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Riassunto su "Quer pasticciaccio brutto de via Merulana", Sintesi del corso di Letteratura

Riassunto relativamente dettagliato del capolavoro di Gadda che copre le vicende narrate dal capitolo 1 al capitolo 10.

Tipologia: Sintesi del corso

2020/2021

Caricato il 24/06/2021

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Scarica Riassunto su "Quer pasticciaccio brutto de via Merulana" e più Sintesi del corso in PDF di Letteratura solo su Docsity! Capitolo 1 Personaggi introdotti: Francesco “Ciccio” Ingravallo, Margherita Acelli, Romolo Balducci, Liliana Balducci, Assunta “Tina” Crocchiapani, Gina, la contessa Teresina Zabalà in Menegazzi, Giuliano Valdarena, Gaudenzio “er Biondone”, Pompeo “lo Sgranfia”, Manuela Pettacchioni, i coniugi Bottafavi, il commendator Filippo Angeloni, Enea Retalli, il commissario Fumi Personaggi nominati: Virginia, don Lorenzo Corpi, Ines Cionini Data della vicenda: domenica 20 febbraio 1927, lunedì 14 marzo 1927 Protagonista delle indagini: Ciccio Ingravallo Eventi chiave: Pranzo dai Balducci (antefatto), furto dalla Menegazzi, recupero della prova (il biglietto del tram), interrogatorio di Angeloni Il romanzo si apre con la presentazione di don Ciccio Ingravallo e la sua relativa descrizione: un uomo di statura media, corporatura tozza, capelli neri e capo della squadra mobile dei carabinieri, il cui linguaggio è un misto di molisano, napoletano e italiano. Ci viene in seguito spiegata la sua propensione alla lettura di “libri da manicomio”, ovvero di manuali di psicologia e di filosofia, che gli permettono di vantare di una cultura superiore rispetto a quella di molti suoi colleghi, che per questo lo invidiano. Egli è fermamente convinto che, in ogni catastrofe, vanno a convergere non un solo elemento, bensì una molteplicità di questi, che causano il cosiddetto “gnommero”, groviglio. Tale teoria è denominata teoria delle concause. Egli dimora in una camera presa in affitto, di cui seppe grazie a un’inserzione nel Messaggero, che specificava chiaro e tondo «Escluse donne»: il motivo di tale condizione è dato dal fatto che la padrona di casa sia una donna, la vedova Acelli. Questa, inoltre, dimostra fin da subito il suo spiccato interessamento nei confronti dell’ispettore. Per il 20 febbraio, giorno di sant’Eleuterio, Ingravallo viene invitato a pranzo dai Balducci in occasione del compleanno e onomastico del padrone di casa, Romolo Eleuterio. La coppia abita nel famigerato “Palazzo degli ori”, in via Merulana, precisamente al terzo piano della scala A. Tale invito era stato fatto per telefono direttamente alla questura di Santo Stefano del Cacco, presso la quale Ingravallo lavora. Durante il pranzo, l’ispettore si sofferma su un particolare: sul fatto che la cameriera dei Balducci, nonostante le somiglianze dal punto di vista fisico, era diversa da quella che aveva visto in precedenza, al pranzo del 2 ottobre, in occasione della festa di San Francesco. La ragazza ricordata da Ingravallo è Virginia, una giovane dalle forme provocanti che in precedenza avevano catturato il suo occhio e che ora rivedeva nella figura di Assunta. Ingravallo in seguito osserva come la ragazza, Assunta, dopo aver fatto cadere un piatto di spinaci sulla tovaglia, reagisca al rimprovero di Liliana con un’espressione severa, paragonata a quella di una vergine guerriera latina. L’ispettore, in seguito a questo episodio, si sofferma per qualche istante a osservare le due bellezze contrastanti delle donne: lo stesso era, infatti, invaghito di Liliana, dalla quale però non era ricambiato. L’ispettore nota, inoltre, la presenza di un’altra ragazza appena adolescente: Gina, che al pranzo precedente era invece assente; oltretutto, nei suoi confronti, i Balducci assumevano un comportamento paterno e materno, invece di trattarla da serva. Ulteriore elemento notato dall’ispettore è la malinconia di Liliana, che sente più volte sospirare sommessamente ogniqualvolta getta lo sguardo su Gina. Ingravallo allora comprende che il motivo di tale malinconia risiede nel fatto che i Balducci non hanno figli. Inoltre, gli appare evidente la contrapposizione fra i due coniugi: Liliana, pura e ciecamente fedele al marito; Romolo, adultero e poco avvezzo ai sentimenti della moglie. La mancanza di prole portò il medico a consigliare a Liliana di provare ad avere figli con un altro uomo: ma la donna, sebbene vedesse in molti uomini il “padre in potenza”, tra cui don Corpi, il suo sacerdote, la sua profonda religiosità e l’amore per il marito le impediva di compiere l’adulterio. L’ottima capacità intuitiva di Ingravallo, migliorata anche dall’effetto del vino bianco bevuto durante il pranzo, gli permette inoltre di comprendere che le ragazze al servizio dei Balducci non erano vere e proprie serve, bensì fungevano da “sostitute” per i figli che Liliana non aveva potuto avere, al punto da essere considerate da lei come “nipoti”; e ogni anno la donna soleva sostituirle con altre ragazze. Le intuizioni di Ingravallo sono interrotte dal trillo del campanello: entra dunque nella stanza il cugino di Liliana, Giuliano Valdarena, dottore in scienze economiche e impiegato alla Standard Oil. Alla presenza di un giovane tanto prestante, Ingravallo sprofonda nell’invidia, che nutriva nei confronti di molti uomini che incontrava: il motivo di tale invidia risiede nel fatto che Ingravallo sia celibe e che non goda esattamente della reputazione di “dongiovanni”. Durante il rituale prettamente borghese della sigaretta, estratta dal Balducci da un portasigarette in oro, Ingravallo intuisce che il «cugino» corteggiasse la signora per ottenerne in cambio favori in denaro. Inoltre, si sofferma sull’anello al dito dell’uomo, riportante un diaspro con sopra il sigillo di famiglia. Con dolore, infine, l’ispettore nota il celato interesse di Liliana nei confronti del cugino, cosa che conferma la sua intuizione precedente. Il 14 marzo, Ingravallo viene a sapere di alcuni colpi sparati in via Merulana, al numero 219. Viene dunque mandato assieme a Gaudenzio “er Biondone” e Pompeo “lo Sgranfia”, i due suoi più fidati colleghi, al «palazzo de li pescecani», poiché dimora di molti speculatori dei beni di prima necessità, tra cui anche la famiglia Balducci. Giunto sul luogo, Ingravallo viene chiamato in soccorso dalla portinaia, Manuela Pettacchioni, che afferma di aver assistito a un furto. L’ispettore si reca dunque al terzo piano, scala A, dove si era consumato il misfatto, in casa della contessa Menegazzi, la cui porta è proprio di fronte a quella dei Balducci. Qui egli viene inoltre a sapere che il ladro aveva anche bussato alla porta di Liliana che, essendo in quel momento da sola (Assunta si era recata dal padre malato, Gina era a scuola dalle monache e Romolo era in viaggio per lavoro), non aveva aperto. L’ispettore si trova dunque dinnanzi alla derubata che, vestita in modo ricco e nel contempo stravagante (foulard lilla, vestaglia e chimono incipriato, baffo bleu sul volto). Ella da una descrizione del ladro: un ragazzo alto in tuta grigia dal meccanico, con un berretto e una sciarpa di lana verde- bruno, riuscito a penetrare nel palazzo spacciandosi per l’addetto al controllo dei termosifoni. In verità, la paura della Menegazzi non è altro che simulata: ella, vedova, non aspettava altro che subire un’aggressione, eventualmente preceduto da «sevizie», «idea o parola che la riempiva in un orgasmo indicibile». La contessa, inoltre, spiega di come il ladro non avesse alcuna borsa, e che fosse stato pizzicato da lei mentre stava nascondendo nelle tasche i soldi e i gioielli trovati nella sua camera da letto; in seguito a ciò, egli l’aveva minacciata con una voluminosa pistola ed era fuggito. In seguito alla spiegazione della contessa, fanno la loro entrata in scena i coniugi Bottafavi: il marito, in particolare, si presenta con un enorme revolver scarico, che esibisce al commissario; in seguito, rievoca con grande precisione la fuga del ladro per le scale del palazzo, con annesso inseguimento da parte sua e tentativo di sparo con l’arma, tentativo però impedito dalla sicura. La fuga del ladro viene paragonata, dalla Pettacchioni, a quella di un topo, per via del colore della tuta, e sarà un tema ricorrente per tutto il romanzo. Licenziati i curiosi, fa la sua comparsa Liliana: ella afferma di aver sentito i colpi di pistola e di non aver aperto alla porta poiché era al bagno; non avrebbe comunque aperto, poiché seppe di due delitti avvenuti qualche giorno prima in via Valadier e in via Montebello. In seguito, Ingravallo chiede alla Menegazzi se il ladro abbia lasciato qualche traccia; si reca dunque nell’appartamento della donna assieme con Gaudenzio e Pompeo e trova, in camera da letto, un biglietto azzurro del tram, logoro e bucato, che riportava come fermata quella del Torraccio. Alla In seguito, Ingravallo medita sull’omicidio: una ferita simile potrebbe venire inflitta soltanto da un coltellaccio da macellaio, ipotesi rinforzata dalle gocce di sangue sul pavimento, che sembravano colate da una lama. La mano, come già si è notato, è la sinistra, a giudicare dalla direzione del taglio. Le mani di Liliana erano ancora limpide, senza alcuna ferita: Ingravallo pensa dunque che Liliana si sia conceduta al carnefice, anche perché, in un certo senso, era già morta prima del suo omicidio, a causa della sua malinconia della mancata prole. L’unico indizio dell’omicidio sono le varie pozze di sangue, di grandezza differente, tra il corridoio e la cucina. Dell’arma del delitto neanche l’ombra. La morte, agli occhi di Ingravallo, si manifesta come una “decombinazione estrema dei possibili”, che si riallaccia alla teoria delle concause. Sfinito, Ingravallo abbandona la cucina e si reca nell’anticamera. Qui, quasi meccanicamente, estrae dalla tasca destra della giacca il biglietto rinvenuto in casa della Menegazzi. Improvvisamente, gli viene un’intuizione: i due “fattacci” sono da connettere? Eppure la sua ragione lo porta a esaminare i due crimini come totalmente slegati fra di loro. Oltretutto, poiché sembrava che l’assassino non avesse rubato nulla, è probabile che questo sia stato un delitto passionale. Ultima considerazione riguarda anche la fama che aveva “il palazzo degli ori”, il cui “oro del diavolo” dei “pescicani pesci” poteva essere stato a sua volta il movente del delitto. Capitolo 3 Personaggi introdotti: Personaggi nominati: zia Marietta, Amalia Buzzichelli Data della vicenda: venerdì 18 marzo 1927 Protagonista delle indagini: Ciccio Ingravallo Eventi chiave: Seconda digressione sul fascismo (censura dell’omicidio di Liliana sui giornali), terza digressione sul fascismo (arresto di Angeloni) Il capitolo si apre con la seconda digressione sul fascismo del romanzo, ovvero la censura dell’omicidio di Liliana da parte dei giornali; era solito, infatti, che in epoca fascista si censurassero gli eventi di cronaca nera, per dare al popolo italiano l’illusione che la giustizia funzionasse. Tale censura consisteva nel mettere in secondo piano il caso di cronaca nera, destinandogli poche righe (nel caso dell’omicidio di Liliana, dieci righe). Questo fa inoltre parte del piano fascista di “moralizzazione dell’Urbe e de tutt’Italia insieme”. Vi è in seguito un rimando a Cola di Rienzo, che in età comunale aveva tentato di creare una repubblica popolare ma in seguito finì impiccato: tale affermazione anticipa quello che sarà poi il destino di Mussolini. Viene poi in mente a Ingravallo un discorso tenuto assieme a Romolo Balducci, nella «cantina di Albano»: questo, che aveva fama di dongiovanni, spiegò all’ispettore come le donne non badino a spese per conquistare l’oggetto del proprio desiderio. E proprio questo comportamento comune aveva fatto la fortuna di Giuliano, che soleva sedurre ragazze danarose per poter ricevere favori di natura finanziaria. La stessa donna che il giovane avrebbe sposato, Renata Lantini, era di buona famiglia. Romolo spiega inoltre che Liliana e Giuliano crebbero insieme sotto le cure di zia Marietta, poiché entrambi orfani. La genealogia della famiglia Valdarena gli era stata poi fornita da Pompeo, esperto in questo campo. Conosciuta la perenne mancanza di quattrini propria di Giuliano, Ingravallo sospetta che tra lui e la cugina ci fosse stata una qualche relazione: la stessa Liliana, infatti, era figlia di un potente “pescecane”, e quindi poteva vantare di una grande ricchezza. Inoltre, Ingravallo da un lato crede che Giuliano sia colpevole per via della macchia di sangue sul polsino della sua camicia; dall’altro, crede sia innocente poiché egli è stato colui il quale ha avvertito la polizia. Nonostante non gli avessero trovato indosso nulla di sospetto, e nonostante la sua partenza fosse stata confermata dalla signora Amalia Buzzichelli, dopo averlo fermato, Ingravallo riflette riguardo al relativamente lungo intervallo di tempo che ha separato l’omicidio di Liliana con l’arrivo dei carabinieri, durante il quale Giuliano avrebbe potuto nascondere la refurtiva e tornare sul luogo del delitto, nonostante fosse un’idea molto azzardata. Viene inoltre marcata e rimproverata l’adempienza della portinaia, poiché non era la prima volta che lasciava l’entrata incustodita per dedicarsi alle sue faccende. Vi è in seguito la terza digressione sul fascismo: infatti, poiché dopo 86 ore non era stato trovato il colpevole, le indagini assunsero un ritmo più serrato; dopo 92 ore, infatti, il commendator Angeloni viene arrestato come capro espiatorio. Era solito infatti, in epoca fascista, che venissero arrestati ingiustamente dei capri espiatori al fine di mostrare al popolo che la giustizia funzionava. Così come la seconda digressione, anche questa ha lo scopo di moralizzare la nazione. Stando alle affermazioni degli inquilini, Liliana non aveva ricevuto nessuno durante le sue ultime due ore di vita. Gli stessi inquilini non avevano udito alcun rumore sospetto. Ingravallo decide dunque di recarsi personalmente alla Standard Oil per verificare la veridicità del trasferimento di Giuliano. Qui, egli assiste a un prolisso discorso da parte del capo dell’azienda, che paragona i clienti alle donne; riguardo ciò, egli tesse le lodi di Giuliano, poiché capace di conquistare sia gli uni che le altre. Conclusa la conversazione, Ingravallo, estenuato abbandona l’azienda per recarsi in centrale. Capitolo 4 Personaggi introdotti: zia Marietta, zia Elviruccia, Orestino, brigadiere Di Pietrantonio, don Lorenzo Corpi Personaggi nominati: zio Peppe Data della vicenda: sabato 19 marzo 1927 Protagonista delle indagini: Ciccio Ingravallo Eventi chiave: Arrivo di Romolo Balducci, accusa di Giuliano da parte di Maddalena Felicetti, scoperta del testamento di Liliana, discussione tra Liliana e Giuliano pre-matrimonio Dopo ventidue ore dal ritrovamento del corpo, finalmente Romolo Balducci ritornò a Roma dal viaggio di lavoro. Alla sua uscita dal treno venne ricevuto dai carabinieri, comandati dal brigadiere Di Pietrantonio, che gli diedero la brutta notizia. Nonostante ciò, forse a causa della stanchezza dovuta al lungo viaggio in treno, il vedovo Balducci non sembrò poi tanto turbato. Al suo seguito, arrivarono anche zia Marietta, nonna di Giuliano, zia Elviruccia e suo figlio Oreste. Nel frattempo, la salma era stata rimossa e trasportata al Policlinico per eseguire l’autopsia. Nel frattempo, il profondo taglio era stato fasciato con bende bianche, e la sua vista provocava un profondo rispetto da parte dei curiosi. Il primo pensiero di Romolo fu quello di recarsi a casa propria; appena giunto, cominciò a frugare con impazienza tutti i cassetti, per controllare se l’assassino avesse rubato qualcosa. A tale sopralluogo assistettero in silenzio le zie di Liliana e il brigadiere Di Pietrantonio. Nel frattempo, furono anche chiamati il perito d’armi Bottafavi e un fabbro molto abile, al fine di assistere Romolo nella sua ricerca. Il Balducci notò infine che a mancare all’appello era proprio un cofano di ferro che Liliana teneva nel secondo cassetto del comò, assieme con il suo contenuto e la relativa chiave, conservata in una borsetta. Inoltre, erano anche stati rubati dei libretti di risparmio, sempre appartenenti a Liliana. Questi furti sembrarono turbare Romolo più della notizia della morte della moglie. Nel frattempo, le zie di Liliana, paragonate alle Furie, già urtate dal fermo di Giuliano, iniziarono a curare rancore verso la presunta ingratitudine della nipote, che era morta senza lasciare loro niente. Tale avvenimento era finito per rovinare i rapporti parentali; la famiglia avanza pretese della sua eredità. Esse spostano poi il proprio rancore verso Romolo, che a causa della sua nomea di cacciatore introque, trascurava continuamente la moglie, confermando le intuizioni di Ingravallo dell’incompatibilità gamica tra i due coniugi. Nel frattempo, Giuliano era stato di nuovo interrogato circa come avesse trascorso il tempo durante le ultime due ore di vita di Liliana, per verificare se avesse un alibi plausibile. In seguito, gli venne messa davanti la bambina Maddalena Felicetti, che a sua volta venne interrogata da Ingravallo per sapere se quel giorno avesse visto Giuliano entrare nel palazzo. Tale fu la pressione di Ingravallo che la bambina, nonostante non fosse vero, disse di averlo visto, per poi scoppiare in un pianto ed essere portata via. Tale avvenimento viene paragonato, da parte di Gadda, al caso Gino Girolimoni: anche questi venne, ingiustamente, accusato da una bambina di tredici anni di essere il Mostro di Roma e di aver commesso, tra il 1924 e il 1927, 7 violenze e 5 omicidi di bambine, rimasti irrisolti. Anche Girolimoni, così come il commendator Angeloni e in seguito Giuliano Valdarena, verrà arrestato come “capro espiatorio” al fine di soddisfare “la moltitudine pazza”. Dopo Giuliano, a essere interrogato fu Romolo, e al cui interrogatorio partecipò il dottor Fumi: questi narrò dei problemi di coppia che aveva con la moglie, e di come questa desiderasse tanto ardentemente una prole. Il desiderio era tale che la portava, periodicamente, ad “adottare” nuove ragazze, assumendole come cameriere. In seguito, egli iniziò a parlare del suocero, evidenziando la sua ricchezza dovuta all’attività di pescecane. Infine, si viene a sapere concretamente dell’attività di Romolo come cacciatore introque, poiché soleva, durante i suoi “viaggi di lavoro”, concedersi un qualche “capriccetto extra”, in riferimento alla sua infedeltà. Venne poi annunciata, in questura, la visita di don Corpi, che venne ricevuto da solo dai carabinieri. Accomodatosi, tirò fuori da una tasca della veste una busta: alla sua apertura, Ingravallo e Fumi notarono con enorme sorpresa che si trattava del testamento di Liliana. Chiamati dunque quattro testimoni, assieme a Romolo Balducci, Fumi prese a leggerlo: al marito, ella lasciò una piccola parte dei gioielli e degli ori; a Luigia Zanchetti detta Gina, Liliana aveva lasciato una cospicua parte dei gioielli de degli ori, considerata come “la figlia che non ebbe mai avuto”; al cugino Giuliano, ella lasciò l’anello col brillante e la catena d’oro da orologio con ciondolo di pietra dura appartenute al nonno, una tabacchiera di tartaruga legata in oro e infine delle perle di onice e di lapislazzuli; ad Assunta, la ragazza “adottata” prima di Gina, vennero lasciati sei lenzuoli da letto matrimoniale, diciotto federe e dodici asciugamani; infine, a don Corpi venne lasciato un borsino da ventimila lire. L’apertura del testamento in data 19 marzo non è casuale: esso è infatti il giorno di san Giuseppe, padre adottivo per eccellenza; il fatto poi che il testamento recasse la data del 12 gennaio lascia intuire che sia stato scritto verso l’Epifania, una festa notoriamente rivolta ai bambini. Si pose comunque il problema del motivo per cui Liliana, a 31 anni, avesse deciso di redigere testamento; esso riportava la data del 12 gennaio, due mesi prima del suo omicidio. Ella poi lo aveva portato, a febbraio, a don Corpi, il suo parroco, pregandolo di nasconderlo e dimenticarlo. Si cominciò a pensare che Liliana avesse premeditato il suicidio, o che d’altronde si aspettasse che in un tempo molto prossimo sarebbe morta. D’altronde, la malinconia che l’affliggeva per il “mancato scodellamento” l’aveva attanagliata al punto di averla già uccisa moralmente. In seguito poi alla perquisizione del villino di Giuliano Valdarena, si trovò, in un cassetto, un anello d’uomo con brillante con incise le lettere “G.V.” e una catena d’oro da orologio, nella cui cornice era Capitolo 6 Personaggi introdotti: brigadiere Pestalozzi, Ines Cionini, Zamira Pacori, maresciallo Fabrizio Santarella Personaggi nominati: Data della vicenda: martedì 22 marzo 1927 Protagonista delle indagini: Ciccio Ingravallo (interr. Ines), Pestalozzi (soprall. lab. Zamira) Eventi chiave: primo interrogatorio di Ines, descrizione di Zamira, prima ekphrasis, ritratto di Santarella Il capitolo si apre con una telefonata, pervenuta al maresciallo Di Pietrantonio alla questura di Marino, circa il ritrovamento della sciarpa sospetta. Tuttavia, tale telefonata è disturbata da altre due: una riguardante la consegna di un carico di parmigiano Baradelli, e un’altra riguardante il tenente Racace e l’ammiraglio Montecuccioli. Si viene comunque a sapere che Enea Retalli, il principale sospetto del furto, si era recato alla bettola di Zamira Pacori per farsi ridipingere la sciarpa, in modo da infangare le prove. A notte inoltrata, giunse alla questura di Santo Stefano del Cacco il brigadiere Pestalozzi. Questo viene accolto da Fumi, poiché era colui il quale si stava occupando in prima persona della cattura del Retalli. Pestalozzi, venuto a sapere che il suo bersaglio aveva portato la sciarpa a Zamira, decise di recarsi al suo laboratorio per fare un sopralluogo. Giunto sul luogo, notò, sotto una pila di stracci, la tanto agognata sciarpa in fase di tintura. Nel frattempo, viene condotta a Santo Stefano del Cacco Ines Cionini, la ragazza fermata per meretricio la settimana precedente. Questa era inoltre accusata di aver rubato, assieme a un altro ragazzo, un pollo e un paio di scarpe. Lo stesso pollo spennato e le scarpe incriminate erano stati portati nella sala della questura e messe su un tavolo; per quanto riguarda il primo, però, esso emanava un odore disgustoso e lasciava quasi intendere che l’animale, seppur morto, avesse fatto i propri bisogni. Comunque, tali accuse caddero poiché la pollarola, in un secondo momento, non riconobbe Ines come la ladra. Nonostante ciò, Ines venne interrogata comunque. Ella, che aveva lavorato per conto di Zamira, rivelò che all’attività di sartoria era affiancata anche quella di bettola e di bordello; tale bordello era, inoltre, particolarmente frequentato dai carabinieri di Santo Stefano, rivelazione che piacque molto alla polizia. In seguito, viene fornito un ritratto di Ines: ella, sebbene fosse oggettivamente molto bella, presentava un’igiene molto scarsa, affiancata anche da un modo di vestirsi alquanto provocante, poiché era stata condotta in questura mentre era in procinto di prostituirsi. Si viene inoltre a sapere che la ragazza, nella sua attività di meretrice, era “protetta” dal suo fidanzato. Nel frattempo, viene fornito a sua volta un ritratto di Zamira: ella era una donna invecchiata male, sdentata, con una bocca viscida che a volte si apriva in un orribile sorriso sguaiato. Viene dunque evidenziato il contrasto fra la giovinezza di Ines e la vecchiaia di Zamira, che può essere sviluppato a sua volta come un contrasto fra la bellezza e la bruttezza. Si viene inoltre a sapere che la donna svolgeva un gran numero di attività principali: sarta, indovina, cartomante, chiromante (e, di conseguenza, ciarlatana) e venditrice di liquori. A queste si affiancano poi le attività laterali: ella levava i pidocchi ai bambini, eliminava gli incantesimi e il malocchio, praticava l’aborto, iniziava i ragazzi all’attività di protettore. Riguardo Zamira vengono poi presentati i punti di vista di due categorie differenti di persone: il primo è quello dei catecumeni, che nonostante fossero iniziati alle attività illecite da Zamira, la disprezzavano; l’altro riguarda i militi che solevano frequentare il bordello. Si viene inoltre a sapere che Zamira a sua volta esercitò la professione di prostituta e, nel 1911, circa l’entrata in guerra dell’Italia contro la Libia, ella era diventata l’amante di diversi comandanti; solo in seguito iniziò a gestire il bordello. Da tale descrizione di Zamira è possibile ricordare un altro personaggio presentato in precedenza: la contessa Menegazzi. Entrambe sono infatti donne avanti con gli anni, simili per aspetto e stato civile (sebbene Zamira fosse, parodicamente, la vedova dei suoi ex-amanti); la differenza sta nel fatto che, se la Menegazzi sembrava la proprietaria di una casa di appuntamenti, Zamira lo era di fatto. Riguardante poi la bettola di Zamira, viene evidenziato il seminterrato, ove si svolgevano le attività proprie di una casa di appuntamenti. Qui era presente un’oleografia, descritta secondo la tecnica dell’ekphrasis, ovvero la descrizione dettagliata di un’opera d’arte che privilegia il particolare e lo isola rispetto all’insieme. Tale oleografia, composta dal pittore greco Zeusi, raffigura un gruppo di ragazze nude che sembrerebbero sottoporsi a una visita medica; tale opera presenta però un doppio senso osceno, suggerito dai pennelli in mano al medico, strumenti insoliti per chi esercita tale professione. Il seminterrato, inoltre, viene paragonato all’antro della sibilla, presentata già da Virgilio nell’Eneide. Il bordello di Zamira, comunque, viene presentato come il posto in cui si intersecano numerose vicende, e diventa un luogo chiave paragonabile al Palazzo degli ori. Viene poi presentato un ulteriore personaggio chiave del romanzo: il maresciallo Fabrizio Santarella, denominato “il centauro dei Due Santi”, titolo condiviso con il brigadiere Pestalozzi. Tale titolo è dovuto al fatto che entrambi si muovano in motocicletta, paragonata alla cavalla propria del romanzo epico- cavalleresco. Di Santarella, il cui nome cozza con le sue abitudini adultere, ci viene fornito il ritratto: egli si presenta come un uomo particolarmente attraente, con un volto pieno e abbronzato e una pelle a sua volta “adusta”. Egli abita con nove donne: la moglie, la sorella, la cognata, la suocera, le tre figlie e due inquiline gemelle. Nonostante ciò, ci viene detto che la sua non sia l’unica voce da uomo che si sente in casa: questo è un riferimento alla voce di Mussolini, che usciva da una radio, ottenuta dal maresciallo a Milano mentre era alla ricerca di due criminali entrambi chiamati “Salvatore”. Oltretutto, ci viene spiegato come Santarella fosse anche un amante della musica lirica, che egli soleva ascoltare dal grammofono. Veniamo inoltre a sapere di come Santarella fosse uno dei più assidui frequentatori del bordello di Zamira. Tale è inoltre la sua fama, che, secondo Gadda, non era insolito che i criminali si costituissero a lui di loro spontanea volontà. Santarella viene inoltre descritto come un «entusiasta» del Touring, disciplina fondata da Luigi Bertarelli. Il maresciallo, paradossalmente, ci viene inoltre descritto come incurante della segnaletica stradale, e un promotore della guida spericolata. Il fatto che egli sia un centauro, infine, parodia il motto fascista «Avanti, avanti via!», con cui si chiude il capitolo: infatti, la motocicletta presenta marce che le permettono di muoversi solo in avanti. Capitolo 7 Personaggi introdotti: Personaggi nominati: Diomede Lanciani, Camilla Mattonari, Ascanio Lanciani Data della vicenda: martedì 22 marzo 1927 Protagonista delle indagini: Ciccio Ingravallo Eventi chiave: secondo interrogatorio di Ines (descrizione di Virginia, di Diomede, rapporto tra Diomede e Zamira, presentazione di Ascanio), descrizione della refurtiva e i relativi errori di battitura L’interrogatorio di Ines viene interrotto, ed ella viene costretta a passare la notte in caserma. Nel frattempo, i riflettori si spostano su un pitale, un vaso da notte adibito al contenimento di escrementi, che fornisce al lettore un indizio circa il luogo in cui saranno nascosti i gioielli. L’indomani, Ines viene interrogata nuovamente. Fumi le chiese informazioni circa “l’amica” di cui le aveva parlato Camilla Mattonari, una compagna di Ines nel laboratorio di Zamira. Tale amica è Virginia: Ines afferma che ella fu di servizio a Roma, salvo poi abbandonare il lavoro per sposare un industriale di commercio; e a questo proposito, le vennero regalate delle perle che fungessero da dote. In seguito, Ines descrive Virginia come la versione femminile del diavolo, soffermandosi sui suoi occhi, paragonati a «du stelle nere de l’inferno». Inoltre, Ines afferma di aver incontrato Virginia alla Pavona. Tale testimonianza fa sì che Ingravallo rimetta in correlazione i due fattacci. Il dottor Fumi interroga poi Ines circa il suo fidanzato. Il ragazzo in questione è Diomede Lanciani, che non ha un domicilio fisso, bensì ha l’abitudine di vagabondare per i quartieri alti e di darsi all’attività di cacciatore introque, in maniera simile a Romolo Balducci. Egli è infatti alla perenne ricerca sia di una sistemazione, che di nuove avventure. Per questo motivo, egli suole sfruttare il proprio fascino per sedurre donne danarose al fine di ottenere favori in termini monetari, in maniera simile a Giuliano; allo stesso modo, sentendo ciò, Ingravallo si ingelosisce. È presente, in questa parte dell’interrogatorio, un topos comune della letteratura poliziesca: la presenza di un poliziotto buono e uno cattivo. Per il modo inquisitorio con cui incalza Ines, ad avere la funzione di poliziotto cattivo è proprio Ingravallo, sebbene in precedenza avesse fatto uso del silenzio per dissentire. Si viene dunque a sapere che di professione Diomede fa l’elettricista, ricollegandosi così all’evento del furto ai danni della Menegazzi, per la quale, oltretutto, lo stesso Diomede lavorò. Viene inoltre fornita una descrizione del giovane che mette in evidenza il suo fascino e, in particolare, la sua capigliatura bionda, che lo ricollega al personaggio di Giuliano Valdarena. Queste sue qualità lo presentano come un «campione della razza», poiché presentava le caratteristiche tipiche dell’arianesimo. A questo punto, giunge in sala il milite Paolillo con al seguito la borsetta di Ines: al suo interno, i carabinieri trovano una fotografia di Diomede. Ines, contrariata, spiega che il giovane stesso le diede quella foto, salvo poi rivolerla indietro; al rifiuto di Ines di restituirla, Diomede l’aveva picchiata. Per questo Ines, nella sua testimonianza, si mostra combattuta: da un lato, ella vorrebbe cantare per vendicarsi di Diomede; dall’altro, ella vorrebbe evitare di farlo cadere nelle mani dei carabinieri perché lo ama ancora. Pompeo, esaminando la foto, arriva alla conclusione di averlo già visto. Per questo egli prende la foto e la conserva nel suo portafoglio in finta pelle di coccodrillo. Alla vista di ciò Ines, allibita e sentendosi umiliata, anche per via dei vestiti che aveva indosso, si mette a piangere a causa della violenza psicologica commessa dagli inquirenti. Ella inoltre immagina di essere chiamata per tre volte da Dio ma, poiché ella ormai si considera persa, si rifiuta di rivolgere una preghiera per mantenere la sua integrità. I militi vengono poi a sapere da Ines che la preda attuale di Diomede è un’americana che risiede al Bergèss, sbarcata, come tutti gli stranieri, al porto di Beverello. Tali parole fanno perdere la mitezza a Fumi; egli infatti fa una riflessione circa i veri motivi che portavano le donne straniere a visitare l’Italia: non per ammirare le bellezze geografiche o artistiche, bensì per saziare il proprio appetito sessuale con qualche giovane avvenente del luogo. Oltretutto, era consuetudine per gli americani svolgere viaggi di piacere in Italia durante il corso degli anni Venti. abbassamento di stile, che funge da parodia della poesia epica. In particolare, vengono descritti i piedi destri, che si prolungano in dita simili a tentacoli che sembra “buchino” la superficie del dipinto. La descrizione passa agli alluci, messi in evidenza dalla striscia di cuoio della calzatura. Sembra che essi si sgancino dal resto del dipinto per entrare nel mondo reale. Vi è poi un ingrandimento eccessivo di un dettaglio minimo come l’alluce, che qui viene elevato dall’autore alla stessa importanza del volto. Tale intendo parodico è dato poi dall’associazione tra «la luce, e gli alluci», laddove l’alto (la luce) viene messo in correlazione con il basso (gli alluci). La luce può anche essere definita come “la luce della verità” che i due militi avrebbero trovato una volta giunti a destinazione. L’impeto con cui Manieroni dà vita agli alluci è paragonato a quello di Zeusi, l’autore del dipinto presentato alla bettola di Zamira. L’autore ci spiega che il pittore, preso dalla frustrazione di non riuscire a dipingere bene la schiuma del cavallo, lanciò contro il dipinto una spugna che produsse il tanto agognato risultato. I soggetti delle due ekphrasis sono contrastanti, poiché vengono messi in relazione da una parte il mondo classico di Zeusi (Elena), dall’altro la tematica cristiana presentata da Manieroni (i due santi sulla via per il martirio). Questa non è altro che l’ennesima contaminazione tra sacro e profano. Il motivo per cui Gadda si sofferma per gran parte della descrizione sugli alluci non è casuale: essi sono infatti considerati come il “marchio di fabbrica” di Manieroni. Tale scelta si rifà alla consuetudine secondo la quale la tecnica attributiva della paternità dei quadri avveniva prendendo in considerazione i particolari propri di ogni artista: gli stessi particolari che non possono essere riprodotti dai falsari. Lo sguardo di Cocullo si rivolge anche verso i cartigli. Il milite cerca infatti di leggere il testo latino proveniente dalla seconda epistola di san Pietro, la cui decifrazione è errata a causa della sua ignoranza. Era infatti comune che molti carabinieri avessero a malapena il diploma elementare. Il cartiglio riporta: “Crèscite vero in gratia et in cognitione Domini” -> Crescete nella grazia e nella conoscenza del Signore. Quello del cartiglio si ricollega al tema della fertilità. Pestalozzi e Cocullo giungono finalmente a destinazione. Qui vengono accolti da Zamira, alla quale il brigadiere dice di stare cercando una tale Clelia Farcioni (l’informatrice di Pestalozzi) e Camilla Mattonari. La vecchia risponde loro che esse sono assenti dal lavoro da ormai due settimane a causa di indisposizioni fisiche. Pestalozzi capisce che Zamira stia mentendo. Segue una reminiscenza letteraria: Zamira cita Giovanni Pascoli e il suo discorso «che cià fatto tanto piagne», ovvero La grande proletaria si è mossa, circa l’entrata in guerra dell’Italia contro la Libia nel 1911. All’improvviso, appare dai sotterranei della bettola una gallina, a metà spennata e senza un’occhio, protagonista della terza e ultima digressione del capitolo. Essa si presenta come un emissario diabolico dei sotterranei. Lo spago legato alla zampa della gallina è inoltre un rimando alla sciarpa di Enea Retalli. Essa spicca un volo e depone un escremento ai piedi di Pestalozzi, richiamando alla memoria il pollo presentato nel capitolo 6. Dopo aver deposto un altro escremento, viene scacciata da Zamira e al suo posto entra in scena Lavinia Mattonari, cugina di Camilla. La ragazza porta al dito un anello con inciso un topazio, che sarà poi uno dei gioielli rubati. Lavinia Mattonari è un nome che si rifà nuovamente all’Eneide, condividendo il nome con quello della figlia del re Latino. Ella afferma di aver ricevuto in prestito l’anello da sua cugina, Camilla Mattonari, in occasione del suo diciannovesimo compleanno. Pestalozzi dunque sospetta che Camilla abbia il resto della refurtiva e ordina quindi a Lavinia di condurlo da lei. Nel frattempo, Zamira viene paragonata a uno stregone africano che effettua un rito per una divinità bestiale, affinché tolga dai piedi i missionari da lui giunti, metafora utilizzata per indicare i carabinieri. Tale ritratto risponde allo stereotipo del prete-stregone. Pestalozzi, Lavinia e Cocullo si recano a casa di Camilla. Ella abita con la nonna e con uno zio in una casa cantoniera ferroviaria, destinata agli addetti al controllo di alcune linee ferroviarie. Lo zio è, infatti, casellante. Tornano quindi alcuni elementi del sogno, tra cui la località di Casalbruciato, dove è ubicata la casa, e il treno, che appare all’inizio del capitolo 9. Capitolo 9 Personaggi introdotti: Camilla Mattonari Personaggi nominati: Data della vicenda: mercoledì 23 marzo 1927 Protagonista delle indagini: Pestalozzi Eventi chiave: scoperta della refurtiva Pestalozzi e Cocullo, con al seguito Lavinia, si recano verso la dimora di Camilla. Poiché però sarebbe sconveniente giungere a piedi, sia per il tempo, sia perché le scarpe della ragazza non sembrano adatte a camminare per tanto tempo, essi decidono di utilizzare un altro mezzo: Cocullo e Lavinia affittano dunque un calesse, mentre Pestalozzi li segue in bicicletta, lasciando a Zamira il fastidio di custodire la sua motocicletta. Gadda insiste ancora una volta sul tema escrementizio poiché, una volta giunti a casa di Camilla, la nonna della ragazza se la fa addosso per sia per l’arrivo dei carabinieri, sia per il rumore provocato dal passaggio del treno. Quest’ultimo fa spaventare anche le galline, sebbene tale paura sia simulata. L’unico elemento vero della simulazione delle galline è dato dagli escrementi che lasciano sulle rotaie. Tale simulazione è affine a quella presentata in precedenza nel caso della Menegazzi e in quella delle ninfe nel sogno di Pestalozzi. Viene in seguito presentato un ritratto di Camilla: ella ha una corporatura un po’ grassa ed è notevolmente meno bella di Lavinia, e ciò rappresenta per lei motivo di invidia. Le due, inoltre, si contendono Enea Retalli come potenziale fidanzato. Oltretutto, anche a casa di Camilla è presente un’oleografia: questa rappresenta la Madonna del Divino Amore mentre appare a un viandante perduto nella campagna romana e lo salva dai cani. Pestalozzi interroga Camilla sull’anello e lei afferma di non averlo mai avuto. Poiché però Camilla si riferisce all’anello utilizzando il pronome dimostrativo «questo», Pestalozzi diventa sospettoso e le ordina di mostrarle gli altri. Il primo posto che attira l’attenzione, come potenziale luogo di nascondiglio della refurtiva, è lo stipo, un mobile utilizzato per riporvi la biancheria o, in alcuni casi, anche degli alimenti. Camilla tira fuori, da sotto il letto, una cassetta di legno per depistare le indagini; Pestalozzi, però, si mostra più interessato nei confronti dello stipo, poiché esso presenta un dettaglio particolare: è dotato di lucchetto, cosa molto inusuale per un mobile simile. Dopo aver scavato tra gli indumenti presenti nello stipo, Pestalozzi si imbatte in un pitale agghindato da calzini e ricolmo di noci. Al suo interno ci saranno poi i gioielli, e tale posto fu già anticipato dal pitale presentato durante l’interrogatorio della Ines. Camilla finge di aiutare la legge togliendo dallo stipo il pitale con le noci, ma Pestalozzi da l’ordine a Cocullo di farlo lui al posto della ragazza. Cocullo, nel piegarsi, emette un fragoroso peto. Ritorna dunque il tema escrementizio. Il brigadiere, trovatosi a tu per tu con l’oggetto, palpa la tela trovata sotto le noci e capisce il contenuto del pitale. Pestalozzi svuota il sacco e trova finalmente i gioielli. Il “groviglio”, lo “gnommero” trovato a inizio del romanzo, cioè uno dei due casi, è stato risolto. I gioielli sono considerati da un punto di vista delle concause, cioè di sistemi di relazione entro cui le parti della realtà (dati, persone, ecc.) sono inserite. Queste pietre derivano da processi chimici che hanno trasformato le rocce in gioielli. La prima descrizione riguarda tale trasformazione (groviglio = attenzione alle origini). Questo passo, in particolare, rappresenta il momento sorgivo della storia delle gemme e del processo subito per trasformarsi da rocce a gioielli. Tale storia è comprensiva di quella dei loro proprietari nel corso del tempo. Ad esempio: si considera che lo stesso Nerone abbia posseduto un anello simile. I vari gioielli vengono poi accostati a elementi del mondo campagnolo: l’anello è paragonato a un melograno beccato da un pollo, così come le spille sono assimilate a ciliegie. Camilla e Lavinia litigano per Enea: la prima punta sui soldi, mentre la seconda sulla bellezza. Tale litigio spaventa il cocchiere del calesse, che definisce le donne «un mistero». Lavinia capisce che Enea è il ladro e teme che sia stato lui l’assassino di Liliana. Pestalozzi fa le sue considerazioni sul furto di Enea: il giovane, in fuga, lasciò i gioielli da Camilla in cambio di soldi che gli avrebbero permesso la fuga. Ma tale spiegazione solleva un dubbio: perché Camilla avrebbe dato dei soldi a Enea se ella è povera? Il capitolo si chiude con un riferimento a Montale: se nella sua poetica la rete che si smaglia è positivo, qui depista le indagini, poiché solleva il dubbio che Camilla non abbia aiutato Enea. Ciò si rifà al pessimismo gnoseologico di Gadda, secondo cui la verità non può essere conosciuta fino in fondo. Capitolo 10 Personaggi introdotti: Ascanio Lanciani, Veronica Migliarini Personaggi nominati: Data della vicenda: mercoledì 23 marzo 1927 Protagonista delle indagini: Ciccio Ingravallo, Fabrizio Santarella Eventi chiave: ricerca di Retalli da parte di Santarella, ricerca di Ascanio da parte di Gaudenzio, interrogatorio di Assunta da parte di Ingravallo Contemporaneamente alle indagini di Pestalozzi, Ingravallo raggiunge la “nipote” Assunta per interrogarla. Intanto, Santarella cerca Enea Retalli mentre Gaudenzio cerca Ascanio Lanciani presso Piazza Vittorio, dove, secondo la testimonianza di Ines, egli vende la porchetta con la nonna. I capelli di Ascanio, ricci, sono paragonati alle foglie di insalata, e tale paragone è adatto nel contesto del mercato. Nel vendere la porchetta, Ascanio accenna al principe Colonna, vincitore della battaglia “levati da li piedi”, deformazione di “Lepanto”. La capacità oratoria di Ascanio può ricordare Mussolini, altro venditore di fumo, e fa il paio con la capacità seduttiva di Giuliano Valdarena alla Standard Oil. L’allontanamento di Ascanio dal mercato è una parodia dell’addio ai monti presentato da Manzoni ne I promessi sposi. Le massaie sono invece paragonate a polpi “magnoni”, neologismo che proviene dal romanesco “magnaccia”. Assunta Crocchiapani abita alla “Pavona” o “Tor di Gheppio”, anche se pare che il secondo nome non esista. Ingravallo vi si reca in auto, in contrasto con il tram che egli fu costretto a prendere nel capitolo 2. Egli riuscì a procurarsi l’auto tramite un giro di telefonate, sebbene il veicolo fornitogli è un catorcio: ciò denuncia il degrado proprio del Fascismo che colpiva gli oggetti, contrariamente a quanto avveniva prima. Il cambio di mezzo rappresenta anche una svolta, un’accelerazione delle indagini. Spostandosi, Ingravallo attraversa anche via Merulana, e l’auto viene paragonata alla barcaccia di Piazza di Spagna. Durante il tragitto, Ingravallo avvista anche Santa Maria Maggiore, che sembrava seguire una bara appena uscita, l’auto stessa; oltretutto, tale elemento rappresenta l’ennesimo riferimento a Liliana. Il motivo della bara è da ricercare nell’animo cupo e pesante dell’ispettore. Vi è dunque un collegamento fra la vita e la morte. Il groviglio dei rami che nasconde la chiesa ricorda inoltre il groviglio delle indagini e dei nodi del sacchetto.
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