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riassunto storie e luoghi dei gruppi Silvia Corbella, Sintesi del corso di Psicologia Generale

sintesi del manuale storia e luoghi dei gruppi, per l'esame in teorie e tecniche delle dinamiche di gruppo, Università degli studi dell'Aquila

Tipologia: Sintesi del corso

2017/2018
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marialuciaeva94
marialuciaeva94 🇮🇹

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Scarica riassunto storie e luoghi dei gruppi Silvia Corbella e più Sintesi del corso in PDF di Psicologia Generale solo su Docsity! CORBELLA: STORIE E LUOGHI DEI GRUPPI CAPITOLO 1 QUALE STATUTO EPISTEMOLOGICO PER IL GRUPPO? PARADIGMA DELLA COMPLESSITA’, COMPLEMENTARIETA E SUPPLEMENTAZIONE La prospettiva ermeneutica-fenomenologica e il paradigma della complessità sono utili alla compressione delle dinamiche dei gruppi interni ed esterni. Il piccolo gruppo, pe il suo essere costituito da più soggetti in interazione e interrelazione tra loro, rappresenta oltre che uno strumento di cura anche un luogo privilegiato per comprendere i formarsi dell’identità, sana o patologica. Concetto di Persona per LOPEZ individuo in grado di realizzare al meglio le proprie potenzialità e di raggiungere i livelli più maturi di coesione e unità, in cui l’universalità della specie si lega alla singolarità dell’individuo. La COMPLESSITA’ è un tessuto di costituenti eterogenei inseparabilmente associati, essa pone il paradosso dell’uno e del molteplice; si presenta con i tratti inquietanti dello scompiglio, dell’inestricabile, dell’incertezza, ne deriva la necessità, ai fini della conoscenza, di mettere ordine nei fenomeni rimovendo disordine ed ambiguità. Ma tali operazioni rischiano di rendere ciechi perché eliminano gli altri caratteri del complesso. La consapevolezza della complessità ci mette di fronte al senso del limite. Un costruttivo confronto con il limite è la risultante del processi di SUPPLEMENTAZIONE che fa riferimento alla presenza dell’eccesso, a quel plus di inconoscibile che mentre ci limita ci apre all’infinito. Sia il paradigma della complessità che il concetto di supplementazione vengono resi concreti nella prassi terapeutica gruppale. Il piccolo gruppo terapeutico può essere un luogo privilegiato di osservazione. Il paradigma della complessità è presente nella nostra fase storica sia nella realtà esterna che in quella interna; esse sono collegate perché non esiste una realtà esterna oggettiva, regolata da leggi proprie, indipendentemente dal soggetto conoscente. Esso ci permette di sostenere la presenza di molteplici punti di vista per comprendere i fenomeni, sostituendo la logica dell’aut-aut a quella dell’et-et; sottolinea l’importanza di mettere in relazione l’insieme sia con gli elementi che lo costituiscono che con il contesto in cui è inserito, dal particolare all’universale e viceversa. La complementarietà è quella del singolare e del particolare rispetto al principio di universalità, quindi evidenzia l’importanza della storia e dell’evento per comprendere i fenomeni, nel rimando dal particolare all’universale è d’obbligo riferirsi alla regola ermeneutica che prevede che bisogna comprendere la totalità sulla base del particolare e viceversa. UTILIZZO PRAGMATICO DELLA PRECEDENTE CONCETTUALIZZAZIONE Ciò che caratterizza a tutti i livelli la nostra epoca è la COMPLESSITA’ e la complessità nelle relazioni e la complessità nei concetti di femminile e maschile. Nel mondo occidentale la recente emancipazione della donna dai ruoli tradizionali, e la conseguente crisi del patriarcato hanno modificato i ruoli precostruiti femminili e maschili, dal momento che femminilità e mascolinità sono costrutti relazionali. Questo ha portato ad un venire meno di certezze di riferimento, e di un senso di confusione. Non c’è attualmente nulla che possa garantire la continuità di un rapporto amoroso se non il rapporto medesimo; l’INCERTEZZA è dunque una componente stabile della relazione uomo-donna. Nel lavoro gruppale si può dunque evidenziare tutta la complessità della persona, oltre l’identità di genere, nella sua duplice polarità sia di persona, con i suoi attributi idiosincratici e soggettivi e inconoscibilità, sia di Persona (LOPEZ). Il tutto in un contesto che consente ciò. DALL’HOMO NATURA ALL’HOMO PERSONA Il pensiero epistemologico contemporaneo ha spostato la sua attenzione dall’ HOMO NATURA all’HOMO PERSONA, dove il concetto di persona serve oggi ad indicare il referente o il titolare dell’esperienza cosiddetta psichica. L’homo persona non è soltanto un essere umano, ma rappresenta anche la tensione, l’intenzionalità verso un non essere, verso un altro da sé. L’homo persona è un essere nel mondo, in relazione dialettica con il suo ambiente inteso non solo come contenitore sterno ma anche come dimensione costitutiva del sé. Nella clinica, è fondamentale l’essere riconosciuti come persona, cioè soggetto avente valore, poiché le patologie più frequenti sono i d. di personalità e patologie narcisistiche che hanno avuto la loro origine in fasi molto arcaiche dello sviluppo in cui spesso non p stato riconosciuto all’infante, dalle figure significative, il diritto di essere soggetto persona. Il piccolo gruppo appare quindi lo strumento privilegiato per comprendere al meglio il formarsi dell’identità anche patologica nei suoi elementi costitutivi interpersonali. I FONDATORI DELLA GRUPOANALISI, I TEORICI DELLE RELAZIONI OGGETTUALI E DELLO SVILUPPO DEL SE’ Il primo a coniare il termine GRUPPOANALISI fu BURROW nel 1927. Egli sottolineò l’importanza della condivisione della comunicazione per risolvere i conflitti intrapsichici e l’origine sociale dei disturbi patologici. Sostenne inoltre la continuità primaria dell’individuo come gruppo, sia esso gruppo sociale di appartenenza o la specie e formulò il concetto di MATRICE: • MATRICE FILOGENETICA rappresenta la base della vita sociale dell’uomo • MATRICE ONTOGENETICA rappresenta l’identificazione primaria del bambino con la madre per il suo successivo sviluppo come individuo. Esse per l’autore interagiscono. BION nel 1948 istitui gruppi terapeutici, come FOULKES durante la guerra che insieme a RICKMAN formarono la prima comunità terapeutica. LEWIN nel 1936 aveva sviluppato i concetti di TEORIA DEL CAMPO E DINANICA DI GRUPPO. IL CAMPO è un sistema di forze la cui caratteristica non è data dai singoli elementi ma nel loro insieme globale, che essi formano con il loro sistema di relazioni. Inoltre afferma che ogni modificazione che avviene nel campo a un dato momento avviene dalla configurazione assunta dal campo in quel momento stesso, sostituendo alla causalità temporale lineare la contemporaneità della causazione, hic et nunc, e sottolineando come il tutto abbia caratteristiche particolari non riducibili alla semplice somma delle parti. Da ciò si afferma che il gruppo è qualcosa di più della somma dei suoi partecipanti e ha caratteristiche proprie non riconducibili ai singoli tra loro in rapporto di interdipendenza. FOULKES E ANTHONY sostennero che la teoria del campo di Lewin doveva essere considerata come uno dei principali contributi per la comprensione della dinamica dei gruppi rispetto agli apporti teorico clinici che evidenziano: • La dinamica di gruppo intesa come un tutto • La dinamica dell’insieme considerato come campo di forze • La nozione gestaltica di figura sfondo • La nozione di appartenenza-norma • La tensione e il conflitto strutturale • I tipi differenti di leadership e l’atmosfera del gruppo • Le forze di coesione e di distruzione • Il concetto di valenza e last but not least • Attenzione a ciò che accade nell’hic et nunc Ogni gruppo, a tempo indeterminato o meno, costituisce nell’arco del suo esistere una irripetibile storia, tuttavia le dinamiche che compaiono in modo ricorrente nella vita gruppale ci consentono di fare delle generalizzazioni che fungono da guida per osservare e comprendere ciò che accade nel piccolo gruppo. Nel gruppo vi è la presenza di elementi inconsci derivanti anche dalla modalità di appartenenza dell’analista del proprio gruppo primario che interferiscono con la costituzione del gruppo e con il suo modo di pensare il gruppo steso. Il T proverà nella costruzione di un nuovo gruppo, a prevedere il tipo di relazioni che si potranno instaurare tra i componenti e queste fantasie saranno condizionate ance a livello inconscio dalla storia del conduttore e dal posto da lui occupato nel suo gruppo di appartenenza originario. IL GRUPPO COME OGGETTO IMMAGINARIO Il gruppo, prima ancora di esistere nella realtà si costituisce come oggetto immaginario sia nella mente del conduttore T sia in quella dei Pz. Secondo l’autrice SILVIA CORBELLA, nel suo immaginario il gruppo si costituisce come una sorta di microcosmo sociale, un laboratorio sociale protetto che permette di fare esperienza della possibilità di un interazione costruttiva fra persone appartenenti a gruppi di provenienza diversi e che perciò porta nel tempo alla valorizzazione del diverso e alla consapevolezza del valore di avere differenti punti di osservazione. Secondo DI MARIA E LAVANCO il setting del gruppo analitico è quell’ambito che permette di comprendere al meglio il contributo dato dal sociale al costituirsi dell’individuo, ma è anche un luogo in cui la soggettività può confrontarsi con il sociale, con un pensiero tra persone con uguali diritti ma identità diverse. Il gruppo è considerato il luogo delle trasformazioni che permette il passaggio da un pensiero familiare saturo e gerarchizzato a un pensiero creativo. Il gruppo si costituisce prima di tutto come un microcosmo complesso e articolato caratterizzato dalla potenzialità di un pensiero insaturo, nomade e creativo. Tale microcosmo definisce uno spazio circolare dove ogni membro può porre la sua attenzione su di un componente o dare uno sguardo d’insieme. Si evidenzia come il tutto è maggiore della somma delle sue parti. LO SPAZIO DEL GRUPPO La costituzione dello spazio specifico gruppale, fra ciò che è e ciò che non è nel gruppo, permette di distinguere un dentro e fuori che stimola fantasie derivanti dalla riattivazione di rappresentazioni arcaiche in cui lo spazio fisico, le emozioni e gli oggetti non costituiscono dimensioni separate dell’esperienza ma sono fuse tra di loro. Lo spazio del gruppo consente la proiezione e una realizzazione evocativa dello spazio interno di ogni componente e può essere definito (ROUCHY) come spazio transizionale in cui diviene possibile metabolizzare la realtà psichica in rapporto alla realtà sociale. Questo permette di collocare nello spazio gruppale uno stimolo doloroso arcaico, in modo ce lo spazio possa fungere da contenitore capace di modificare il contento trasformandolo in pensiero. Secondo BION il gruppo può essere utilizzato dai suoi menbri come spazio contenitore ei suoi contenuti psichici trasformati in rappresentazioni, fantasmi ancora non pensati. Il gruppo può essere considerato come un apparato pluripsichico, uno spazio psicologico collettivo, conscio e inconscio, fluido e influenzato dagli oggetti interni dei componenti e dal clima emotivo dominante nel qui ed ora. Il gruppi è quindi sia uno spazio fisico reale che una rappresentazione del mondo interno dei singoli membri, che è proiettato sul gruppo. Lo spazio gruppale mostra inoltre diversi livelli complessi di realtà dominati da differenti dinamiche: conscio, inconscio, adulto, infantile, arcaico. ELEMENTI COSTITUENTI LE DINAMICHE GRUPPALI Nello spazio del gruppo sono contemporaneamente presenti 4 elementi che hanno un evoluzione complementare e parallela: 1. L’individuo con il suo mondo interno 2. Le interazioni dei membri fra di loro 3. I fenomeni transpersonali 4. Il gruppo nel suo insieme, con tutte le rappresentazioni fantasmatiche che può assumere. I FENOMENI TRANSPERSONALI vanno intesi in senso sincronico quando sono collegati a modalità di funzionamento arcaico dell’io pre-verbali, in cui i presupposti sono la separazione tra sé e gli oggetti e che compaiono nell’hic et nunc della situazione gruppale, sia come difesa dall’angoscia di frammentazione e separazione, sia come potenzialità evolutiva per il soggetto e per il gruppo. Intesi in senso diacronico la funzione transpersonale è una sorta di precipitato che contribuisce alla costruzione del sé. Il transpersonale è inconscio ed è la radice dei comportamenti interattivi connessa con i rapporti con la famiglia di origine. La cultura familiare viene incorporata dall’infante e fonda l’identità collettiva del soggetto e il sé non individualizzato. L’incorporazione culturale familiare nel lavoro di gruppo può essere compresa e divenuta cosciente, può essere integrata o rifiutata. Nota: l’orbita simbiotica madre infante costituisce la base rudimentale per fantasticare il gruppo come un tutto, ed è proprio questa possibilità che consente la dialettica specifica del gruppo, tra fusione e individuazione nella quale avvengono le trasformazioni positive. IL TEMPO DEL GRUPPO SPIRALE DEL TEMPO Il movimento dialettico attraversa il tempo del gruppo, tempo che è delineato dalla metafora della spirale si va avanti ma con la possibilità di ritornare sempre allo stesso punto relativamente alla distanza dall’asse, anche se su piani diversi dato che ad ogni seduta e per ogni individuo sono contemporaneamente presenti livelli multipli di realtà; dove ogni livello di realtà agisce su un altro livello di realtà e lo trasforma. La spirale del tempo delinea perfettamente ciò che accade nl gruppo, dove ci si muove liberamente nel tempo sia all’indietro che in avanti, dove il passato presente e futuro interagiscono nl qui ed ora della seduta. Nel gruppo è quindi possibile ritornare alla fase fusionale arcaica, ma anche riattraversare tutte le tappe della maturazione personale e riaffrontare in modo maturo le problematiche irrisolte, fino a trovare soluzioni nuove; il tutto attraversando momenti di crisi, desideri di fuga, resistenze e angosce. LA DIALETTICA FUSIONE INDIVIDUAZIONE La temporalità e i suoi livelli sono connessi alla dialettica fusione-individuazione. È solo grazie ai movimenti di differenziazione dalla fusione arcaica anaoggettuale, dove non c’è uno spazio né per un sé indistinto e differenziato e integrato né per oggetti distinti, che nasce la possibilità di spazializzare e temporalizzare le esperienze. Il muoversi liberamente nel tempo, permette la presentificazione nel gruppo dello SPAZIO SENZA (LO VERSO E LO PAPA): lo spazio senza è il punto in cui l’asse del passato incontra l’asse del presente, con i suoi vincoli ma anche possibilità. In questo momento è possibile riconoscere e svelare la ripetizione e l’agire coattivo. Tale spazio nel gruppo non è attraversato da tutti nello stesso momento, così che chi nel gruppo lo ha passato potrà fungere da guida per chi si trova in tale situazione, andandone a diminuire le ansie e di permettergli di progettarsi un futuro che cambierà il proprio passato. Nel setting gruppo analitico grazie al riattualizzarsi di antichi vissuti si possono ritrascrivere trasformando la memoria. GLI UNIVERSI RELAZIONALI E GLI ASSUNTI DI BASE NAPOLITANI afferma che esistono 3 UNIVERSI RELAZIONALI attraverso cui si costruisce l’identità dell’individuo: (questi 3 universi sono sempre co presenti nel setting e interagiscono tra di loro, e solo il prevalere dell’uno rispetto all’altro permettono al t di comprendere la fase che il gruppo sta attraversando.) • PROTOMENTALE ogni essere umano è portatore di questo modo di essere in relazione (l mente come parte di una struttura relazionale interattiva), che persiste per tutta la vita e non indica in ritorno ad una specifica fase dello sviluppo. Non è una regressione alla fase arcaica, ma è una specifica condizione che si riattiva con carattere si assolutezza. L’individuo che la vive si trova immerso in un tessuto precoscienziale, all’interno del quale il sé e il non sé, il mentale e il corporeo, l’interno e l’esterno, il proprio e l’altrui sono intrecciati. I fenomeni protomentali si muovono al di fuori del tempo e dello spazio adulto. • TRANSFERALE rappresenta il luogo della tradizione, elemento imprescindibile della condizione umana nella sua storicità • SIMBOLICO fare simbolico come prassi trasformativa e creativa donazione di senso BION ha definito gli ASSUNTI DI BASE sono considerati l’espressione della mentalità di gruppo, derivante dalla messa in comune di desideri e impulsi inconsci che implica l’aggregarsi automatico del gruppo in stati mentali collettivi, si basi emotive che comportano schemi rigidi di reazione gruppale con max perdita dell’identità individuale. Essi sono: • Assunto di base di accoppiamento= credenza collettiva inconscia che un accoppiamento idealizzato possa avere origine una figura messianica da cui dipende la futura soluzione di ogni problema. • Assunto di base di dipendenza= bisogno di avere un leader da cui dipendere in modo totale • Assunto di base di attacco e di fuga= fantasia che vi sia la necessità di attaccare un ipotetico nemico. L’assunto di base di accoppiamento è quello che occupa centralmente l’ambito dell’universo protomentale, mentre l’assunto di dipendenza e attacco e fuga sono ponti protesi verso gli altri universi relazionali. L’assunto di base di dipendenza, in cui la dipendenza è inizialmente rivolta l gruppo nel suo insieme, il più delle volte si declina nel proiettare sul conduttore il suo bisogno di un leader onnipotente, può essere considerato come una scoperta di dipendenza. L’assunto di base di attacco e di fuga, si presenta nel gruppo facendosi annunciare da una sensazione diffusa di malessere, il gruppo è agitato, i discorsi si sovrappongono gli uni con gli altri, la gestualità è sconnessa, si scuotono gambe e braccia. Ogni membro sperimenta una sorta di male psicosomatico, nato all’interno di una modalità relazionale accompagnato da sentimenti d’ira. L’assunto di attacco e fuga è la declinazione dell’assunto di accoppiamento verso l’indipendenza che significa solitudine senza riconoscimento, senza amore. Questo assunto è considerato all’origine dell’esperienza di uno spazio diversificato: lo spazio diversificato è reversibile. Lo spazio protomentale è monadico, unico, indifferenziato e nell’assunto di attacco e fuga si fa l’esperienza di essere scagliati fuori e In questo rimane utile la differenziazione di Kernberg (1980) fra strutture di personalità nevrotica, borderline (i più difficili da diagnosticare) e psicotica. La valutazione della struttura di personalità del paziente fornisce al terapeuta una guida che gli consente di scegliere lo stile della relazione, il tono degli interventi e gli argomenti cui prestare attenzione nelle fasi iniziali. Tutto questo deve però improntarsi come ipotesi lasciando aperta la costante possibilità di rivedere la propria diagnosi iniziale alla luce delle nuove informazioni. Nevrosi e psicosi sono da intendere non come 2 ambiti diagnostici sintomatologici, ma come d. di personalità dell’ambito nevrotico e psicotico. I pz più difficili da diagnosticare sono i pz borderline che accanto ad un apparente omogeneità nell’organizzazione della personalità, presentano eterogeneità a livello di gravità della psicopatologia e a livello della sua espressione. (PAGINA 53). Fondamentale è che una volta effettuato l’approfondimento diagnostico, considerare la diagnosi in modo dinamico e mantenere nei suoi confronti sempre un atteggiamento interlocutorio. Importante è secondo MC WILLIAMS a tale proposito operare una valutazione della struttura di personalità di un pz in modo che il terapeuta possa poi scegliere lo stile della relazione, il tono degli interventi e gli argomenti su cui prestare attenzione. I cambiamenti del paziente sono subordinati ai cambiamenti nelle capacità percettive e nella sensibilità dell’analista, alla sue teorie di riferimento e alle aree di esperienza diretta del terapeuta stesso. Tra le domande pertinenti che il T deve porsi troviamo: Quando e perché consigliare una terapia di gruppo? Una vola ipotizzato di cosa il pz ha paura e come si difende e qual è la sua struttura di personalità, bisogna capire quale è il setting più adeguato ai sui bisogni nel momento in cui richiede un trattamento terapeutico; cercare di capire quale può essere il terapeuta più elettivo per il paziente tendo conto di ciò che il paziente sente rispetto a quell’analista. Inoltre il terapeuta deve considerare i propri limiti e valutare la propria adeguatezza rispetto al tipo di problema. La responsabilità della scelta della condivisione di un lavoro terapeutico deve assumerla prima di tutto il T che deve essere consapevole dei suoi limiti, del fatto che egli non può onnipotentemente curare tutti e che non è il solo terapeuta del mondo, deve interrogarsi sulla qualità dell’incontro, sull’adeguatezza dei suoi strumenti terapeutici rispetto ai bisogni del pz. INDICAZIONI E CONTROINDICAZIONI ALLA TERAPIA DI GRUPPO Foulkes (1964) considera il paziente che ha davanti come l’anello1 di una lunga catena, un punto nodale di una rete di interazione, la quale è la vera sede dei processi che portano tanto alla malattia quanto alla guarigione. I potenziali aspetti pericolosi di un gruppo per i PZ vi è il timore della perdita dell’identità. La valutazione per i criteri di inclusione in un lavoro di gruppo, dovrebbero tener conto della comprensione dei benefici che il paziente potrebbe trarre dalla condivisione e dal confronto dei propri problemi e delle proprie difficoltà con altre persone e dall’aumento di capacità comunicative e relazionali che possono derivarne. Si ritiene anche specifico di ogni gruppo, la costruzione di una storia comune condivisa che insieme ad un continuato senso di appartenenza al gruppo stimola il costituirsi della consapevolezza di sé come soggetti aventi valore e il riemergere di ricordi individuali. Il gruppo inoltre offre una nuova rete relazionale che può assumere una funzione riparativa del passato e prospettare soluzioni diverse. Il gruppo stimola l’apprendimento di quello che Lopez chiama pathos della distanza, e cioè la consapevolezza di qual è la distanza relazionale adeguata alle diverse situazioni. Va tenuto presente che la proposta di partecipazione al gruppo, può già contenere in sé potenzialità terapeutiche. Questo perché il gruppo si costituisce innanzitutto come oggetto immaginario sia nella mente del terapeuta sia in quella del paziente. 1 Per Rouchy il gruppo è l’anello mancante della teoria freudiana che aiuta a comprendere il reciproco rimando tra individuo e collettività. Per le strutture nevrotiche il gruppo assumerà, in un primo tempo, il significato simbolico di “condivisione, castrazione”; mentre per i borderline rappresenterà “il corpo materno, il contenitore, l’appoggio.” La condizione necessaria per poter inserire un individuo in una terapia gruppale è l’accettazione della proposta di partecipare ad un gruppo lavoro. Diversi sono i casi. Diffidare dei pazienti che sembrano entusiasti di partecipare ad una terapia di gruppo, poiché spesso, questi individui tendo ad adottare una atteggiamento compiacente e a negare le difficoltà, quali una volta divenute inevitabili dopo l’inserimento nel gruppo, portano all’immediato abbandono della terapia. Puget definisce questi tipi di persone come “abbandonatori compulsivi”. Spesso sostengono di avere fretta di risolvere i propri problemi, sono persone melanconiche e con relazioni “esclusive-tiranniche” con la madre. Importante è analizzare bene la richiesta di questi pazienti tendo conto di un eventuale presenza di aspetti contro-fobici. Sicuramente è controproducente inserirli subito nel gruppo, sarebbe meglio tamponare temporaneamente con una serie di colloqui rimandando la possibilità di un lavoro terapeutico quando il paziente si sentirà sinceramente motivato. Il rifiuto alla richiesta del paziente va fatto rendendo partecipe il soggetto delle sue modalità relazionali. In questo modo, egli, comincerà a sentirsi riconosciuto e si potranno porre le basi per un contenimento del malessere. Viceversa, il rifiuto netto rispetto ad un progetto di terapia gruppale da parte di una paziente va assolutamente accolto; forzarlo ad accettare sarebbe un grave errore. Solitamente dietro la richiesta dell’accoglimento del loro rifiuto vi è una messa alla prova del terapeuta. Il paziente vuole vedere quanto il terapeuta è disponibile ad accogliere il rifiuto. Nella maggior parte dei casi il paziente di ritrova spiazzato dall’accettazione del rifiuto e sarà poi lui a riproporre l’ipotesi di inserimento in un lavoro gruppale. A questo punto il terapeuta deve però valutare le motivazioni che hanno portato il paziente all’iniziale rifiuto; solo quando il soggetto si sentirà rafforzato nel senso di sé e avrà una forte alleanza terapeutica allora potrà essere considerata buona la proposta di inserirlo in un gruppo. Nel caso in cui invece, dopo il rifiuto iniziale, la terapia individuale abbia buon fine, sta al terapeuta riconosce al paziente la sua giusta scelta. Sicuramente, vanno considerate controindicate per un lavoro di gruppo, quelle persone con malattie fisiche gravi o alterazioni psichiche che costringono all’isolamento o che non possono rispettare il setting terapeutico (continue assenze ecc…). Inoltre sono inadeguati soggetti cerebropatici, gravemente paranoidi, psicotici acuti e anche soggetti rigidamente legati ad un ideologia politica o religiosa. Anche i pazienti che assumono in modo accentuato la difesa di negazione non sono indicati per il gruppo, in quanto non reggono l’esame di realtà a cui il gruppo può sottoporli. È importante che il terapeuta stia attento a non permettere la creazione di capri espiatori e a far comprendere che il tentativo di emarginare un paziente sia il modo per negare aspetti sgradevoli o vergognosi. L’analista deve poter per primo porsi come modello di integrazione di quegli aspetti “scacciati”; solo così potrà farli accettare al resto del gruppo e far considerare la persona emarginata come portavoce di aspetti non ideali ma comunque condivisi e condivisibili. LA FUNZIONE DEL “GENIUS LOCI” Per comprendere se il nuovo paziente potrà sentirsi o meno a proprio agio, è fondamentale che il conduttore abbia chiaro quale fase il gruppo sta attraversando in quel momento e se quella fase è indicata per l’ingresso di quel paziente. Per quanto riguarda invece la disponibilità del gruppo ad accoglierlo è buona indicazione che l’analista ipotizzi come il Genius Loci del gruppo potrebbe accoglierlo. (NERI) Nella mitologia greca, il Genius Loci, era un nume che aveva un particolare rapporto con l’armonia del luogo, presiedendo alla buona relazione tra i diversi elementi (acqua, venti, vegetazione…) e che veniva immaginato incollerirsi quando le caratteristiche del luogo venivano alterate. Il Genius Loci, nel gruppo, è rappresentato da quel paziente che ha il compito di animare l’identità del gruppo, di collegare il progresso del gruppo con la sua base affettiva evitando ferite nell’identità dei membri e nello stesso tempo consentire che il gruppo evolva. Questa funzione viene assunta inconsapevolmente da un membro. Il Genius Loci è dunque una figura di riferimento affettivo che ha la funzione di inventare le forme dello stare insieme che attivano lo “spirito” del gruppo. Se il terapeuta considera la possibilità che non si presenti un “buon incontro”, è opportuno che rimandi l’inserimento del nuovo membro in un secondo momento. L’IMPORTANZA DELLA DIMENSIONE CORPOREA NEL GRUPPO Nel setting gruppale la comunicazione non avviene solo attraverso la parola e l’ascolto ma anche tramite tutto ciò che è non verbale, dove la vista diviene privilegiata rispetto all udito dal momento che il T e i membri del gruppo si guardano reciprocamente. Essere nel gruppo secondo ROUNCHY è come un ritorno alle origini, dato che tutti nasciamo e fecondiamo la nostra identità all’intreno di un gruppo famiglia. Il gruppo analiticamente orientato viene spesso vissuto come un corpo materno, sia per la sua forma circolare sia per le funzioni che a volte assolve. Inoltre, il corpo che ha vissuto una storia trova nel gruppo psicoanalitico il luogo in cui narrarsi. L’immagine del corpo come gruppo, rimanda all’immagine del gruppo come corpo. Il loro tratto comune è quello di fornire i fondamenti narcisistici dell’identificazione e questo gioco di equivalenza è fondamentale per il transfert. Corpo e gruppo sono contemporaneamente il supporto delle relazioni d’oggetto e del narcisismo (che è al centro delle problematiche e del corpo del gruppo). L’inizio della consapevolezza el proprio essere nel mondo passa dalla consapevolezza dell’esserci come corpo per poi arrivare a sentire di esserci come persona, e l’essere nel gruppo permette di rivisitare questi passaggi fondamentali. Particolarmente indicati per la terapia di gruppo sono i pazienti psicosomatici, ma anche quelli che presentano un tendenza esasperata all’intellettualizzazione (a volte un soggetto può presentarli entrambi). Questi pazienti inseriti in gruppi in cui si affrontano problematiche diverse dalle loro, possono, attraverso l’interazione con gli altri, entrare in contatto con le emozioni, imparando ad ascoltare il linguaggio del corpo, che nel gruppo potrà essere compreso ed affrontato. A volte, il corpo attraverso la malattia, richiama l’attenzione dell’individuo su di sé, soprattutto per chi riceveva attenzioni genitoriali solo quando avevano qualche malanno o quando si dimostravano “piccoli uomini” (nel casi di chi intellettualizza). Inoltre il gruppo e la situazione psicoanalitica aiutano a comprendere che il somatico si esprime in molti modi: motricità, postura, sudori, ingestioni, escrezioni, sensazioni cutanee, odori, pulsioni, inspirazioni ed espirazioni etc. Secondo Rouchy l’umore e le sue variazioni non solo si esprimono con il corpo, ma in esso hanno origine e vi sono iscritti. Esso parla di fenomeni di incorporazione, da distinguere dai fenomeni di introiezioni in quanto fenomeni opposti. Infatti mentre introiezione è un processo attraverso il quale si stabilisce un va e vieni tra la relazione d’oggetto e o narcisismo che concorre all’arricchimento dell’Io, l’incorporazione non concorre all’allargamento dell’io ma agisce come automatismo. Il lavoro di gruppo può però permettere a quegli aspetti incorporati (legati a esperienze molto arcaiche che non sono legate alla rimozione del soggetto, ma che sono l’eredità di angoscia che provengono dal gruppo familiare e più particolarmente dal rapporto con la madre) di essere visti e riconosciuti e quindi divenire elaborabili. Questi aspetti non sono riconoscibili al momento della selezione del paziente ma, comunque in questi soggetti, sono visibili sentimenti misti di colpa e vergogna se si parla della loro famiglia di origine. IL FENOMENO DEL RISPECCHIAMENTO vedersi in gruppo Aspetto fondamentale legato al vedersi in gruppo è il fenomeno del rispecchiamento, definito da Foulkes (1964) come fenomeno “gruppo-specifico”, le reazioni di ripecchiamento si evidenziano in modo caratteristico quando un certo numero di persone si incontrano e interagiscono. Qui, la persona vede se stessa, o parte di se (spesso una parte rimossa di sé) riflessa nell’interazione di altri membri del gruppo. Li vede reagire come lei stessa reagisce oppure in contrasto con il proprio comportamento. Arriva anche a conoscere se stessa, e questo è un processo fondamentale nello sviluppo dell’Io, attraverso l’effetto che fa agli altri e l’immagine che gli altri formano di lei. Questa funzione “specchio” è utile per coloro che soffrono di disturbi narcisistici nella costituzione e integrazione del sé. L’importanza di essere rispecchiati negli occhi degli altri dura tutta la vita, ma quando la funzione specchio è stata deficitaria o assente, porta l’individuo a soffrire di gravi patologie. Il tema del rispecchiamento è entrato in psicoanalisi attraverso il concetto di narcisismo (Freud, 1914) ed evidenzia come nel mito di Narciso il tema della riflessione compare due volte: nel suono come eco e nella visione come immagine riflessa. Logicamente l’individuo deve poi spostarsi dalla relazione narcisistica di rispecchiamento l’uno con l’altro alla relazione in cui l’altro ha una realtà differente e separata da se stessi. LA QUARTA FERITA NARCISISTICA. CHE DIRE AL PAZIENTE? Il gruppo viene inteso come la quarta ferita narcisistica, dal momento che l’Io cosciente che si illude di essere autonomo non solo è in gran parte dipendente dall’inconscio, ma è anche originariamente contribuente di un rapporto con altri esterni a lui, e questo sistema di legami esterni forma una gruppalità interna ed esterna da cui il soggetto è dipendente, dal momento che nel proprio inconscio è presente anche l’inconscio di altri. Questa pluralità interna attacca la rappresentazione di sé come unità monadica ed indivisa, ma nel gruppo è proprio grazie alla molteplicità che si l’individuo può recuperare le potenzialità narcisisticamente positive. L’ambivalenza nel gruppo è espressa anche dal fatto che quando un individuo mostra la richiesta o accetta di entrare in un gruppo t è in realtà spinto da sentimenti di rassicurazione e curiosità. Nel piccolo gruppo inoltre “ si può giocare a nascondersi” poiché è possibile alternare fasi di partecipazione diretta ad altre di silenzio “partecipante”; ciò permette al singolo individuo di dosare il livello del suo coinvolgimento. Inoltre il poter osservare il conduttore in relazione costruttiva con gli altri membri consente comunque una compartecipazione che stimola processi maturativi personali. Infatti, è già di per sé terapeutico non solo il rispondere realisticamente alle domande del paziente, ma il valorizzare la sua capacità di porsi delle domande e di esprimere le perplessità. Questo stimola il costituirsi di una base di fiducia fra il PZ E IL T e aiuterà a superare le inevitabili difficoltà iniziali e a costruire aspettative realistiche, non dominate da angosce persecutorie. Compito del terapeuta sarà anche quello di essere preciso rispetto alle domande relative al Set(ting). Il set è costituito da elementi che definiscono il rapporto rispetto al tempo e allo spazio; la durata del lavoro, il numero e il ritmo delle sedute, le regole enunciate, il luogo di riunione, le modalità di pagamento; tutto ciò che è visibile, esplicitamente visibile e definito, il contesto organizzativo della situazione terapeutica. Le modalità di rispondere agli interrogativi posti dal paziente dovranno essere espresse in modo chiaro e comprensibile. Il terapeuta dovrebbe esprimere al paziente quali sono i suoi riferimenti teorici e come questi influiscano nella sua modalità di costruire il gruppo e di lavorare con esso, usando un lessico comprensibile al paziente, rispettando il suo livello culturale. È opportuno inoltre dare chiarimenti e indicazioni sul funzionamento della terapia di gruppo. L’ACCORDO TERAPEUTICO E GLI ATTACCHI AL DISPOSITIVO Nei colloqui di preparazione alla terapia di gruppo, l’accordo terapeutico, dovrà porsi sugli aspetti di realtà del setting. Nel divenire di questa storia condivisa ci potranno essere attacchi nei confronti del dispositivo risultanti da movimenti transferali arcaici, da agiti di oggetti non mentalizzati che possono sollecitare una reazione da parte dell’analista. Le trasgressioni rispetto al dispositivo saranno particolarmente sentite da colui che l’ha istituito (terapeuta), in cui ha messo anche elementi del proprio gruppo di appartenenza primaria, e potranno essere vissuti come un’aggressione. Questo evidenzia che vi è stata un interazione personale ricercata preconsciamente dal paziente nei confronti dell’analista, il quale a sua volta trova la sua risposta negli affetti controtransferali (in cosa prova a riguardo). Nella relazione di gruppo, l’elaborazione degli incorporati ha inizio proprio attraverso la messa in atto di comportamenti inerenti alle regole date. Il terapeuta è il primo che dovrà assumersi il ruolo di contenitore di questi agiti e trasgressioni ance se, nel caso del lavoro, questa funzione verrà assunta dal gruppo nel suo insieme. (le trasgressioni secondo corbella sono i sentimenti di disprezzo) Quado le trasgressioni colpiranno le nostre (del terapeuta) fragilità, saranno definite “trasgressioni in rapporto alla legge”. Decidere se si tratta di trasgressioni o di passaggi all’atto è molto importante nei gruppi in cui le persone cercano di dare corpo ai loro personaggi interni, trasferendo le reti di interazioni del loro gruppo di appartenenza primario per ritrovare un posto che sia loro abituale. Nella fase di formazione del gruppo il T, consapevole dei suoi limiti e delle sue umane fragilità non deve inserire in un gruppo nuovo più di un pz che può ipotizzare avere la tendenza a quel genere di trasgressione a cui il t è sensibile. Quando poi con il tempo il gruppo nel suo insieme avrà assunto la funzione di contenitore questo tipo di riserva potrà essere sciolta. LE REGOLE DEL GRUPPO I gruppi nel privato sono composti da un minimo di 6 ad un massimo di 10 pazienti equamente divisi in uomini e donne; questi gruppi sono slow-open; cioè gruppi che prevedono una rotazione di pazienti. Poiché ognuno ha i suoi tempi di maturazione e sviluppo, il fatto di iniziare insieme una terapia non determina una fine comune, e ci sono fini relative solo al singolo (nelle istituzioni i gruppi sono chiusi, e quindi i pazienti iniziano e finiscono insieme). I gruppi privati si riuniscono due volte alla settimana, ogni incontro ha una durata di un’ora (da un minimo di 45 min a un max di 70min). Prima di iniziare il lavoro è opportuno avvertire i pazienti sui periodi di sospensione del gruppo (vacanze, ponti…) e che le sedute in cui un componente sarà assente dovranno ugualmente essere pagate. Importante è far pagare ai pazienti la stessa quota, indifferentemente dalla loro situazione economica, per evitare rivalità. Il luogo delle riunioni dovrebbe essere situato in modo da garantire la riservatezza e da eliminare cause di distrazione. La stanza dovrebbe essere né troppo grande né troppo piccola e avere un aspetto sufficientemente accogliente con un arredo sobrio e discreto. Le sedie, comode e semplici, vanno messe in cerchio magari intorno a un piccolo tavolo rotondo che può simbolizzare una sorta di centro del gruppo, un punto neutro verso cui guardare. Fa parte del dispositivo gruppale l’enunciazione delle regole, necessarie per la partecipazione positiva alla terapia di gruppo. 1. La prima regola è che bisogna cercare di essere presenti a ogni seduta e di essere puntuali. Questo sottolinea l’interdipendenza di ogni membro dagli altri, per cui un ritardo o un assenza può essere dannoso sia per il singolo assente sia per il buon andamento del gruppo nel suo insieme. Così anche l’abbandono del gruppo risulterà dannoso non solo per il paziente che svilupperà un vissuto di fallimento, ma anche per l’intero gruppo con conseguenza più o meno gravi a seconda della fase di gruppoanalisi che si sta attraversando. Foulkes (1975) definisce “disertori” coloro che lasciano il gruppo dopo poche sedute e se ne vanno senza il consenso del terapeuta, e considera la perdita iniziale più grave per l’andamento del gruppo, rispetto ad una rinuncia successiva. Al pz che trova difficoltà è utile suggerire di prendersi un periodo in almeno 3 mesi o più per valutare se le difficoltà nel lavoro di gruppo sono superabili o derivano da un progetto terapeutico inadeguato. 2. La seconda regola fondamentale è che venga espresso liberamente, a livello verbale, tutto quello che viene in mente. Si tratta di esprimere i propri sentimenti agli altri così come vengono al momento, nell’hic et nunc. Questo darà luogo a una libera discussione fluttuante che costituirà una sorta di catena associativa gruppale (questo perché ogni partecipante contribuisce con il suo pensiero a formare un prodotto condiviso). Nel lavoro terapeutico il pz invece che accennare i propri vissuti impara ad affermarli in modo esplicito assieme alla proprie emozioni e ciò entra a far parte nel gruppo della cultura condivisa. 3. La terza regola è quella del “segreto professionale” non solo da parte del terapeuta ma anche dai membri. L’autenticità della partecipazione è garantita dal fatto che i pazienti non si devono conoscere precedentemente all’ingresso nel gruppo e quindi non devono avere nessun rapporto sociale nel quotidiano. Tale non conoscenza precedente è un fatto del quale si deve occupare il T, chiedendo il seduta individuale al pz se conosce qualcuno nel gruppo. La non conoscenza fra i membri del gruppo fa sì che vi sia la tendenza da parte di alcuni terapeuti a limitare le relazioni fra i pazienti al tempo delle sedute, essi definiscono questa norma come “la regola dell’astinenza”. I momenti di incontro da parte di tutto il gruppo escluso il T al di fuori delle sedute, secondo alcuni, può avere valenza positiva e produttiva nel processo gruppale, nei momenti di sospensione soprattutto ha valenza si supporto, continuità e rassicura quel pz che hanno gravi problemi di separatezza e di abbandono. Essenziale è che quanto riportato fuori dal gruppo venga portato dentro e possa divenire oggetto di analisi e di elaborazione, ciò vale anche per i colloqui individuale che svolge un pz; anche se a farlo dovrà essere il paziente stesso con i tempi e i modi che riterrà più opportuni. Infatti, è molto importante che non si creino dei non detti, sempre potenzialmente distruttivi per il lavoro di gruppo. 4. È indubbiamente proibito fare tutto ciò che viene in mente; in particolare sono vietati agiti erotici o aggressivi fra i membri del gruppo, poiché incompatibili con la libera espressione dei propri sentimenti, emozioni e pensieri. Sicuramente il terapeuta dovrà cercare di comprendere qual è la comunicazione che sottostà a quell’agito inopportuno. L’enunciazione delle regole deve essere accompagnata dalle motivazioni che hanno spinto il terapeuta a formularle in modo che queste vengano ben comprese e viste come garanzia per la buona realizzazione del progetto terapeutico. Una volta deciso l’inserimento nel gruppo, è importante che l’analista tenga sempre presente la funzione preparatoria che devono avere i colloqui individuali che precedono la gruppoanalisi e che lo ricordi al paziente. IL PRIMO GRUPPO TERAPEUTICO L’APG, associazione di psicoterapia di gruppo, richiede come training di base che si facciano almeno due anni di osservazione partecipata in un gruppo tenuto da esperti prima di costituirne uno proprio. Come nei miti l’eroe cerca appoggio e giuda in qualche divinità benevola, così l’aspirante terapeuta si rassicura attraverso il riferimento a letture fatte, a indicazioni avute nel gruppo di lavoro. Queste vengono tanto più idealizzate quanto più si sente il bisogno di essere protetti. Una volta presa la decisione di inziare il gruppo, l’aspirante terapeuta si trova a dover suerare un insieme di prove iniziatiche prima di poter arrivare alla prima seduta. 1. La prima prova si cela dietro il problema di “dove” fare il gruppo, che in realtà nasconde un problema di emancipazione e separazione (dal terapeuta guida). Anche nei riti di iniziazione la prima fase implica la separazione dalla famiglia. Separazione che è sempre più p meno drammatica e sta a significare l’inizio verso l’ignoto. Vi sono dunque due momenti critici nella storia dell’assunzione del ruolo di terapeuta di gruppo: a. La separazione dal didatta e dal gruppo di training; b. l’iniziazione nello spazio e nel tempo del gruppo. Questo avviene in una curiosa alternanza di angoscia e speranza, di slanci ipomaniacali e momenti depressivi, di sentimenti di impotenza e di onnipotenza (come nei riti iniziatici). 2. Il secondo problema riguarda chi dovrà occupare le sedie. Nel primo gruppo si inseriscono pazienti con cui si è già fatto un percorso di terapia individuale. Spesso questi, accettano la proposta del gruppo, esprimono la preoccupazione di perdere il rapporto privilegiato con il terapeuta, mentre il terapeuta teme che l’impatto con il gruppo si risolva in una fuga dei pazienti, che l’alleanza stretta nella situazione duale venga meno. Il gruppo può assumere così in alcuni momenti per il pz e il t le sembianze di un fantasma persecutore. 3. L’ultima prova è che il T deve superare è la prima seduta di gruppo. Dopo i colloqui preparatori, e chiarito il contratto terapeutico, il gruppo può cominciare ad esistere e la data di inizio viene fissata. Fra le richieste che all’inizio vengono fatte dai pazienti, c’è un comune denominatore, cioè il bisogno di essere accettati e di ricevere “aiuto” terapeutico. Un’analoga richiesta viene fatta più o meno dal terapeuta al suo gruppo; egli vuole essere accettato dal suo gruppo e ha bisogno della presenza dei pazienti. Nel primo incontro si mette in atto la “naturale” presentazione dei pazienti. Da parte dei membri vi è la richiesta di una “mamma buona”, inesauribile, da parte dell’analista vi è la speculare richiesta che i pazienti, non si esauriscano e che siano dei “buoni figli”. CONCLUSIONI La prima seduta è sempre un successo, da momento che: i pazienti e i terapeuti principianti si aspettano la riunione iniziale con un timore così privo di realismo che viene sempre disconfermato del fatto reale. Come Sogni avamposti esplorativi Le produzioni oniriche del piccolo gruppo possono essere considerate come delle icone simbolopoietiche (creatrici, generatrici di simboli, costitutive della mente), capaci di generare nuovi significati e valori, favorendo in tal modo lo sviluppo del processo creativo simbolico. In alcuni casi in sognatore e il sogno possono essere considerati svolgere la funzione di avamposto esplorativo dei percorsi praticabili verso nuovi luoghi di pensabilità non ancora pensati. Attraverso il sogno il pz comincia a comprendere di possedere e di poter rappresentare il proprio mondo interno, le emozioni, gli affetti e a sperimentare che tale processo nel gruppo ha accoglimento e ascolto. Relazione tra il gruppo e il terapeuta L’elaborazione del materiale onirico si presta bene anche a cogliere la reazione emotiva presente tra gruppo e terapeuta. È fondamentale che il terapeuta stimoli il gruppo ad utilizzare il racconto del sogno come materiale gruppale, rafforzando l’attenzione dei pazienti verso il contenuto manifesto. Se il T per le sue insicurezze tende ad esasperare la dipendenza dei partecipanti da lui può accadere che usi il sogno per consolidare il proprio potere sapere e che il gruppo manipoli il T per ottenere un miglior adattamento a canoni stereotipati che bloccano i movimenti di trasformazione. In tal caso il Tt può focalizzarsi sui contenuti latenti del sogno, di cui si sente l’interprete. IL PARADOSSO DEL SOGNO Il paradosso del sogno è che proprio il sogno che potrebbe sembrare una produzione specificatamente solitaria dell’individuo, derivata dal suo mondo interno, ci permette di acquisire la consapevolezza della nostra costituzione relazionale e della molteplicità presente in ognuno. Sin dalle origini alcuni sogni (usati per profezie, per divinazione, per accedere allo spirito del mondo…) sono stati considerati potenzialmente funzionali alla collettività5. Nel gruppo i sogni rivelano il riemergere di fantasie represse e scisse che integrate nel lavoro onirico possono divenire parte di un percorso narrativo comune. Questo percorso può spingersi fino a modalità mitologiche e specifiche. IL PROCESSO DI COSTITUZIONE DEL SOGNO Il sogno sembra essere il prodotto di un atto creativo del preconscio che permette di arrivare alla totalità della persona. Il sogno è dunque da considerarsi come il luogo dove l’inconscio e il preconscio esercitano le loro potenzialità comunicative. Il preconscio non si limita a svolgere la funzione di guardiano del sogno (funzione rimuovente), ma è anche caratterizzato da aspetti positivi e creativi. Il sogno mette il sognatore davanti a si stesso, perché esprime in immagini visive i dilemmi disturbanti, attuali e passati, che la razionalità non permette di vedere. L’esigenza profonda sottesa al sogno, è l’integrazione, entro la consapevolezza, della vita libidico-emotiva rimossa e repressa dalla coscienza. Vi è una continuità tra la funzione del sogno e quella del pensiero gruppale, in particolare con la funzione di rispecchiamento che caratterizza le modalità relazionali del gruppo. Inoltre, il sogno, così come il gruppo, si esprime attraverso metafore, simboli e immagini. IL SOGNO E IL PENSIERO DI GRUPPO COME FACILITATORI DEL RAPPORTO TRA INCONSCIO-PRECONSCIO-CONSCIO, MONDO INTERNO-MONDO ESTERNO Il sogno può essere considerato come una pausa rigenerativa che facilita e riattiva il funzionamento della relazione tra inconscio-conscio-preconscio e quindi migliora anche il rapporto dell’individuo sia con il proprio mondo interno sia con il mondo estreno. Il racconto del sogno nel gruppo, stimola una ripresa delle funzioni comunicative fra diversi livelli del mondo interno e del mondo esterno. La narrazione del sogno, infatti, sarà accolta come un qualcosa a cui tutti possono collegarsi con le proprie associazioni e promuovendo la confluenza sui medesimi temi. Questo predispone all’individuazione della propria identità distinta da quella degli altri. 5 L’uomo deve imparare a essere consapevolmente molti uomini e a tenerli tutti insieme (esempio pagina 199). Il patto che lega pz e t si fonda sul narcismo sano che produce sviluppo attraverso le relazioni e la consapevolezza di ciò che divide e distrugge e di ciò che crea e unisce. Attraverso la “scena” del contenuto manifesto del sogno il preconscio si esprime mediante la costruzione di una realtà virtuale composta di immagini viventi e in movimento, di personaggi e oggetti interni che hanno un evidenza sì concreta, ma soprattutto simbolica. Nella “scena” del gruppo inoltre il preconscio, grazie al transfert che si focalizza su di un partecipante o su diversi componenti o su tutto il gruppo, permette di comprendere nel qui ed ora dell’interazione gruppale il mondo interno del paziente nelle sue configurazioni vincolari relazionali. A volte il preconscio compone rappresentazioni e pensieri stravanganti ed evasivi e risanano la mente dalle ristrettezze, dalle convenzioni della vita quotidiana. Nel sogno si viene messi a confronto con modalità strane e diverse di affrontare i problemi e si possono riproporre tematiche esistenziali non risolte. Il preconscio costruttore del sogno è il protagonista, o almeno uno dei due protagonisti del sogno, dei quali il secondo è il sé sognante che, oscillando tra passività e attività, assiste allo spettacolo, reagisce e a volte agisce all’interno della realtà onirica e che opera la mediazione tra il preconscio e la coscienza della veglia. Il preconscio è considerato come composto da due livelli gerarchici che riproducono la fasce evolutive dalla nascita in poi. Il primo livello, quello superiore, riguarda la consapevolezza ed il pensiero empatico- sintetico, protegge il Sé sognante ed è la manifestazione di un movimento libidico-emotivo sano. Il secondo, quello inferiore, è definito come preconscio luciferino, disturba il sogno agendo con modalità regressive e patologiche sul Sé sognante. Il preconscio superiore trasmette all’io sognante il messaggio virtuale rivolto allo stato di coscienza della veglia, quel sapere profondo che può trasformarsi in consapevolezza. Il sé sognante e il preconscio come ruoli potenziali per ogni partecipante nel divenire del tempo gruppale Diversa è la funzione del preconscio e dello stato di coscienza nel sonno e nella veglia. Nel sonno il Sé sognante subisce un riduzione delle proprie facoltà logiche razionali inibitorie per accogliere gli insegnamenti del preconscio e trasmetterli allo stato di coscienza della veglia. Il sé sognante è un sé dissociato, privo in parte delle facoltà logiche e delle categorie spazio-temporali e dunque differente dalla veglia; tuttavia conserva alcune caratteristiche che gli permettono di vivere nella realtà virtuale del sogno (sentimento di sé, modo di sentire e vivere), egli si comporta in modo ingenuo e disinibito rispetto alla veglia. Il preconscio, paradossalmente, per svolgere la sua funzione di mediatore deve essere quasi “stupido”, inteso come quella potenzialità in grado di stupirsi oltre ogni rigore di logica. In un gruppo che inizia il t dovrà fare propria la capacità di mediazione del soggetto sognante tra stato di sonno e stato di veglia per poter far comprendere ai singoli membri, legati alla logica dell’aut aut nuove connessioni creative e trasformative. Il t dovrà anche essere il primo portavoce della consapevolezza del preconscio superiore e di quella forma più elevata di coscienza che oltrepassa e sintetizza a un livello superiore l’irrazionale con il razionale. Corbella formula l’ipotesi che il pensiero specifico gruppale si vada costruendo attraverso un alternarsi e un’interazione di ruoli quali quello di Io sognante e di preconscio superiore, di coscienza e preconscio inferiore. Questi ruoli vengono assunti nel tempo e nello spazio del gruppo inteso come un tutto. Agli inizi del lavoro di gruppo il terapeuta dovrà consapevolmente alternarsi nel ruolo di Io sognante e di preconscio, potrà più avanti assumere un ruolo di coscienza della veglia e dovrà rischiare di fare, consapevolmente, proprio il ruolo di preconscio inferiore. In un gruppo che inizia, l‘analista dovrà trattare i membri come il preconscio sano tratta la coscienza, cioè come “un bambino da educare e da non traumatizzare”. Infatti, dovrà prendersi cura della coscienza dei singoli pazienti. Inoltre, deve essere tenere in conto che la coscienza rappresenta un sistema fragile, al contrario il preconscio inferiore è dominato dagli aspetti distruttivi del narcisismo e può agire con modalità regressive sul sé sognante (come un cattivo conduttore nei confronti del gruppo). Il terapeuta, dovrà quindi essere il primo portavoce della coscienza del soggetto sognante, essere capace di comprendere e di non giudicare, deve essere capace di stupirsi e di commuoversi e di non avere pre giudizi razionali saturanti questo stimolerà la costituzione di una cultura e di un pensiero specifici dell’essere in un gruppo terapeutico. Il conduttore dovrà anche essere capace di uscire dall’atmosfera dominante del pe siero gruppale per pensare da solo in gruppo, in quanto sarà funzionale a stimolare un movimento verso l’individuazione. Il pensare di gruppo e in gruppo partecipa ai movimenti verso la fusione e di quelli verso l’individuazione e il conduttore deve sapere riconoscere e sostenere i processi di pensiero che la situazione richiede per un procedere evolutivo. Il gruppo necessità che la mente del T si emancipi dai criteri di casualità e intenzionalità logica a favore delle potenzialtà di empatia e per fare ciò il t deve avere una buona dimistichezza con il suo preconscio, che nel gruppo quindi stimola la catena associativa e il pensiero gruppale. LA FONDAZIONE ARCAICA E INTERSOGGETTIVITA’ DEL PRECONSCIO CO SE’ Il campo gruppale a volte si presenta come uno stato mentale complesso in cui interagiscono (come nel sogno) il preconscio superiore, quello inferiore e l’io sognante, delle cui funzioni un membro del gruppo, il terapeuta o il gruppo come tutto si fanno portavoce, per la costruzione di un pensiero condiviso. Il preconscio è il sistema dell’apparato psichico nel quale di effettuano i processi di trasformazione che sostengono alcuni processi e contenuti inconsci perché possano ritornare alla coscienza Al preconscio è legata la capacità associativa, figurativa e interpretativa della psiche. Per il formarsi dei processi di pensiero di gruppo possiamo riferirci alla possibilità di riattualizzare quella fase arcaica progettuale definita come co-sé o sinteismo primario (A. Abraham 1995): Il co-sé ha l’immagine di un corpo spiralato, una specie di movimento che gira su se stesso senza inizio e senza fine6. Le radici del co sé si ritrovano nel corpo uterino, nell’embrionale, in un luogo di tensione senza conflitto, dove si trovano le forme primitive di percezione e pensiero globale, la convergenza di tutte le emozioni in un effetto unico, assenza di distinzione tra la spazio interno ed esterno. Il lavoro di gruppo si sviluppa dunque in uno spazio e in un tempo spiraliformi che permettono il riattraversamento dei diversi processi evolutivi e anche la possibilità di ripresa ì, nel campo gruppale, per l’individuo e per il gruppo stesso, di funzioni fondamentali che la patologia può avere atrofizzato o bloccato all’origine e tutto questo può avvenire grazie alla rimessa in gioco del preconscio. Preconscio che affonda la sua origine nella primitiva area relazionale dove la madre preconsciamnete appunto, tramite la funzione alfa riesce a dare accoglimento e pensabilità alle diverse tensioni emergenti. LA FUNZIONE GAMMA E L’ORIGINE DEL PRECONSCIO Esiste una funzione, definita funzione “alfa”, che trasforma le impressioni sensoriali, aventi un rapporto con un’esperienza emotiva, in elementi “alfa”; questi vanno poi a formare una barriera che segna il punto di contatto e separazione tra il conscio e l’inconscio. Si parla dunque di una funzione relazionale nella quale il preconscio affonda le sue radici. Questa funzione elaborativa e trasformativa all’interno del campo gruppale è stata definita funzione “gamma” (Corrao 1981). L’autore, riconoscendo che il gruppo è caratterizzato da un processo di regressione funzionale, sostiene che fra le risultanti di questo processo vi sono elementi gamma disponibili: -per la formazione di pensieri gruppali onirici mitici … - per l’organizzazione di una barriera di contatto gamma, atta a differenziare il conscio dall’inconscio nell’ambito della struttura gruppale. Il pensiero di gruppo va considerato come “pensiero multiplo, con elevata produttività7”. Il preconscio partecipa sia alle funzioni dell’io sia a quelle dell’es; così come il pensiero, utilizzando la funzione mediatrice del preconscio, nel gruppo si manifesta la barriera di contatto gamma (pag.209). LA FASE DEL CONSOLIDAMENTO DEL Sé, BASE PER IL COSTITUIRSI DEL PENSIERO E DEL RAPPORTO OGGETTUALE 6 Le radici del co-sé si trovano nel corpo uterino, nella periodicità del passaggio del cibo e dell’ossigeno. Quest’immagine oscilla tra movimenti di espansione e di contrazione. Le forme primitive di pensiero globale, indistinto (sincretismo), la convergenza di tutte le emozioni in un unico effetto (sinergia) e l’associazione che si crea tra le sensazioni (sinestesia), sono i punti base dell’assenza coseica di discriminazione e delimitazione tra lo spazio interiore e quello che è esteriore. 7 Dal punto di vista fenomenologico Corrao distingue tre modelli principali di pensiero: Rappresentazionale: correlato all’attività della funzione gamma nel dare sostanza ai sogni con le sue tematizzazioni drammatiche; Situazionale: finalizzato all’esplorazione e all’apprendimento dell’organizzazione strutturale poliadica (ovvero la totalità organizzata delle inter-relazioni tra gli elementi o membri) e delle sue funzioni; Trasformazionale: centrato sulla possibilità di costruire nel gruppo nuovi modelli di pensiero. in grado di mantenere l’alleanza clandestina con la parte del pz solidale con il processo evolutivo, saprà accoglierlo al suo ritorno facendogli concretamente sentore di essere stato ricordato. In questa fase ci sarà la presenza di momenti intrepretativi e narrativi, il pz si sentirà accolto dal racconto di altri pz che hanno attraversato con successo la stessa fase. Verrà usato un linguaggio noto, un lessico familiare che faciliterà il transito verso la pensabilità della comunicazione agita. Il pz uscirà rafforzato da questa esperienza e con lui tutto il gruppo, grazie alla consapevolezza condivisa di poter essere compresi di poter fare anche per gli altri, assumendo il ruolo di portavoce di difficili momenti di impasse. Sperimentare ciò permette a qusti pz di compredere che le emozioni più difficili da affronatre e i vissuti più angosciosi possono essere accolti, capiti e modificarli. Il gruppo diventa quel contenitore mentale in cui in un primo tempo poter esprimere e simbolizzare gli stati affettivi. In un secondo momento il gruppo rappresenterà anche quell’ambiente che permette il passaggio dal sé intersoggettivo, basato sulla condivisione affettiva, al sé riflessivo. Quest’ultimo si fonda sull’interazione con una figura che permette di imparare a distinguere, comunicare e quindi controllare i propri stati affettivi. In seguito il sé riflessivo, attraverso l’utilizzo del linguaggio, acquisisce la capacità di connotare gli stati affettivi in maniera più precisa e condivisa. Questa tappa infatti non viene raggiunta nelle famiglie di origine di pazienti con disturbi di personalità, dove l’espressione di un affetto veniva rifiutata o ridicolizzata, con effetti non solo di vergogna e di rabbia ma anche di perdita di riconoscibilità di quell’affetto stesso. DALL’IMPENSABILITA’ ALLA PENSABILITA’ DI UN EVENTO TRAUMATICO Itermine TRAUMA indica quell’evento che non è scuscattibile di un elaborazione psichica rappresnetativa, che non può diventare storia. La responsabilità del trauma va attribuita a fantasmi9capaci di suscitare eccitazioni e angosce poco controllabili e per questo traumatiche, in grado di danneggiare sia i pensieri sia l’apparato per produrli. Si viene così a costituire in circolo vizioso che parte dal fantasma per tornare ad altri fantasmi prodotti dalla memoria concreta del trauma stesso. Lo psicanalista deve poter interrompere questo circolo grazie al contributo del suo apparato mentale, in grado di elaborare il fantasma del paziente e favorirne la trasformazione in fantasia (cosa che permette al gruppo di trasformare l’esperienza traumatica rendendola pensabile in quanto riattiva i collegamenti con il preconscio). Secondo corbella, l’essere in gruppo e il pensare in gruppo, costituiscono un insieme di elementi facilitatori di questo processo, in quanto riattivano i collegamenti con il preconscio, che si fonda sull’intersoggettività e che permette al gruppo di tasformare l’esperienza traumatica redendola pensabile. LA DRAMMATIZZAZIONE DI UN INCORPORATO TRAUMATICO E LA SUA PENSABILITA’ Gli incorporati non sono pensabili, ci rimandano alla fase più arcaica dell’esistenza, prima della distinzione tra psiche e soma.Gli incorporati non sono necessariamente negativi anzi, costituiscono le prime arcaiche coordinate per muoversi nel mondo, per orientarsi nel tempo e nello spazio. Possono essere incorporati segreti di famiglia, vicende di cui ci si vergogna e che possono ossessionare e trasformarsi in sintomi, somatizzazioni e deliri. Quelli negativi stanno al posto di un processo di pensiero interrotto o eventi traumatici mai pensati che si sono iscritti nella memoria concreta ma che non sono potuti dinentare ne ricordo ne storia. Questi hanno però effetti sul comportamento ma di cui il soggetto è totalmente inconsapevole. Rouchy sostiene che i processi di incorporazione sono più avvicinabili in gruppo, grazie a una seduta mensile di “rilassamento” che permette alle tracce inscritte nel corpo di dar luogo a reminescenze, a emozioni che diventano affetti e permettono l’elaborazione di un pensiero, proprio laddove si era interrotto. DEI DIRITTI E DEI DOVERI: DALLA COLPA ALLA RESPONSABILITA’ Nel setting gruppale la consapevolezza degli accadimenti e dei diritti propri e altrui e dei doveri verso se stessi e gli altri non è mai un acquisizione fredda e razionale, ma è sempre accompagnata da affetti intensi che richiedono comprensione ed elaborazione. Corbella ha notato nelle sedute di gruppo, ce alcuni individui aderiscono rigidamente a certi stereotipi nel tentativo di razionalizzante d dare continuità a un senso profondo di instabilità del sé. Pz con d. di personalità 9 Rappresentazione che agisce a livello psicologico sulla persona ma che non è reale; ma finisce per manifestarsi come tale in quanto reale è ciò che agisce. sono spesso portavoce nel lavoro di gruppo di un particolare malessere che si esprime in una sensazione primitiva e drammatica di inquietudine e vuoto. Spesso questa è la conseguenza di relazioni genitori instabili e inaffidabili che impediscono il costituirsi di oggetti interni stabili. Implica questo nella mente intrena del pz un insieme di confusione ed emozioni forti non metabolizzabili in pensieri, che rende difficili le relazioni con gli oggetti esterni. “il gruppo mi permette di vedere il mio passato come nello specchio di Perseo: così posso riconoscere e superare la coazione a ripetere che immobilizza e pietrifica come la Medusa”. Il mondo affettivo appare incomprensibile a questi pazienti e ciò impedisce al mondo oggettuale di assumere stabilità e costanza. Questo stimola un vissuto arcaico di impotenza da cui ci si difende attraverso fantasie di onnipotenza accompagnate da sensi di colpa. Infatti, è spesso presente una stretta connessione fra la patologia sofferta dei pazienti e il senso di colpa, i diritti e doveri appresi in famiglia. Nell’ambito terapeutico la rimessa in discussione dei diritti e dei doveri ha un importante e duplice funzione, sia relativamente al senso di sé e della propria autostima, sia nel rapporto con gli altri. Permette di passare dalla logica dell’aut-aut che caratterizza l’area onnipotente della colpa, alla logica dell’et-et che caratterizza l’area di potenza adulta della responsabilità, in una costante dialettica tra sé e l’altro. Mentre il senso di colpa è sempre accompagnato ad un sentimento di angoscia, c’è una modalità trionfalistica ed esibitoria, da parte dei pazienti, nel buttare in faccia all’altro la frase “è colpa mia” o “è colpa tua”. Dichiararsi o dichiarare l’altro colpevole è un mezzo per mascherare le problematiche e i conflitti sottostanti mantenendo inalterate le fantasie difensive di onnipotenza. Queste modalità relazionali caratterizzate dalla colpa dichiarata permettono di uscire da stati di incertezza recuperando un senso di sicurezza. Infatti il pensiero sottostante la dichiarazione di colpa è: se io avessi voluto io avrei potuto. Diversamente dal senso di colpa che si rifà a un dover essere, la dichiarazione di colpa si rifà a un voler essere, all’interno di un pensiero arcaico onnipotente. Il viraggio dall’esibizione della colpa all’assunzione di responsabilità si affronta come tema gruppale in cui nel gruppo si riattualizza la fase adolescenziale. Prima però deve essere stata acquisita la consapevolezza del proprio diritto ad essere nel mondo e al rispetto di sé, solo allora si può divenire capaci di vedere gli altri nella loro totalità, riconoscere i loro diritti e rispettarli e divenire responsabili si per sé e per gli altri. Nel lavoro di gruppo si assiste pertanto al passaggio dalla colpa esibita all’assunzione di responsabilità, e questo passaggio viene spesso facilitato dai pz che sono in fine terapia e che si fanno portavoce di problematiche relative a questo passaggio e fungono da modello per gli altri. Logicamente questo passaggio viene ripetuto più e più volte nel lavoro gruppale e i suoi risultati non sono mai definitivamente acquisiti. A volte vi sono ricadute anche gravi delle vecchie modalità di pensiero, soprattutto quando il cambiamento positivo è vicino. Il passaggio dalla colpa onnipotente al riconsocimento del propri limiti e delle proprie responsabilità è doloroso e implica momenti di vuoto e solitudine anche se non sono annichilenti come in passato in quanto il senso di sé è acquisito. Nel gruppo la tensione verso il divenire responsabili è sostenuta non solo dal terapeuta, ma a turno dai singoli pazienti, anche se attraverso momenti difficili e tentazioni regressivanti. Questo mette in guardia rispetto alla fantasia che ogni volta finita la terapia i problemi siano definitivamente risolti; ogni acquisizione è un acquisizione dinamica che bisogna saper riconquistare nei momenti difficili e di passaggio. La terapia si limita a dare gli strumenti. DAL PENSARE DI GRUPPO AL PENSARE IN GRUPPO Ogni partecipante osa affrontare la solitudine che implica il pensare, quando il pensare si assumere la responsabilità del pensiero. La possibilità di assumersi la responsabilità del pensiero passa attraverso 2 momenti: • Presa di distanza dal gruppo e di accettazione della propria solitudine • Rinnovato accoglimento della propria appartenenza gruppale, che permette lo scambio di quanto individualmente pensato. La logica della responsabilità può sostituire quella della colpa solo quando si accetta la realtà del limite. La consapevolezza dei limiti propri e altrui porta all’assunzione della propria potenza che realisticamente, a seconda delle situazioni, sarà possibile esprimere, permette che il desiderio onnipotente si trasformi in volontà consapevole. Quest’ultima implica slancio e responsabilità. All’inizio del lavoro di gruppo il t che vuole responsabilmente costituire una cultura terapeutica gruppale dovrà per primo assumersi la responsabilità di pensare in gruppo e di gruppo, per permetterlo poi anche ai partecipanti. Pensare in gruppo a volte non sarà un movimento da tutti partecipato ma potrà implicare anche momenti di coraggiosa solitudine. Potenzialità distruttive del gruppo: le potenzialità negative se lasciate evolvere possono produrre effetti distruttivi sull’indivduo e sul gruppo, arrivando a mettere in gioco la sopravvivenza del gruppo stesso. Nitsun (1996) ha coniato il termine “antigruppo” per designare gli elementi che minacciano e perfino distruggono il gruppo terapeutico. LINARES considera l’antigruppo un fantasma, mentre CORBELLA lo considera come un triangolo rosso che segnala un area di pericolo relativa al presentificarsi di specifici processi gruppali che in sé non sono necessariamente negativi, ma che possono divenire pericolosamente distruttivi se lasciati evolvere senza costituire per essi uno specifico spazio di riflessione. Spazio che prima di tutto deve esser nelle mente del t, che deve sottrarsi alla corente del gruppo per pensare in gruppo. Questi sono altamente variabili nei differenti gruppi. IL PROCESSO DI COSTRUZIONE DEL CAPRO ESPIATORIO In particolare va posta attenzione sulla possibilità del costituirsi nel gruppo di un capro espiatorio10. L’origine del termine risale alla storia biblica: aaron confesso tutti i peccati del bambini di israele sopra la testa di una capra, mandata poi simbolicamnete nel deserto per espiare qui peccati. Il capro espiatorio può essere una chiara metafora del meccanismo di identificazione proiettiva, modalità difensiva arcaica consistente nel proiettare su un oggetto altro da sé, parti vissute come disturbanti. L’origine del termine indica una funzione: proteggere la famiglia o il gruppo da “presunte colpe”. Il capro espiatorio spesso è essenziale per l’adeguato funzionamento di un gruppo in quanto fornisce un area in cui le aggressioni possono essere canalizzate senza presentare una minaccia per l’integrità psichica dell’individuo o per la stabilità del gruppo. La costituzione del capro espiatorio avviene spesso in periodi di crisi che comportano l’indebolimento dell’istituzione e che generano ansia, angoscia e sentiemnti di ipotenza. Più volte vedremo presentificarsi nel gruppo la triade negativa impotenza-onnipotenza-colpa. Infatti, è in momenti di crisi che vediamo il tentativo dei pazienti di trovare all’esterno o all’interno del gruppo qualcuno o qualcosa che si assuma il ruolo di capro espiatorio. Quando il capro espiatorio è un elementi esterno Spesso il gruppo si pone in assunto di base attacco fuga; in questi casi questo processo non è pericoloso se tenuto consapevolmente sotto controllo. Serve recuperare, tramite il contagio emotivo, una certa coesione indifferenziata che difronte all’emergere di movimenti di separazione-individuazione tenta di recuperare la fusionalità originaria. Nel passaggio da momenti fusionali a movimenti di individuazione, il capro espiatorio può diventare o il terapeuta o l’istituzione all’interno della quale si situa la gruppoanalisi. In tal caso spetta al t comprendere tale presa di posizione come difesa rispetto a momenti evolutivi, dolorosi e difficili e rendere pensabile l’angoscia che sottende tali movimenti. Viceversa il costituirsi di un capro espiatorio all’interno di un gruppo medesimo si riferisce alla focalizzazione di un attenzione ostile, sadica ed offensiva su un particolare individuo. Questo contiene in sé potenzialità distruttive e più pericolose, perché il terapeuta o l’istituzione non innescano la triade i-o-c; viceversa quando un membro del gruppo assume su di sé questo ruolo rischia di farsi espellere o di andarsene riproponendo al gruppo la colpa, l’impotenza e l’onnipotenza negativa, e il vissuto del gruppo come di un contenitore fragile e inaeguato. In situazioni gravi si può arrivare fino allo smembramento del gruppo stesso. L’attribuzione-assunzione di capro espiatorio avviene in momenti di crisi trasformativa, 10 Il termine capro espiatorio ha origine dalla storia biblica: Aaron confessò tutti i peccati dei bambini di Israele sopra la testa di una capra, mandata poi simbolicamente nel deserto per espiare quei peccati (Rutan, Stone, 1999). Nell’interazione gruppale è stato possibile sperimentare chele contraddizioni possono essere un mezzo di sviluppo e l’affrontare i conflitti un potenziale strumento di progresso. LA FUNZIONE INTERPRETATIVA NEL GRUPPO La cultura interpretativa caratterizza il setting analitico gruppale, capace nel tempo di costruire un linguaggio in grado di capire e di accogliere e privilegiare le significazioni inconsce e in tal modo di differenziarsi dagli altri gruppi naturali. Il setting si pone come interfaccia linguistica che consente all’inconscio di comunicare cioè di produrre derivati11. Infatti, viene caratterizzato dalla pluralità degli individui, dove vi è una costante circolarità fra affetto e comunicazione e come l’inconscio di ognuno sia eterocentrato e concorra alla costruzione di dinamiche inconsce collettive, risultanti da proiezioni e identificazioni incrociate e dalle interazioni fra di esse. Infatti nel lavoro gruppale, l’attività del pensiero non si riduce alla capacità elaborativa, ma si articola a differenti livelli dalla razionalità al sogno. Si può osservare in modo evidente la costruzione di configurazioni relazionali specifiche in cui l’intrapsichico e l’interpsichico si intersecano in forme di pensiero e di linguaggio che permettono una ricostruzione della storia di ogni partecipante e la costruzione di una storia gruppale condivisa attraverso il rapporto di ciascun con il gruppo (terapeuta compreso), rapporto che si costituisce insieme alla storia comune. In particolare i transfert nel gruppo assumono configurazioni particolari che vanno letti come la risultante di un fenomeno di diffrazione12. Neri (1995) sottolinea che la comunicazione del gruppo può essere compresa, oltre che alla costituzione di una catena associativa, attraverso l’immagine del gruppo disposto come una stella. Tutte le persone si collegano riferendosi ad un punto centrale che funge da raccordo, che può essere noto o in via d definizione. Il pensare nel gruppo assume dunque una funzione contenente che ordina e rende possibili i processi di categorizzazione del pensiero. La catena associativa è definita come prisma del pensare e Il pensiero si genera e può divenire efficace solo attraverso il confronto del soggetto pensante con i propri fondamenti gruppali e con i fondamenti gruppali del pensiero stesso nel qui e ora dell’incontro. Anche l’analista diviene co-pensatore che si inserisce all’interno dello sviluppo reciproco dell’attività associativa. Il gruppo come un prisma diffrange il pensiero nelle sue componenti che diventano percettibili e comprensibili. La catena associativa si organizza intorno a quei componenti e intorno a ciò che nel gruppo sta per divenire pensabile. L’analista capace di decodificare i messaggi dell’inconscio mostrerà per primo la via verso la capacità di simboleggiare; per fare ciò dovrà essere consapevole che difronte al presentificarsi dell’inconscio e del transfert, anche le sue risposte transferali e controtransferali saranno altrettanto complesse, comprensive anche di sentimenti negativi, fra cui la capacità di tollerare di non capire gli accadimenti, capacità negativa che deve essere accolta e se necessario comunicata. Queste risposte emotive se non consapevoli rischiano di impedire un atteggiamento interpretativo responsabile che deve essere sempre adeguato al qui ed ora di ogni seduta.L’atto interpretativo implica sempre una scelta responsabile da parte del terapeuta, che deve poter rispondere di sé e per il paziente delle possibili conseguenze che questo suo atto potrà avere su paziente, sul gruppo e sulla loro relazione. La produzione di un interpretazione è un atto transizionale, che non può essere separato “dall’essere in relazione con” che determinerà se interpretazione rappresenta una realtà condivisa o se rappresenta in modo predominante la realtà dell’analista. L’atto d’interpretazione, che scopre significati nascosti, crea di per sé significati supplementari. Nella comunicazione interpretativa l’efficacia trasformativa è data dal contenuto, ma soprattutto dal momento, dalla motivazione e dal modo in cui l’interpretazione stessa viene espressa. Infatti un’interpretazione prematura indurrà nell’individuo, e nel gruppo, un aumento delle difese, mentre la sospensione interpretativa stimolerà la produzione di ulteriori elementi chiarificatori o, in una fase avanzata del lavoro, la comprensione 11 Paradossalmente si può parlare di inconscio quando non è più tale. 12 Interferenza, alterazione, frammentazione. La situazione psicoanalitica di gruppo rende possibile la conoscenza dei rapporti che il soggetto intrattiene: 1. Con i suoi oggetti inconsci e di questi fra loro, 2. Con gli oggetti inconsci degli altri e fra di loro. degli eventi da parte di un partecipante o del gruppo nel suo insieme tramite una produttiva catena associativa. In ogni caso si è certi che un gruppo riproporrà sempre le stesse tematiche irrisolte fino a quando l’analista e il gruppo non saranno in grado di affrontarle e in parte comprenderle. Come afferma il paradigma della supplementazione, rimarrà sempre un più o meno di inconoscibile che ci farà toccare con mano il senso del limite e il valore della nostra potenza reale. Importanti sono le parole usate per esprimere l’interpretazione, parole che dovranno scaturire dalla fase che il gruppo sta attraversando e attingere al “lessico familiare”; solo così potranno essere accolte e interiorizzate. L’attività interpretativa può diventare produttiva solo nel momento in cui l’analista è convinto di aver chiaro per quale motivazione interviene e quali sentimenti l’intervento mobilizza in lui e potrà mobilizzare nel gruppo (mantenendo sempre la consapevolezza della fallibilità delle ipotesi umane). In alcune situazioni sarà sufficiente che il t stimoli a esprimere il proprio pensiero a quel particolare pz che gli appare in grado di svelare i significati che si celano nelle dinamiche gruppali, dando origine a una produttiva catena associativa. In tal modo gli aspetti transferali verranno disvelati e i personaggi interni trasferiti sui membri del gruppo o sul gruppo come insieme. Ciò che viene trasferito sui partecipanti e al gruppo sono particolari modalità relazionali apprese in famiglia che si attivano come automatismi inconsapevoli. Il passato una volta divenuto pensabile e riconoscibile si aprirà al futuro e alla creatività personale. L’attività interpretativa può diventare produttiva solo nel momento in cui l’analista ha chiaro da quel posizione e per quale motivazione interviene e quali sentimenti mobilizza in lui e quali mobilizza nel gruppo. L’indirizzarsi dell’attenzione interpretativa a un paziente particolare nel gruppo non è mai casuale, ma prende spunto dell’intuizione preconscia della posizione occupata dallo specifico partecipante, in riferimento alla situazione gruppale intesa nella sua globalità e definita nel qui e ora. In alcuni casi il termine interpretazione si potrà anche riferire alla capacità dell’analista di agire come interprete tra persone che parlano un diverso gergo per rendere comprensibile gli uni agli altri e per costruire un linguaggio comune. Questo può accadere nel caso in cui ognuno parla il linguaggio della propria nevrosi. Il terapeuta dovrà cercare di comprendere sono solo ciò che esprime, ma anche ciò che “sopprime”. L’analista dovrà aver presente che le sue attitudine interpretative, saranno condizionate dai suoi valori e dalla sua cultura di rifermento, deve avere presente la sua modalità di pensare e di individuare i blocchi di pensiero. Consapevole di ciò, dovrà “sospendere il giudizio” e mantenere la disponibilità all’incontro con l’inaspettato tollerando l’ansia che ne deriva. Dovrà anche stimolare la condivisione con i membri della capacità interpretativa, malgrado l’eventuale ferita narcisistica che il suo preconscio inferiore potrebbe non essere disposto ad affrontare. La partecipazione da parte di tutti membri alla condivisione della funzione interpretativa produrrà un positivo cambiamento, producendo un venir meno della struttura verticale a favore di quella orizzontale. L’apprendimento della funzione interpretativa Renderà ciascuno capace di concettualizzare in modo riflessivo le narrazioni riferite dall’altro e di ciò che accade nel gruppo nel qui ed ora a livello transpersonale, questo modificherà anche le modalità relazionali e il modo di pensare. In questo modo il bisogno dell’attenzione personale da parte dell’analista verrà ridimensionato. Così la funzione interpretativa diverrà, nel procedere del tempo a spirale, una modalità di pensare di gruppo e poi ancora, per ogni componente, di pensare in gruppo in un alternarsi dialettico. L’interpretazione rappresenta una parte del processo di scambio in quanto permette di scambiare l’isolamento con la comunicazione, consentendo di sostituire il sintomo con la comprensione del suo significato. Perché questo possa accadere è necessario che il terapeuta si mostri per primo come modello di plasticità in grado di rinunciare a qualsiasi rigidità. In questo modo egli potrà esercitare la capacità interpretativa e farla divenire parte integrante della cultura di gruppo, perché per primo tollererà l’uscita dalla fusione narcisistica con le proprie teorie di riferimento e introdurrà il valore della differenziazione. Un adeguata interpretazione saprà trasformare un discorso della quotidianità in un discorso analitico, capace di rilevare significati nascosti che ampliano la capacità di pensare in gruppo e di gruppo, e ogni partecipante potrà nel divenire del tempo gruppale farsi portavoce di modelli di pensiero inediti che potranno aprire un nuovo spazio di scambio e o rimettere in discussione modelli già conosciuti. UNA CONVERGENZA OPERATIVA TRA ANALISI DI GRUPPO E PSICODRAMMA (In questo paragrafo vengono riportati vari episodi di sedute che illustrano quanto sotto riportato. Da pag 266 a 280) L’esperienza dello psicodramma in un gruppo facilita l’accesso ai contenuti preconsci e inconsci e ne permette un leborazione di gruppo che rende tali contenuti pensabili e modificabili. La ripresa dell’attività trasformatrice del preconscio, nello psicodramma, è resa possibile attraverso la costruzione di scene e parole dove le fantasie, con e loro componenti disideranti e difensive, possano esprimersi in forma di spettacolo. Le immagini e i movimenti che nel sogno si realizzano “come se” fossero reali, nello psicodramma mettono in gioco il soggetto interno con la sua corporeità e gli permettono di occupare spazi e ruoli diversi da quelli cui lo costringe la coazione a ripetere. Lo psicodramma facilita l’instaurarsi di un area transizionale tra mondo interno ed esterno che in un certo modo fa sperimentare l’area di gioco intesa in senso winnicottiano. Ogni partecipante, offrendo agli altri un’immagine di sé in ruoli inusuali, entra in contatto con una nuova figurabilità del suo essere che permette l’ipotesi di nuove modalità di relazione aumentando un senso di fiducia nel rapportarsi con gli altri e anche una più articolata modulazione del Sé. La costruzione di un sogno collettivo nel contesto dello psicodramma ha favorito e rinforzato nei partecipanti la capacità di pensare di gruppo, aumentando la coesione del gruppo medesimo e l’integrazione dei membri fra di loro. Il funzionamento del gruppo durante l’azione psicodrammatica avviene all’interno di uno spazio scenico- palcoscenico che può essere concepito come contenitore comune (moi-peau) che raccoglie e contiene l’attività di più individui e rende possibile l’esperienza di un sé gruppale sognante e pensante. La deresponsabilizzazione che l’obbedire al conduttore/regista rende possibile, permette il contatto con alcune componenti aggressive della propria personalità senza sensi di colpa e dunque le rende più facilmente integrabili. Per gli individui legati a un ideale di sé rigido e super egoico l’assunzione di particolari ruoli può consentire un primo approccio ad aspetti di sé fragili e bisognosi, coscientemente negati. L’analista non deve accelerare tali passaggi ma anzi deve accogliere l’iniziale difficoltà del pz a riconoscersi in certi ruoli e aiutarlo ad accettare e tollerare il dolore e il rischio e il potersi pensare in modo nuovo. Le maggiori difficoltà a fruire positivamente dello psicodramma provengono da personalità con componenti paranoidi, che devono tenere tutto sotto controllo e che perciò non tollerano di assumere un ruolo non deciso da loro, o di rispondere positivamente a un compito richiesto. In questi casi il poter ascoltare dagli altri del gruppo quanto accaduto nella seduta di psicodramma cui hanno scelto di non essere presenti, permette loro un partecipazione controllata che in alcuni casi si traduce in una partecipazione intermittente a questi incontri, che limita le angosce persecutorie consentendo una fruizione positiva dell’esperienza. Il pensare e il sognare “di” gruppo e “in” gruppo risultano intrecciarsi in modo tanto più produttivo per il processo terapeutico quanto più il gruppo ha raggiunto un livello di funzionamento derivante da una storia condivisa che ha fornito una appartenenza sicura di sé per ogni partecipante. Il terapeuta- regista (psicodramma) può inserirsi creativamente e produttivamente per stimolare il gruppo, pur non conoscendo le vicende individuali e collettive dei partecipanti. Egli funziona da starter dei processi di gruppo. Diversa è la collocazione del terapeuta che usa una metodologia analiticamente orientata. A lui è richiesto di entrare nel merio dei contenuti e dei processi mentali che vanno svolgendosi nel gruppo e di costruire ipotesi condivisibili. Questo può realizzarsi solo se il terapeuta partecipa nel suo essere persona. A differenza del setting psicodrammatico. Dove l’esperienza prende forma comunicativa attraverso le azioni dei membri del gruppo e il conduttore assume principalmente la funzione di regista- nel setting analitico il terapeuta è parte costitutiva e integrante del lavoro di gruppo e del costituirsi della specifica cultura gruppale. L’introduzione di una seduta mensile di psicodramma in u gruppo di analisi da tempo costituito risulta utile e non modifica l’identità del gruppo. Al contrario, l’inserimento di una seduta di gruppo analisi in un lavoro di psicodramma non è produttivo o comunque di rilievo. Nell’adolescenza l’individuo si confronta con il cambiamento della propria identità psico-fisica. L’adolescente deve affrontare tre fondamentali processi di lutto: a) lutto dei genitori idealizzati nell’infanzia; b) lutto del corpo infantile; c) lutto della propria identità e del proprio ruolo nel mondo infantile; tutto ciò in una situazione di grande instabilità e confusione. C. Zucca Alessandrelli (1995) ha definito l’adolescente “l’apprendista del tempo”, perché uno dei compiti più difficili di questa fase della vita è quello di mantenere un senso di continuità di Sé sia diversificando il passato, il presente e il futuro, sia tenendoli in relazione e integrandoli fra di loro. Il setting di gruppo a tempo determinato è in molti casi la situazione terapeutica più adeguata. Infatti è evidente che riunire adolescenti in gruppo vuol dire stimolare un movimento verso i pari che in questa fase della vita è assolutamente spontaneo. Adolescenti e gruppo a tempo determinato Il tempo trascorso con i pari garantisce agli adolescenti la presenza di un’area di relazione formativa e significativa rispetto al costituirsi dell’identità. Il gruppo dei pari assume la funzione di Io ideale. Ovviamente per persone più fragili, il gruppo dei pari non ha valenze adeguate sul piano terapeutico; infatti è necessaria la presenza di un analista che sappia valorizzare le potenzialità trasformative del gruppo dei pari, ma che al contempo tenga sotto controllo gli aspetti pericolosi. La riattualizzazione di fasi infantili permette all’adolescente di definire nuovamente la propria identità sia a livello intrapsichico sia relazionale. Blos (1971) non a caso considera l’adolescenza quella fase della vita in cui avviene il secondo processo di separazione-individuazione. Un altro aspetto tipicamente gruppale è dato dall’importante funzione di rispecchiamento effettuata dal gruppo; che se da una parte limita, costringendo ad abbandonare la fantasia onnipotente, dall’altra individua e valorizza l’unicità del singolo. Inoltre fornisce una valida alternativa al mancato rispecchiamento parentale dando un importante contributo alla costruzione dell’idea di sé come soggetto. In aggiunta gli adolescenti che a causa di deficit nello sviluppo del sé hanno basi fragili del loro narcisismo sano, necessitano di un oggetto sé ideale; anche quest’altra fondamentale funzione è assolta dal gruppo terapeutico. Le suddette caratteristiche gruppali rafforzando il sé migliorano anche la funzione dello schermo protettivo dell’apparato psichico tra mondo interno ed esterno. Questo rinforzerà il mondo interno dell’adolescente e gli permetterà di confrontarsi con maggior sicurezza anche con il mondo degli adulti. Per gli adolescenti il gruppo assume la funzione di un’esperienza formativa anziché correttiva ed è per questo che è più incisiva rispetto a quella che coinvolge gli adulti. Un gruppo di due anni all’interno di una casa alloggio Nel lavoro con gli adolescenti l’acting-out può costituire un efficace regolatore delle tensioni che accompagnano i processi integrativi e contribuisce all’organizzazione di un sé separato con un proprio spazio interno. In questo modo il gruppo diventa quel contenitore mentale in cui in un primo tempo possono essere espressi gli stati affettivi, anche quelli d’odio. Ma perché l’odio abbia uno sviluppo costruttivo e diventi integrabile con l’oggetto d’amore è fondamentale che l’oggetto non si faccia distruggere (Winnicott). Il portavoce dell’odio, se il conduttore è accorto a non farlo diventare il capro espiatorio, riesce a permettere a tutti i membri del gruppo il riconoscimento di sentimenti analoghi. In questo modo è possibile imparare a distinguere, comunicare, elaborare e riconoscere i propri stati affettivi. A volte anche il gruppo nel suo insieme può diventare un valido sostituto genitoriale che permette la costruzione di un ponte tra la realtà interna e quella esterna in modo che i sintomi diventino comunicabili e quindi modificabili. Il gruppoanalisi con gli adolescenti rappresenta uno stimolo a fare i conti con la propria fase di vita e dunque con l’ambivalenza fra il desiderio di dipendenza e quello di solitudine ed emancipazione, che resta sempre una costante dell’esistenza. Gruppi omogenei a tempo determinato per pz con problemi di dipendenza L’infanzia dei pazienti tossicodipendenti è caratterizzata da un ambiente familiare non sufficientemente “buono” e da figure parentali che non hanno potuto fungere da modello affidabile e valido. Questo ha prodotto una frammentazione e fragilità del sé, accompagnata dall’indebolimento della capacità dell’io di assolvere le sue funzioni e ad un uso di meccanismi di difesa arcaici. Con questi soggetti ci imbattiamo in oggetti incorporati mortiferi che colonizzano il mondo interno del soggetto a scapito della creatività e della possibilità di individuazione. Non a caso il cibo, l’alcool, la droga vengono assunti come sostituti d’oggetto. L’assunzione di droga sembra a volte il tentativo di cercare di individuarsi e di essere riconosciuti anche se in modo negativo. Generalmente, in questi soggetti, un individualità autonoma di valore è pressoché inesistente poiché dominata da un super-io assai esigente e quindi svalorizzante. Da ciò deriva la coazione al sentirsi vittime di impulsi privi di coesione (frammentazione), stati vissuti come molto angoscianti e connessi alle primitive difese di proiezione e di scissione a cui i tossicodipendenti tentano di porre rimedio con profondi stati di noia e di annichilimento depressivo. A questi stessi stati emotivi cercano poi delle difese con modalità di fuga nell’immaginario, attraverso le sostanze. Per questo tipo di pazienti è auspicabile che il gruppo si situi all’interno di un istituzione, che può assumere inizialmente il ruolo di parafulmine degli attacchi distruttivi che preservano il conduttore permettendo quel tipo di idealizzazione dominata dalla logica dicotomica buono-cattivo. È infatti importante sostare a lungo nell’area fusionale onnipotente per ricostruire il sé deprivato e porre le basi per il costituirsi dello schermo protettivo fra interno ed esterno. Solo in un secondo tempo e solo per alcuni pazienti si potrà ipotizzare la possibilità di proseguire il percorso terapeutico in gruppo eterogeneo, dove il tossicomane si potrà proporre come persona che ha avuto problemi di dipendenza ma che, grazie al gruppo dei pari, ha recuperato la capacità di vivere l’esperienza, tollerando il senso del limite. Io gruppo eterogeneo permette infatti di valorizzare ulteriormente la sua “anima”; non più sedotto dal canto delle sirene, il paziente che ha avuto esperienza di dipendenza imparerà a giocare con la realtà. Gruppi omogenei a tempo determinato per persone vittime di traumi La possibilità di ricordare e raccontare la propria storia costituisce il requisito fondamentale per l’avvio di un processo di cura e, quando è possibile, di guarigione della vittima di un trauma. Corbella con il termine trauma vuole intendere quell’evento che non è stato suscettibile di una elaborazione psichica rappresentativa, che non è potuta diventare storia. La gravità del trauma non è un valore oggettivo e sempre oggettivabile ma è da considerarsi in relazione alla vittima, alla sua età, alla sua fragilità personale, alla sua capacità di poter elaborare e rendere pensabile il trauma medesimo. A questo proposito ricordiamo che l’abuso punitivo del bambino è una pratica diffusa: spesso questi bambini traumatizzati una volta divenuti adulti rischiano di diventare genitori punitivi ed abusanti, così il “peccato originale” si tramanda di generazione in generazione. In questi casi il bambino maltrattato può rappresentare per il genitore un aspetto di Sé estraniato, dissociato e disprezzato. Con il termine “trauma” vogliamo intendere quell’evento che non è stato suscettibile di un’elaborazione psichica rappresentativa. Il trauma si caratterizza per essere un grave fattore di disturbo nella strutturazione psichica e relazionale del soggetto poiché è qualcosa che modifica le funzioni emotive dell’infante e del bambino. La responsabilità della minore o maggiore incisività del trauma va attribuita ai “fantasmi” capaci si suscitare eccitazioni e angosce poco controllabili e per questo traumatiche. Nell’impatto con i fantasmi si sviluppano i meccanismi psicotici della negazione e della scissione, che possono implicare l’idealizzazione del sé e dell’oggetto, e formazioni deliranti e persecutorie dell’io e del super-io. Per questo il trauma non è in grado di diventare storia; rimane però la sua “memoria”. È allora che l’azione sostituisce il pensiero impraticabile e si viene così a costruire un circolo vizioso. Tuttavia, la negazione non riesce ad evitare la consapevolezza che il non considerare gli accadimenti traumatici non li rende “non accaduti” e dunque non allevia le sofferenze della vittima. Non a caso queste persone oscillano continuamente tra il diniego dell’evento traumatico e la sua ripetizione compulsiva. Con il passare del tempo i sintomi relativi alla perdita di contatto con il proprio mondo interno ed esterno, si strutturano sempre di più come elementi caratteristici della personalità dell’individuo. Sia il mondo interno che quello esterno sono vissuti come minacciosi e imprevedibili; tutto questo provoca nella vittima vissuti di impotenza e senso di senza speranza. A livello di comportamento sono portati a restringere sempre di più i loro rapporti interpersonali. L’azione terapeutica deve interrompere il blocco del pensiero grazie al contributo dell’apparato mentale dell’analista e del gruppo tutto, in grado di elaborare il fantasma del paziente e favorirne la trasformazione in fantasia. Il pensare di gruppo e in gruppo costituiscono elementi facilitatori di questo processo in quanto riattivano i collegamenti con il preconscio (che si fonda nell’intersoggettività); per cui sappiamo che il gruppo può funzionare come apparato di trasformazione dell’esperienza traumatica. Proprio per questo si costruiscono gruppi omogenei e a termine che hanno però potenzialità distruttive pari a quelle terapeutiche. Infatti, i conflitti che emergono all’interno di questi gruppi possono far correre il rischio a causa dell’identificazione con l’aggressore, di ricreare dinamiche ripetitive dell’evento traumatico che accomuna i diversi partecipanti. La Hermann distingue tre livelli di elaborazione di esperienza traumatica a cui corrispondono tre tipi di gruppo che si differenziano per obiettivi e struttura. Il primo si pone come compito di infondere sicurezza e fiducia, è particolarmente attento al qui e ora dell’incontro, a un intendimento didattico-pedagogico e permette la ripresa della cura di sé. Il secondo ha l’obiettivo di rielaborare le memorie traumatiche, permettendo una rivisitazione del passato che permette di rendere pensabile il trauma. Il terzo si pone in un presente che, liberato dall’ombra del passato, si proietta verso una progettualità futura che permette una migliore integrazione a livello intra e interpersonale. Tutti e tre i gruppi si pongono limiti temporali che rassicurano i partecipanti di una durata limitata e dunque tollerabile rispetto alla partecipazione emotiva richiesta. L’obiettivo comune è la possibilità data ai partecipanti di abbandonare l’identità della vittima per riacquisire quella di Persona. Durante la terapia si arriva a comprendere che aver cancellato il ricordo ha portato ad una discontinuità del senso di sé, la memoria concreta che non si è potuta trasformare in esperienza vissuta ha impedito il proseguimento del processo evolutivo. Ancora più complessa appare la situazione quando il trauma non è stato vissuto direttamente ma è stato trasmesso a livello transgenerazionale. In questo caso non si tratta di rendere pensabili accadimenti subiti ma fantasie inespresse, incorporati invasivi. Quando la persona sarà stata in grado di condividere con gli altri ricordi e/o fantasie e quindi di renderli parlabili e pensabili, non solo migliorerà la propria autostima liberandosi della colpa assunta o proiettata, ma migliorerà anche la comunicazione fra i diversi livelli del suo mondo interno e le sue modalità relazionali. La possibilità di dimenticare come acquisizione di una modalità di pensiero adulta. È importante pensare e ricordare ma poi anche poter dimenticare. Il gruppo a termine non solo è in grado di ripristinare la funzione simbolica della mente e dunque la capacità di pensare ma ha anche l’importante funzione dell’oblio. La funzione del conduttore nei gruppi omogenei a tempo determinato Il conduttore a orientamento analitico, per raggiungere un qualsivoglia obiettivo, sarà attento a comprendere quello che nelle terapie individuali brevi viene definito il triangolo dell’insight, che articola il presente con il passato e che permette di fare collegamenti fra le modalità relazionali che il paziente mette in atto nel qui e ora della seduta terapeutica (t), e quelle che ha con altre persone significative della vita attuale (o13) e del passato (p). In queste diverse aree relazionali è possibile evidenziare un’altra triade Difesa-Angoscia- Impulso e un’altra ancora che Corbella ritiene particolarmente valida sottolineata da Pontalti e collaboratori e che fa riferimento a tre storie diverse e intersecate fra di loro, la storia di ogni singolo partecipante, la storia degli antenati di ciascuno e il progetto generativo di una nuova storia personale costruito, nella storia gruppale condivisa. A seconda del materiale portato il conduttore dovrà comprendere quale vertice di quale triangolo privilegiare in funzione dello scopo privilegiato del gruppo. Importante è che l’analista sia in grado di integrare armonicamente tecniche interpretative con altre più pedagogiche o di sostegno. Il termine temporale è parte integrante della struttura del setting, sarà importante ricordarlo ai pazienti in modo che ci sia un tempo adeguato per poterlo elaborare affinché la separazione annunciata possa essere utilizzata come elemento maturativo. Pur sapendo che il gruppo a tempo determinato caratterizzato da fasi particolari, il conduttore deve poter dimenticare per mantenere aperta la possibilità di una costante verifica autocorrettiva, nella consapevolezza di un intervento che deve “circolare” liberamente tra i partecipanti. A tali fini è importante che l’istituzione permetta una serie di colloqui di preparazione funzionali al conoscere la storia del paziente per cominciare a comprendere come sia andato organizzando il suo mondo interno e quali sono le sue modalità relazionali, le sue paure e le sue difese. Capitolo 8: Il gruppo nella formazione Per noi psicoanalisti il verbo “formare” si articola all’interno si differenti organizzazione sociali, tutte caratterizzate dalla necessità di attenzione rivolta alla complessità delle relazioni fra le persone. Formare significa prima di tutto formare a un pensiero gruppale, che possa esprimersi modulandosi in maniera dialettica e non solo tra teoria e prassi, ma fra individuo (pensare in gruppo) e gruppo (pensare di gruppo). Il rischio del formatore può essere o quello di un eccessiva astrazione teorica o quello di un eccessivo riduzionismo empirico. Importante è entrare a conoscenza dei nostri personali limiti. L’incontro con il limite può indurre la tentazione di cercare una teoria unica e illuminante. “L’esperienza emotiva primitiva di beatitudine totale, legata all’attivazione di un’immagine fusa del Sé e dell’oggetto ‘completamente buona’ costituisce una potenziale risposta a tutte le domande del gruppo” (Kernberg, 1998). È l’appagamento derivante dall’illusione di aver trovato la Verità e la Luce che ti mette a riparo dai dubbi e dalle incertezze. Accettare l’incertezza è sempre fonte di sofferenza e stimola ambivalenza. Proprio per questo, i formatori per primi dovrebbero porsi come modello capace di tollerare il dibattito scientifico esponendo le loro teorie e il 13 • Riconoscere che un sogno raccontato da un partecipante potrebbe essere stato sognato da un’altra tra le persone presenti; • Capire se i sogni e le associazioni forniscono elementi utili per comprendere alcuni aspetti dell’ambiente sociale e/o dell’organizzazione a cui appartengono i partecipanti. Attraverso questo lavoro, ogni sogno rivela di avere non un solo significato, ma molti che sono collegati tra loro. Raccontare i sogni permette a tutti i partecipanti di sentirsi sullo stesso piano. Questo diversamente da quello che accade solitamente nei gruppi medio-grandi, fa sì che non vi siano persone silenziose ma che anzi nel divenire del tempo gruppale, ognuno si senta libero di portare un sogno o di associare con la sensazione di contribuire alla costruzione di un bene comune. FORMARE IN GRUPPO ALLA PSICOTERAPIA Formare alla psicoterapia rende particolarmente doveroso cercare di integrare il percorso di evoluzione personale con il progetto dell’Istituzione che lo sostiene. È essenziale che il docente esprima le proprie teorie di riferimento in modo che un sapere già costituito possa essere ridiscusso come problema di ricerca. Inoltre sarà opportuno far comprendere all’allievo quanto sia fondamentale la consapevolezza del proprio mondo interno e quindi delle proprie caratteristiche di relazione, in modo da ridurre al massimo il possibile rischio di un uso difensivo o manipolativo delle tecniche psicoterapeutiche apprese. È importante che il neo- psicoterapeuta possa arrivare all’incontro con il paziente in grado di comprenderlo grazie ai modelli teorici appresi nel corso degli studi, senza perdere di vista il contesto da cui parte la richiesta di un intervento e la conoscenza delle costanti e delle variabili messe in gioco nelle differenti aree di lavoro. Il docente di qualsiasi tipo di psicoterapia dovrà costruire con gli allievi una partecipazione e un dialogo che abbiano la funzione di trasmettere contenuti teorico pratici, portatori al tempo stesso di un valore formativo e maturativo della persona. Il metodo d’insegnamento deve poter divenire un modello d’intervento e la formazione assumere potenzialità autenticamente trasformative, stimolando nello studente non solo le capacità intellettuali ma anche quelle riflessive e creative. Importante è mantenere presente l’idea che ogni affermazione psicoterapica ha un origine ipotetica, aprendo uno spazio nuovo alla ricerca e alla creatività personale. In questo modo il soggetto valutato non si limita a prendere atto di un giudizio o di un voto, ma li può integrare all’interno di un processo di riconoscimento della propria personalità a partire dall’immagine dinamiche che gli viene fornita dall’esterno e sperimenta il valore gruppale del rispecchiamento. LA SUPERVISIONE DI SITUAZIONI CLINICHE E DINAMICHE DI GRUPPO I modelli teorici del formatore, influenzano inevitabilmente le sue modalità d’insegnamento. La formazione implica particolari responsabilità etiche e teoriche, poiché riguarda il significato e le risonanze che il lavoro assume articolandosi sul modo di essere del soggetto con un continuo riferimento sia alla sua identità professionale, sia al modello relazionale istitutivo nell’organizzazione di appartenenza. In ogni caso, non si può mai dimenticare che identità professionale e personale procedono pari passo con implicazioni complesse e delicate. Capitolo 9: L’osservazione partecipante Come primo momento formativo, alcune scuole di psicoterapia come l’APG richiedono due anni di osservazione partecipante in un gruppo condotto da un esperto. L’allievo partecipa alla vita del gruppo con l’appoggio e la stimolazione del terapeuta e tratterà i suoi problemi personali solo se e quando vorrà farlo. L’osservazione partecipante è una modalità specifica per far comprendere ai giovani aspiranti terapeuti, attraverso un’esperienza vissuta in modo diretto, il senso del lavoro analitico gruppale. Anche dal punto di vista dei pz il passaggio dall’osservazione silenziosa a quella partecipante è parsa essere più costruttiva. La partecipazione dell’osservatore comporta anche un maggior impegno del terapeuta, coinvolto direttamente nel qui e ora di ogni seduta un un’attività in cui l’allievo è presente e direttamente coinvolto e il gruppo diventa a sua volta osservatore di un apprendimento “in diretta”. Alla fine del periodo di formazione i futuri terapeuti di gruppo sono consapevoli di aver affrontato una sorta di rito iniziatico, difficile ma fondamentale. Nell’osservazione partecipante è dato sia al conduttore, sia all’apprendista, sia ai pazienti, di condividere un’esperienza analitica in cui tutti i partecipanti sono presenti e sono disposti a mettere in gioco anche i loro più radicati aspetti inconsci. Nella seduta il terapeuta permette all’osservatore sia di vedere nella pratica il suo sapere teorico, sia di cooperare con lui alla costruzione della cultura analitica del gruppo. L’OSSERVAZIONE E LE TECNICHE DI GRUPPO Vari sono il comportamento e la posizione dell’osservatore nel gruppo. Il suo ruolo, concordato all’inizio dell’esperienza, può essere: silente o partecipante, dentro il gruppo o fuori del gruppo, dietro uno specchio unidirezionale o insieme agli altri. Altrettanto vario è il fine per cui è immesso all’interno del gruppo: l’osservatore entra a far parte dello staff terapeutico con scopi di ricerca o per finalità di training; per supervisionare il terapeuta o per dargli un feedback e un termine di confronto “più oggettivo”; al fine di strutturare una situazione di cura innovativa o per rassicurare e fare da supporto al collega di fronte all’ansia creata dalla situazione di gruppo. Di conseguenza l’osservatore assume a seconda delle circostanze il ruolo di studente o collaboratore, di terapeuta in formazione o di pz “modello”, e in quanto tale è vissuto diversamente dal gruppo e dal terapeuta. Naturalmente molto spesso avviene che egli assuma più ruoli contemporaneamente o che non sempre vi sia una stretta aderenza fra il ruolo precostituito e concordato e quello realmente messo in atto, fra le intenzioni e la realtà del comportamento. In particolare ciò avviene o quando il terapeuta non dà una consegna precisa, o allorché l’osservatore per motivi controtransferali agisce problemi personali o indotti dal gruppo. In altri casi il cambiamento di ruolo è invece previsto a priori. Questo avviene soprattutto nelle situazioni in cui l’osservatore è un terapeuta in formazione. E implicito nel suo programma di training che, dopo aver osservato per un certo periodo di tempo il gruppo, possa mettere a frutto l’esperienza acquisita divenendo partecipante e coterapeuta in quello o in un altro gruppo. L’adottare una modalità di osservazione piuttosto che un’altra risulta essere dipendente dal tipo di gruppo osservato e dalla modalità di conduzione in esso privilegiata. Per esempio nei gruppi di tendenza psicoanalitica solitamente l’osservatore ha un ruolo silenzioso. Ha come un occhio e un orecchio supplementari che vengono in aiuto al terapeuta, oppure una memoria collettiva nei confronti del gruppo. Non è però un registratore passivo e neppure osserva soltanto con scopi di ricerca scientifica. E’ un registratore che pensa e che vuole capire come mai lui e il gruppo pensano e sentono in un determinato modo, perché il terapeuta dice certe cose piuttosto che altre, e che cosa significa il suo pensare, sentire e capire in riferimento al gruppo e alle sue dinamiche. Nei gruppi non analitici l’osservatore è il più delle volte attivo e partecipante, ma in un senso marcatamente diverso da ciò che si intende per partecipante nei gruppi psicoanalitici. Vale a dire che ciò che a lui si richiede è un feedback immediato dei vissuti e delle reazioni, una comunicazione dei suoi pensieri e delle eventuali soluzioni da lui intraviste rispetto a ciò che accade nel gruppo. Gli aspetti positivi dell’immissione dell’osservatore consisterebbero per i pz nel fatto che la coppia terapeuta-osservatore ricrea più facilmente il clima familiare, favorendo una più vasta gamma di transfert e di triangolazioni edipiche. CRITICHE: a detta di alcuni autori, l’inserimento di un osservatore è sempre sconsigliabile in quanto modifica e disturba l’interazione del gruppo, inibisce la spontaneità e induce una confusività nei processi transferali e controtransferali. Altri richiamano alla prudenza dando delle regole nel caso si voglia inserire un osservatore ed esortano a farlo solo in situazioni di reale necessità. Altri ancora, pur tenendo contro delle difficoltà che l’osservatore introduce, evidenziano la possibilità di utilizzarle vantaggiosamente per la crescita del gruppo e del terapeuta, attraverso l’interpretazione e il suo successivo effetto di presa di coscienza. Essi ritengono sia altrettanto possibile risolvere proficuamente le interferenze che si vengono a creare fra il terapeuta e l’osservatore per mezzo dell’istituzionalizzazione di riunioni di discussioni dopo le sedute o, nei casi più complessi, tramite il ricorso a un supervisore. Chi ne sottolinea esplicitamente l’importanza ritiene tale relazione non molto differente, in quanto a difficoltà, da quella fra coterapeuti, e la vede non in senso statico come un problema di accordo iniziale e di consegna ben precisata, bensì come un rapporto dinamico che si svolge nel tempo e viene a cointeressare numerose variabili. Le finalità formative e di ricerca, e gli effetti che l’osservazione ha sul processo terapeutico, dipendano dalla qualità della relazione; come gli obiettivi espliciti vengano ostacolati e nei casi estremi impediti quando il rapporto fra terapeuta e osservatore non è chiaro, ed è contaminato da ansie e timori paranoidi, o da vissuti depressivi e di esclusione. Se elaborati all’interno di una relazione sufficientemente buona possono infatti permettere un rapporto più profondo e costruttivo e conseguentemente favorire un arricchimento del processo di apprendimento. Risentimento e competitività, fastidio della dipendenza, paura di essere criticati, senso di colpa, di impotenza e isolamento accompagnano la relazione osservatore-terapeuta, osservatore-gruppo, e quando non sono coscienti vengono scotomizzati e rischiano di essere agiti nel setting terapeutico. Il gruppo a sua volta induce tali vissuti, e quando li avverte, se la fase che il gruppo sta attraversando lo stimola può strumentalizzarli, boicottando il lavoro terapeutico con difese e resistenze. Solo il buon rapporto tra terapeuta e osservatore permette l’analisi delle difficoltà create dall’introduzione dell’osservatore nel gruppo, e il superamento di situazioni confusive non certo utili al processo di comprensione analitica. Per quanto l’osservatore possa farsi dimenticare dal gruppo per il ruolo che occupa, il gruppo e il terapeuta non lo dimenticano. Egli stesso “non si dimentica”, ma continua a parlare con il gruppo e con il terapeuta, pur non volendolo intenzionalmente. Le sue osservazioni ovviamente non possono né vogliono essere obiettive, bensì strettamente legate ai suoi vissuti e ai suoi riferimenti teorici e alla sua rispondenza emotiva nei confronti del terapeuta e del gruppo. E’ lo stesso silenzio che, quando caratterizza la sua posizione nel gruppo, crea in lui fantasie e vissuti che riattualizzano arcaiche posizioni che certamente, se non portate alla luce, agiscono nella sua osservazione e registrazione dei fatti del gruppo, nel suo comportamento preverbale e corporeo, nei suoi processi di apprendimento. Il gruppo favorisce la comunicazione non verbale, preconscia e quindi la sua recezione. In questo senso l’osservatore è chiaramente una variabile nel processo terapeutico, che in alcuni momenti può avere un peso significativo sia che abbia un ruolo recettivo sia che abbia un comportamento apertamente partecipante. L’ESPERIENZA DI OSSERVAZIONE PARTECIPANTE Esperienza di osservazione: corbella e Borgogno. L’introduzione di un osservatore determina ai suoi inizi, nel gruppo e nell’osservatore, situazioni emotive comuni e corrispondenti, indipendentemente dal ruolo che egli occupa all’interno del gruppo. Queste situazioni sarebbero, alla luce della nostra esperienza, le seguenti: • Le fantasie scopofiliche e le angosce persecutorie dell’osservatore e del gruppo nel momento antecedente all’ingresso nel gruppo dell’osservatore; • La situazione schizoparanoide che caratterizza le prime sedute; • La circolarità maniaco-depressiva dei vissuti e delle fantasie nelle prime fasi dell’osservazione; • L’elaborazione dei conflitti precedenti in rapporto alla modificazione del quadro conseguente all’introduzione di nuovi pz; • L’abbandono delle fantasie di onnipotenza, l’assunzione di una certa potenza, l’osservatore partecipante come “modello di crescita”. Il momento antecedente all’ingresso nel gruppo: le fantasie scopofiliche e le angosce persecutorie dell’osservatore e del gruppo Un primo carattere comune delle fantasie e delle aspettative antecedenti la nostra immissione nel gruppo fu l’aspetto ambivalente che le contraddistingueva. Vale a dire che in entrambi erano presenti sia vissuti ottimistici, sia vissuti angoscianti e depressivi. I primi si manifestavano nel desiderio di “fare una buona esperienza”, di “passare finalmente dalla teoria alla pratica”, di “poter lavorare con analisti stimati”, di “entrare un po’ di più nel gruppo dei grandi”. I secondi erano costituiti da fantasie persecutorie nei confronti del gruppo e nei confronti del terapeuta. Condivise erano le paure di “non potercela fare”, di non sapere “quale ruolo assumere” o meglio “quale ruolo il gruppo o il terapeuta ci avrebbero permesso”, le paure di “introdurci in una situazione nuova, e soprattutto non nostra”, la paura generale, insomma di non venire accettati. IL CLIMA EMOTIVO DELLE PRIME SEDUTE: UNA SITUAZIONE SCHIZOPARANOIDEA Il gruppo reagisce alla paura e allo sconcerto che crea in lui la “nuova presenza” con manifestazioni primitive di tipo schizoparanoide quali: la proiezione e la persecutorietà, la scissione fra oggetto buono e oggetto cattivo; il diniego, la denigrazione e l’idealizzazione; la frammentazione stessa delle associazioni e nell’illusione di poter, così facendo, controllare meglio l’ansia dell’ignoto. L’assumere coscientemente la capacità di contenere l’altro viene vissuto come molto pericoloso. Si teme, così facendo, di perdere la propria identità. Quindi la consapevolezza di fungere preconsciamente come cassa di risonanza del clima emotivo prevalente nel gruppo di esperienza, fa sorgere alcune resistenze; proprio per questo però permette al contempo di comprendere analoghe resistenze nei pazienti immessi per la prima volta in una terapia di gruppo. Fungere da “cassa di risonanza” è la conferma di “essere nel gruppo”. Allo stesso tempo il gruppo ha difficoltà a comprendere l’osservatore; esso è infatti oggettivamente difficile da accettare in quanto va a rappresentare il terzo incomodo, l’estraneo a tutti i livelli nel rapporto tra gruppo e terapeuta. L’osservatore inoltre, in quanto presentificatore di un progetto maturativo a termine, introduce la variabile temporale, diventa il portatore sia del modello di crescita, sia del limite. Questo mobilità nel gruppo un assunto di base a esso ostile di tipo attacco-fuga. L’ingresso dell’osservatore nel gruppo, a seconda della fase che si sta attraversando, richiama situazioni simili alla rottura della simbiosi madre-bambino o della coppia fusionale Laio-Giocasta; l’osservatore diventa Edipo, colui che rompe la fusione. A questa situazione, a volte, il gruppo reagisce negando al massimo le differenze individuali, cercando di riproporre le simbiosi estromettendo il terapeuta Madre cattiva abbandonante. La colpa viene proiettata totalmente sul terapeuta e sull’osservatore che alterna ai precedenti vissuti di onnipotenza positiva fantasie di potenziale onnipotenza distruttiva. L’osservatore (a volte), dal momento che non si riesce ad eliminarlo dal gruppo, viene negato nel suo progetto di crescita e viene considerato come la realizzazione del desiderio di nascere adulti, senza dover tollerare la ferita narcisistica. 2. L’osservatore come realizzazione dell’Ideale dell’i o narcisistico megalomanico: Questo precedente momento di stallo viene superato dal gruppo inglobando anche l’osservatore nel progetto fusionale. L’osservatore, che è stato inizialmente sentito come una sorta di Super-Io venuto dall’esterno a fare l’esame di realtà e a distruggere la situazione simbiotica evidenziandone l’illusorietà, viene in seguito a essere, attraverso identificazione proiettiva, il portatore di un ideale dell’Io di tipo primitivo, narcisistico megalomanico. 3. Momento dell’individuazione: ”Mi oppongo, dunque sono”: Qui si parla di individuazione attraverso l’opposizione. Il gruppo nel suo insieme sembra passare in secondo piano, se non quando, in fantasia o in realtà, viene ipotizzato come alleato nell’attacco al terapeuta, in particolare quando l’osservatore verbalizza immediatamente nel gruppo di esperienza, o in seguito in quello degli osservatori, di non essere d’accordo con il conduttore. Durante questa fase l’osservatore tende a riferire l’intera seduta con un sottostante atteggiamento critico nei confronti del terapeuta, nella speranza di ottenere un feedback nel gruppo degli osservanti. Questa fase dell’osservazione è accompagnata spesso da risposte speculari da parte dei pazienti che cominciano ad attaccare l’osservatore non più per il suo ruolo, ma per come a loro sembra come persona, o troppo timido, troppo rigido, troppo aggressivo… L’osservatore si sente schiacciato fra il gruppo e il terapeuta, non più confuso fra i pazienti ma neppure in una posizione imitativa fusionale nei confronti del terapeuta, in qualche modo però in colpa verso entrambi, dal momento che il differenziarsi viene sentito spesso come distruttivo e colpevole. Il poter condividere nel gruppo di supervisione questi vissuti di rivalità ne permette la sdrammatizzazione, attraverso la comprensione de loro rappresentare una necessaria tappa evolutiva. 4. L’osservatore difronte al conflitto edipico: Nel momento in cui l’osservatore è nel gruppo come persona con le proprie capacità (quindi differenziato), viene visto nella sua specificità anche dal gruppo, che non lo sente fuso simbioticamente con il terapeuta ma separato da lui, un possibile oggetto o di attacchi di rivalità da parte dei pazienti dello stesso sesso, o di fantasie erotiche da parte dei pazienti di sesso opposto. Vanno differenziate le seguenti situazioni: • Terapeuta e osservatore sono una coppia dello stesso sesso: Il gruppo nel suo insieme viene vissuto dall’osservatore come il genitore del sesso opposto e come la fantasia che crescere significhi prendere il posto del padre o della madre, eliminarli e accoppiarsi al loro posto con la Madre o Padre Gruppo. Il terapeuta è vissuto come una sorta di Super-Io persecutorio; diventa l’esecutore del principio di realtà con cui si deve scontrare il proprio ideale megalomanico. L’osservatore sente di essere in un momento di impasse, nato dal fatto di considerare il gruppo osservato come la Madre o il Padre edipico, cioè come l’unico oggetto d’amore possibile. • Terapeuta e osservatore sono una coppia di sesso opposto: In questo caso può più spesso succedere che l’osservatore si illuda di saltare questa tappa evolutiva nella fantastica fuga in avanti in un accoppiamento di scambio “adulto” con il terapeuta; passerebbe così da un accoppiamento fusionale-simbiotico a un presunto accoppiamento genitale-genitoriale. In questo caso il gruppo nel suo insieme viene identificato come Figlio e potremmo parlare di complesso di Giocasta. Il gruppo reagisce sentando l’osservatore più divisibile dal terapeuta e quindi più facilmente attaccabile o desiderabile. È in questo momento che i pazienti esprimono fantasie e desideri di accoppiamento direttamente all’osservatore. 5. L’osservatore come modello di crescita. Attuazione effettiva del progetto di apprendimento: È grazie all’aver affrontato il conflitto edipico che l’osservatore può divenire per l’intero gruppo un reale modello di crescita. Nel suo saper affrontare con difficoltà, ma con adulta consapevolezza queste emozioni, può divenire un modello intermedio tra i pazienti e il terapeuta, con cui i pazienti stessi si possono confrontare in modo diretto. Per l’osservatore, con il riconoscimento delle capacità terapeutiche reali dell’analista di gruppo, si realizza la possibilità di una identificazione maturativa con lui nel rispetto delle reciproche differenze. Attraverso questa identificazione maturativa, che ben si distingue dalla precedente imitazione, l’osservatore diventa capace di cogliere le dinamiche del gruppo. Ora sa che potrà avere un proprio gruppo terapeutico, ora non ha più nulla da invidiare. L’OSSERVAZIONE E LE TECNICHE DI GRUPPO (Borgogno 1977) Vari sono il comportamento e la posizione dell’osservatore nel gruppo. Il suo ruolo, concordato all’inizio dell’esperienza, può essere: silente o partecipante, dentro il gruppo o fuori il gruppo, dietro uno specchio unidirezionale o insieme agli altri. Altrettanto vario è il fine: entra far parte di uno staff terapeutico con scopi di ricerca o di training; per supervisionare il terapeuta o per dagli un feedback e un termine di confronto più oggettivo. Di conseguenza l’osservatore assume a seconda delle circostanze il ruolo di studente o collaboratore, di assistente di ricerca, di terapeuta in formazione o di paziente “modello”, e in quanto tale è vissuto diversamente dal gruppo e dal terapeuta. Naturalmente molto spesso avviene che egli assuma un ruolo contemporaneamente o che non sempre vi sia una stratta aderenza tra il ruolo concordato e quello realmente messo in atto; ciò avviene o quando il terapeuta non dà una consegna emotiva, o quando l’osservatore per motivi controtransferali agisce problemi personali. In altri casi il cambiamento di ruolo è invece visto a priori. Questo soprattutto quando l’osservatore è un terapeuta in formazione che, dopo aver osservato per un certo periodo di tempo il gruppo, mette a frutto l’esperienza acquisita diventando partecipante e co-terapeuta in quello o in u altro gruppo. L’osservatore è un “registratore” che pensa e che vuole capire come mai lui e il gruppo pensano e sentono in un determinato modo, perché il terapeuta dice certe cose piuttosto che altre, e che cosa significa il suo pensare, sentire e capire in riferimento al gruppo e alle sue dinamiche. In questo senso l’esperienza di osservazione diventa utile sia al terapeuta che all’osservatore. Al primo permette una comprensione migliore di ciò che accade nel gruppo e a volte anche in se stesso. Al secondo dà la possibilità di osservare i momenti evolutivi del gruppo, di apprendere la tecnica di conduzione e di fare un migliore uso di sé. Gli aspetti positivi dell’immissione dell’osservatore consisterebbero per i pazienti nel fatto che la coppia terapeuta-osservatore ricrea più facilmente il clima familiare, favorendo una più vasta gamma di transfert e di triangolazioni edipiche. In particolare la scissione sull’osservatore di parte dei vissuti provati nei confronti del terapeuta permetterebbe un’analisi più profonda del transfert negativo. Per il terapeuta gli aspetti positivi deriverebbero dalla possibilità di verifica e supervisione del proprio lavoro, nonché dal fatto di avere un collega con cui dividere le difficoltà e le ansie tipiche della terapia di gruppo. Un buon prerequisito di base è sicuramente una buona relazione tra osservatore e terapeuta. Questa può dipendere dall’accordo iniziale e dalla precisione della consegna, ma anche da diverse variabili, come: la motivazione che ha spinto il terapeuta a introdurre un osservatore e quelle dell’osservatore ad accettare l’esperienza, ma anche le dinamiche indotte nel gruppo dalla presenza dell’osservatore e le loro ripercussioni nel rapporto terapeuta-osservatore. La fantasia del terapeuta, che l’osservatore non interferisca nel processo terapeutico, è simile alla fantasia sottostante il meccanismo di scissione che il gruppo attua non nominando l’osservatore. In tali situazioni il terapeuta è il portavoce dell’assunto attacco-fuga che domina il gruppo. L’angoscia che l’osservatore in alcuni casi può indurre, la rabbia e i fantasmi che questa comporta possono rischiare di essere scissi e negati sia dal terapeuta che dal gruppo. ESPERIENZA DI OSSERATORE PARTECIPANTE Viene riportato nel libro un’esperienza di osservazione partecipante fatta da Corbella e dal suo collega Borgogno (da pagina 357 a pagina 384). Qui viene descritta l’esperienza dal punto di vista dell’osservatore e appare rilevante un primo carattere comune delle fantasie e delle aspettative dell’immissione nel gruppo. Infatti, erano presenti all’inizio, sia vissuti ottimistici, sia vissuti angoscianti e depressivi. I primi si manifestavano nel desiderio di “passare dalla teoria alla pratica”. I secondi erano costituiti da fantasie persecutorie nei confronti del gruppo e nei confronti del terapeuta; condivise erano le paure di “non potercela fare, non venire accettati”. Il terapeuta stesso non è esente da ansie persecutorie; ha paura di imporre l’osservatore al gruppo e ne teme le reazioni e di conseguenza procede con molta cautela. Inoltre la stessa ansia persecutoria è rivolta verso l’osservatore, vissuto come colui che non solo “guarda” il gruppo ma anche il terapeuta. Nella terapia il gruppo tenta di usare l’osservatore come capro espiatorio ma con l’evolversi dell’analisi l’osservatore entra a far parte della storia del gruppo come variabile nota e quindi accettata. Le difficoltà dell’osservatore non nascono solo in relazione al gruppo, ma anche nei confronti del terapeuta. Infatti si sente osservato e giudicato dall’analista e dal gruppo, in lui si crea il vissuto di essere costantemente alla prova, sia che rimanda in silenzio sia che intervenga. La prima fase di osservazione ha provocato in entrambi (Corbella e Borgogno) un alternarsi di vissuti depressivi e di fantasie maniacali. In altre parole, l’alternativa sembra essere o quella di fare i pazienti, perché incapaci di dare qualsiasi cosa al gruppo; o quella di fare i terapeuti, perché in fantasia non molte erano le differenza tra loro stesi e il terapeuta. Ovviamente, parti “meno ideali” del rapporto osservatore-terapeuta siano presenti in ogni relazioni di questo tipo, anche se variano col variare delle strutture di personalità dei terapeuti e degli osservatori e col grado di “sicurezza” che il terapeuta possiede nella conduzione del gruppo. Certamente la “novità” nelle prime fasi dell’osservazione fa emergere maggiormente questi aspetti, che quindi vanno controllati e analizzati nel primo periodo del lavoro comune. Successivamente, l’aver acquisito un ruolo nel gruppo diminuiva le angosce di impotenza e quindi la necessità di fantasie onnipotenti. La sensazione d’impotenza lasciava il posto alla reale possibilità di esprimersi all’interno del gruppo. Il vissuto precedente, enunciabile come: “Se voi mi lasciate lo spazio, vedreste quanto valgo” si trasformava in “Adesso che posso parlare, cosa dico?”. Da una situazione di eccessiva dipendenza e di totale negazione della stesa si faceva strada l’accettazione di una reale dipendenza dal terapeuta. Ormai gli osservatori erano divenuti una costante nel quadro del gruppo, a esso funzionali. Il gruppo era così passato da una situazione di totale dipendenza dalla terapeuta a una situazione di minor bisogno di un’autorità rigida in un progressivo avvicinamento al “progresso di socializzazione”. In ogni caso, l’osservazione è una variabile che modifica il quadro e la storia del gruppo, inducendo particolari varietà emotive: 1) la struttura paranoidea dei vissuti conseguente all’introduzione dell’osservatore; 2) Le angosce dell’escludere o dell’essere esclusi collegate alla scena primaria; 3) la lenza elaborazione dei precedenti vissuti e la conseguente inclusione nel gruppo dell’osservatore. CONCLUSIONI DEL CAPITOLO L’esperienza di osservazione è particolarmente formativa all’esercizio della pratica terapeutica sia gruppale che individuale. Il processo di formazione procede di pari passo con un processo di maturazione personale. Nella fase finale, l’osservatore, nel suo rapporto con il terapeuta, non si rifà più a una situazione pregenitale basata su pulsioni di approvazione, ma a un rapporto genitale basato sullo scambio e sull’acquisita capacità di apprendere in gruppo e di gruppo.
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