella tradizione della tarda repubblica erano in qualche modo connessi con la Sibilla di Cuma. Una rilevante funzione in politica estera avevano i feriali, anch’essi riuniti in un collegio. La loro funzione meglio nota era quella di dichiarare guerra. Il vecchio consiglio regio, formato dai capi delle famiglie nobili sopravvisse alla caduta della monarchia, anzi divenne il perno della nuova repubblica a guida patrizia. La carica di senatore era vitalizia, il senato era composto da ex magistrati. Il terzo pilastro oltre alle magistrature e al senato, sul quale si resse l’edificio istituzionale della Roma repubblicana è costituito dalle assemblee popolari. Riservata ai maschi adulti. Nella prima età repubblicana l’assemblea più importante di Roma è costituita dai comizi centuriati, fondati su di una ripartizione della cittadinanza in classi di censo, e all’interno di queste centurie. La funzione più importante dell’assemblea centuriata era quella elettorale: spettava infatti a loro l’elezione dei consoli e degli altri magistrati superiori. Le assemblee popolari non potevano ne autoconvocarsi ne assumere iniziative autonome. Spettava ai magistrati che la presiedevano indire l’adunanza, stabilire 5 l’ordine del giorno e sottoporre al voto le proposte di legge, che l’assemblea poteva accettare o respingere ma mai modificare. Conflitto patrizi e plebei: Il periodo che va dalla nascita della repubblica al 287 a.C è denominato da contrasti civili che opposero patrizi e plebei. La popolazione era indebolita dalla fame e venne ripetutamente colpita da epidemie. I piccoli agricoltori ,che avevano minore possibilità di fronteggiare le temporanee difficioltà, spesso si trovano costretti a indebitarsi nei confronti dei più ricchi proprietari terrieri. Mentre gli strati più ricchi della plebe erano meno interessati alla crisi economica, rivendicavano però una parificazione dei diritti politici. Il conflitto tra i due ordini si apre nel 494 a.C. la plebe, esasperata dalla crisi economica, ricorse a quella che si rivelerà l’arma più efficace nel confronto tra i due ordini: una sorta di sciopero generale che lascia la città priva della sua forza lavoro e, soprattutto, indifesa contro le aggressioni esterne. Questa protesta venne attuata sull’Avventino, il colle di Roma maggiormente legato alle tradizioni plebee. In occasione della prima secessione dell’avventino la plebe si diede organismi propri: un’assemblea generale, che poteva emanare provvedimenti che prendevano il nome di plebiscita, che naturalmente non avevano valore vincolante per lo stato nel suo complesso ma solamente per la plebe stessa. Vennero poi scelti come rappresentanti ed esecutori della volontà dell’assemblea i tribuni della plebe, avevano il potere di venire in soccorso di un cittadino contro l’azione di un magistrato. La prima secessione approdò ad un risultato essenzialmente politico, il riconoscimento da parte dello stato a guida patrizia dell’organizzazione interna della plebe, con la sua assemblea e i suoi rappresentanti. Ma il riconoscimento di ciò non avvenne, così la plebe incominciò a premere affinché fosse redatto un codice di leggi scritto. Dopo alcuni anni di agitazioni, si giunse ad un compromesso: nel 451 venne nominata una commissione composta da dieci uomini (nota come decemvirato) esclusivamente scelti tra il patriziato e incaricati di stendere in forma scritta un codice giuridico. Nel corso del primo anno di attività i decemviri compilarono un complesso di norme che vennero poi pubblicate su dieci tavole di legno esposte nel foro. Rimanevano tuttavia da trattare ancora alcuni punti, venne eletta dunque per il 450 una seconda commissione decemvirale, nella quale, secondo alcune fonti, sarebbe stata rappresentata anche la plebe. Nel corso di questo secondo anno i decemviri avrebbero completato la loro opera con altre due tavole di leggi, portando dunque il totale a 12 tavole. Tra le disposizioni prese nel 450 vi era anche quella che impediva i matrimoni tra patrizi e plebei. La commissione tuttavia, sotto la spinta del suo membro più influente, Ampio Claudio, cercò di prorogare indefinitamente i poteri assoluti, rivoluzionando completamente l’assetto costituzionale dello stato. Il tentativo si scontrò con l’opposizione della plebe e degli aristocratici più moderati, guidati da Marco Orazio e Lucio Valerio. Orazio e Valerio fecero approvare un pacchetto di leggi in cui si riconosce l’apporto della plebe nella lotta contro il tentativo rivoluzionario dei decemviri: vi si ribadisce l’inviolabilità dei rappresentanti della plebe, si proibisce la creazione di magistrature contro le quali non valesse il diritto di appello e si rendono i plebisciti votati all’assemblea della plebe vincolati per l’intera cittadinanza. La norma che proibiva i matrimoni fra patrizi e plebei fu 6 abrogata nel 445, in base ad un plebiscito Canuleio che assume forza di legge per l’intera cittadinanza. Le stesse leggi Valerie Orazie del 449, in particolare il provvedimento che equiparava i plebisciti del concilium plebis alle leggi votate dall’intera cittadinanza, sembrano la semplice anticipazione di provvedimenti posteriori. Per comprendere i caratteri dell’azione dei decemviri ci rimane soprattutto il contenuto delle 12 tavole, il cui originale epigrafico è naturalmente perduto, ma ci è in parte noto da citazioni sparse di autori posteriori. I frammenti riguardano soprattutto la sfera delle relazioni fra gli individui. Nelle 12 tavole è ravvisabile un’influenza del diritto greco, che le fonti antiche giustificano ricordando come un’ambasceria si fosse recata da Roma ad Atene, nel 454 per studiare la legislazione di Solone. Il plebiscito fatto votare da Canuleio, riconoscendo la legittimità dei matrimoni misti tra patrizi e plebei, ebbe come conseguenza di rimuovere la principale obiezione che il patriziato aveva opposto all’accesso dei plebei al consolato: solo i patrizi in effetti si ritenevano titolari del diritto di prendere gli auspici per accettare la volontà degli dei. A seguito del plebiscito di Canuelio, tuttavia, il sangue delle famiglie plebee poteva, legittimamente mescolarsi con quello di stirpi patrizie, diveniva pertanto difficile escludere un plebeo, nelle cui vene scorresse almeno un poco di sangue patrizio, dagli auspicia e di conseguenza dal consolato. La promulgazione del primo codice di leggi scritto e l’istituzione della nuova carica dei tribuni militari lasciavano sostanzialmente aperti due nodi, politico ed economico, del confronto tra i due ordini. La crisi si accelerò dopo che la minaccia dei Galli si era allontana da Roma. Nel 387, per rispondere alla fame di terra della plebe indigente, il territorio di Veio e Capena, conquistato pochi anni prima, venne suddiviso in piccoli appezzamenti e distribuito ai cittadini romani, con la creazione di ben quattro nuove tribù territoriali. Sembra però che tuttavia il provvedimento non sia stato sufficiente ad alleviare la crisi economica: pochi anni dopo il patrizio Capitolino, eroe della resistenza contro i Galli, propose una riduzione o la totale cancellazione dei debiti e una nuova legge agraria, sperando, secondo le accuse di alcuni avversari d inaugurare un regime personale. Davanti alla minaccia della tirannide si risaldò un fronte patrizio-plebeo, che portò alla rapida liquidazione di Capitolino. Qualche anno dopo, Lucio Sestio Laterano e Caio Licinio Stolone, esponenti di due ricche ed influenti famiglie plebee, presentarono un ambizioso pacchetto di proposte concernenti il problema dei debiti, la distribuzione delle terre di proprietà statale e l’accesso dei plebei al consolato. Le leggi Licinie Sestie prevedevano in particolare che gli interessi che i debitori avevano già pagato sulle somme avute in prestito potessero essere detratti dal totale capitale dovuto e che il debito residuo fosse estinguibile in tre rate annuali. Stabilivano inoltre la massima estensione del terreno di proprietà statale che poteva essere occupato da un privato. Infine sancivano l’abolizione del tribunato militare con potestà consolare e la completa reintegrazione alla testa dello stato dei consoli, uno dei quali sarebbe dovuto essere plebeo. Le leggi Licinie Sestie del 367 segnarono la fine della fase più acuta della contrapposizione tra patrizi e plebei. 7 I contrasti tra sanniti e campani si vennero sempre più acuendo. La tensione scoppiò in guerra quando nel 343 i Sanniti attaccarono la città di Teano, occupata da un’altra popolazione, i Sidicini. Questi ultimi si rivolsero alla lega campana in cerca di aiuto, e la lega campana si rivolse per lo stesso motivo a Roma. È probabile che i romani siano intervenuti perché si potevano impadronire della regione più ricca e fertile d’Italia. Comunque sia, la prima guerra sannitica (343-341) si risolse rapidamente con un parziale successo dei romani, che già nel primo anno di guerra sconfissero il nemico a Capua, costringendolo a togliere l’assedio dalla città. Nel 341 si rinnovò dunque l’accordo stipulato nel 354. La grande guerra latina: L’accordo del 341, portò ad un sorprendente ribaltamento delle alleanze, costringendo Roma, sostenuta dai Sanniti, a fronteggiare i suoi vecchi alleati latini Campani e Sidicini, cui si aggiunsero anche Volsci, e Aurunci. L’insoddisfazione di Campani e Sidicini per gli esiti della prima guerra sannitica , si saldò alla volontà dei latini di distaccarsi dall’alleanza stretta con Roma. Il conflitto (341-338) noto come grande guerra latina, fu durissimo, ma alla fine il successo fu da parte dei romani. La lega latina venne sciolta, alcune delle città che ne avevano fatto parte vennero semplicemente incorporate nello stato romano, in qualità di municipi. La seconda guerra sannitica: (326-304) La fondazione di diritto latino di Cales e Fregelle, provocò una nuova crisi nei rapporti delle due potenze. La causa concreta della seconda guerra sannitica è da cercare nelle divisioni interne di Napoli, l’ultima città greca della Campania rimasta indipendente, qua si fronteggiavano masse filosannitiche e filoromane. I romani riuscirono abbastanza rapidamente a sconfiggere la guarnigione che i sanniti avevano installato a Napoli e a conquistare la città, ma il tentativo di penetrare a fondo nel Sannio si risolse in un fallimento: nel 321 gli eserciti romani vennero circondati al passo delle forche caudine e costretti alla resa. Per qualche anno vi fu un’interruzione nelle operazioni militari. I romani approfittarono di questo intervallo per compensare la perdita di Cales e Fregelle, avvenuta a seguito della sconfitta del 321, rinforzando le proprie posizioni in Campania. Le ostilità si riaccesero nel 316 per responsabilità dei romani che attaccarono la località di Saticula, ai confini tra Campania e Sannio, le prime operazioni furono favorevoli ai sanniti che nell’anno seguente conseguirono un importante vittoria nei pressi di Terracina. Negli anni successivi tuttavia, Roma iniziò a recuperare il tempo perduto. Saticula venne conquistata nel 315, Fregelle venne ripresa, e le comunicazioni tra Roma e Capua ristabilite grazie alla costruzione della via Appia. In questi stessi anni Roma procedette a preparare il suo esercito al confronto finale con i Sanniti. Il combattimento a falange, irresistibile in pianura, si era rilevato incapace di manovrare su un terreno accidentato come quello del Sannio. La legione venne allora suddivisa in 30 reparti, detti manipoli, ogni manipolo comprendeva all’incirca 120 uomini. La legione veniva schierata su tre linee, ciascuna composta da 10 manipoli. L’ordinamento manipolare era dunque in grado di assicurare una maggiore flessibilità all’esercito romano impegnato nelle regioni montuose dell’Italia centro- meridionale. Negli stessi anni cambiò anche l’equipaggiamento dei legionari, che adottarono lo scudo rettangolare e il giavellotto in uso presso gli stessi Sanniti. 10 Roma fu cosi in grado di affrontare la minaccia su due fronti: a sud contro i sanniti, a nord contro una coalizione di stati etruschi, scongiurato il pericolo etrusco, l’esercito romano potè concentrare il suo sforzo contro il Sannio, coronato dalla conquista di uno dei maggiori centri dei sanniti, e dalla pace del 304. Il trattato del 354, venne ancora una volta rinnovato. La terza guerra sannitica: Lo scontro decisivo si aprì nel 298, quando i sanniti attaccarono i lucani. I romani accorsero in aiuto degli aggrediti con i quali forse avevano stretto un accordo. Il comandante supremo dei sanniti era riuscito a mettere in piedi una potente coalizione antiromana che comprendeva etruschi, galli ed umbri. Lo scontro decisivo avvenne nel 295 a Sentino. Gli eserciti riuniti dai due consoli romani, riuscirono a prevalere su sanniti e galli, approfittando dell’assenza nel campo di battaglia di etruschi ed umbri. I sanniti, battuti in un’altra battaglia ad Aquilonia (293), si videro costretti a chiedere la pace nel 290. A nord si ebbe l’avanzata più spettacolare. I galli alleati con alcune città etrusche, tentarono di penetrare nuovamente in Italia centrale ma l’attacco fu bloccato nel 283. La guerra contro Taranto e Pirro: Nel 282, una città greca che sorgeva sulle rive calabresi del golfo, Turi, minacciata dai Lucani chiese aiuto a Roma. Roma inviò una flotta davanti alle acque di Taranto. Di fronte alla provocazione e alla minaccia rappresentata dalla occupazione romana di Turi, a Taranto prevalse la fazione democratica, ostile a Roma. I tarantini attaccarono dunque le navi romane, affondandone alcune, poi marciarono su Turi, espellendo la guarnigione romana. La guerra divenne inevitabile. Taranto decise di ricorrere al soccorso di un condottiero della madrepatria greca. La scelta ricadde su Pirro, re dell’Epiro che in quel momento si trovava proprio sulla costa adriatica antistante la Puglia; Pirro inoltre aveva la fama di generale di eccezionali qualità e ambizioni. Pirro sbarcò in Italia nel 280, ed ottenne da subito grandi successi, ad Eraclea nel 280 e ad Ascoli Satriano nel 279. Pirro aveva così vinto due battaglie ma non riusciva a vincere la guerra. Accolse perciò la domanda di aiuto che gli arrivò da Siracusa , in perenne lotta con i Cartaginesi, decise così di recarsi in Sicilia con parte del suo esercito, lasciando una forte guarnigione a Taranto. Nel 279 però Roma e Cartagine avevano stretto un trattato di alleanza difensiva contro il nemico. In Sicilia Pirro inizialmente sconfigge ripetutamente i Cartaginesi, chiudendoli a Lillibeo. L’assedio a questa fortezza si realizzò però infruttuoso e Pirro cercò di sbloccare la situazione invadendo l’africa ma fallì. Nel frattempo, approfittando dell’assenza di Pirro, i romani conquistarono posizioni su posizioni e Pirro decise di abbandonare la Sicilia e tornare in Italia. Nel 275 ci fu lo scontro decisivo, a Benevento i romani riuscirono a sconfiggere definitivamente Pirro, che decise di tornare in Epiro col suo esercito. La prima guerra punica: Nel 264 Roma controllava ormai tutta l’Italia peninsulare, fino allo stretto di Messina . In quest’area gli interessi di Roma entrarono per la prima volta in seria collisione con quelli della vecchia alleata Cartagine. 11 Lo scontro venne precipitato dalla questione dei Mamertini, mercenari di origine italica, che dopo essere statu congedati dal re di Siracusa, si erano impadroniti con la forza di Messina, dedicandosi alla redditizia attività di saccheggiare le città vicine. Questo comportamento provocò la reazione dei Siracusani, che guidati dal generale Ierone, inflisse ai mamertini una severa sconfitta e avanzò verso Messina. I Mamertini accolsero l’offerta di aiuto una flotta cartaginese che incrociava nelle acque di Messina e che ovviamente vedeva con preoccupazione la possibilità che i siracusani si impadronissero della zona dello stretto: una guarnigione cartaginese si installò cosi a Messina e Ierone fu costretto a far ritorno a Siracusa, dove venne proclamato re. I mamertini si stancarono ben presto della tutela cartaginese e decisero di fare appello a Roma, dove iniziò un serrato dibattito a favore o contro l’intervento a Messina. Nessuno poteva illudersi che l’intervento a Messina non avrebbe causato un grave incidente con Cartagine e probabilmente con Siracusa. Si decise però di entrare in soccorso dei Mamertini. Anche se formalmente Roma non aveva dichiarato guerra a Cartagine, di fatto questa decisione aprì la lunghissima prima guerra punica (264-241). Nei primi anni i romani riuscirono a respingere da Messina i Cartaginesi e siracusani. Grazie alla sua netta superiorità navale, Cartagine conservava tuttavia un saldo controllo di molte località costiere della Sicilia, a Roma si decise quindi per la prima volta la creazione di una grande flotta di quinquiremi, contando anche sull’aiuto dei cosiddetti socii navales, in particolare le città greche dell’Italia meridionale, che fornirono una buona parte dei marinai e dei comandanti. Lo sforzo fu premiato nel 260 da una clamorosa vittoria sulla flotta cartaginese sulle acque di Milazzo. A questo punto Roma pensò di poter assistere un colpo mortale ai cartaginesi attaccandoli direttamente nei suoi possedimenti in africa. L’invasione iniziò nel 256 sotto i migliori auspici, la flotta romana sconfisse quella cartaginese a largo di capo Ecnomo e fece sbarcare l’esercito nella penisola di capo bon in africa. Le prime operazioni furono favorevoli al console M. Attilio Regolo, che tuttavia non seppe sfruttare i suoi iniziali successi, fece fallire le trattative di pace che erano state avviate. Nel 255 Regolo venne duramente battuto da un esercito Cartaginese comandato dal mercenario Spartano Santippo. Nel 249, a seguito della sconfitta nella battaglia navale di Trapani, roma era ormai priva di forze navali e dei mezzi necessari per approntare una nuova flotta. I cartaginesi anch’essi esausti, non seppero sfruttare la loro superiorità sui mari. Solo alcuni anni dopo Roma fu in grado di costruire una nuova flotta. La flotta che i cartaginesi avevano frettolosamente equipaggiato fu sconfitta nel 241 alle isole Egadi. A Cartagine si comprese che non vi era più alcuna possibilità di resistere e si domandò la pace: le clausole del trattato che mise fine al conflitto prevedevano tra l’altro lo sgombero di tutta la Sicilia e delle isole che s trovavano tra la Sicilia e l’Italia e il pagamento di un indennizzo di guerra. Tra le due guerre: Il periodo che va dalla prima alla seconda guerra punica, vide un consolidamento delle opposizioni delle de grandi avversarie, Roma e Cartagine, in vista dello scontro decisivo. Per Cartagine i primi anni dopo la sconfitta furono drammatici: la 12 Nell’adriatico una flotta di 50 quinquiremi si rivelò sufficiente per impedire ciò che i romani temevano maggiormente: un’invasione dell’Italia da parte di Filippo V e un suo congiungimento con le forze di Annibale. La svolta decisiva nella guerra si ebbe però in Spagna. I due Scipioni riuscirono ad impedire che Annibale ricevette aiuti dalla Spagna. I romani riuscirono a ritirarsi con quanto rimaneva del loro esercito e a difendere la Spagna settentrionale, fino a quando venne nominato capo delle truppe in Spagna il figlio omonimo di Publio Cornelio Scipione, che sarà noto come Scipione l’Africano. Il giovane Scipione Africano, venne scelto per condurre le operazioni in Spagna dall’assemblea popolare, con un procedimento che non aveva precedenti nella prassi istituzionale romana. Qualità di cui Scipione diede prova già nel 209 riuscendo ad impadronirsi della principale base cartaginese nella penisola iberica, e sconfiggendo l’anno seguente il fratello di Annibale, Asdrubale. Nel 206, Scipione sconfiggeva in modo decisivo gli eserciti cartaginesi di Spagna nella battaglia di Ilipia. Tornato in Italia, fu eletto console per il 205 ed iniziò i preparativi per l’invasione dell’africa: di importanza fondamentale per roma doveva rivelarsi l’alleanza con Massinissa re della tribù di Numidia, in rivolta contro Cartagine. La battaglia che pose fine al conflitto si svolse nel 202 nei pressi della città di Zama: nonostante Annibale avesse dato prova del suo genio tattico anche in quell’occasione, la cavalleria di Massinissa diede la vittoria ai romani. Il trattato di pace siglato nel 201, prevedeva la consegna di tutta la flotta cartaginese, tranne 10 navi, e il pagamento di una fortissima indennità. Cartagine inoltre dovette rinunciare a tutti i suoi possedimenti al di fuori dell’africa e riconoscere ai suoi confini un potente regno di Numidia governato da Massinissa, ai cartaginesi inoltre fu vietato dichiarare guerra senza il consenso dei romani. La seconda guerra macedonica: Pochi anni dopo la conclusione della guerra con Cartagine, Roma si impegnò in un altro conflitto contro Filippo V di Macedonia. La decisione di contrastare le ambizioni del re macedone, mettendo in piedi una coalizione di stati greciin occasione della prima guerra macedonica, aveva in effetti permesso a roma di limitare al massimo il suo sforzo militare in oriente e di concentrarsi sulla lotta contro Cartagine. D’altra parte aveva creato una rete di relazioni con alcuni stati greci, tra i quali la lega etolica, il regno di pergamo e Atene, che inevitabilmente finì per coinvolgere roma nel complicato scacchiere politico dell’oriente ellenistico. Causa immediata della guerra fu soprattutto l’attivismo di Filippo V nell’area dell’Egeo e sulle coste dell’asia minore, che lo portarono a scontrarsi con le due maggiori potenze dell’area, il regno di pergamo e la repubblica di Rodi. Le tensioni sfociarono nel 201 in guerra aperta: Filippo fu battuto in una battaglia navale da pergamene e Rodii al largo di Chio, ma poco dopo riuscì ad infliggere una severa sconfitta alla flotta rodia a Lade, nelle acque tra Samo e Mileto. I coalizzati compresero che da soli non sarebbero riusciti ad allontanare la minaccia macedone. Divenne logico rivolgersi a Roma, con la quale il re di Pergamo Attacco I aveva da tempo relazioni di amicizia. A Roma dopo un acceso dibattito, i comizi centuriati votarono per la guerra. Contemporaneamente si decise tuttavia di inviare un ultimatum a Filippo, in cui gli si intimava di rifondere i danni di guerra inflitti agli alleati di Roma e astenersi dall’attaccare gli stati greci. Il re macedone ignorò l’ultimatum. 15 Alla fine del 200 l’esercito romano sbarcò nella città amica di Apollonia. I primi due anni di guerra trascorsero senza che vi fossero azioni decisive: la lega etolica decise di alla coalizione antimacedone. Nel 198 grazie al nuovo comandante romano (Flaminio), Filippo dovette sgomberare le posizioni fortificate nella gola del fiume Aoo che sbarravano la strada per la macedonia. Avviando trattative di pace il comandante romano, chiese la liberazione della Tessaglia, ma la richiesta venne respinta. Uno ad uno gli stati greci si schierarono dalla parte dei ‘liberatori’, persino la lega achea, il principale organismo politico del Peloponneso che da decenni era legata alla macedonia. Alla fine del 198 Filippo decise di intavolare serie trattative di pace, interrotte però dal comandante romano e dai suoi alleati politici in senato quando il generale romano sette che il suo comando in Grecia era stato prorogato per il 197 e dunque nessuno avrebbe potuto cogliere al suo posto il prestigioso frutto della sua politica. Sul campo di battaglia di Cinofele, in Tessaglia, l’esercito di Filippo venne annientato. La guerra siriaca: Nei medesimi anni in cui Flaminio regolava gli affari della Grecia, erano iniziate trattative diplomatiche con Antioco III, il re di Siria. Quest’ultimo stava estendendo la sua egemonia sulle città greche della costa occidentale dell’Asia Minore. Le proposte di Roma, che chiedeva la cessazione degli attacchi contro le città autonome dell’Asia minore e l’immediata evacuazione dall’Europa furono sostanzialmente respinte da Antioco. L’esercito romano si era trattenuto fin troppo in Grecia, impegnato in una campagna contro Sparta, alimentando così la propaganda ostile della lega etolica. Gli Etoli, scontenti di quanto avevano ottenuto in cambio del loro importante aiuto contro Filippo V, andavano sostenendo che la Grecia aveva solo cambiato padrone, dalla macedonia a Roma. La guerra fredda tra Roma e la Siria si trascinò fino al 192, quando la lega etolica invitò espressamente Antioco III a liberare la Grecia dai suoi falsi liberatori. Antioco decise di passare con un piccolo esercito a Demetriade in Tessaglia. In grave inferiorità numerica, il re di Siria venne duramente battuto l’anno seguente alle Termopili dai romani e dovette fuggire in Asia Minore. Nel 190 il console Lucio Cornelio Scipione, accompagnato in qualità di consigliere dal più famoso fratello Publio Cornelio Scipione Africano, si preparò ad invadere l’Asia Minore per la lunga via terrestre attraverso Grecia, Macedonia e Tracia, forte del leale sostegno di Filippo V. Lo scontro decisivo si ebbe nei pressi della città di Magnesia sul Sipilo: l’esercito di Antioco, superiore dal punto di vista numerico, ma mal organizzato, venne completamente disfatto. La pace, siglata nella città siriaca di Apamea solo nel 188, confermò che Roma non aveva al momento intenzione di impegnarsi direttamente nel mediterraneo orientale. Antioco dovette pagare un’enorme indennità di guerra, affondare tutta la flotta, tranne 10 navi, consegnare alcuni nemici inveterati di Roma che avevano trovato rifugio alla sua corte (tra i quali Annibale, che riuscì a fuggire nel vicino regno di Bitinia, dove si suicidò qualche anno dopo), e soprattutto sgomberare tutti i territori as ovest e a nord del massiccio montuoso del Tauro, che sorge al centro dell’Asia Minore. Le trasformazioni politice e sociali: 16 Il repentino ampliamento degli orizzonti di Roma a seguito delle grandi vittorie militari tra la fine del III e gli inizi del II secolo a.C non poteva che portare una ventata di cambiamento anche nell’assetto politico e sociale interno. La prima di tali vicende, nota col nome di <<processo degli Scipioni>>, mostra in modo evidente l’acuirsi del contrasto all’interno della stessa classe dirigente romana e i nuovi scenari di lotta politica che si andavano aprendo. Nel 187 alcuni tribuni della plebe accusarono L. Cornelio Scipione, il vincitore di Antioco III, di essersi impadronito di parte dell’indennità di guerra versata dal re di Siria. Nonostante l’intervento del fratello, L’Africano, solo il veto di uno dei tribuni della plebe impedì che Lucio Scipione, nel 184 fosse condannato a pagare una pesantissima multa. Nel medesimo anno, questa volta contro lo stesso Africano, forse per aver condotto trattative di carattere personale con il re di Siria. Scipione rifiutò sdegnosamente di rispondere alle accuse, limitandosi a ricordare i grandi servigi che aveva reso allo stato e a ritirarsi, in una sorta di esilio politico, nelle sue proprietà di Literno. Il processo agli Scipioni era soprattutto un attacco contro una personalità eccezionale per le cariche che aveva rivestito e per il suo carisma personale, come quella di Scipione Africano. In questa temperie politica trova spiegazione anche la legge Villa, promulgata nel 180, che introdusse un obbligo di età minima per rivestire le diverse magistrature e un intervallo di un biennio tra una carica e l’altra. Nei medesimi anni la straordinaria diffusione in tutta l’Italia del culto di Bacco, forse originario della magna grecia, è segno di tensione, in primo luogo religiosa e culturale, ma anche sociale, dal momento che i devoti di Bacco provenivano in parte dalle classi sociali inferiori. Nel 186 il senato diede mandato ai consoli di condurre una severissima inchiesta. I Baccanali, dovevano essere stroncati in ogni modo. Negli anni seguenti molti sacerdoti o semplici adepti del culto vennero imprigionati o addirittura messi a morte. Preoccupava piuttosto il fatto che i devoti di Bacco si fossero dati un’organizzazione interna che poteva configurarsi come una sorta di stato all’interno dello stato romano. La terza guerra macedonica: La pace di Apamea aveva espulso il regno di Siria dallo scacchiere dell’Egeo. Nel 179, la morte aveva messo fine al lunghissimo regno di Filippo V: gli era succeduto il figlio Perseo, che precedentemente era riuscito a sbarazzarsi del fratello, il filosofano Demetrio. L’elemento democratico e nazionalista all’interno di molte città greche, sempre più insofferente nei confronti delle ingerenze romane, cominciò a volgersi, con crescente favore verso Perseo. Agli occhi di Roma, questo solo fatto fu sufficiente per fare del re una minaccia per il sistema egemonico sul mondo greco. Ogni mossa diplomatica di Perseo, ogni sua azione militare, in quel momento di importanza secondaria per Roma, vennero interpretate come gesti di sfida. Questi sospetti furono alimentati da Eumene di Pergamo, nel 172 si presentò a Roma con un lunghissimo elenco di accuse contro Perseo. I preparativi di guerra iniziarono quello stesso anno, ma le prime operazioni si ebbero solo nel 171, dopo che le trattative per raggiungere un accordo fallirono. Nei primi anni di guerra i comandanti romani si distinsero, più che per il loro genio strategico, per le rapine commesse ai danni di molte città greche. Qualche modesto successo militare di Perseo venne dunque salutato con enorme entusiasmo. Il re macedone, ottenne un aiuto concreto solo dalla popolazione epilota dei Molossi e dal re d’Illiria, Genzio. La svolta si ebbe nel 168, 17 all’applicazione della riforma sarebbero infine stati ricavati utilizzando il tesoro del re di pergamo Attacco III, che venuto a mancare, senza eredi lasciò la sua eredità al popolo romano. Scopo principale della legge, pare essere stata l’esigenza di ricostruire e conservare un ceto di piccoli proprietari. Il giorno in cui il progetto doveva essere votato dai comizi tributi, un altro tribuno della plebe, Marco Ottavio, pose il suo veto, impedendone l’approvazione. Tiberio, dopo aver tentato di vincere le resistenze, propose all’assemblea di destituirlo, perché essendo stato eletto per definire gli interessi popolari,, coll’interrompere il veto egli era venuto meno al mandato che il popolo gli aveva affidato e con questo atto stesso si era escluso da sé alla carica. Dichiarato deceduto Marco Ottavio, la legge agraria fu approvata. Ma l’opposizione conservatrice non si placò e Tiberio giunto quasi alla fine del suo mandato, nel timore di perdere l’inviolabilità personale, e che venisse interrompersi l’opera di distribuzione dell’ager publicus, pensò di presentare la sua candidatura a tribuno della plebe anche per l’anno successivo. Ma un gruppo di senatori e di avversarsi, nel corso dei comizi elettorali, lo assalì e lo uccise insieme a molti sostenitori. La morte di Tiberio Gracco non pose fine all’attività della commissione triumvirale, continuamente rinnovata. Fu però ben presto chiaro il malcontento degli alleati latini e italici, le cui aristocrazie di ricchi proprietari avevano seguito la prassi dei maggiorenti romani di occupare larghe porzioni di agro pubblico e si trovavano ora a doverne restituire le parti in eccesso a beneficio dei soli nullatenenti romani. Interprete delle loro lamentele si fece Scipione Emiliano. Morto improvvisamente l’emiliano (129), Fulvio Flacco, membro del triumvirato agrario divenuto console nel 125, propose a tutti gli alleati che ne avessero fatta richiesta che potessero ottenere la cittadinanza romana, o se avessero preferito conservare la loro condizione, almeno il diritto di appellarsi al popolo contro eventuali abusi di magistrati romani. Probabile sintomo dell’irritazione degli alleati furono le rivolte (125) di Asculum e soprattutto della colonia latina di Fregelle. La repressione fu spietata. Fregelle fu rasa al suolo e sul suo territorio, confiscato, fu dedotta nel 124 la colonia di cittadini romani Fabrateria Nova. Nel 123 fu eletto tribuno della plebe Caio Gracco, fratello minore di Tiberio. Nel corso di due mandati consecutivi, egli riprese ed ampliò l’opera riformatrice del fratello. La legge agraria fu ritoccata e perfezionata, e aumentati i poteri della commissione triumvirale. Caio propose l’istituzione di nuove colonie di cittadini romani, sia in Italia sia addirittura nella distrutta Cartagine. Una legge frumentaria, assicurò ad ogni cittadino residente a Roma una quota mensile di grano a prezzo agevolato. Con una legge giudiziaria Caio volle riservare in esclusiva ai cavalieri il controllo dei tribunali permanenti, cui erano affidati i processi di concussione e che perseguivano le malversino e le estorsioni dei magistrati ai danni dei provinciali. In questo modo i senatori-governatori non sarebbero più stati giudicati da giudici- senatori ma da rappresentanti di quegli stessi cavalieri che prendevano in appalto le imposte e gestivano le grandi operazioni commerciali nelle provincie. Un altro provvedimento prevedeva che il senato dovesse decidere prima delle elezioni consolari, con la deliberazione sottratta al veto tribunizio, quali tra le provincie dovessero essere classificate consolari (dunque da assegnare ai futuri consoli), ciò per impedire una scelta a posteriori fosse influenzata da ragioni 20 personali o politiche. Al problema degli alleati Caio rispose con una legge più moderata di quella di Fulvio Flacco, proponendo di concedere ai Latini la cittadinanza romana e la cittadinanza di diritto latino agli italici. Un altro tribuno, Marco Livio Druso, approfittando del fatto che Caio, fosse partito per l’africa, fece proposta di inusitata larghezza. Al suo ritorno a Roma, nel luglio del 122, Caio si rese conto che la situazione politica era profondamente mutata e la sua popolarità in grave declino. Candidatosi a tribuno della plebe per il 121 non venne rieletto. Per abbattere ogni suo residuo prestigio, alla fondazione della colonia cartaginese si propose che la deduzione dovesse essere revocata. Caio Gracco e Fulvio Flacco tentarono di opporsi alla votazione del provvedimento, ma scoppiarono gravi disordini, in conseguenza dei quali, il senato fece ricorso alla procedura del Senatus consultus ultimum, con cui veniva sospesa ogni garanzia istituzionale e affidato ai consoli il compito di tutelare la sicurezza dello stato con i mezzi che ritenessero necessari. Forte di tale provvedimento, il console Lucio Opimio ordinò il massacro dei sostenitori di grano che avessero osato resistere: Caio si fece uccidere da un suo schiavo. Poiché le riforme dei Gracchi rispondevano a problemi reali, gli ottimati non osarono abolirle, ma ne ridussero gli effetti, soprattutto quelli della legge agraria. I lotti attribuiti furono dichiarati alienabili. Venne posto fine alle operazioni di recupero e rassegnazione delle terre, lasciando i possessi legittimamente occupati agli attuali detentori, e fu abolita la commissione agraria. Scipione Emiliano aveva regolato le questioni africane, dopo la terza guerra punica tramite la costituzione di una piccola ma ricca provincia, e rapporti di buon vicinato con le città libere e con i figli di Massinissa, il re di Numidia. Tra essi si era progressivamente imposto Micipsa, che morti i fratelli era diventato unico re di Numidia. Morto nel 118 Micipsa, il regno numidico fu conteso tra i suoi tre eredi. Il più spregiudicato dei tre, Giugurta, si sbarazzò di uno di essi. L’altro, Aderbale, fu costretto a rifugiarsi a Roma e a chiedere l’arbitrato del senato che, nel 116 optò per la divisione della Numidia tra i due superstiti: ad Ardebale la parte orientale, più ricca, a Giugurta quella occidentale più vasta. Ma nel 112 Giugurta volle impadronirsi della porzione di regno assegnata al fratello e ne assediò la capitale, Cirta. Giugurta prese la città, fece trucidare non solo il rivale, ma anche i romani e gli italici che vi svolgevano la loro attività. Roma a questo punto si vide costretta a scendere in guerra nel 111. Le operazioni militari furono condotte molto fiaccamente fino al 109, tra gravi smacchi per le armi romane, accuse di incapacità e sospetti di corruzione, quando al comando della guerra fu posto il console Quinto Cecilio Metello, del cui seguito faceva parte, come legato, Caio Mario. Metello riprese le redini del conflitto, sconfisse ripetutamente Giugurta, ma non riuscì a concludere una campagna tutta fatta di agguati, scaramucce e imboscate. Caio mario venne eletto console nel 107 e ignorando la proroga che il senato aveva già concesso a Metello, con un plebiscito votato dai comizi su proposta di un tribuno della plebe, gli venne affidato il comando della guerra contro Giugurta. Mario bisognoso di truppe a lui fedeli e per far fronte ai gravi vuoti determinati dalla guerra contro Giugurta e dei massacri ad opera dei Cimbri e Teutoni, aprì l’arruolamento volontario a tutti coloro che erano iscritti sui registri del censo per la loro sola persona, senza il minimo bene patrimoniale. Con il suo nuovo esercito Mario tornò in Africa, ma gli occorsero quasi tre anni per mantenere l’impegno di por fine al conflitto e di catturare Giugurta. 21 Giugurta fu trascinato prigioniero a Roma, Mario rieletto console per il 104, dopo aver rivestito per due anni il proconsolato, celebrò il trionfo su di lui che venne in seguito giustiziato. Nel frattempo due popolazioni germaniche, i cimbri e i teutoni, avevano iniziato un movimento migratorio verso sud, spinti da problemi di sovrappopolamento o da maree rovinose, che avevano reso in parte inabitabili le loro sedi originarie. Scesi fino all’Austria furono affrontati al di là delle alpi dal console Cneo Carbone, inviato a proteggere i confini dell’Italia e a tutelare una zona commerciale ricca di miniere d’oro e di ferro presso Noreia. I romani subirono una disastrosa sconfitta (113). Continuando il loro cammino verso occidente, intorno al 110 i cimbri e i teutoni apparvero in Gallia, minacciando la nuova provincia narbonese. I ripetuti tentativi di respingerli si risolsero in altrettante catastrofi, che culminarono nella disfatta di Arausio (attuale orange), dove il disaccordo tra i due comandanti costò all’esercito romano una delle più vergognose catastrofi della sua storia (105). Mentre a Roma cresceva la polemica verso l’incapacità dei generali d’origine nobiliare e aumentava il terrore che Cimbri e Teutoni potessero invadere l’Italia, Mario venne rieletto console per il 104. Nell’attesa che i barbari si facessero vivi di nuovo, Mario provvide a riorganizzare l’esercito, una legione risultò ancora più articolata, non più di trenta unità ma in 10 coorti di circa 600 uomini. Il suo lavoro di riorganizzazione toccò quasi tutti gli aspetti dell’attività militare, dall’addestramento individuale, in cui fu coadiuvato dai luogotenenti Lucio Cornelio Silla e Quinto Sertorio, all’equipaggiamento, all’armamento, alle stesse insegne della legione. Così quando i germani ricomparvero (103) i romani si rivelarono ormai in grado di sostenere l’urto. I teutoni avanzavano attraverso la Gallia meridionale, i cimbri, dopo averle costeggiate, si accingevano a valicare i passi delle alpi centrali. Mario affrontò dapprima i Teutoni (102) sterminandoli ad Acquae Sextiae. L’anno dopo i cimbri furono annientati ai Campi Raudii, presso Vercellae. Eclissi politica di Mario, Saturnino e Glaucia: Mentre era costantemente impegnato sul fronte militare, Mario aveva creduto utile appoggiarsi a Lucio Saturnino. Mario l’aveva aiutato ad essere eletto tribuno della plebe nel 103, in cambio Saturnino aveva fatto approvare una distribuzione di terre in Africa a ciascuno dei veterani delle campagne africane di Mario. Nel 100 a.C Mario venne rieletto console, Saturnino era stato rieletto tribuno della plebe per la seconda volta e Caio Glaucia, suo compagno di parte popolare, pretore. Saturnino presentò una legge agraria che prevedeva assegnazioni di terre nella Gallia Meridionale e la fondazione di colonie in Sicilia, Acaia e Macedonia. Per poter sviluppare il suo programma Saturnino ottenne la rielezione a tribuno della plebe anche per l’anno successivo, mentre Glaucia si candidava al senato. Durante le votazioni scoppiarono tumulti durante i quali un competitore di Glaucia finì assassinato. Il senato non attendeva altro che proclamare il Senatus consultum ultimum. Mario come console, si vide costretto ad applicarlo contro i suoi alleati politici. Saturnino e Glaucia furono uccisi, ma il prestigio di Mario uscì fortemente compromesso, tanto che preferì allontanarsi da Roma. Pirati: Mentre roma si accingeva a concludere le guerre cimbriche, in oriente era divenuta sempre più manifesta e pericolosa per la navigazione l’azione dei pirati. La creazione di un porto franco a Delo aveva enormemente incentivato le loro opere 22 e del Peloponneso, mentre una flotta faceva leva verso l’attica. Roma decise allora di reagire, affidando il comando della guerra a Silla, uno dei consoli dell’88, che si trovava impegnato nell’assedio di Nola. Mentre Silla accelerava le operazioni a Nola, per marciare il più veloce possibile contro Mitridate, a Roma, il tribuno della plebe Publio Rufo, che era stato amico di Druso, si adoperava per privarlo del comando della guerra e contemporaneamente riprendeva il problema dell’inserimento dei nuovi cittadini italici nelle tribù romane. Costretto a trasformare larghe masse di alleati in cittadini romani, il governo nobiliare aveva cercato di evitare che essi potessero sconvolgere i preesistenti equilibri politici. Il fatto che essi, al pari di tutti gli altri cittadini, dovessero venir iscritti nelle tribù poteva produrre mutamenti radicali. Il loro numero difatti era tale che, se fossero stati ripartiti tra tutte e trentacinque le tribù e si fossero recati in massa a roma per votare, sarebbero stati in maggioranza in ciascuna tribù. Si era perciò ricorsi all’espediente di immetterli in un numero limitato di tribù. In questo modo, poiché nei comizi tributi i cittadini votavano entro la tribù, e si contava un voto per ogni tribù, conforme alla maggioranza in essa espressa, i neocittadini avrebbero potuto influire soltanto sul voto di poche tribù, mentre i vecchi cittadini avrebbero continuato a mantenere la prevalenza complessiva nell’organismo. Ma la guerra sociale e le azioni di Mitridate avevano avuto come conseguenza immediata anche un impoverimento complessivo tanto dello stato romano che dei singoli. Razzie, massacri e devastazioni avevano comportato la perdita di capitali investiti nelle zone che ne erano state interessate. Molti debitori e tra essi non pochi esponenti dell’aristocrazia romana senatoria ed equestre, si erano trovati nell’impossibilità di rimborsare i propri creditori. Sulpicio Rufo propose una serie di provvedimenti: il richiamo dall’esilio di quanti erano stati perseguiti per collusioni con gli alleati italici, l’inserimento dei neo cittadini in tutte le 35 tribù. Fece approvare anche il trasferimento del comando della guerra contro Mitridate da Silla a Mario. Appresa la notizia della sua sostituzione, Silla non esitò a marciare su Roma alla testa dei suoi soldati. Erano così divenuti palesi i primi esiti della riforma mariana dell’esercito: la truppa anche per il miraggio della preda in oriente, si sentiva ormai più legata al proprio comandante, che allo stato. Impadronitosi di Roma, Silla fece dichiarare i suoi avversari nemici pubblici: Sulpicio fu subito eliminato, Mario riuscì a fuggire alla volta dell’Africa, dove poteva contare su protezioni e clientele fidate. Prima di recarsi in oriente, Silla fece approvare alcune norme, che anticipavano la sua opera riformatrice degli anni 81-79, ogni proposta di legge avrebbe dovuto essere approvata dal senato prima di essere sottoposta al voto popolare, i comizi centuriati dovevano divenire la sola assemblea legislativa legittima. Ciò ottenuto, partì alla volta dell’oriente. Non era riuscito tuttavia a impedire che per l’87 venissero eletti consoli a lui non favorevoli. Sbarcato in Epiro nell’87 Silla, e attraversata la Beozia, cinse d’assedio Atene, che venne presa e saccheggiata. Direttosi nuovamente verso la Grecia centrale, dove, attraverso la macedonia si era concentrato un esercito di rinforzo inviato da Mitridate, sconfisse nuovamente le truppe poetiche a Cheronea e successivamente a Orcomeno in Beozia (86). Era la fine del predominio delle armate di Mitridate in Grecia. Nel frattempo, uno dei due consoli dell’87, Lucio Cornelio Cinna, fautore di Mario, aveva ripreso la proposta di iscrivere i neocittadini italici in tutte le 35 tribù. 25 Cacciato da Roma, si era rifugiato in Campania dove venne raggiunto da Mario, ritornato dall’africa. Si ebbe così una nuova marcia su Roma. Silla venne dichiarato nemico pubblico e ci furono stragi, delle quali furono vittime molti tra i più autorevoli sostenitori di Silla. In questo clima Mario fu eletto console insieme a Cinna per l’anno 86 a.C, ma morì poco dopo essere entrato in carica. Cinna fu rieletto console di anno in anno fino all’84, promuovendo un’ampia opera legislativa. Fu definitivamente risolta la questione della cittadinanza con l’immissione dei neocittadini in tutte e 35 le tribù. Fu affrontato il problema dei debiti, riducendone di tre quarti l’ammontare. Venne fissato un nuovo rapporto tra la moneta di bronzo e quella d’argento che sortì l’effetto di stabilizzarne il reciproco valore ufficiale. Nell’86 due armate romane di opposte fazioni si trovarono dunque presenti in Grecia, una cappeggiata da Silla, l’altra inviata da Cinna agli ordini di Flacco, cui era subentrato, dopo averlo fatto assassinare, il legato Caio Flavio Fimbria. Esse però non si scontrarono mai, ma agirono, per così dire, parallelamente, ricacciando Mitridate in Asia. La posizione del re poetico si fece via via più precaria. Silla d’altronde aveva fretta di chiudere le ostilità. Si giunse così a trattative di pace, che fu stipulata a Dardano (85) a condizioni relativamente miti. Mitridate poteva conservare il suo regno, ma doveva evacuare il resto dell’Asia. Nicomede poteva recuperare il regno paterno di Bitinia. Silla poteva finalmente sbarcare in Italia a Brindisi, carico di bottino nell’83. A brindisi lo raggiunsero il giovane Cneo Pompeo, con tre legioni assoldate privatamente nel Piceno. Silla impiegò due anni per trionfare sui suoi avversari. Nel primo anno riuscì a riprendersi l’Apulia, la Campania e il Piceno; l’anno successivo sconfisse Caio Mario il giovane, si impadronì di Roma, e grazie all’aiuto determinante del giovane Marco Licinio Crasso, distrusse le ultime resistenze avversarie, le cui file erano rinforzate da forti contingenti sanniti, nella battaglia di Porta Collina (82 a.C) cui fece seguito il massacro di tutti i prigionieri. Per rendere definitiva la sua vittoria, Silla introdusse le liste di proscrizione, elenchi di avversari politici i cui nomi venivano notificati al pubblico, chiunque poteva ucciderli impunemente. Gli obbiettivi prinicpali erano naturalmente i senatori e i cavalieri più in vista, che furono eliminati. Ciò ebbe conseguenze importanti, perché contribuì a modificare la composizione dell’aristocrazia romana. Un certo numero di famiglie scomparve, altre si arricchirono a loro spese. Le proscrizioni continuarono fino a tutti l’81. Poiché entrambi i consoli dell’82 morirono nel conflitto, il senato nominò, secondo la tradizione, un interrex, il Princeps Senatus Lucio Valerio Flacco, il quale nominava Silla dittatore con l’incarico di redigere leggi e di organizzare lo stato. Silla portò il numero dei senatori a 600 membri, innalzò il numero dei pretori ad 8, così da poter far fronte alle necessità derivanti dalla moltiplicazione dei tribunali permanenti, che essi erano chiamati a presiedere. Questi tribunali vennero di nuovo riservati in esclusiva al senato. Le loro competenze furono suddivise in modo che ciascuno di essi spettasse in esclusiva uno solo dei principali reati: estorsione e concussione, alto tradimento, appropriazione di beni pubblici, broglio e corruzioni elettorale, assassinio e avvelenamento, frode testamentaria e monetale, lesioni alle persone. Furono totalmente ridimensionati i poteri dei tribuni della plebe, limitato il loro diritto di veto e praticamente annullato quello di proporre 26 leggi. Fu fatto divieto a chi avesse ricoperto il tribunato di poter accedere a qualunque altra carica. Vennero abolite le distribuzioni frumentarie. Compiuta la riorganizzazione dello stato, Silla abdicò dalla dittatura. Nel 79 a.C si ritirò a vita privata nei suoi possedimenti in Campania, dove morì l’anno dopo. Già nello stesso 78 a.c uno dei due consoli, Marco Emilio Lepido, tentò di ridimensionare l’ordinamento sillano, proponendo il richiamo dei proscritti in esilio, il ripristino delle distribuzioni frumentarie a prezzo politico e la restituzione agli antichi proprietari delle terre confiscate a favore dei coloni insediati da Silla. L’opposizione incontrata dai suoi progetti ebbe l’effetto di scatenare una rivolta in Etruria dove più pesanti erano state le espropriazioni. Lepido, partito per assumere come proconsole il governo della provincia Narbonese (77) si fermò in Etruria dove fece causa comune con i ribelli e poi marciò su Roma, proclamando un secondo consolato e la restaurazione dei poteri dei tribuni della plebe. Il senato rispolverò contro di lui l’arma del Senatus consultum ultimum, ordinando di difendere lo stato con qualsiasi mezzo. La rivolta venne rapidamente stroncata. Lepido fuggì in Sardegna, dove morì poco dopo, il suo luogotenente Marco Paperna si trasferì coi resti del suo esercito in Spagna, ad ingrossare le fila degli ex mariani capeggiati da Sertorio. Ma il primo strappo all’ordinamento Sillano era già stato compiuto. Quinto Sertorio, si era distinto nelle file mariane, contro cimbri e teutoni, e di nuovo, nella guerra sociale. Nell’82 dopo le prime vittorie di Silla, aveva raggiunto il suo posto di governatore della Spagna Citeriore. Là egli aveva creato una sorta di stato mariano in esilio, coagulando altri esuli della sua fazione, romani e italici residenti in Spagna e perfino gran parte dei notabili delle popolazioni indigene. Verso la fine del 77 si erano congiunte a Sertorio, che controllava ormai tutta la penisola iberica, anche le truppe superstiti di Lepido, al comando di Marco Paperna. Questa consistenza di profughi, gli consentì di istituire ad Osca, scelta come sua capitale, un senato di 300 membri, simile a quello romano. Corsero a Roma, voci di sue alleanze, strette per ampliare la propria sfera d’azione in vista di un attacco alla città stessa, con i pirati che avevano ripreso ad infestate il mediterraneo e con Mitridate che aveva rialzato il capo in Oriente. A questo punto il senato decise di ricorrere un’altra volta a Pompeo, affidandogli di nuovo la deroga alle norme sillane, un imperium straordinario sulla Spagna citeriore. Arrivato in Spagna (76), Pompeo si trovò in una spedizione alquanto difficile, subendo da Sertorio alcune sconfitte solo in parte bilanciate dai progressi di Metello (75 a.C), tanto che fu costretto a scrivere al senato una lettera minacciosa sollecitando l’invio di rifornimenti e rinforzi. Ottenutili (74 a.C), la situazione andò molto lentamente migliorando, mentre nel campo avversario cominciavano a manifestarsi dissapori e la popolarità di Sertorio, veniva rapidamente calando. Finché Paperna, convinto di trarre vantaggio dal suo gesto, lo assassinò a tradimento (72 a.c). Venne poi sconfitto e assassinato da Pompeo. Rivolta servile: Nel 73 era scoppiata la terza grande rivolta di schiavi. La scintilla era scoccata a Capua in una scuola per gladiatori, una settantina dei quali, ribellatasi, si erano asserragliati sul Vesuvio. La furono raggiunti da altri gladiatori e schiavi confluiti da ogni parte dell’Italia meridionale, soprattutto taci, galli germani e orientali. Se ne posero a capo, due gladiatori, Spartaco di origine tracica e Crisso, un gallo. La rivolta si estese rapidamente a tutto il sud dell’Italia dove gli insorti riuscirono a tenere in sacco alcuni pretori e i due consoli del 72, inviati contro di loro. Mancava 27 Abbandonato da suoi antichi sostenitori, Catilina riuscì di nuovo battuto nelle elezioni. Mise mano allora ad un’ampia cospirazione che mirava a sopprimere i consoli, terrorizzare la città e impadronirsi del potere. Ma il piano fu scoperto e sventato da Cicerone che potè infine indurre il senato ad emettere il Senatus consultum ultimum e con un attacco durissimo costrinse Catilina ad allontanarsi da Roma, e a raggiungere a Fiesole e le bande armate che vi erano state apprestate. Acquisite le prove scritte della congiura, tramite l’intercettazione di alcune lettere che recavano i nomi dei principali congiurati, Cicerone potè arrestare cinque fra i capi della cospirazione e consultare sul da farsi il senato che, trascinato da un emergente Marco Porcio Catone, si pronunziò la sua morte. Il ritorno di Pompeo e il cosiddetto primo triumvirato: Nel 62 Pompeo sbarcava a Brindisi. Smobilitò esattamente il suo esercito, convinto di ottenere dal senato la ratifica degli assetti territoriali e provinciali da lui decisi in Oriente e le ormai usuali concessioni di terre ai suoi veterani. In senato però i suoi avversari politici, soprattutto i Metelli, lo ricambiarono umiliandolo, facendo rimandare di giorno in giorno questi riconoscimenti. Pompeo allora si avvicinò a Crasso e al suo emergente alleato Cesare, con i quali strinse un accordo nel 60 a.C di sostegno reciproco comunemente chiamato dai moderni primo triumvirato. Il primo triumvirato fu un accordo esclusivamente privato e segreto, la cui esistenza divenne chiara solo in un secondo tempo, in base al quale Cesare, avrebbe dovuto essere eletto console per il 59 a.C e avrebbe dovuto varare una legge agraria che sistemasse i veterani di Pompeo. Anche Crasso avrebbe ottenuto dei vantaggi per i cavalieri e le compagnie di appaltatori che gli erano particolarmente legati. L’accordo fu cementato anche col matrimonio tra il già maturo Pompeo e la giovanissima figlia di Cesare, Giulia. L’accordo diede immediatamente i suoi frutti e Cesare fu eletto console per il 59 a.C. Fece votare in successione due leggi agrarie che prevedevano una distribuzione ai veterani di Pompeo di tutto l’agro pubblico rimanente in Italia, ad eccezione della Campania. In un secondo tempo venne incluso nelle assegnazioni l’agro campano. Com’era invece desiderio di Crasso, fu ridotto d’un terzo il canone d’appalto e le imposte della provincia d’Asia. Fu approvata una lex iulia de repentundis, per i procedimenti di concussione, che ampliava e migliorava la precedente legislazione Silvana in materia. Un altro provvedimento prevedeva la pubblicazione dei verbali delle sedute senatorie e delle assemblee popolari. Il tribuno della plebe Publio Vitinio fece votare un provvedimento che attribuiva a Cesare per cinque anni il proconsolato della Gallia Cisalpina e dell’illirico con tre legioni e il diritto di nominare i propri legati e di fondare colonie. Partendo per le provincie attribuitegli nel 58 a.C, Cesare volle, con Pompeo e Crasso, lasciare una spina nel fianco di quanti in senato gli erano stati ostili. Essi appoggiarono la candidatura al tribunato della pelle di Publio Clodio Pulcro, un ex patrizio che, coinvolto in un clamoroso scandalo, era senza speranze per poter proseguire una carriera politica riservata al suo rango, perciò si era fatto adottare da una famiglia plebea, per potersi presentare al tribunato della plebe. Eletto tribuno, Clodio fece approvare una nutrita serie di leggi. Il potere dei censori di espellere membri del senato venne limitato dal divieto di procedere nei confronti di 30 chiunque senza un giudizio formale che consistesse agli interessi di difendersi e senza che si fosse raggiunta una concorde sentenza di condanna da parte di entrambi i censori. Nessun magistrato (tranne gli auguri e i tribuni) avrebbe più potuto interrompere le assemblee pubbliche adducendo l’osservazione degli auspici sfavorevoli. Vennero legalizzati i collegia, associazioni private con scopi religiosi. Fu abilità di Clodio sfruttare le funzioni iniziali di queste associazioni, disseminate per tutta la città, per farne prima dei gruppi di pressione, poi delle bande armate organizzate al suo servizio. Le distribuzioni frumentarie ai cittadini romani residenti a Roma, fino ad allora a prezzo politico, dovevano divenire completamente gratuite. Infine con un provvedimento si comminava l’esilio a chiunque condannasse o avesse condannato a morte un cittadino romano senza chiedergli di appellarsi al popolo. Cesare in Gallia: Quando arrivò nelle sue provincie era in atto a nord della Narbonese una migrazione di Elvezi verso occidente, che minacciava le terre degli Eudi e forse la stessa provincia romana. Dopo aver fatto concentrare le legioni ai suoi ordini in Narbonese, Cesare attaccò e sconfisse gli Elvezi, costringendoli a ritornare nelle loro sedi. Cominciava così la lunga conquista Cesariana della Gallia. Nel frattempo un forte gruppo di Svevi (tribù germanica stanziata oltre il reno) condotto da Ariovisto, era passato sulla sinistra del fiume, chiamato in aiuto dai Sequani, confinanti e rivali degli Eudi. Battuti ripetutamente gli Eudi, Ariovisto aveva lasciato che parte dei suoi uomini si stanziassero in una porzione del territorio dei Sequani. Su richiesta degli Eudi, Roma era allora intervenuta e aveva indotto il capo germanico a ritirare le sue genti al di la del reno. Come compenso venne riconosciuto ad Ariovisto il titolo di re amico. Poiché le migrazioni verso l’Alsazia erano riprese, Cesare dopo aver intimato ad Ariovisto di ritirarsi, procedette e lo sconfisse nell’Alsazia superiore, costringendolo a ripassare il Reno (58 a.C). Cesare ritornò in Cisalpina, lasciando però le sue truppe accampate nei quartieri invernali preso Vesonzio. La presenza romana nella Gallia centrale suscitò però a nord le reazione delle tribù dei belgi, allarmate dalla vicinanza delle legioni. Nonostante l’ampiezza delle forze messe in campo, Cesare riuscì a impadronirsi delle loro piazzeforti. Nel frattempo, un legato di Cesare, il figlio di Crasso, Publio Licinio Crasso, si spingeva verso la Normandia, sottomettendo tribù della Normandia e della Bretagna (57 a.C). I successi di Cesare erano dovuti alla sua grande capacità di adattare la sua tattica al tipo di combattimento che la situazione di volta in volta esigeva. Alla fine del 57 a.C la situazione politica stava precipitando, comunicò al senato che la Gallia poteva ritenersi pacificata, anche se circa la metà del paese non era mai stata, non tanto domata ma neppure attraversata dalle armi romane. Terminato l’anno del suo tribunato Clodio, era divenuto un pubblico cittadino, ma non aveva smesso di utilizzare le sue bande come strumento di pressione rapidamente mobilitate. Uno dei bersagli preferiti di Clodio divenne ben presto Pompeo, che pentitosi di non aver fatto nulla per evitare l’esilio dell’oratore e preoccupato per i crescenti successi di Cesare in Gallia, aveva appoggiato i fautori 31 del richiamo, nel 57 a.C, Cicerone era così potuto rientrare a Roma. Pompeo si trovò allora in una situazione di grave stallo politico. A questo punto Cesare, dopo aver incontrato Crasso a Ravenna, si riunì con lui e Pompeo a Lucca, dove i tre si accordarono su questo progetto: il comando di Cesare in Gallia sarebbe stato prorogato per altri cinque anni, con un aumento a dieci delle legioni a sua disposizione, i tre si sarebbero impegnati, tramite i loro partigiani a far eleggere Pompeo e Crasso consoli per il 55 a.C, dopo il consolato questi ultimi avrebbero ricevuto come provincie per 5 anni rispettivamente: -Pompeo le due spagne -Crasso la Siria. Tutto si svolse esattamente come avevano programmato. Tornato in Gallia, Cesare trovò la Bretagna in aperta rivolta: le popolazioni costiere, che svolgevano traffici marittimi attraverso la Manica, potevano contare anche sull’appoggio della loro flotta. Cesare fece frettolosamente costruire sulla Loira un’armata di piccoli e leggeri battelli che, grazie all’ingegno del suo legato Decimo Bruto, ebbe la meglio sui poderosi vascelli oceanici avversari, permettendo così alle legioni di dominare sulla terraferma. Egli potè allora rivolgere la propria attenzione sul fronte del Reno. Qui, due tribù germaniche, avevano attraversato il fiume ma Cesare li annientò. Nello stesso anno fu compiuta un’incursione esplorativa in Britannia, donde giungevano rinforzi ed aiuti alle popolazioni costiere galliche. L’anno successivo (54 a.c) ebbe luogo in Britannia una vera campagna militare con cinque legioni, che consentì di raggiungere il Tamigi e portò alla sottomissione di parecchie tribù della costa. Il 53 a.C trascorse nella repressione di rivolte scoppiate nelle regioni settentrionali della Gallia, che si conclusero un secondo passaggio del Reno. La grande crisi di verificò nel 52 a.C nella Gallia centro-occidentale sotto la guida Vecingetorigè, re degli Arreni. Cominciata con lo sterminio dei romani e italici residenti a Cenabum, la rivolta si estese rapidamente. Cesare si precipitò in pieno inverno in Arvernia dove pose l’assedio al grande centro fortificato di Gergovia. Non riuscendo a mantenere il blocco per l’esiguità delle sue forze, tentò di espugnare la città e fu respinto. A questo punto anche gli Edui defezionarono. Cesare fu costretto a dirigersi verso nord per ricongiungersi alle forze del suo legato Tito Labieno e insieme si misero a inseguire Vercingetorigè che, rifiutando ogni battaglia campale, preferì rinchiudersi nella piazzaforte di Alesia in attesa dei rinforzi. Cesare fece cingere dai suoi uomini la città con due linee di fortificazione, una interna per bloccare gli assediati, una esterna per sostenere gli assalti dei Galli accorsi in loro aiuto. Dopo un lungo e durissimo scontro sostenuto contemporaneamente da assediante e da assediato, gli assalitori furono respinti e la piazzaforte costretta a capitolare. Vercingetorigè si arrese e fu inviato prigioniero a Roma dove, sei anni dopo (46 a.C) fu fatto sfilare dinanzi al carro trionfale di Cesare e poi decapitare ai piedi del campidoglio. Crasso e i Parti: Crasso, giunto in Siria nel 54 a.C, aveva cercato di inserirsi nella contesa dinastica allora in atto nel regno di Parti tra i due fratelli, Orode e Mitridate. Quando divenne re Orode, Crasso aveva deciso di appoggiare il fratello rivale, e varcato l’Eufrate, si era spinto in Mesopotamia senza incontrare grandi resistenze. 32 Ritiratosi a Roma in luglio, Cesare celebrò i trionfi sulla Gallia, sull’Egitto, su Farnace e su Giuba, poi, verso la fine dell’anno, fu costretto a partire per la Spagna, dove avevano ripreso fiato i suoi avversari sotto la guida dei figli di Pompeo, Cneo e Sesto. A Munda, l’esercito nemico fu letteralmente distrutto: solo Sesto Pompeo riuscì a salvarsi con la fuga. Cesare, ormai padrone della situazione, poteva tornare a Roma a completare la sua opera di riorganizzazione politica. Mentre si trovava in Egitto nell’ottobre del 48, Cesare era stato nominato dittatore per un anno, poi prima di partire per la campagna d’Africa era stato eletto al suo terzo consolato per il 46, a metà del 46 gli venne conferita la dittatura per dieci anni; nel 45 ricoprì il quarto consolato, nel 44 il quinto a cui cumulò a partire dalla fine di febbraio il titolo di dittatore a vita. Ad una tanto ampia concentrazione di magistrature supreme si era aggiunta via via una serie impressionante e senza precedenti di poteri straordinari. Dopo Tapso era stato fatto per tre anni praefactus moribus, con incarico di vigilare sui costumi e di controllare le liste dei senatori, dei cavalieri e dei cittadini, infine gli vennero gratificati gli onori del primo posto in senato, del titolo di imperator a vita e quello di padre della patria. Tra il 46 e il 44 poi il senato fu portato da 600 a 900 membri, con l’immissione di un grande numero di seguaci di Cesare, ricchi cavalieri ed elementi provenienti non solo dalle borghesie delle colonie e dei municipi italici, ma da tutte le regioni dell’impero. Fu parimenti aumentato da venti a quaranta il numero dei questori, da quattro a sei quello degli edili, da otto a sedici quello dei pretori: venivano garantite in tal modo maggiori possibilità di carriera politica ai suoi sostenitori, un’ampia reintegrazione annuale del senato e si abbozzava altresì un contingente di quadri direttivi addetti all’amministrazione dello stato. Fu promulgata una legge suntuaria per porre fine agli sperperi e all’ostentazione della ricchezza. Fu fatto divieto ai cittadini fra i venti e i sessant’anni, residenti in Italia, di rimanere assenti dal paese per più di tre anni consecutivi e fu consentito ai figli dei senatori di allontanarsene solo per incarico dello stato. Vennero disciolte le associazioni popolari, riportando i collegia alle loro funzioni originarie di corporazioni religiose o di mestiere. Furono confermate le distribuzioni gratuite di grano, ma il numero di beneficiari, che era lievitato fu ridotto. Per decongestionare Roma e l’Italia fu realizzato un vasto programma di colonizzazione e di distribuzione di terre per i numerosissimi veterani di Cesare e per più di 80.000 tra i cittadini meno abbienti, in parte in Italia, ma soprattutto nelle provincie. Una considerevole attività di ristrutturazione urbanistica ed edilizia, ed un’ambiziosa serie di lavori pubblici migliorarono l’aspetto di Roma. L’eccessiva concentrazione di poteri, il moltiplicarsi di onori senza precedenti, il fatto che ogni carriera politica potesse ormai svolgersi solo con l’appoggio e l consenso di Cesare, taluni atteggiamenti dei suoi più stretti collaboratori che parvero rivelare una inclinazione verso la regalità, finirono per creare allarme non solo tra gli ex pompeiani superstiti e tra quanti senatori e cavalieri venivano colpiti nei loro interessi, ma anche tra alcuni sostenitori di Cesare. Nei primi mesi del 44 a.C aveva preparato una campagna contro i Parti coll’intenzione di ristabilire l’egemonia romana in Asia, compromessa dal disastro di Crasso. A Roma venne messo in giro ad arte un oracolo secondo il quale il regno dei Parti avrebbe potuto essere sconfitto solo da un re, ciò che andò ad aumentare le voci e i sospetti di aspirazioni monarchiche di Cesare. Fu allora ordinata una congiura (guidata da 35 Marco Giunio Bruto, Caio Casso Longino e Decimo Bruto) prima della sua partenza per l’impresa pratica, programmata per la seconda metà di Marzo del 44 a.C. egli cadde trafitto dai pugnali dei cospiratori nella curia di Pompeo, dove egli doveva presiedere una seduta del senato. L’eredità di Cesare; la guerra di Modena: Abbattuto Cesare, i cesaricidi non si erano preoccupati di eliminare anche i suoi principali collaboratori, Marco Emilio Lepido e il collega di consolato di Cesare del 44 a.C, Marco Antonio, uno dei suoi più fidati luogotenenti. Questi ultimi cominciarono a riorganizzarsi, mentre i cesaricidi dimostrarono la totale mancanza di un programma che andasse al di là dell’assassinio di Cesare e di una generica proclamazione di aver restaurato la libertà repubblicana da lui minacciata. I congiurati trovarono a Roma un’accoglienza così fredda che preferirono ritirarsi sul Campidoglio per discutere sul da farsi. Antonio riuscì ad imporre una politica di compromesso: da un lato l’amnistia per i congiurati, dall’altro la convalida degli atti del defunto dittatore e il consenso ai suoi funerali di stato. Dolabella, destinato a sostituire Cesare al consolato, sarebbe stato console insieme ad Antonio e le provincie già attribuite sarebbero state confermate agli assegnatari, congiurati compresi, per esempio a Decimo Bruto spettava la Gallia Cisalpina. Fu stabilito che, dopo il consolato ad Antonio sarebbe toccata la Macedonia, dove si stavano concentrando le truppe per l’impresa pratica e a Dolabella la Siria. Antonio approfittò del possesso delle carte private di Cesare per far passare nel corso dell’anno tutta una serie di legge che egli sostenne di avervi trovato e che gli assicurarono una grande popolarità. Alla lettura del testamento di Cesare, si scoprì che il dittatore aveva nominato suo erede effettivo per i tre quarti dei beni e suo figlio adottivo un giovane di non ancora diciannove anni, Caio Ottavio, suo pronipote. Il resto del patrimonio andava a due altri parenti di Cesare, Lucio Pinario e Quinto Pedio. Alle idi di marzo, il giovane Ottavio si trovava ad Apollonia, tra i soldati che vi stavano affluendo per la guerra Partica. Appena saputo del testamento, Ottavio si diresse verso l’Italia e giunse a Roma, accompagnato da manifestazioni di simpatia dei veterani del padre adottivo stanziati in Campania. Quivi reclamò ufficialmente l’eredità. Entratone in possesso, nonostante l’ostruzionismo di Antonio, onorò gli ingenti lasciati in denaro previsti dal testamento, ponendo come principale caposaldo del suo impegno politico la tutela e la celebrazione della memoria del padre adottivo, e la vendetta ad ogni costo della sua uccisione. In tal modo concertò su di se l’appoggio dei cesariani più accesi e dei veterani, mentre buona parte del senato, cominciò a scorgere in lui un mezzo per arginare lo strapotere di Antonio. Per poter controllare più da vicino l’Italia allo scadere del suo consolato si era fatto assegnare al posto della Macedonia le due provincie della Gallia Cisalpina e Cometa per la durata di cinque anni. Quando però Antonio mosse verso la Cisalpina, il governatore originariamente designato, Decimo Bruto, rifiutò di cedergliela e si rinchiuse a Modena, assediato da Antonio. Ebbe così inizio la cosiddetta guerra di Modena nel 43 a.C.. Mentre Cicerone attaccava Antonio per la sua condotta prevaricatrice, il senato ordinò ai due consoli del 43, Aulo Irzio e Caio Pansa, di muovere in soccorso di Bruto; ad essi venne associato con imperium propetorio anche Ottavio, che aveva reclutato un’armata privata in Campania e a cui erano passate due legioni che Antonio aveva fatto venire dalla Macedonia. Vicino a Modena Antonio fu abbattuto e fu costretto a ritirarsi verso la 36 Narbonese, dove contava di unire le sue forze a quelle di Lepido. Irzio e Pansa morirono per le ferite riportate nello scontro. Poiché entrambi i consoli erano scomparsi, Ottavio chiese al senato il consolato per sé e ricompense per i suoi soldati. Al rifiuto, non esitò a marciare su Roma. Nell’agosto del 43 a.C venne eletto console, in spregio ad ogni regola insieme al cugino e coerede Quinto Pedio. I due consoli istituirono in tribunale speciale per perseguire gli assassini di Cesare. In Gallia Antonio si era congiunto con Lepido, attirando dalla propria parte altri governatori della Gallia e della Spagna come Lucio Planco e Caio Asinio Pollione. Decimo bruto, isolato e abbandonato dai suoi soldati, fu ucciso mentre cercava di passare le alpi orientali per congiungersi con gli altri assassini di Cesare. Annullato il provvedimento senatorio che aveva dichiarato Antonio nemico pubblico, nell’ottobre del 43 Ottaviano, Antonio e Lepido si incontrarono nei pressi di Bologna, dove stipularono un accordo, poi fatto sancire da una legge votata dai comizi tributi. In base ad essa avevano istituito un triumvirato rei publicae constituendae (per la riorganizzazione dello stato), che diveniva una magistratura ordinaria per la durata di cinque anni, essa conferiva il diritto di convocare il senato e il popolo, di promulgare editti e di designare i candidati alle magistrature. Antonio avrebbe conservato il governatorato della Gallia cisalpina e della Gallia comata, Lepido avrebbe ottenuto la Gallia Narbonese e le due spagne, Ottaviano l’Africa, la Sicilia, la Sardegna e la Corsica. Ad Ottaviano era toccata la parte peggiore, la Sicilia e la Sardegna erano infatti minacciate da Sesto Pompeo, il figlio di Pompeo. Vennero resuscitate le liste di proscrizione, con il nome degli assassini di Cesare e dei nemici dei triumviri, e dei loro seguaci. Centinaia di senatori e cavalieri furono uccisi e i loro beni confiscati, una delle vittime più note fu Cicerone. Dopo ciò i triumviri poterono rivolgere le armi verso oriente, dove i cesaricidi Bruto e Cassio si erano costituiti una solida base di potere e avevano raccolto un consistente esercito. Ma prima nel 42 si provvide alla divinazzazione di Cesare e all’istituzione del suo culto, Ottaviano divenne così figlio di un dio. Lasciati Lepido e Munazio a Roma come consoli, Antonio e Ottaviano partirono alla volta della Grecia. Lo scontro decisivo si ebbe a Filippi in Macedonia nell’ottobre del 42. Ottaviano si trovò subito in difficoltà. Cassaio battuto da Antonio e credendo che anche Bruto sconfitto, si tolse la vita. Bruto, vinto definitivamente e disperando di ogni possibilità di resistenza, decise di seguirlo sulla via del suicidio. Le proscrizioni, le guerre e Filippi avevano decimato spaventosamente l’opposizione senatoria più conservatrice, molte famiglie della più antica aristocrazia sopravvissute fino ad allora , furono completamente dissolte. Dallo scontro con i cesaricidi usciva nettamente rafforzato il prestigio militare di Antonio, che si trovò a trattare con gli altri triumviri da una posizione di forza. Egli si riservò, cumulando a quello sulle Gallie, il comando su tutto l’oriente, da cui intendeva intraprendere un piano di conquista del regno partito come fedele continuatore dell’opera di Cesare. A Lepido, fu assegnata l’africa. Ottaviano ebbe le spagne e il compito di sistemare in Italia i veterani delle legioni, oltre quello di vedersela con Pompeo che dominava la Sicilia e a cui si erano uniti i superstiti della battaglia di Filippi. L’incarico di procedere all’assegnazione di terre ai veterani era tra i più difficili, non essendo rimasto più agro pubblico da assegnare, si trattava di espropriare terreni nei territori delle 18 città d’Italia. Venivano colpiti soprattutto gli interessi dei piccoli 37 straordinari, accettando solo un imperium proconsolare per dieci anni sulle provincie non pacificate: Spagna, Gallia, Siria, Cilicia, Cipro ed Egitto. Qualche giorno dopo il senato lo proclamò Augusto, un epiteto che lo sottraeva alla sfera propriamente politica per proiettarlo in una dimensione sacrale, religiosa (il termine augusto va ricollegato al termine latino augere, che significa innalzare). L’architettura istituzionale da lui adottata si rivela ispirata alla prudenza e al compromesso con la tradizione senatoriale repubblicana. La nuova organizzazione dello stato rappresentava il definitivo superamento delle istituzioni, ormai non più adeguate, della città-stato. Il principe si poneva come un punto di riferimento e di equilibrio fra le diverse componenti della nuova realtà, che, a buon diritto, poteva ormai dirsi <<imperiale>>: l’esercito, le provincie, il senato, la plebe urbana. Era chiaro, infatti, che il benessere materiale di Roma dipendeva dalla prosperità delle province. Tra il 27 e il 25, a regime non ancora stabilizzato, Augusto si recò in Gallia e poi in Spagna settentrionale, dove combatte contro gli austri e i cantabri che non si erano sottomessi al dominio romano. In questo modo dimostrava di provvedere con la solerzia alla pacificazione dei territori provinciali che gli erano assegnati dal senato e, nello stesso tempo, rafforzava il contatto con l’esercito e con i veterani insediati nelle province. Negli anni successivi Augusto alternerà dei periodi circa triennali di permanenza nelle province a periodi circa biennali di permanenza a Roma, in modo che l’assestamento del nuovo ordine potesse compiersi gradualmente. Nel 23 a.C si verificò una grave crisi. In Spagna Augusto si era seriamente ammalato e si sentì in fin di vita. La scomparsa prematura di Augusto avrebbe potuto riaprire il flagello delle guerre civili. In mancanza di figli maschi egli pensò al genero Marcello, che aveva sposato la sua unica figlia femmina Giulia, e agli eventuali nipoti, con cui poteva continuare la successione in caso della sua morte. Ma Marcello morì e Giulia fu data in moglie ad Agrippa, il grande e fedele generale, che divenne il suo successore. Augusto depose il consolato e ottenne un imperium proconsulare che gli consentiva di agire con i poteri di un promagistrato su tutte le province, anche quelle che nel 27 a.C erano state riservate al senato. Questo potere, che fu definito imperium maius, non consentiva però ad Augusto, quando si trovava a Roma, di agire nella vita politica. Per ovviare a questo impedimento, il principe ricevette dal senato il potere di tribuno della plebe, vitalizio, anche se rinnovato annualmente. In virtù di esso Augusto diveniva protettore della plebe di Roma, poteva convocare i comizi, porre il veto agli altri tribuni e godere della sacrosanctitas, ovvero diveniva sacro e inviolabile. Poteva convocare il senato, inoltre controllava le elezioni attraverso due procedure, la nomination, cioè l’accettazione della candidatura da parte del magistrato che sovrintendeva all’elezione e la commendatio, la raccomandazione da parte dell’imperatore stesso. Augusto realizzò nel 5d.C un sistema di compromesso che teneva Conto della nuova realtà politica. Nel 22 a.C in seguito a una carestia, Augusto rifiutò la dittatura offertagli dal popolo e assunse la cura annonae, cioè l’incarico di provvedere all’approvvigionamento di Roma, seguendo il precedente Pompeo. Nel 19 e nel 18 a.C esercitò i poteri di censore, ottenendo privilegi legati al consolato, tra cui il diritto di utilizzare le insegne dei consoli: la sella curulis e i 12 littori che portavano i fasci. 40 Anche Agrippa nel 23 a.C aveva ricevuto un imperium proconsulare di 5 anni, grazie al quale si recò in oriente, mentre Augusto si trovava a Roma. Nel 18 a.C scadevano il mandato di 10 anni sulle province non pacificate attribuite ad Augusto nel 27 a.C e quello concesso ad Agrippa nel 23. Entrambi si videro rinnovare per cinque anni l’imperium proconsulare. Agrippa allo stesso tempo, ricevette anche la tribunicia potestas, così da rendere la sua posizione sempre più vicina a quella del Princeps. Egli aveva avuto nel 20 un figlio da gioia, Lucio Cesare, e nel 18 un secondo, Caio. Nel 17 Augusto li adottò entrambi, facendone di fatto i suoi successori designati. Nel 12 a.C quando morì Lepido, che con Augusto e Antonio aveva costituito il triumvirato ed era sopravvissuto fino a quel momento rivestendo la carica di pontefice massimo, fu allora che ad Augusto fu conferita anche questa carica, che lo poneva alla guida della vita religiosa di Roma. L’ultima espressione di riconoscimento ufficiale fu il conferimento del titolo di pater patriae, cioè padre della patria nel 2 a.C. Augusto nella sua veste di console, si fece conferire la potestà censoria e procedette alla lectio senatus, cioè alla revisione delle liste dei senatori, espellendo dall’assemblea le persone indegne, ovvero quelle la cui origine e il cui censo non corrispondevano agli standard normalmente previsti. Nel 18 a.C condusse una più radicale revisione, riportando il numero di senatori ai 600 previsti da Silla. Augusto inoltre rese la dignità senatoria una prerogativa ereditaria. Roma, l’Italia e le province: Per quanto riguarda Roma, che contava probabilmente quasi un milione di abitanti, l’azione di Augusto si può valutare su due piani: monumentale e razionalizzazione dei servizi. Augusto non diede alcun rilievo particolare alla propria residenza, con la sua elezione a pontefice massimo, una parte di essa era divenuta un edificio pubblico, ospitandovi il focolare di Vesta, di cui sua moglie Livia divenne sacerdotessa. Sempre accanto alla sua casa sul palatino fece costruire un tempio ad Apollo, la sia divinità tutelare. Mentre nel foro romano, completò i programmi edilizi di Cesare. Nel foro Giulio-augusteo fece costruire anche un tempio ad Apollo, di fronte una tribuna per gli oratori. Restaurò poi la sede del senato ed eresse in seguito una basilica in nome di Caio e Lucio Cesare, i figli di Agrippa e Giulia, prematuramente scomparsi. Costruì un nuovo foro, il forum augusti, con al centro il tempio di Marte ultore. Trasformò poi l’aspetto del campo marzio, edificandovi l’altro pantheon e il suo mausoleo, che occupava tutta la parte nord del campo marzio. Durante il principato di Augusto, soprattutto per opera di Agrippa, furono costituiti o restaurati anche molti edifici pubblici, acquedotti, terme, teatri e mercati, ci si preoccupò dell’organizzazione di servizi importanti per l’approvvigionamento alimentare e idrico e per la protezione dagli incendi e dalle inondazioni che periodicamente devastavano la città. Quando nel 22 a.C ci fu la carestia che colpì Roma, pare che sia stato assegnato ai senatori l’incarico di provvedere alle distribuzioni gratuite del grano. Solo diversi anni dopo circa nel 18 a.C in seguito ad un’altra crisi, Augusto istituì un servizio stabile, che doveva provvedere al rifornimento granario delle province, con a capo un prefetto di ordine equestre, il praefactus annonae, che disponeva di un grande potere. Alla morte di Agrippa, che fino a quel momento si era occupato dei più importanti servizi delle urbe in quanto edile, la cura dell’approvvigionamento idrico, 41 il mantenimento degli edifici pubblici e sacri, la cura delle strade e delle rive del Tevere passò ai collegi di senatori. L’Italia non fu pressoché interessata da riforme amministrative. Le circa 400 città italiche godevano di autonomia interna, erano dotate di un proprio governo municipale e non erano soggette all’imposta fondiaria. Augusto divise l’Italia in 11 regioni. I più importanti provvedimenti riguardano in primo luogo l’organizzazione di un sistema di strade e di un servizio di comunicazioni, soprattutto a scopo militare, affidato alla responsabilità dei magistrati municipali e organizzato da un praefectus vehicolorum equestre. Vi furono inoltre numerose iniziative di rinnovamento edilizio nelle città dell’Italia: porte, mura, strade e acquedotti. Le province che ricadevano sotto la responsabilità diretta di Augusto erano quelle in cui si trovavano una o più legioni. Queste province <<non pacificate>> ovvero di frontiera o di recente conquista, crebbero dalle iniziali 5 fino a raggiungere il numero di 13 alla fine del suo principato. Tali province venivano governate da apposti legati, i cosiddetti legati augusti pro pretore, scelti tra i senatori di rango pretorio o consolare. Nelle altre province, quelle di competenza del popolo romano, che arrivavano a dieci all’inizio del I sec. d.C, in genere prive di legioni al loro interno, i governatori, seguendo la prassi repubblicana, erano sempre senatori ma in questo caso erano scelti a sorte tra i magistrati che avevano ricoperto la pretura o il consolato. Restavano in carica un solo anno, comandavano le forze militari presenti nella loro provincia, assistiti dai questori. Anche nelle province del popolo Augusto poteva intervenire in virtù del suo imperium maius. Un’eccezione a questo ordinamento era costituita dall’Egitto che, subito dopo la vittoria su Antonio e Cleopatra, era stato assegnato a un prefetto di rango equestre, nominato da Augusto. All’indomani di Azio, gli uomini impegnati nell’esercito superavano di gran lunga le necessità e i mezzi dell’impero. La paga dei soldati gravava sulla cassa dello stato, in cui confluivano le imposte regolari delle province. Con Augusto il servizio militare nelle legioni fu riservato in linea di principio a volontari, che per lo più erano italici. Si costituì una forza permanente effettiva composta da 25 legioni. Un’altra innovazione fu l’istituzione di una guardia pretoriana permanente, affidata al comando di un prefetto di rango equestre. Si trattava di un corpo militare d’èlite composto da nove coorti ( circa 9000 uomini), reclutato prevalentemente tra i cittadini residenti in italia, che godeva di privilegi quali un soldo più elevato e migliori condizioni di servizio, essendo stanziato presso Roma. La flotta stazionava due porti, a Misano e a Ravenna ed era sottoposta al comando di un prefetto equestre. Non va dimenticato che Augusto compì un atto di grande valore simbolico: la chiusura del tempio di Giano, una sorta di gesto propagandistico per indicare che iniziava una stagione di pace. Augusto preferì affidare alla diplomazia, piuttosto che alle armi, le questioni orientali. In Egitto furono estesi i confini meridionali grazie all’azione del primo prefetto d’Egitto. I confini con il regno partito vennero stabilizzati. Furono stretti trattati di amicizia con i regni di giudea, di Cappadocia e del ponto. La successione: 42 aprì un periodo di terrore, segnato da suicidi, processi e condanne per lesa maestà a carico di numerosi senatori, di sostenitori di Seiano, ma anche ddi oppositori al regime. Agrippina si suicidò e i suoi due figli maggiori furono uccisi. Alla morte di Tiberio nel 37, il senato, forse grazie all’intervento del prefetto dei pretorio Macrone, che aveva sostituito Seiano, riconobbe come unico erede il maggiorenne Caligola, che si impegnò ad adottare Tiberio gemello, ancora minorenne; al ragazzo non fu lasciato il tempo per eventuali rivendicazioni, venne infatti eliminato quello stesso anno. Caligola 37-41: L’impero di Gaio, detto Caligola, figlio di Germanico, fu relativamente breve ed è ricordato soprattutto per le sue stravaganze senza limiti , amplificate da una storiografia ostile. Gaio fu accolto con grande entusiasmo dall’esercito e dalla plebe, tra i quali il ricordo del padre Germanico. Molto più freddo era l’atteggiamento del senato, un fatto che trova riflesso nel ritratto che di Gaio ci ha lasciato lo storico di sentimenti filosernatori Svetonio: un folle tiranno, scarsamente interessato al governo dell’Impero e preoccupato solamente di rafforzare il suo potere personale. Le fonti imputano alla malattia mentale di Caligola la sua inclinazione verso forme di dispotismo orientale e l’ondata di esecuzioni, di cui cadde vittima anche il prefetto del pretorio Macrone. Si colloca forse in questo contesto la decisione di fare uccidere nel 40 il re Tolomeo di Mauretania, l’ultimo discendente di Antonio. In politica estera Caligola si curò di ripristinare in Oriente un sistema di Stati cuscinetto, con i cui sovrani aveva relazioni personali di amicizia ereditate da Marco Antonio, attraverso la nonna Antonia : esemplare il caso della Commmagene che, ridotta in provincia da Tiberio, venne restituita ad un sovrano cliente, all’amico personale Erode Agrippa concesse ampi territori in Gallia. Nel gennaio del 41 Caligola cadde vittima di una congiura organizzata dai pretoriani. La sua morte evitò che scoppiasse il conflitto in giudea e pose fine ai dissidi nelle città orientali. Conosciamo nel dettaglio questi episodi grazie alla narrazione dello storico di origini ebraiche Flavio Giuseppe e del filosofo ebreo di Alessandria Filone, uno dei membri dell’ambasceria inviata a Gaio dagli ebrei alessandrini per chiudere la tutela dei propri diritti, che ce ne ha lasciato un resoconto di propria mano. Il breve principato di Caligola costituisce dunque un episodio premonitore dei rischi inerenti alla struttura stessa del principato, esposto, malgrado la prudente organizzazione augustea, ai rischi di involuzione autocritica e assolutistica. Claudio 41-54 : Neppure il successore di Caligola, suo zio Claudio, un uomo di cinquant’anni ebbe dalla sua il favore delle fonti antiche, che ce lo presentano come uno sciocco e un inetto, dedito a manie erudite. In realtà il suo regno sembra contraddire questa presentazione per le sue realizzazioni in politica interna e per quelle in politica estera. Con Claudio l’amministrazione centrale fu divisa in quattro grandi uffici, un segretariato generale e altri tre rispettivamente per le finanze, per le suppliche, e per l’istruzione dei processi da tenersi davanti all’imperatore. Poiché a capo di questi dipartimenti furono chiamati dei liberti, cui la carica conferiva un potere 45 immenso, si capisce perché l’impero di Claudio sia ricordato con il nome di ‘’regno dei liberti’’. La sua linea politica lo portò anche a cercare nuove soluzioni ai problemi di approvvigionamento granario e idrico che periodicamente affliggevano Roma. Costruì il porto di Ostia per consentire l’attracco alle navi granarie di grande tonnellaggio che prima approdavano a Pozzuoli. Costruì un nuovo acquedotto e bonificò la piana del Fucino. Nella prima parte del suo principato Claudio dovette risolvere le questioni lasciate aperte da Caligola: affrontò la guerra in Mauretania, a cui pose fine con l’organizzazione del regno in due province, affidate a procuratori equestri, e anche la questione orientale fu oggetto di un suo intervento di modifica dell’assetto dei regni clienti istituiti da Caligola. I privilegi delle comunità ebraiche nelle città orientali furono ristabiliti, tutelando allo stesso tempo le istituzioni di poleis greche, in modo da evitare conflitti tra i due gruppi. La preoccupazione di prevenire disordini e tumulti fu anche all’origine del provvedimento di espulsione degli ebrei da Roma, adottato nel 49. L’impresa militare di Claudio più rilevante fu infine, nel 43, la conquista della Britannia meridionale, che fu ridotta a provincia. Nel 54 Agrippina non esitò ad avvelenare Claudio pur di assicurare al figlio la successione al trono. La società imperiale: La schiavitù era divenuta un fenomeno caratteristico della società e dell’economia a partire dalla tarda repubblica. Grandi quantità di schiavi erano impegnate nell’agricoltura dai proprietari di vaste tenute, anche se il fenomeno in età imperiale si andò riducendo, in favore dell’impiego di coloni liberi, vi era anche una notevole presenza di schiavi domestici, impiegati in attività artigianali e soprattutto tra gli schiavi di origine greca più istituiti, nell’ambito dei servizi come per esempio istruttori, medici, segretari ecc.. una categoria particolarmente importante è rappresentata dagli schiavi imperiali, la famiglia Caesaris, impiegati nella gestione finanziaria e amministrativa del patrimonio imperiale ed organizzati secondo vere e proprie gerarchie. Gli schiavi a capo di dipartimenti finanziari potevano raggiungere livelli di ricchezza e potere personale anche superiori a quelli di esponenti della nobiltà senatoria. Non bisogna però confondere la ricchezza con lo status giuridico. Nella concezione antica i due aspetti erano indipendenti: ricchezza e potere non davano automaticamente accesso a un ceto superiore. I liberti, soprattutto nel I sec. d.C il ceto economicamente più attivo in vari settori dell’economia. Nerone 54-68 d.C: Il principato di Nerone fu impostato su premesse del tutto diverse da quelle augustee: il consolidamento die poteri del Princeps e l’istituzionalizzazione della sua figura avevano mostrato debolezza dei residui della tradizione repubblicana nel governo dello stato. In un primo momento Nerone assecondò l’autorevole influenza che esercitavano su di lui Seneca e il prefetto del pretorio Afranio Burro cercando una forma di collaborazione con il senato, ma se ne distaccò progressivamente per inclinare verso una idea teocratica e assoluta del potere imperiale. La vena artistica e gli interessi culturali che lo portavano ad essere un grande ammiratore della Grecia, dell’oriente e dall’Egitto, trasformarono in senso assolutistico e monarchico il potere imperiale e delle antiche famiglie repubblicane. Nerone, capace di compiere 46 anche gesti spettacolarmente propagandistici, come la concessione di esenzioni fiscali alla Grecia, fu sempre considerato un imperatore vicino alla plebe che ne apprezzava l’istrionismo e la demagogia. Ma si macchiò comunque di gravi delitti. Dopo aver fatto assassinare il fratellastro britannico, nel 59, fece uccidere anche sua madre agrippina, che ostacolava la relazione del figlio con Poppea Sabina e si opponeva al divorzio di Nerone con Ottavia, figlia di Claudio, in quanto temeva che questo gesto avrebbe suscitato l’opposizione dei senatori del precedente imperatore e un indebolimento del potere di madre e figlio. Nel 62 comunque Nerone divorziò e sposò Poppea. Il dispotismo di Nerone, culminò nell’incendio di Roma del 64, di cui furono incolpati i cristiani e fece tante vittime anche tra i senatori, propiziò le condizioni per la sua eliminazione. Non sappiamo se quanto ci narrano le fonti sulla sua follia incendiaria corrisponda a verità, ma certo le situazioni che egli dovette affrontare dopo l’incendio fu molto grave, i costi per la ricostruzione furono tanto alti da esacerbare alcune situazioni di tensione sia con il senato e la plebe di Roma sia nelle province e da provocare una forte perdita di consenso. Al 64 risale infatti un provvedimento di grande rilevanza, la riduzione del peso e di fino della moneta d’argento, la moneta principale del mondo romano. Tale provvedimento si spiega forse con la necessità di moneta legata al grande programma edilizio che Nerone doveva finanziare, a cominciare dalla costruzione della sua stessa residenza, detta domus aurea. Questo palazzo grandioso fu innalzato nel pieno centro di Roma liberato dagli edifici precedenti dalle devastazioni dell’incendio. Nerone avrebbe inoltre utilizzato lo strumento dei processi e delle confisca, rendendosi sempre più inviso alla nobiltà senatoria, tanto che nel 65 fu minacciato da una grave congiura, nota come ‘’congiura dei Pisoni’’. Seneca e Genio Rufo, prefetto del pretorio, furono tra le principali vittime, ma anche nell’anno successivo Nerone proseguì all’eliminazione degli avversari, tra cui molti esponenti della nobiltà senatoria di spirito repubblicani, accusati di tramare contro il Princeps. Assicurata la situazione a Roma, Nerone partì per la Grecia, dove intendeva compiere una tournée artistica e agonistica partecipando ai festival e ai tradizionali agoni periodici delle poleis greche, che furono eccezionalmente tenuti in gran parte in quell’anno. Nerone vinse in tutti gli agoni e ai giochi di Corinto proclamò la libertà delle città greche. In giudea era scoppiata una gravissima ribellione, contro cui Nerone aveva mandato Muciano, il legato di Siria e Vespasiano, comandante delle truppe in Giudea; mentre Vespasiano riusciva a riportare sotto controllo la situazione in Palestina, nell’inverno 67\68 giunse a Roma la notizia della ribellione del legato della Gallia Lugdunenis. La ribellione fu rapidamente domata, ma era solo l’inizio di una catena di sollevazioni: del governatore della Spagna, di quello dell’Africa, delle truppe del reno. Anche i pretoriani abbandonarono Nerone; il senato lo dichiarò nemico pubblico, riconoscendo come nuovo princeps Galba. A Nerone non restava altra via se non quella del suicidio. La sua morte segna la fine della dinastia Giulio Claudia. L’anno dei quattro imperatori e i Flavi: L’anno dei 4 imperatori: il 68\69 Si erano create le condizioni per una nuova guerra civile, che vide contrapporsi senatori, governatori di provincia o comandanti militari che, forti del sostegno dei 47 governatori e di promuovere i compiti burocratici del ceto equestre, assegnando loro alcuni degli uffici che Claudio aveva sottoposto ai liberti. La scelta di rinunciare a ulteriori vaste conquiste militari a favore di operazioni di consolidamento della frontiera sul reno, sul Danubio e in Britannia, risultò realistica e lungimirante. Si inaugurò una sistema di difesa dei confini. La parola limes, che nel corso del I sec designava le strade che si inoltravano nei territori non ancora conquistati, dotate di posti fortificati e destinate a facilitare la penetrazione romana, passò infatti ad assumere il significato di frontiera artificiale, in cui le strade limitanee servivano a collegare tra loro gli accampamenti e di fatto a disegnare la linea di separazione tra l’impero e i territori esterni. In alcune zone, specialmente dell’Oriente e dell’Africa, l’articolazione delle strade militari e dei forti che costituivano il limes fu tracciata a rete, a sorveglianza dee vie carovaniere, delle piste della transumanza , delle oasi del deserto, così da includere le zone in cui erano ancora possibili le coltivazioni agricole ma da consentire allo stesso tempo, il controllo delle popolazioni nomadi e dedite alla pastorizia. Nell’85, si andò profilando il problema della Dacia, nella quale il re Decebalo era riuscito a unificare le varie tribù e a guidarle in varie escursioni contro il territorio romano. Una prima campagna non ebbe successo. La seconda guidata proprio da Domiziano, non potè portare a risultati definitivi, a causa della rivolta di Antonio Saturnino, governatore della Germania superiore, proclamato imperator dalle sue legioni, sollevazione che costrinse Domiziano a stipulare una pace provvisoria. Decebalo non dovette cedere alcuna parte del suo territorio ma semplicemente concludere un foedus (trattato), in cui accettava di dipendere dall’impero romano, ricevendo in cambio una corresponsione in denaro. Le fonti, ostili all’imperatore, ci parlano di una pace ‘comperata’, un espressione che riflette probabilmente il senso di insicurezza e precarietà dell’accordo per i romani, si trattava infatti di una sistemazione provvisoria che non poneva termine alle ambizioni di Decebalo. La rivolta di Saturnino ebbe pesanti ripercussioni sulla politica di Domiziano, che anche nel periodo successivo, continuando a sentirsi minacciato, inaugurò un periodo di persecuzione ed eliminazione di persone sospettate di tramare contro di lui o semplicemente in posizione tale da costituire un rischio potenziale. Lo stile autocratico costò caro a Domiziano, che si era autoproclamato censore a vita e si faceva chiamare <<signore e dio>>. Dopo una serie di processi intentati contro i senatori e contro presunti simpatizzanti delle religioni ebraica e cristiana, accusati di praticare culti contrari a quelli ufficiali, Domiziano nel 96 cadde vittima di una congiura a cui forse partecipò anche la moglie. Il senato, dopo la sua morte, giunse a proclamarne la dominato memoriae. Il sorgere del cristianesimo: Il cristianesimo viene formandosi come religione nel corso del I e II secolo d.C., scaturita dalla predicazione del suo fondatore, Gesù Cristo, originario di Nazareth al tempo di Augusto e morto in croce sotto Tiberio. Le prime comunità cristiane sorsero in seguito alla predicazione di Gesù, ma bisogna ricordare che il cristianesimo primitivo iniziò come un movimento interno al Giudaismo. Il giudaismo era diviso in vari gruppi, tra i quali emergevano i suddacei (aristocratici e conservatori) e i farisei (più popolari e liberali): le condizioni sociali dell’epoca non potevano riservare un grande futuro alle prospettive religiose e 50 politiche dei suddacei, quindi per la maggior parte degli Ebrei si trattava di scegliere tra i farisei e il cristianesimo, che proponeva una religione che aveva il suo fondamento nella fede in Cristo come valida per tutta l’umanità. I sec. d.C.: Si impone la figura dell’apostolo Paolo di Tarso. Inizialmente le comunità cristiane si organizzarono in forme diverse nelle singole città, ma dal II sec d.C. prevalse la struttura di comunità guidate da un singolo responsabile, detto episcopus. Augusto aveva garantito a tutte le comunità ebraiche la possibilità di conservare i propri costumi ancestrali, di praticare il proprio culto e di mantenere legami con il centro di riferimento (il tempio di Gerusalemme). In diverse occasioni però gli Ebrei furono avvertiti come elemento estraneo: sotto Tiberio furono espulsi da Roma, Caligola aveva saccheggiato il tempio mentre Claudio, dopo aver ristabilito la tolleranza inaugurata da Augusto, nel 49 d.C. li espulse anch’egli da Roma. A partire da Nerone diventa evidentemente il contrasto tra l’autorità imperiale e la nuova religione cristiana, considerata sovversiva e pericolosa. Nerone addirittura incolpò i cristiani del grande incendio che distrusse Roma nel 64 d.C., iniziando contro di loro una cruenta persecuzione in cui morirono gli apostoli Pietro e Paolo. Negli ultimi anni di Nerone scoppiarono rivolte in Palestina, che vennero stroncate da Vespasiano e Tito, che distrussero anche il tempio. Sedata la rivolta non furono poste limitazioni al culto, che continuò sia in Palestina che nella diaspora. Ebrei e cristiani subirono invece l’ostilità di Domiziano. Il II secolo: Il II secolo d.C è tradizionalmente considerato come l’età più prospera dell’impero romano, che sicuro nei suoi confini, potè giovare di un notevole sviluppo economico e culturale. D’altra parte, a questa soluzione si era arrivati in modo indolore. L’adozione di Traiano da parte di Nerva avvenne in uno stato di grave necessità, quando la dichiarata fedeltà dei pretoriani a Domiziano sembrava far si che nel 97 d.C si ripetessero per Roma i giorni delle guerre civili del 69 d.C Nerva 96-98 d.C: Sul breve principato di Nerva, durato solo due anni, ci dobbiamo basare principalmente sulla narrazione dello storico greco di età severiana Cassio Dione, su qualche passo di Plinio il Giovane e sulle epitomi di storia romana del IV secolo d.C. In compenso però disponiamo di altre fonti, come le monete che con i messaggi propagandistici che contengono ci forniscono in taluni casi l’unica documentazione da cui conosciamo i provvedimenti presi da Nerva. La prima preoccupazione di Nerva fu quella di controllare le reazioni all’uccisione di Domiziano e di scongiurare il pericolo dell’anarchia. Fece in modo di ottenere i giuramenti di fedeltà dalle truppe provinciali e si preoccupò di abolire le misure più impopolari di Domiziano, richiamando gli esiliati e avallando in senato la dominatio memoriae del ‘tiranno’. L’accusa di lesa maestà fu sospesa e i delatori che sotto il regno di Domiziano avevano provocato processi e condanne subirono la pena capitale. Garantito l’ordine interno, Nerva si volse a un’opera costruttiva di politica finanziaria e sociale a favore di Roma e dell’Italia: fu votata una legge agraria per assegnare lotti di terreno ai cittadini nullatenenti e probabilmente fu durante lo 51 stesso regno di Nerva che venne varato il programma delle cosiddette <<istituzioni alimentari>>, di cui però abbiamo le prime attestazioni documentarie solo sotto Traiano. Tale programma consisteva essenzialmente in prestiti concessi dallo stato agli agricoltori, che ne beneficiavano accettando di ipotecare i propri terreni. L’interesse dell’ipoteca veniva vastato ai municipi locali o ad appositi funzionari e serviva per sostenere i bambini bisognosi: si realizzava in questo modo sia un incentivo al miglioramento della produttività dei fondi sia un sostegno alle famiglie per contrastare la tendenza in atto al calo demografico. Nerva trasferì alla cassa imperiale il costo del cursus publicus, cioè del mantenimento delle strade e delle stazioni di scambio per i messaggeri imperiali. Tuttavia nel 97 si manifestarono alcuni sintomi di crisi che minacciarono questa politica di buon governo. Gli sgravi fiscali e la politica sociale, che segnarono una svolta di Nerva rispetto alla pressione tributaria dei Flavi, non rimediavano, ma semmai accentuavano, le difficoltà economiche, che già si erano manifestate sotto Domiziano e a cui Nerva non poteva porre agevolmente rimedio. Sul versante politico i pretoriani, che in un primo momento erano stati tranquilli, chiesero la punizione degli assassini di Domiziano. Nerva acconsentì ma in questo modo puniva coloro che l’avevano portato al potere, compromettendo la propria immagine. Nerva adottò e associò immediatamente al potere il senatore di origine spagnola M. Ulpio Traiano, in quel momento governatore della Germania superiore, uomo di grande esperienza politica e militare. Nerva visse ancora solo per tre mesi e nel gennaio del 98, alla sua morte Traiano gli succedette come imperatore. Traiano: Traiano ricevette la notizia della sua adozione da parte di Nerva e, quindi della sua successione mentre svolgeva le sue funzioni di governatore in provincia nella Germania meridionale lungo il corso del reno (Germania superiore). A Roma si recò solo nel 99 preferendo completare il lavoro di consolidamento del confine renano. Egli unì nella sua persona le caratteristiche di esperienza militare e il senso di appartenenza al senato proprie della tradizione repubblicana ed erano state incarnate da Augusto. Queste due prerogative lo resero agli occhi dell’opinione pubblica del tempo l’optimus princeps, il sovrano ideale rispettoso delle tradizioni, sottomesso alle leghi ma nello stesso tempo eminente per proprie virtù e gradito all’esercito. Traiano è stato a ragione paragonato a un generale della repubblica: tra i suoi programmi un posto di rilievo ha l’espansione territoriale. Le campagne d’amiche (101-102 e 105-106) sembrano godere in particolare del sostegno del senato. Non abbiamo la certezza che le imprese militari di Traiano in una regione ricca d’oro come la Dacia e sul confine orientale contro i parti e in Arabia, dove passava la via del commercio con l’india, siano state determinate dalla volontà di impostare una soluzione militare dei problemi finanziari, lasciati aperti dal breve regno di Nerva. Decebalo, contro cui Domiziano non aveva potuto intraprendere una campagna risolutiva, costituiva infatti una minaccia per il confine danubiano e dunque per le ragioni strategiche ebbero certo un grande peso nella scelta di espandere il dominio provinciale romano. 52 2- i municipi. Un municipio è una città cui Roma ha concesso di elevare il suo status precedente di città peregrina e ai cui abitanti è accordato o il diritto di latino o quello romano. 3- le colonie, si tratta in origine di città di nuova fondazione con apporto di coloni che dono della cittadinanza romana su terre sottratte a città. Si realizzava così una gerarchia tra le città tale da favorire lo spirito di emulazione, dato che le città peregrine aspiravano a diventare municipi di diritto latino e questi ultimi desideravano ottenere il diritto romano. L’evoluzione dello statuto delle singole comunità, comportava, attraverso l’estensione del diritto latino o della cittadinanza romana, l’integrazione dei provinciali nell’impero; ciò non poteva avvenire per gradi, privilegiando i ceti dirigenti. Nell’oriente ellenistico, l’esperienza cittadina si basava sulla lunga tradizione della polis, mentre in Spagna, Africa e Sicilia, le tradizioni greche si mescolavano a quelle fenicie e puniche. nell’Europa continentale, alcune zone potevano vantare tradizioni celtiche, ma altrove, per esempio in Germania, non vi era alcuna cultura di tipo urbano, il che rese la penetrazione romana ancora più difficoltosa. La complessità delle situazioni giuridiche delle città è dunque solo un piccolo riflesso della molteplicità di culture, tradizioni, lingue e religioni e identità che convivevano nell’impero. Marco Aurelio 161-180 d.C: Marco Aurelio succedette ad Antonino secondo quanto era stato preordinato. All’inizio del regno di Marco si riaprì la questione orientale con il potente vicino pertico. La guerra condotta da Vero, si concluse vittoriosamente nel 166, ma fu causa indiretta della crisi che travagliò l’impero negli anni successivi. Infatti l’esercito dall’oriente portò con sé la peste, che causò lutti e devastazioni in molte regioni con gravi conseguenze demografiche ed economiche. Inoltre, lo sguarnimento della frontiera settentrionale creò le condizioni perché i barbari del nord, soprattutto Marcomanni e Quasi, si facessero pericolosi. Superato il Danubio, essi invasero la Pannonia, la Rezia e il Norico e giunsero persino a minacciare l’Italia, arrivando ad assediare Aquileia. Marco Aurelio e Lucio Vero furono allora prevalentemente impegnati nella difesa della frontiera danubiana. Come risposta a questa situazione d’emergenza si creò la praetentura Italia et Alpium, cioè la difesa avanzata dell’Italia verso le alpi. Morto Lucio Vero, mentre tornava dall’illirico nel 169, marco Aurelio riuscì a ristabilire la situazione preesistente e a respingere i barbari a nord del Danubio solo nel 175, dopo campagne difficili che si protrassero per quasi dieci anni. Le sue imprese sono illustrate sui fregi della colona a lui dedicata oggi in piazza colonna a Roma. Un sintomo di malasserei che l’impero stava conoscendo è dato anche dalla rivolta del governatore di Siria Avidio Cassio, che nel 175 si autoproclamò imperatore. Il fatto che fosse ucciso dalle sue stesse truppe prevedi il conflitto armato. Marco Aurelio è passato alla storia come l’immagine stessa dell’imperatore filosofo, con un’alta concezione del proprio dovere verso i sudditi. Il fatto che con lui si ritorni alla prassi della secessione dinastica, al posto della cooptazione della persona ritenuta più idonea, non può essere imputato a una sua debolezza, anche se il caso volle che il figlio Commodo, che gli succedette, da lui nominato correggerete sin nel 177 risultasse del tutto indegno alla carica. 55 Commodo 180-192 d.C: Commodo divenne imperatore a soli diciannove anni, e si dimostrò la perfetta antitesi del padre e un segno di come il potere imperiale fosse esposto al rischio di ogni storta di degenerazione. Il suo primo atto fu quello di concludere definitivamente la pace con le popolazioni che premevano sul Danubio, rinunciando al progetto del padre di controllare anche le regioni a nord del fiume. Si faceva chiamare Ercole e pretese di rifondare Roma con il nome di Colonia Commodiana, le sue inclinazioni dispotiche, la sua stravaganza , le innovazioni in campo religioso, determinarono inevitabilmente la rottura con il senato di cui egli perseguitò numerosi membri. Commodo non dimostrò cura assidua per le province come i suoi predecessori, né per i soldati degli eserciti stanziati nell’impero, che diedero segni di inquietudine e di rivolta a causa dei mancati pagamenti. Il consenso interno era fondato sulla plebe di Roma e sui pretoriani, piuttosto che sull’aristocrazia e sul senato; nemmeno all’interno della domus principio ci era completa adesione alla linea politica del principe. Tuttavia sotto il principato di Commodo, vi furono importanti fenomeni di integrazione della cultura provinciale, con l’accoglimento di molte divinità straniere, che entrarono alla pari nel pantheon romano: la Magna Mater per esempio nel 188 fu celebrata come protettrice dell’impero contro il tentativo insurrezionale di un disertore e delle sue bande. Si venne a creare così una sorta di carisma divino intorno a Commodo, che da sua parte decise di proposti egli stesso come divinità in terra. Questo suo atteggiamento contrario alla tradizione augustea e romana fu un ulteriore elemento di dissenso del senato nei suoi confronti. L’economia romana in età imperiale: Uno dei fattori che caratterizzano in modo stabile la storia economica dell’impero romano è rappresentato dall’eccezionale fabbisogno alimentare di Roma, che merita l’appellativo di megalopoli. Il milione di abitanti che vi era concentrato rappresenta un dato numerico smisuratamente alto: una città media, come Pompei, difficilmente superava i 25.000. Crisi e rinnovamento (III-IV sec. d.C) Già durante il regno di Marco Aurelio e, in modo più evidente, durante il regno del figlio Commodo, all’interno dell’impero si erano manifestati diversi fattori di crisi che divennero ben presto veri e proprio elementi di disgregazione. Il senato si trovò esautorato a vantaggio dei militari, dato che i bisogni dell’esercito crescevano per contenere la spinta delle popolazioni barbariche; in campo fiscale, la svalutazione della moneta impoverì i ceti medi, portando con sé la decadenza economica delle città ed una profonda crisi morale, dovuta alla diffusa sfiducia nei valori tradizionali. Tali elementi di crisi, aggravandosi nel corso del III secolo, condussero rapidamente lo stato romano ad una situazione difficilissima. Si può dire che due furono le componenti definitive di tale processo: l’esercito all’interno e i barbari all’esterno. L’accresciuta importanza dell’esercito, che si ritrovò nella condizione di nominare imperatori a suo piacimento, soprattutto nelle province, va messa in relazione con l’accentuata pressione dei popoli barbari ai confini, un fenomeno che divenne drammatico a partire dalla metà del III secolo d.C. .Un ulteriore elemento 56 di disgregazione era costituito dalla grave situazione economica, dovuta alla necessità di finanziare un esercito sempre più esigente. Il bisogno di reperire risorse per il mantenimento delle legioni, un investimento che rimaneva del tutto improduttivo, determinò come conseguenza la crescita della pressione fiscale e il fenomeno dell’inflazione: la forte perdita di valore della moneta è una delle calamità che afflissero la popolazione civile e l’economia delle città in questo periodo. Tendenze assolutistiche: È al nuovo ruolo dell’esercito, in particolare ,che si deve la trasformazione dell’ideologia del potere imperiale verso forme sempre più marcatamente assolutistiche. Cambia anche il rapporto tradizionale tra l’imperatore e il senato: ormai l’imperatore, che secondo l’ideologia del principato augusteo era un princeps rispettoso dell’aristocrazia senatoria, riconosce al senato solo la funzione di organismo burocratico soggetto alla propria autorità assoluta, che dipende sempre di più dall’appoggio dell’esercito come base essenziale del potere. Gli imperatori militari di origine illirica, arrivati al potere attraverso una serie di proclamazioni dei loro eserciti, cercarono di far fronte alla gravità della situazione, ma risultarono totalmente estranei alla tradizione del regime senatorio. L’adozione del culto solare da parte di questi imperatori si spiega con il fatto che esso era molto popolare nell’esercito ed era quello che si adattava meglio al rafforzamento del potere imperiale in chiave assolutistica. Il cristianesimo: D’altra parte è proprio la crisi morale dell’impero romano, nel quale si diffonde una progressiva sfiducia nei valori religiosi e civili tradizionali, che favorisce il manifestarsi di nuove tendenze religiose che si propongono di soddisfare i bisogni esistenziali dell’uomo in quella che è stata definita come un’epoca di angoscia. Il III secolo è, tra l’altro, l’epoca decisiva per il definitivo costituirsi delle strutture primitive della chiesa cristiana. Mentre la nuova fede conquista consensi sempre più ampi presso la gente bisognosa di nuova punti di riferimento, si fa più dura ed evidente l’avversione da parte dell’autorità politica. 57 contemporanei. La durezza del suo regime, spiega la ritrovata forza di coesione del senato, che giunse a dichiararlo nemico dello stato. Dopo una serie di imperatori dopo di lui, venne proclamato Decio, che era stato invitato dal precedente imperatore Filippo a combattere lungo il Danubio. Il breve regno di Decio (249-251), che si sentiva investito dal dovere primario di difendere le frontiere imperiali, è caratterizzato da un’evidente volontà di rafforzare l’osservanza dei culti tradizionali, tra cui quello ufficiale dell’imperatore, inteso come strumento di coesione interna. Questo significava di fatto per i cristiani una forte discriminazione: come ci dimostrano i numerosi documenti pervenutici, una disposizione imperiale obbligava gli abitanti dell’impero a dimostrare la propria fedeltà ai culti imposti. Chi non accettava di sacrificare agli dei e al genio dell’imperatore,veniva condannato a morte. Per questo Decio, responsabile di una violenta persecuzione contro i cristiani scatenata nel 250\251, ci è presentato dalle fonti cristiane come un mostro. Decio morì nei Balcani nel 251 combattendo contro i Goti. La sua morte avvenne mentre l’impero si trovava minacciato su più fronti e sembrava messa in discussione la sua sopravvivenza. Sul confine gallico e su quello germanico premevano le popolazioni degli ammanni e dei franchi; la frontiera del basso Danubio era attaccata dai Goti mentre in oriente i persiani, guidati da Sapore, si stavano impadronendo della Siria. Valeriano (253-260) un anziano senatore, arrivò al trono imperiale dopo una serie di effimeri imperatori militari, imposti e subito dopo deposti dagli eserciti stessi nel corso degli anni 251-253. Data la gravità e l’incertezza della situazione, Valeriano ebbe l’accortezza di associare immediatamente al potere del figlio Gallieno e di decentrare il governo dell’impero: affidò a Gallieno il compito di difendere le province occidentali. La sua campagna contro i persiani, ormai padroni di Antiochia, finì tragicamente. Dopo qualche successo iniziale, Valeriano fu sconfitto ad Odessa e d’atto prigioniero dal re Sapore. Gallieno rimasto da solo a reggere l’impero tra il 260 e il 268 riuscì a bloccare l’avanzata degli alemanni e dei goti, anche se fu costretto ad arretrare tutta la linea di frontiera al Danubio, con la perdita della dacia. Gallieno fu ucciso nel 268 in una congiura ordita dai suoi ufficiali, ciò porto al potere il suo comandante della cavalleria. Claudio II (268-270) è il primo di una serie di imperatori detti illirici, perché originari di quella regione. Claudio conseguì due importanti successi, uno contro gli alamanni, che avevano invaso la pianura padana, e un altro contro i goti che erano giunti ad occupare Atene. Morto Claudio di peste nel 270, la sua opera fu completata da Aureliano (270-275), che riuscì ad avere definitivamente ragione delle popolazioni barbariche che erano penetrate di nuovo nella pianura padana. L’impotente cinta muraria con la quale Aureliano fece circondare Roma, da un’idea della pericolosità della situazione: l’opera colossale consisteva in un perimetro di oltre 18 km, con uno spessore di 4 metri. Nel 272 si impadronì della Siria. Aureliano ebbe merito di restituire un certo prestigio alla figura del sovrano: promosse una decisa riorganizzazione dello stato in tutti i settori essenziali della vita economica e diede impulso al processo di divinizzazione del monarca. In campo religioso ci fu l’introduzione del culto ufficiale di Sol Invictus, identificato con Mitra, una divinità particolarmente cara ai soldati, voleva significare il rafforzamento dell’autorità imperiale. Ucciso Aureliano nel 275, alla vigilia di una nuova campana contro la Persia. 60 Diocleziano e il dominatio: L’avvento al trono di Diocleziano segna una delle cesure più nette in tutta la storia dell’impero romano. Con il suo regno (284-305) si chiude definitivamente l’età buia che va sotto il nome di crisi del III secolo. Si tratta di un’età di riforme e novità, a cominciare da quella che dava una diversa organizzazione al potere imperiale centrale; a partire da questo momento si fa tradizionalmente iniziare, con riferimento alle forme di governo, la fase del cosiddetto ‘’dominatio’’, rispetto a quella precedente detta ‘’principato’’. Dal regno di Diocleziano e di quello di Costantino, c’è un momento iniziale di un’età di rinnovamento nella storia dell’impero romano, che si suole designare come tarda antichità. Il regno di Diocleziano è contraddistinto da una forte volontà restauratrice dello stato a tutti i livelli, politico-militare, amministrativo ed economico. Probabilmente per garantire una migliore difesa alle regioni più minacciate, Diocleziano stabilì la propria sede in oriente, a Nicomedia, la capitale della Bitinia. Del resto l’oriente appariva in quel momento economicamente più solido dell’occidente. Al vertice dell’impero c’era un collegio imperiale composto da quattro monarchi, i tetrarchi, due dei quali detti augusti, poi erano di rango superiore ai secondi i cosiddetti cesari. Tale sistema aveva come fine quello di fronteggiare meglio le varie crisi regionali attraverso una ripartizione territoriale del potere. I due augusti cooptavano i due cesari.e così era previsto che facessero a loro volta questi ultimi una volta diventati augusti. Questa riforma tuttavia non fu attuata dall’oggi al domani ma fu realizzata attraverso tappe graduali. Nel 285 Diocleziano nominò Massimiano come cesare, con il compito di reprimere una rivolta nelle galline, e l’anno successivo lo elevò al rango di augusto. I due cesari, Costanzo Cloro, che era associato a Massimiano nel governo occidentale, e Galerio, che in oriente affiancava Diocleziano, furono proclamati solo nel 293. Una delle conseguenze dell’introduzione del regime tetrarchico fu, che di fatto, nessun augusto, affiancato da un cesare, esercitava il suo governo alternativamente sull’oriente o sull’occidente. Roma cessava di essere la residenza abituale dell’imperatore. Diocleziano andò infatti a risiedere a Nicomedia, in Asia Minore, mentre Massimiano, scelse come capitale Milano. Lo sforzo profuso da Diocleziano nel riordino dell’amministrazione fece crescere la burocrazia statale, consistente in uomini al diretto servizio del sovrano, le cui funzioni erano rigorosamente distinte da quelle militari. L’esercito fu ulteriormente potenziato e le truppe migliori furono messe a disposizione dei tetrarchi, che le potevano dislocare nelle zone di confine che si fossero venute a trovare in difficoltà. Anche il numero delle province aumentò, mentre si riduceva l’estensione del loro territorio, si voleva evitare in questo modo che i vari governatori diventassero troppo influenti e potenti, tanto da aspirare allo stesso potere centrale. Diocleziano si impegnò nel riordino del sistema fiscale, con l’introduzione di una nuova forma di tassazione: l’imposta fondamentale era quella che gravava sul reddito agricolo. Il sistema di calcolo si fondava su di una particolare base imponibile che teneva conto del rapporto tra terra coltivabile e numero di coltivatori. Per semplificare il calcolo del tributo, realizzabile solo grazie ad un censimento capitale dei terreni (il catasto) e dei sudditi, l’impero fu suddiviso in dodici unità regionali, dette diocesi. Anche l’Italia quindi, organizzata nella diocesi 61 italiciana, perse il suo antico privilegio di non far parte del sistema provinciale e fu equiparata alle altre regioni dell’impero. Diocleziano inoltre, coniò monete di oro e d’argento di ottima qualità. Come previsto dal sistema tetrarchico, il 1 maggio del 305. Diocleziano e Massimiano abdicarono e al loro posto subentrarono i due cesari, Costanzo Cloro pe l’Occidente e Galerio per l’oriente. Essi a loro volta nominarono come cesari rispettivamente Severo e Massimino Daia. Ma il sistema tetrarchico entrò subito in crisi, alla morte di Costano, nel 306, l’esercito proclamò imperatore il figlio Costantino. Diocleziano aveva promosso un’intensificazione del culto imperiale, facendosi chiamare Iovius, cioè figlio di Giove. La violenta persecuzione scatenata contro i cristiani di rafforzare l’unità dell’impero anche sul piano religioso, iniziò verso la fine del regno di Diocleziano, quando la chiesa cristiana, che godeva ormai da tempo di una situazione di pace, aveva molto consolidato le proprie strutture. Le vicende di questa situazione nuova persecuzione sono legate a quelle della tetrarchia. In occidente e, specialmente nelle regioni sottoposte al governo di Costanzo, essa cessò quasi subito. In oriente invece, essa fu cruenta e durò diversi anni con alterne vicende. La fine delle persecuzioni fu ordinata da Galerio, prossimo a morire nel 311. Da Costantino a Teodosio Magno: la tarda antichità e la cristianizzazione dell’impero: Il periodo che inizia con Costantino e arriva fino a Giustiniano merita un posto a sé stante nella periodizzazione storica. Essa coincide grosso modo con il IV secolo e con il definitivo affermarsi del cristianesimo come religione ufficiale dell’impero romano. Il governo dello stato è diretto dai detentori delle più alte cariche civili e militari, secondo rapporti gerarchici che con il tempo si definiscono sempre più precisamente. Si assiste tra l’altro alla scomparsa dell’ordine su cui ricadevano le principali cariche burocratiche, quello dei cavalieri, che viene assorbito da quello senatorio. Roma e il suo senato esercitano sempre una grande attrattiva, ma i rapporti di forza sono cambiati. L’aristocrazia è impegnata a difendere la propria identità di ceto e i propri interessi, che si concentrano in special modo nell’Italia meridionale. Il senato non ha più potere reale. Vi si accede, come in passato, dopo che si è rivestita la questura. Tuttavia anche se le tappe fondamentali della carriera senatoria rimangano (questura, pretura, consolato), si tratta ormai di magistrature che non implicano alcuna capacità decisionale. Ai questori e ai pretori è fondamentalmente delegato l’onere, molto dispendioso, di organizzare dei giochi per la plebe di Roma. Quanto al consolato si tratta di un titolo onorifico, conferito dall’imperatore. Costantino: Gli anni che seguirono la morte di Costanzo Cloro e che videro, con la proclamazione imperale del suo figlio Costantino e del figlio di Massimiano, Massenzio, il sostanziale fallimento del sistema tetrarchico, sono assai confusi. Costantino condusse per alcuni anni una politica prudente, egli mostra di propendere pe runa religione di tipo solare, monoteistico. Mentre Galerio moria nel 311 dopo aver ordinato di cessare le persecuzioni contro i cristiani, Costantino ebbe la meglio su Massenzio nel 312 nella battaglia di Milvio, 62 insediarli pacificamente entro i confini, quando irruppero in Tracia Valente gli affrontò in una battaglia campale. La sconfitta da lui partita ad Adrianopoli nel 378 (lo stesso valente perse la vita) è di estrema gravità e rappresenta uno degli episodi che annunciano la fine dell’impero romano d’occidente. La disastrosa sconfitta di Adrianopoli segna una grave cesura . Dopo Adrianopoli, la convivenza con i barbari diventa un tema centrale di dibattito, soprattutto in oriente, in ragione della politica di collaborazione promossa da Teodosio. L’inesperto Graziano , rimasto imperatore da solo con il piccolo Valentiniano II, chiamò un generale spagnolo, Teodosio, a sua volta figlio di un generale, a condividere con lui il governo dell’impero. Il suo compito era quello di far fronte alla drammatica situazione che si era creata in oriente. Consapevole dell’impossibilità di ricacciare i Goti al di là del Danubio, nel 382 concluse un accordo. Questo tipo di accordo, prevedeva che i Goti ricevettero delle terre all’interno dell’impero romano come popolazione autonoma: erano infatti detti Foederati e mantenevano tutte le loro istituzioni ma dovevano fornire dei soldati in caso di necessità. Teodosio manifestò una particolare attenzione per il problema religioso. Fondamentalmente è l’editto del 380, con il quale la religione cristiana veniva elevata al rango di religione ufficiale dell’impero. La crisi economica: Tra il II e il III secolo, l’evidente trasformazione nei sistemi di gestione delle aziende agrarie cui si assiste può essere a sua volta considerata manifestazione di una crisi in atto. Per esempio molte ville venivano abbandonate. Le incursioni barbariche che colpirono l’Italia come gran parte dell’impero romano determinarono, con la rottura del limes, delle frontiere, la chiusura dei circuiti commerciali mediterranei. Sulle campagne comprare una nuova figura, almeno dal punto di vista giuridico, di un coltivatore (colono), di stato libero ma di fatto vincolato alla sede in cui lavora, assimilabile quindi per molti aspetti a uno schiavo. Le innovazione introdotta da Diocleziano sono importanti: tra queste, come si è visto, c’è la perdita da parte dell’Italia della sua posizione privilegiata dal punto di vista fiscale, e la sua equiparazione alle altre province. Non abbiamo però indicazioni precise di come i grandi proprietari reagissero all’introduzione del tributo in Italia. Sin dalla fine del III secolo, Roma cessò di essere la residenza dell’imperatore, quando Massimiano, l’augusto per l’occidente, trasferì la sua residenza a Milano. Cosa si intende per tarda antichità: Un cambiamento profondo si è registrato negli ultimi decenni nella nostra considerazione del mondo antico o, per essere più precisi, della delicata linea di demarcazione tra antichità e medioevo. Rispetto alla considerazione fortemente negativa di un periodo caratterizzato per usare la formula di uno storico tedesco dell’ottocento dall’ <eliminazione dei migliori> si è venuta consolidando nella conoscenza storiografica l’idea di una tarda antichità con caratteri originali e distintivi, tali da farle meritare una piena autonomia come periodo storico. Già nel nome stesso di tarda antichità e non più di basso impero si riflette l’immagine di un’epoca portatrice di valori positivi. 65 Come momento conclusivo dell’età tardoantica si è accettata in genere l’invasione longobarda per l’occidente (568) e la fine del regno di Giustiniano per l’oriente (565). La tetrarchia, il regno di Costantino o, risalendo più indietro, l’età severiana, erano visti come spartiacque di due epoche accostabili tra di loro, seppure caratterizzate da elementi chiaramente distintivi. Nella tarda antichità forme di potere locale diverse rispetto al passato riuscirono a diventare le interlocutrici privilegiate del governo romano. Con il nuovo regime la tradizionale attività legislativa delle varie assemblee era venuta meno. Un compito specifico del buon sovrano consiste nell’incrementare il sentimento morale dei suoi sudditi. Per questo si deve presentare loro come una sorta di immagine, di riflesso della divinità. Il re diventa l’intermediario tra dio e gli uomini. Solo la morte repentina di Costanzo nel 361 aveva prevenuto la guerra aperta tra gli ultimi discendenti della famiglia di Costantino. E il nipote Giuliano moriva nel 363 combattendo contro i persiani ma, prima ancora, contro i cristiani per la restaurazione del paganesimo. La fine della dinastia costantiniana pone tuttavia in evidenza il problema della non coincidenza del destino dell’impero con quello della Chiesa. Il fallimento del disegno politico è oscurato dal merito indiscutibile di aver cristianizzato lo stato romano. La questione si presagisce già nell’attenzione che Eusebio rivolge al cerimoniale con il quale Costantino viene sepolto. Giuliano divenne subito dopo la sua morte un simbolo di battaglia ideologica agitato da quanti, turbati dal declino dell’impero, attribuivano al cristianesimo la responsabilità della sua rovina. La tarda antichità è un età di forti contraddizioni. È innegabile come essa presenti, malgrado la cristianizzazione della società e della legislazione, caratteri autoritari e repressivi. A Costantino si deve una costituzione, risalente al 316, che estendeva la tortura ai membri dell’èlite provinciale, i cosiddetti curiali, in caso di falsificazione dei documenti, tanto privati che pubblici. La fine dell’impero romano d’occidente e Bisanzio: Attorno alla metà del IV secolo i Goti erano la forza predominante nella regione del Ponto, operando nei due raggruppamenti fondamentali dei Greutungi e dei Tervigiri (identificabili come ostrogoti e visigoti). Per buona parte del IV secolo le relazioni tra Roma e i Goti furono condizionate dal trattato di pace di Costantino nel 332. La situazione ebbe una svolta drammatica quando i vari regni gotici entrarono a loro volta in crisi per la pressione esercitata su di loro dagli Unni, che avevano distrutto le loro terre più settentrionali. L’accordo allora stipulato tra i Romani e i Goti, autorizzati a insediarsi all’interno delle frontiere imperiali in cambio di un impegno a fornire soldati in caso di necessità, rappresenta una novità rilevante nella politica romana perché non scaturiva da un successo militare. Infatti la condizione preliminare per ogni forma di immissione di popolazioni straniere entro i confini romani era sempre stata subordinata alla possibilità di poter esercitare su di loro uno stretto controllo, cosa realizzabile solo in caso di una loro sottomissione preliminare. Il disastro di Adrianopoli del 378 in cui trova la morte lo stesso imperatore Valente, è una delle pagine più drammatiche della storia del Tardo impero e le sue conseguenze sono decisive per la sopravvivenza dell’impero romano. Il trattato del 382, con cui si chiude questa fase critica, finì per consentire definitivamente l’insediamento di Goti in Tracia, all’interno dunque delle frontiere dell’impero 66 romano: come contropartita è probabile che, oltre al pagamento di tasse, sia da mettere in conto la presentazione di servizio militare. L’integrazione di individui, tribù e popolazioni è stata indubbiamente una prassi usuale di Roma, ma è sopratutto in un settore che si nota una presenza sempre più massiccia di Germani, cioè nell’esercito. Il processo in virtù del quale le cosiddette tribù barbariche erano insediate a vario titolo sul territorio imperiale romano era iniziato con Marco Aurelio. Da questo momento in poi gli imperatori romani si appoggiarono sempre più alle truppe germaniche e ai loro capi. A Costantino forse si deve il primo insediamento di nuclei consistenti di barbari entro i confini dell’impero. Già negli anni immediatamente successivi sono infatti attestate ripetute assegnazioni di terre in Italia, e la presenza di insediamenti barbarici ha lasciato talvolta traccia della toponomastica, in particolare nelle regioni settentrionali. Dunque l’Italia settentrionale e centrale nel corso del IV secolo conobbe una serie di accantonamenti barbari come risultato di una politica mirata e di accordi pacifici. Solo eccezionalmente, tuttavia, veniva concessa a questa categoria di barbari la cittadinanza romana. Almeno fino alla sconfitta di Adrianopoli, sembra chiara la volontà degli imperatori di perseguire due finalità ugualmente vitali, vale a dire reclutare barbari per la terra e per l’esercito e mantenere la reciproca estraneità fra barbari e romani. In un primo momento ci fu una legislazione per impedire le unioni miste al fine di ostacolare l’integrazione dei nuovi arrivati. Il problema barbarico era sicuramente avvertito in termini differenti tra oriente ed occidente, in oriente aveva forti complicazioni di carattere religioso, mentre in occidente erano prevalenti i risvolti di carattere politico-sociale ed etnici. Una considerazione particolare deve essere riservata alla risposta data dalla chiesa alla questione barbarica, così come risulta dalla patristica e dai decreti conciliari. In tempo di matrimonio questi ultimi in genere si limitano a sconsigliare i matrimoni misti, che tuttavia non sono considerati illegittimi. La maggior presenza barbarica all’interno dell’impero romano è d’altra parte, un chiaro effetto degli sviluppi della politica teodosiana. Il risultato più importante del trattato del 382 fu quello di far si che i Goti venissero insediati da Teodosio, soprattutto nella zona di frontiera danubiana nella Media inferiore e in Tracia. L’aspetto delicato di questo insediamento risiede nel fatto che, a prescindere dall’atto di formale sottomissione a Roma, i Goti dovettero continuare a mantenere, all’interno dell’impero, la loro struttura tribale: essi erano tenuti, almeno teoricamente, a pagare delle tasse e a prestare servizio militare. La morte di Teodosio nel 395, segnò un momento di svolta decisivo per la storia dell’impero romano. Per la prima volta esso fu diviso territorialmente di fatto in due parti tra i figli di Teodosio, Arcadio a cui toccò l’oriente e Onorio, a cui toccò l’occidente. Non solo c’erano due imperatori, ma si crearono anche due corti, due amministrazioni, due eserciti del tutto autonomi. L’esito di tale divisione, risultò rovinoso per l’occidente, minacciato dalle sempre più frequenti e pericolose incuriosioni barbariche mentre l’oriente, superata la crisi gotica del 378, doveva fronteggiare il tradizionale nemico persiano. Nelle intenzioni di Teodosio, in realtà, il principio unitario doveva essere mantenuto vivo dal generale di origine vandalica Stilicone, cui affidò in tutela i due figli, che 67
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