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Riassunto su Leopardi del libro i classici nostri contemporanei+integrazione appunti., Sbobinature di Italiano

Riassunto sulla vita di leopardi, il suo pensiero e le sue opere

Tipologia: Sbobinature

2020/2021

Caricato il 09/11/2022

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meriem-taleb-1 🇮🇹

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Scarica Riassunto su Leopardi del libro i classici nostri contemporanei+integrazione appunti. e più Sbobinature in PDF di Italiano solo su Docsity! La vita di Giacomo Leopardi Giacomo Leopardi nacque a Recanati, un piccolo borgo nelle Marche.Il padre era un uomo colto che aveva istituito nel suo palazzo una biblioteca in cui dominavano i suoi orientamenti politici, ostili anche nella minima idea di rivoluzione, che influenzò Giacomo nei primi anni della sua formazione. La madre era una donna arcigna, priva di confidenza e di affetto e il rapporto di Leopardi con i genitori era generalmente poco buono, mentre era invece ottimo quello con i fratelli Carlo e Paolina, che lo aiutarono e lo sostennero a progettare la fuga dalla casa paterna. Leopardi inizialmente venne formato da precettori ecclesiastici, ma in seguito continuò gli studi da autodidatta, chiudendosi nella biblioteca del padre per gli ormai celebri “sette anni di studio matto e disperatissimo”. Imparò in breve tempo il latino, il greco e l’ebraico, portò avanti dei lavori filologici, tradusse classici latini e greci e, nel frattempo, scrisse anche una serie di opere. La conversione “dall’erudizione al bello” Fra il 1815 e il 1816 si ha il passaggio dall’erudizione (cioè ciò che aveva studiato in quei 7 anni di studio matto e disperatissimo) al bello (la poesia, la letteratura moderna: legge il “Jacopo Ortis” di Foscolo e “I dolori del giovane Werther” di Goethe, oltre alle opere di Dante). La sua mente inizia ad aprirsi alla contemporaneità anche grazie all’articolo di Madame de Stael, che lo spinge a leggere opere contemporanee. Questo cambiamento è accentuato dal carteggio, ovvero uno scambio di lettere, con l’intellettuale Pietro Giordani; tra i due nasce un’amicizia molto profonda al punto tale che Giordani lo va a trovare fino a casa.Il conte Monaldo all’inizio era molto orgoglioso, in quanto uno dei più grandi intellettuali del tempo era andato a visitare suo figlio, ma ben presto cambierà idea per le idee di Pietro Giordani, a suo parere, troppo rivoluzionarie. Pietro Giordani aveva compreso le piene potenzialità di Leopardi, descrivendolo come un sole che declassa tutti gli altri, sostenendo cioè che nessuno potesse essere alla sua altezza.. Ciò porterà Leopardi a capire che, in realtà, Recanati era ormai diventata per lui una realtà troppo stretta, in cui non sarebbe stato in grado di sfruttare al meglio le sue grandissime potenzialità. Si trattava infatti di un piccolo borgo che apparteneva allo Stato Pontificio e dove non vi era traccia della grande cultura.Leopardi faceva parte dell’aristocrazia e non poteva far altro che trascorrere il tempo nella biblioteca di suo padre, non poteva nemmeno uscire solo dal palazzo. Per questo motivo chiede al padre di mandarlo a Roma dagli zii, i conti Antici; il padre rifiuta la sua richiesta accampando motivazioni economiche che oggi sappiamo essere non vere: la vera ragione del suo rifiuto era non volersi separare dal figlio. Leopardi, dopo il rifiuto del padre, progetta la fuga che viene però scoperta e quindi è costretto a rimanere a Recanati. In questo periodo si passa quindi dal “bello” al “vero”, caratterizzato dalla sofferenza del poeta. In questi anni Leopardi scrive molte opere importanti come ad esempio gli Idilli,di cui fa parte “L’infinito” e lo “Zibaldone”, un suo diario personale che ci permette di capire l’evoluzione del suo pensiero, i suoi sentimenti, le sue riflessioni. Le esperienze fuori da Recanati Nel 1822 si reca a Roma, dove però rimane molto deluso a causa delle sue aspettative troppo alte. Per questo, l’anno successivo, torna a Recanati molto amareggiato e mette da parte la poesia per dedicarsi alla “fredda prosa“, scrivendo le Operette Morali. Nel 1825 gli si presenta l’occasione di lasciare di nuovo Recanati e di mantenersi con il proprio lavoro di intellettuale: l’editore milanese Stella gli offre un assegno fisso per una serie di collaborazioni che gli permettono di soggiornare in diversi luoghi, tra cui a Pisa dove ritorna alla grande poesia: infatti compone “A Silvia”, opera che apre la serie dei grandi idilli. L’ultimo soggiorno a Recanati. Firenze e Napoli Nell’autunno del 1828, a causa dell’aggravarsi delle sue condizioni di salute che gli impediscono di lavorare, è costretto a tornare a Recanati. Viene isolato nel palazzo paterno, senza avere rapporti con nessuno. Grazie ad un assegno mensile che gli viene offerto dai suoi amici fiorentini per un anno. Lascia così Recanati, per non farvi più ritorno. A Firenze stringe una fraterna amicizia con Antonio Ranieri e si innamora di Fanny Targioni Tozzetti, la quale però non lo ricambiava. Un giorno Leopardi andò a trovarla per portarle un autografo di Alfieri, ma lei non lo ricevette e andandosene Leopardi vide alla finestra lei in atteggiamenti intimi con il suo amico Ranieri. La delusione subito ispira un nuovo ciclo di canti, il cosiddetto “ciclo di Aspasia”. Nonostante ciò Leopardi restò amico con Ranieri, tanto che resterà con lui fino alla morte. La lettera al padre Leopardi voleva fuggire da Recanati, in quanto gli mancava tutto ciò di cui aveva bisogno (in primis gli mancava l’affetto: sentiva il bisogno di conoscere, di intraprendere amicizie, di amare). Fuggendo da Recanati, Leopardi sapeva di compiere un atto disperato e difficile ed era consapevole che sarebbe andato incontro anche a delle delusioni, ma si aspettava comunque un sollievo, perché riteneva di aver toccato un limite insuperabile di infelicità. In questa importantissima lettera al padre Monaldo, Leopardi spiega le ragioni dietro al suo tentativo di fuga e poi chiede perdono per ciò che aveva fatto. È una lettera dai toni amari, di rimproveri verso il padre. Gli fa capire di come la sua vita a Recanati sia terribilmente monotona e quindi gli rimprovera il fatto di avergli spezzato le ali. Leopardi sottolinea di non voler fuggire da Recanati perché non vuole bene al padre, anzi dice che l’ha sempre amato e che lo amerà sempre. Inoltre il padre conosceva le capacità di suo figlio anche perchè tanti altri che lo avevano conosciuto avevano riferito al conte Monaldo la grandezza di Giacomo, dicendogli che sarebbe diventato ancora più bravo uscendo da Recanati. Leopardi sostiene che non ci sono genitori che non si preoccupano del futuro dei loro figli e a 17 anni li mandano a fare quelle cose che lui nemmeno raggiunta la maggiore età poté fare e continua dicendo di come a Recanati ci fossero altre famiglie, anche molto meno agiate, che avevano fatto dei grandi sacrifici per far realizzare i loro figli, seppur meno promettenti di lui. Leopardi inoltre fa leva anche sull’incredibile insofferenza del padre, che è impassibile a qualsiasi richiesta e che preferisce lasciarlo affogare nella noia; così, con il tempo, il giovane poeta capisce che può confidare solo su se stesso. Inoltre parla anche di come altri grandi personaggi abbiano fatto la gavetta prima di diventare così importanti e che sarebbe disposto anche lui a farla. Leopardi aggiunge anche che si sarebbe accontentato di mendicare, piuttosto che chiedere qualcosa ai genitori, se fosse stato in salute. Per di più, mentre tutti gli altri genitori pensavano che i figli fossero una benedizione, loro no: infatti, Giacomo sostiene che sua madre avesse apertamente detto che sarebbe stato meglio, per i figli cagionevoli di salute, che morissero da piccoli, evitando loro di soffrire. Da questa lettera possiamo cogliere tutta la disperazione dell’animo di Leopardi Il pensiero Il pensiero di Leopardi attraversa varie fasi: pessimismo storico, pessimismo cosmico e l’invito alla solidarietà che emerge ne “La Ginestra”. La natura benigna Tutta l’opera leopardiana si fonda su un sistema di idee continuamente meditate e sviluppate, Il cui processo di formazione si può seguire attraverso lo Zibaldone. Al centro della riflessione di Leopardi si pone subito un motivo pessimistico: l’infelicità dell’uomo. Leopardi arriva a individuare la causa di questa infelicità in alcune pagine dello Zibaldone,in cui identifica la felicità con il piacere, sensibile e materiale. Ma l’uomo non desidera un piacere, bensì il piacere: aspira cioè ad un piacere che sia infinito, per estensione e per durata. Pertanto, siccome nessuno dei piaceri particolari goduti dall’uomo può soddisfare questa esigenza, nasce in lui un senso di insoddisfazione perpetua. L’uomo è dunque, per Leopardi, necessariamente infelice. La natura, in questa prima fase è concepita come madre benigna e attenta al bene delle sue creature, a cui ha voluto offrire, sin dalle origini, un rimedio all’uomo: l’immaginazione e le illusioni. Per questo gli uomini primitivi e gli antichi greci e romani, che erano più vicini alla natura (come i fanciulli), e quindi capaci di illudersi o di immaginare, erano felici, perché ignoravano la loro reale infelicità. Il progresso della civiltà, opera della ragione, ha allontanato l’uomo da quella condizione privilegiata e lo ha reso infelice. Il pessimismo storico La prima fase del pensiero leopardiano è tutta costruita sull’antitesi tra natura e ragione, tra antichi e moderni. Con il processo storico, l’uomo potenzia la ragione, allontanandosi dalla fanciulezza e perdendo gradualmente le illusioni: egli diventa meschino, egoista. In questa fase, per Leopardi l’infelicità degli uomini dipende dalla loro crescita acquisita durante il processo civile. La colpa dell’infelicità presente è dunque attribuita all’uomo stesso, che si è allontanato dalla via tracciata dalla natura benigna. Leopardi da un giudizio durissimo sulla civiltà dei suoi anni, la vede dominata dall’inerzia e dal tedio (noia). Scaturisce di qui la tematica civile e patriottica che caratterizza le prime canzoni leopardiane e ne deriva anche un atteggiamento titanico: il poeta si erge solitario a sfidare il fato maligno che ha condannato l’Italia a uno stato simile di degradazione. Questa fase del pensiero leopardiano è stata designata con la formula pessimismo storico: la condizione negativa del presente viene vista come effetto di un processo storico, di una decadenza e di un allontanamento progressivo da una condizione originaria di felicità e pienezza vitale. La natura malvagia Questa concezione di una natura benigna e provvidenziale entra però in crisi. Leopardi si rende conto che la natura ha creato l’uomo non per la felicità ma per la conservazione della specie, e per questo fine può anche sacrificare il bene del singolo e generare sofferenza e quindi ne deduce che il male rientra nel piano stesso della natura. Si rende anche conto che è la natura stessa ad ispirare nell’uomo quel desiderio di felicità infinita, senza però dargli i mezzi per ottenerla. In una fase intermedia, Leopardi cerca di uscire da queste contraddizioni attribuendo la responsabilità del male al fato: propone quindi una concezione dualistica, natura benigna contro fato maligno. Tuttavia ben presto capisce che ciò non è possibile e che la colpa dell’infelicità dell’uomo è tutta della natura. Nelle Operette Morali, in particolare nel Dialogo della Natura e dell’islandese, Leopardi rende esplicita la sua nuova concezione della natura, vista non più come madre amorosa e provvidente, ma come un meccanismo cieco e crudele indifferente alla sorte e alla sofferenza delle sue creature e interessata solo a tutelare la sua legge essenziale: la conservazione del mondo. È una concezione non più finalistica (che opera per un fine) ma meccanicistica e materialistica (tutta la realtà non è che materia, regolata da leggi meccaniche). L’uomo è vittima innocente della crudeltà della natura. Muta anche il senso dell’infelicità umana: prima, in termini sensistici, era concepita come assenza di piacere mentre ora l’infelicità è dovuto soprattutto ai mali esterni , a cui nessuno può sfuggire: malattie, elementi atmosferici, cataclismi, vecchiaia, morte. Il pessimismo cosmico Se causa dell’infelicità è la natura stessa, tutti gli uomini, in ogni tempo, in ogni luogo, sotto ogni forma di governo, in ogni tipo di società, sono infelici. Si è infelici non perché lo siamo noi, ma perché la natura stessa ci ha creato così. Al pessimismo storico della prima fase subentra così un pessimismo cosmico, nel senso che l’infelicità non è più legata ad una condizione storica e relativa dell’uomo, ma ad una condizione assoluta. Quando Leopardi arriva a questa soluzione, non vuole più scrivere “cose belle”, quindi abbandona la poesia civile e il titanismo e inizia a scrivere in prosa. Subentra il lui un atteggiamento contemplativo, ironico, distaccato e rassegnato. Il suo ideale non è più l’eroe antico, ma il saggio, la cui caratteristica è l’atarassia, il distacco imperturbabile dalla vita. Le Operette Morali sono caratterizzate da questo atteggiamento. La poetica del “VAGO E INDEFINITO” L’infinito nell’immaginazione Lo sviluppo delle sue meditazioni si può seguire negli appunti dello Zibaldone. Se nella realtà il piacere infinito è irraggiungibile, l’uomo attraverso l’immaginazione può superare questo limite. La realtà immaginata costituisce l’alternativa a una realtà vissuta costituita da infelicità e noia. Ciò che stimola l’immaginazione a costruire questa realtà parallela è tutto ciò che è “vago e indefinito”. Nelle pagine dello Zibaldone, Leopardi passa in rassegna tutti gli aspetti della realtà sensibile che possiedono questa forza suggestiva. Si viene a costruire una vera e propria teoria della visione: la vista impedita da un ostacolo è piacevole per le idee vaghe e indefinite che suscita; una siepe (come quella che da casa sua gli impediva di vedere oltre ciò che si trovava sul Monte Tabor), un albero, una torre, una finestra che impediscono la vista, stimolano la fantasia. Contemporaneamente, viene a costruirsi anche una teoria del suono. Leopardi elenca tutta una serie di suoni suggestivi perché vaghi: un canto che vada a poco a poco allontanandosi, un canto che giunga all’esterno dal chiuso di una stanza. Questi motivi si ritrovano quindi nelle sue opere: Silvia che tesse con il telaio e canta, la donzelletta che torna dalla campagna, i bambini che giocano fuori.
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