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Riassunto sul decadentismo e d'Annunzio dal libro i classici nostri contemporanei, Dispense di Italiano

Riassunto sul decadentismo e sulla vita, il pensiero e le opere di d'Annunzio

Cosa imparerai

  • Che visione della realtà rifiuta Gabriele D'Annunzio?
  • Come influenza D'Annunzio sulla cultura di massa?
  • Come evolve la forma poetica di D'Annunzio nella crisi dell'estetismo?
  • Che figure tipiche della letteratura decadente presenta D'Annunzio?
  • Come definisce D'Annunzio l'arte e la vita?

Tipologia: Dispense

2020/2021

Caricato il 09/11/2022

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Scarica Riassunto sul decadentismo e d'Annunzio dal libro i classici nostri contemporanei e più Dispense in PDF di Italiano solo su Docsity! Decadentism A maggio del 1883 sul periodico parigino “Le Chat Noir”, Pau Verlain pubblicava un sonetto dal titolo Langueur (“Languore”), in cui affermava di identificarsi con l’atmosfera di stanchezza e ormai incapace di forti passioni. Nel 1883 Verlaine presentò le personalità più significative del gruppo sulla rivista “Lutèce”, in una serie intitolata Poètes maudits (“Poeti maledetti”). Il termine “decadentismo” indicava un determinato movimento letterario, sorto in un dato ambiente e ispirato da un preciso programma culturale. Il decadentismo è una fase di decadenza, di stanchezza. Tutto parte dalla crisi delle certezze, che adesso vengono a mancare; per i decadenti la realtà non è ciò che appare, ma quello che si cela dietro di essa. Viene radicalmente rifiutata la visione positivistica: ● la realtà è un complesso di fenomeni materiali, regolati da leggi ferree, meccaniche e deterministiche; ● la scienza, una volta individuate tali leggi, è in grado di garantire una conoscenza oggettiva e totale della realtà e, attraverso di essa, il dominio dell’uomo sul mondo. Il decadente ritiene al contrario che la ragione e la scienza non possano dare la vera conoscenza del reale, perché l’essenza di esso è al di là delle cose. L’anima decadente è perciò sempre protesa verso il mister, verso l’inconcibil; per questa visione mistica tutti gli aspetti dell’essere sono legati tra loro da analogie e corrispondenze, che sfuggono alla ragione e possono essere colte solo in un abbandono di empatia irrazionale. Questa concezione della realtà era già stata formulata da Baudelaire nel sonetto “Corrispondenze dei Fiori del male”, un testo che fu poi considerato come una sorta di manifesto dei decadenti. La rete di corrispondenze coinvolge anche l’uomo, poiché esiste una sostanziale identità tra io e mondo, tra soggetto e oggetto, che si confondono in una misteriosa unità. Tale unione si realizza sul piano dell’inconscio: in questa zona oscura l’individualità scompare e si fonde con un Tutto inconsapevole. La scoperta dell’inconscio è il dato fondamentale della cultura decadente; Freu, a fine secolo, comincerà a dare una sistemazione scientifica a questa conoscenza. Se il mistero, l’essenza segreta della realtà, non può essere colto attraverso la ragione e la scienza, altri sono i mezzi mediante cui il decadente cerca di attingere ad esso. Innanzitutto come strumenti privilegiati del conoscere vengono indicati tutti gli stati irrazionali dell’esistere: la malattia, la follia, la nevrosi, il delirio, il sogno e l’incubo, l’allucinazione. Questi stati di alterazione (che possono essere provocati artificialmente, attraverso l’uso dell’alcol, dell’assenzio o delle droghe), sottraendosi al controllo della ragione, aprono al nostro sguardo interiore prospettive ignote, permettono di vivere, il mistero che è al di là delle cose. Vi sono poi per i decadenti altre forme di estasi che consentono questa esperienza dell’ignoto e dell’assoluto. Se l’io e il mondo non sono distinti, l’io individuale può annullarsi nella vita del gran Tutto: è quell’atteggiamento definito panismo (dal greco pan, “tutto”). Un altro tipo di stato di grazia è costituito dalle epifanie: un particolare qualunque della realtà, apparentemente insignificante, si carica all’improvviso di una misteriosa intensità (epiphania in greco vuol dire “apparizione”, e nel linguaggio religioso il termine si attribuisce alle rivelazioni del dio). L’estetismo Per i decadenti tra gli strumenti privilegiati della conoscenza vi è soprattutto l’arte. Il poeta, il pittore, il musicista non sono solo abili artefici della parola, ma sacerdoti di un vero e proprio culto , dei “veggenti”, capaci di spingere lo sguardo là dove l’uomo comune non vede nulla. Questo culto religioso dell’arte ha dato origine al fenomeno dell’estetismo. L’esteta è colui che assume come principio regolatore della vita non i valori morali, il bene e il male, il giusto e l’ingiusto, ma solo il bello, ed esclusivamente in base ad esso giudica la realtà. Egli si colloca così in una sfera di assoluta eccezionalità rispetto agli uomini mediocri. Arte e vita per lui si confondono, nel senso che la seconda è assorbita dalla prima; tutta la realtà è da lui filtrata attraverso l’arte. Va alla ricerca di sensazioni rare e squisite, si circonda degli oggetti più preziosi e raffinati, prova orrore per la banalità e la volgarità della gente comune. Ne consegue anche che il poeta rifiuta di farsi banditore di idealità morali e civili: l’arte rifugge dalla rappresentazione della realtà storica e sociale e si chiude in una celebrazione di se stessa, depurandosi di tutti gli intenti pratici e utilitaristici: diviene cioè arte pura, poesia pura. L’oscurità del linguaggio Se la poesia è veicolo di una rivelazione del mistero e dell’assoluto, la parola poetica non può più essere strumento di una comunicazione logica, ma si propone di agire su una zona più profonda e oscura, assumendo un valore puramente suggestivo ed evocativo. Si determina di conseguenza una vera e propria rivoluzione del linguaggio poetico: la parola smarrisce la sua funzione di strumento comunicativo immediato e recupera quella ancestrale di formula magica, capace di rivelare l’ignoto, di mettere in contatto con un arcano al di là delle cose. Essa diviene inevitabilmente oscura, al limite dell’incomprensibile: anche se il poeta vuole comunicare, lo fa in forme cifrate, allusive, enigmatiche, rivolte a quei pochi iniziati che sono in grado di accedere al mistero e di comprendere il suo linguaggio. In situazioni estreme la poesia diviene pura autocomunicazione, il poeta non parla ad altri che a se stesso. E’ quindi una poesia elitaria, riservata cioè a pochi intellettuali. Si rivela di qui il carattere estremamente aristocratico dell’arte decadente, che rifiuta di rivolgersi al pubblico borghese, ritenuto mediocre e volgare, e si chiude nella sua suprema raffinatezza. La scelta è inoltre motivata dall’imporsi della nascente cultura di massa, che offre al grande pubblico prodotti fatti “in serie” (come i romanzi d’appendice o la fotografia), che distruggono il concetto di unicità dell’opera d’arte. Per questo l’artista sente il bisogno di difendersi, di differenziarsi, e si rifugia nel linguaggio cifrato ed ermetico per salvare l’arte “vera”. Le Tecniche espressive Vari sono i mezzi tecnici attraverso cui lo scrittore decadente ottiene questi effetti. Innanzitutto la musicalità: la parola vale non tanto quale significante logico, che richiama un preciso referente reale, ma quale puro suono. Nella visione decadente la musica è la suprema tra le arti, proprio perché è la più indefinita. A tal proposito, Verlaine, nell’opera “Arte Poetica” che può essere considerato il manifesto tecnico della cultura decadente, esalta il valore della musica e afferma “la musica sopra ogni cosa”. In secondo luogo cadono nella poesia decadente i nessi sintattici tradizionali: la sintassi si fa vaga e imprecisa, altamente ambigua. In questi nessi ambivalenti anche le singole parole assumono sfumature o significati diversi da quelli comuni. Il linguaggio analogico e la sinestesia La metafora nella poesia decadente è l’espressione di una visione simbolica del mondo, dove ogni cosa rimanda ad altro; la metafora decadente, quindi, non è regolata da un semplice rapporto di somiglianza tra 2 oggetti, come avveniva nella tradizione, ma istituisce legami impensati tra realtà remote. Pertanto possiamo dire che non ha un elemento immediato, preciso, dietro, ma ognuno può quasi interpretarla a modo proprio. Inoltre troviamo anche la sinestesia fusione di sensazioni: significa l’accostamento di termini che appartengono a sfere sensoriali diverse. Decadenza, lussuria e crudeltà Si è visto come l’atmosfera dominante nell’età del Decadentismo sia uno stato d’animo di stanchezza e di estenuazione, derivante dal senso di disfacimento di una civiltà, che si avverte prossima al crollo. Di qui, nella letteratura decadente europea, deriva l’ammirazione per le epoche di decadenza, come la grecità alessandrina, l’età bizantina, in cui l’esaurirsi delle forze si traduce in una squisita ranatezza. Al culto per la raffinatezza di tali epoche si unisce il vagheggiamento del lusso raro e prezioso e della lussuria, complicata da perversità e crudeltà. Si ha quindi la tendenza ad essere affascinati dalle sottili perversioni, per il masochismo e si manifesta una sensibilità acutissima, esasperata, al limite della nevrastenia. Ad esempio l’opera di D’Annunzio “La Nave”, in cui la donna (perversa), prova piacere nell’uccidere degli uomini; li uccide con poca difficoltà e quindi si ha il sadismo e il masochismo. La malattia e la morte Accanto alla malattia nervosa, la malattia in genere è un altro tema principale decadente. Da un lato essa si pone come metafor d un condion storic, di un momento di crisi profonda, di smarrimento delle certezze, di angoscia per il crollo. Dall’altro lato la malattia diviene condizione privilegiata, segno di nobiltà e di distinzione, uno stato di grazia, lo strumento conoscitivo per eccellenza. Alla malattia umana si associa poi la malattia delle cose: il gusto decadente ama tutto ciò che è corrotto, impuro. Per questo Venezia, in cui si associano sfacelo e raffinatezza, è la città decadente per eccellenza, che esercita sugli scrittori un fascino inquietante (così è nel “Fuoco” di D’Annunzio, nella “Morte a Venezia” di Thomas Mann). La malattia e la corruzione affascinano i decadenti anche perché sono immagini della morte. La morte è in questo periodo un tema dominante, ossessivo. Vitalismo e superomismo Al fascino esercitato dalla malattia, dalla decadenza e dalla morte si contrappongono però tendenze opposte: il vitalismo, cioè l’esaltazione della pienezza vitale al di là di ogni norma morale, la ricerca del godimento. Il vitalismo vede il suo teorico in Nietzsche. In realtà sono atteggiamenti apparentemente in contraddizione: il culto della forza e della “vita” non è che un modo per esorcizzare l’attrazione morbosa della morte, per cercare di sconfiggere un senso di stanchezza e di esaurimento che si affaccia nonostante ogni sforzo di resistenza. Gli eroi decadenti Nascono alcune figure ricorrenti nella letteratura decadente: ● l’artista “maledetto”, che profana tutti i valori e le convenzioni della società, che sceglie il male e si compiace di una vita misera, errabonda, condotta sino all’estremo limite attraverso il vizio della carne, l’uso dell’alcol e delle droghe (c’è quindi una certa vicinanza agli scapigliati); ● l’esteta, l’uomo che vuol trasformare la sua vita in opera d’arte, sostituendo alle leggi morali le leggi del bello e andando costantemente alla ricerca di sensazioni squisite e piaceri raffinati; ha orrore della vita comune e si isola in una sdegnosa solitudine; ESEMPIO: Dorian Grey ● l’inetto a vivere, che si sente escluso dalla vita che pulsa intorno a lui e a cui egli non sa partecipare per mancanza di energie vitali e può quindi solo rifugiarsi nelle sue fantasie; più che vivere si osserva vivere. Perciò, l’inetto a vivere, è colui che vede la vita passargli davanti, ma non è mai protagonista; ● la donna fatale, dominatrice del maschio fragile e sottomesso, lussuriosa e perversa, crudele torturatrice al cui fascino non si può sfuggire. Il “fanciullino” e il superuomo L’inetto a vivere conosce una variante originale con il “fanciullino” pascoliano: il rifiuto della condizione adulta, della vita di relazione al di fuori del nido familiare. Dalla tendenza decadente ad esaltare la pienezza vitale e la forza barbarica per nascondere la sensazione di debolezza e sconfitta ha origine la figura del superuomo di d’Annunzio, ispirato alle teorie di Nietzsche: il superuomo dannunziano è l’individuo superiore alla massa mediocre, forte e dominatore, che si muove alla conquista di mete eroiche senza essere ostacolato da dubbi e incertezze. Inoltre possiamo dire che il fanciullino del bambino è totalmente ingenuo e fresco dal momento che non conosce la vita; il fanciullino dell’adulto invece è mediato dall’esperienza. quei processi oggettivi: vuole il successo e la fama, vuole condurre la vita di lusso aristocratico dei ceti privilegiati. Il personaggio dell’esteta è una forma di risarcimento immaginario da una condizione reale di degradazione dell’artista. Però D’Annunzio non si accontenta di sognare, rifugiandosi nella letteratura: vuole vivere quel personaggio anche nella realtà. Perciò si preoccupa di produrre libri di successo, che vendano bene sul mercato, e sa utilizzare economicamente la pubblicità che gli deriva dalle sue pose, dagli scandali, dagli amori eleganti, dai duelli, dal lusso sfrenato. Sfruttando abilmente i meccanismi della produzione capitalistica, propone un’immagine nuova di intellettuale, che si pone fuori della società borghese, e fa rivivere una condizione di privilegio dell’artista che era propria di epoche passate. Il Piacere e la crisi dell’estetismo Ben presto D’Annunzio si rende conto della debolezza di questa figura: l’esteta non ha la forza di opporsi alla borghesia in ascesa, che a fine secolo si avvia sulla strada dell’industrialismo, del capitalismo, dell’imperialismo. Egli avverte tutta la fragilità dell’esteta in un mondo lacerato da forze e conflitti brutali: il suo isolamento sdegnoso non può che divenire sterilità ed impotenza, il culto della bellezza si trasforma in menzogna. La costruzione dell’estetismo entra allora in crisi. Il primo romanzo scritto da D’Annunzio, “Il Piacere”, ne è la testimonianza. Al centro del romanzo si pone la figura di un esteta, Andrea Sperelli, il quale non è che un “doppio” di D’Annunzio stesso, in cui l’autore obiettiva la sua crisi e la sua insoddisfazione. Andrea è un giovane aristocratico, artista proveniente da una famiglia di artisti. Il principio “fare la propria vita, come si fa un’opera d’arte”, in un uomo dalla volontà debolissima quale è Andrea, diviene una forza distruttrice. La crisi trova il suo banco di prova nel rapporto con la donna. L’eroe è diviso tra 2 immagini femminili, Elena Muti, la donna fatale, che incarna l’erotismo lussurioso, e Maria Ferres, la donna pura, che rappresenta l’occasione di un riscatto e di un’elevazione spirituale. Ma in realtà l’esteta mente a se stesso: la figura della donna angelo è solo oggetto di un gioco erotico sottile e perverso, fungendo da sostituto di Elena, che Andrea continua a desiderare e che lo rifiuta. Andrea finisce per tradire la sua menzogna con Maria, ed è abbandonato da lei, restando solo con il suo vuoto e la sua sconfitta. Nei confronti di questo personaggio, D’Annunzio ostenta un atteggiamento critico, facendo pronunciare dalla voce narrante duri giudizi nei suoi confronti. In realtà il romanzo è percorso da un’evidente ambiguità, poiché Andrea non cessa di esercitare un sottile fascino sullo scrittore. D’Annunzio mira a creare un romanzo psicologico, in cui, più che gli eventi esteriori dell’intreccio, contano i processi interiori del personaggio, indagati sul modello proposto dal capofila di questa tendenza, Paul Bourget. Nel “Piacere” compare poi un’altra tendenza fondamentale: quella di costruire al di sotto dei fatti concreti una sottile trama di allusioni simboliche. La fase della bontà La crisi dell’estetismo non approda immediatamente a soluzioni alternative. Al Piacere succede un periodo di incerte sperimentazioni, che lo inducono a subire il fascino del romanzo russo, come nel caso del “Giovanni Episcopo” e dell”Innocente”. E’ la fase che, dando credito alle intenzioni dello stesso scrittore più che alla realtà dei testi, viene solitamente definita della “bontà”. Essa comprende anche la raccolta poetica del “Poema paradisiaco”. Un ritratto allo specchio: Andrea Sperelli ed Elena Muti La donna amata dall’eroe tronca all’improvviso la relazione e scompare. Quando ritorna, Andrea viene e a conoscenza del fatto che, per evitare il disastro economico, ha dovuto sposare un ricco inglese. Andrea è disgustato nello scoprire che una tale passione doveva essere interrotta semplicemente per motivi economici e prova orrore. Per giungere a comprendere il comportamento della donna esercita su di lei le sue facoltà analitiche ed è proprio nel tracciare un ritratto crudele di Elena che ne costruisce uno altrettanto impietoso di se stesso. Elena viene descritta come uno spirito libero, senza equilibrio; il suo era un corpo sensuale, era dotata di un egoismo smisurato e di una particolare immaginazione; possedeva una spiccata intelligenza ma aveva anche un particolare gusto elegante. In sostanza possiamo dire che viene descritta come una donna dalle passioni fulminee. Inoltre, Elena e Andrea, sono 2 esseri affini perché entrambi hanno in comune una spiccata falsità ed una grande passionalità (sono caratteristiche che possiamo scorgere leggendo tra le righe 41-45). E quindi, tracciando analiticamente il ritratto di Elena, Andrea si rende conto di quanto in realtà siano molto simile ed è perciò come se lui si guardasse allo specchio. Però vi è una domanda che risuona incessantemente nella testa di Andrea: si domanda quali siano le ragioni che hanno spinto Elena ad incontrarlo il giorno di San Silvestro e pensa perché spinta dalla tentazione, dalla curiosità e forse dalla ricerca di novità e ambizioni. Il brano si conclude con l’espressione “giuoco noioso e inutile”, attraverso la quale il protagonista si riferisce al fatto che non è più lui ad ingannare lei ma adesso è lei che lo anticipa e perciò non ha più senso continuare a giocare. D’Annunzio e Nietzsche D’Annunzio coglie alcuni aspetti del pensiero di Nietzsche, banalizzandoli e forzandoli entro un proprio sistema di concezioni: innanzitutto il rifiuto del conformismo borghese, dei principi egualitari che schiacciano e livellano la personalità: l’esaltazione dello spirito dionisiaco (Dioniso era il dio greco dell’ebbrezza), cioè di un vitalismo gioioso, pieno; il rifiuto dell’etica della pietà, dell’altruismo, che mascherano solo l’incapacità di godere la gioia dionisiaca del vivere; l’esaltazione della volontà di potenza, dello spirito della lotta e dell’affermazione di sé. D’Annunzio dà a questi motivi un’accentuata coloritura antiborghese, aristocratica, reazionaria. Egli si scaglia contro la realtà borghese del nuovo Stato unitario, in cui il trionfo dei principi democratici ed egualitari, lo spirito affaristico e speculativo contaminano il senso della bellezza. Vagheggia perciò l’affermazione di una nuova aristocrazia, che sappia tenere schiava la moltitudine degli esseri comuni. Il motivo nietzschiano del superuomo è quindi interpretato da D’Annunzio nel senso del diritto di pochi esseri eccezionali ad affermare se stessi. Perciò per lui i pochi devono sottomettere i molti. Il superuomo e l’esteta Il nuovo personaggio del superuomo creato da D’Annunzio non nega la precedente immagine dell’esteta, ma la ingloba in sé, conferendole una diversa funzione. Il culto della bellezza è essenziale nel processo di elevazione della stirpe nelle persone di pochi eletti. L’eroe dannunziano non si accontenta più di vagheggiare la bellezza in una dimensione appartata, ma si adopera per imporre, attraverso di essa, il dominio di un’élite, violenta e raffinata insieme, su un mondo meschino e vile come quello borghese. E mentre la figura dell’esteta era in opposizione rispetto alla realtà dominante, la figura del superuomo, offre soluzioni che possono accordarsi con le tendenze profonde dell’età dell’imperialismo, del militarismo aggressivo, del colonialismo. Ben consapevole dei processi in atto che declassano l’intellettuale, D’Annunzio non si piega ad accettare la sorte comune, ambisce a rovesciarla, a ritrovare un ruolo sociale. E poiché l’offerta non gli viene dalla società stessa, egli si conferisce da sé tale ruolo, attribuendosi il compito di profeta di un ordine nuovo: l’artista deve aprire la strada al dominio delle nuove élites, che ponga fine al caos del liberalismo borghese, della democrazia, dell’egualitarismo , e di tali élites deve egli stesso entrare a far parte. Le vergini delle rocce Il romanzo successivo, Le vergini delle rocce, segna una svolta ideologica radicale. D’Annunzio non vuole più proporre un personaggio debole, tormentato, incerto, ma un eroe forte e sicuro, che va senza esitazioni verso la sua meta. L’eroe, Claudio Cantelmo, sdegnoso della realtà borghese contemporanea, vuole portare a compimento in sé “l’ideal tipo latino” e generare il superuomo, il futuro re di Roma che guiderà l’Italia a destini imperiali. Però, nonostante l’affermata sicurezza, è possibile cogliere ancora nell’eroe perplessità e ambiguità. Per questo l’eroe va a cercare la donna con cui generare il futuro superuomo in una famiglia della nobiltà borbonica, in piena decadenza, che vive isolata in una antica villa ormai in sfacelo, nel culto ossessivo del passato, devastata dalla malattia e dalla follia. In questo scenario di decadenza, disfacimento e morte l’eroe cerca colei che dovrà essere la sua compagna fra le 3 figlie del principe Montaga. Ma questa scelta è profondamente ambigua: dietro i propositi vitalistici, eroici, trionfali pare celare una segreta e più autentica attrazione proprio per la “putredine”, la decadenza e la morte. L’eroe soggiace quindi al fascino della bellezza di Violante, incarnazione della donna fatale: che è immagine non di fecondità creatrice, ma di un Eros perverso, distruttivo e crudele, un’immagine di morte, affine a quella della “Nemica” nel Trionfo della morte. Nonostante le loro aspirazioni attivistiche ed eroiche ii protagonisti dannunziani restano sempre deboli e sconfitti, incapaci di tradurre le loro aspirazioni in azione. Le Laudi Nel campo della lirica vuole affidare la summa della sua visione a 7 libri di Laudi del cielo del mare della terra e degli eroi. Nel 1903 erano terminati e pubblicati i primi 3, Maia, Elettra, Alcyone; i titoli derivano dai nomi delle stelle delle Pleiadi. Ma anche questa costruzione rimane incompiuta. Un quarto libro, Merope, raccoglie le Canzoni delle gesta d’oltremare, dedicate all’impresa coloniale in Libia. Postumo fu poi aggiunto un quinto libro, Asterope, che comprende le poesie ispirate alla Prima guerra mondiale. Gli ultimi due libri, pur annunciati, non vennero mai scritti. Maia Il primo libro, Maia, non è una raccolta di liriche, ma un poema unitario di oltre ottomila versi. L’opera presenta un’evidente novità formale: D’Annunzio non segue più gli schemi della metrica tradizionale né quelli della metrica barbara, ma adotta il verso libero: si susseguono senza ordine preciso i tipi di versi più vari, dal novenario al quinario, con rime ricorrenti senza schema fisso. Il poema è la trasfigurazione mitica di un viaggio in Grecia realmente compiuto da D’Annunzio. L’io protagonista si presenta come Ulisse, proteso verso tutte le più multiformi esperienze, pronto a sprezzare ogni limite pur di raggiungere le sue mete. Il viaggio nell’Ellade è l’immersione in un passato mitico, alla ricerca della bellezza. Dopo questa iniziazione il protagonista si reimmerge nella realtà moderna, nelle “città terribili”, le metropoli industriali orrende ma brulicanti di nuove potenzialità vitali. Il passato modella su di sé il futuro da costruire: per questo l’orrore della civiltà industriale si trasforma in nuova forza e bellezza. Il poeta arriva così ad inneggiare ad aspetti tipici della modernità quali il capitale, la finanza, i capitani d’industria, le macchine, che un tempo respingeva con sdegno poiché esse racchiudono in sé possenti energie. Parimenti lo scrittore che nelle Vergini aveva rovesciato il suo aristocratico disprezzo sulla moltitudine schiava, ora inneggia alle nuove masse operaie, anch’esse immenso serbatoio di energie. Una svolta radicale Il poeta non si contrappone più alla realtà borghese moderna, dall’alto del suo aristocraticismo, ma si propone quale cantore dei suoi fasti, guida delle sue imprese e “vate” dei suoi destini gloriosi. Ma, come dietro al vitalismo del superuomo si scorge pur sempre l’attrazione morbosa per il disfacimento e la morte, così dietro a questa celebrazione dell’epica eroica della modernità è facile intravedere la paura e l’orrore del letterato umanista (che è ancora il nocciolo essenziale dell’esteta superuomo) dinanzi alla realtà industriale che tende ad emarginarlo o a farlo scomparire del tutto. L’originalità di D’Annunzio consiste nel fatto che egli non si chiude a contemplare vittimisticamente la propria impotenza, ma reagisce costruendosi sogni di onnipotenza. Invece di fuggire dinanzi a ciò che lo aggredisce, la grande industria, la società di massa, esorcizza la paura e l’orrore autoinvestendosi di un ruolo nuovo: cantare e celebrare, per non rassegnarsi alla scomparsa, proprio quella realtà che minaccia di spazzarlo via. Elettra La struttura del libro ricalca quella di Maia; anche qui vi è un polo positivo, rappresentato da un passato e da un futuro di gloria e di bellezza, che si contrappongono ad un polo negativo, un presente da riscattare. Una parte cospicua del volume è costituita dalla serie delle liriche sulle Città del silenzio. Sono le antiche città italiane, ora lasciate ai margini della vita moderna, che conservano il ricordo di un passato di grandezza guerriera e di bellezza artistica: quel passato su cui si dovrà rimodellare il futuro. Costante è anche la celebrazione della romanità in chiave eroica. Alcyone Il terzo libro della Laudi, Alcyone, è apparentemente molto lontano dagli altri due. Al discorso politico, celebrativo, polemico o profetico, si sostituisce il tema lirico della fusione panica con la natura; al motivo dell’azione energica, un atteggiamento di evasione e contemplazione. Il libro, comprendente 88 componimenti, è come il diario ideale di una vacanza estiva, dai colli fiesolani alle coste tirreniche tra la Marina di Pisa e la Versilia: le liriche sono state successivamente ordinate in un disegno organico, che segue la parabola della stagione, dal commiato piovoso della primavera al lento declino di settembre. La stagione estiva è vista come la più propizia ad eccitare il godimento sensuale, a consentire la pienezza vitalistica. Sul piano formale succede una ricerca di sottile musicalità, che tende a dissolvere la parola in sostanza fonica e melodica. La sera fiesolana La sera fiesolana è uno dei componimenti scritti da D’Annunzio. Il poeta si rivolge alla sua donna, in una sera di giugno, sulle colline di Fiesole, dopo una giornata di pioggia. La poesia, priva di un centro narrativo, presenta immagini, sensazioni ed emozioni del poeta che contempla lo spettacolo offerto dalla luna sta sorgendo. Le immagini fluiscono l’una dall’altra, senza una precisa connessione logica e sintattica, mosse da una sorta di musicalità interiore. Nella prima edizione del testo, ogni strofa aveva un titolo distinto: la prima strofa aveva come titolo “La natività della luna”; la seconda strofa “La pioggia di giugno”; la terza strofa “Il profumo della sera”. Le strofe sono intervallate da una sorta di “ritornello” che richiama il motivo francescano del “Cantico delle Creature” (“Laudata sii”). I versi sono liberi e le strofe molto lunghe; è ricco di assonanze, consonanze e rime interne. Nella prima strofa l’elemento dominante è quello della freschezza: le parole del poeta sono “fresche” (sinestesia udito-tatto), come se esse fossero inserite nella natura e assumessero la stessa atmosfera della sera. In questa prima strofa viene descritto il momento in cui il sole sta calando e inizia la sera: di fronte al poeta si trova un contadino che sta raccogliendo le foglie di gelso, la luna sta sbucando all’orizzonte causando cambiamenti di colore sia sugli oggetti sia sul paesaggio. Ai versi 2-3 troviamo una rima interna ( fan-man), ma anche una rima baciata (foglie-coglie). Inoltre “rame spoglie” al verso 7 è un toscanismo. Questa strofa ha come titolo “La natività della luna” perché tutta la scena è pronta ad essere abbellita dalla Luna che sta salendo nel cielo. Nella seconda strofa, gli elementi della natura vengono umanizzati: la sera viene definita dal “viso di perla” e dagli “occhi umidi” che anticipano la protagonista della strofa: la pioggia caduta prima che scendesse la sera. Anche questa strofa comincia con una sinestesia e cioè “dolci parole”: il poeta rivolge alla sua donna parole “dolci” come il brusio della pioggia di giugno, estremo saluto della primavera, che cade sulla vegetazione, la quale assume sembianze umane. Inoltre, “bruiva” al verso 19 è un verbo onomatopeico che indica una pioggerella. “L’opra lenta” al verso 4 è una reminiscenza leopardiana che ricorda “La sera del dì di festa”. Vi è l’enumerazione delle piante che si trovano in campagna. Inoltre, capiamo che è giugno dal fatto che è la stagione del grano. “Fratelli olivi” al verso 29 richiama ancora il Cantico delle Creature; l’olivo inoltre era utilizzato dai messaggeri come simbolo di buone notizie. Nella terza strofa, il poeta annuncia la rivelazione di un segreto che la natura nasconde, che solo la poesia è in grado di rivelare, descrivendo la bellezza e la dolcezza delle colline, che s’incurvano come labbra chiuse da un divieto. La natura, umanizzata e divinizzata, parla al poeta, e solo la poesia è in grado di coglierne e rivelarne la misteriosa bellezza. D’Annunzio annuncia che rivelerà il mistero perché secondo lui il poeta sa tutto, è privilegiato perché è in contatto con la natura e quindi può conoscere il suo segreto (al contrario di Pascoli). Nella prima lauda, che richiama il “Cantico delle creature” di S. Francesco, il poeta si rivolge alla sera personificandola (viso di perla, umidi occhi…). Anche nella lauda troviamo il motivo della freschezza, con il riferimento all’acqua (“pe’ tuoi grandi umidi occhi ove si tace / l’acqua del cielo”). Nella seconda lauda prosegue la personificazione della sera, con riferimento particolare a i profumi della campagna che si diffondono nell’aria. Infine, nella terza lauda il poeta loda la sera per la sua “pura morte”, nel momento in cui le prime, palpitanti, stelle segnano il momento di passaggio alla notte. La pioggia nel pineto Nella poesia “La pioggia nel pineto” di Gabriele d’Annunzio, il poeta immagina di trovarsi in una giornata d’estate con la sua amata donna, Eleonor Dus, che lui chiama con il nome di Ermione (figlia di Elena e Menelao), nella pineta di Versilia battuta dalla pioggia. La lirica rappresenta le sensazioni prodotte dalla pioggia che cade intensamente sulla pineta, in cui si sono addentrati il poeta ed Ermione. La natura sembra risvegliarsi e rispondere al contatto della pioggia quasi con un discorso musicale, come una serie di strumenti dal suono diverso. Tra questi suoni e sotto l’intensificazione della pioggia, l’uomo e la donna, purificati dall’acqua piovana che ne bagna le vesti, sembrano immergersi progressivamente nella natura divenendo parte di essa. Perciò, lo scenario principale, è quello della pioggerella estiva. Guardando il testo capiamo subito che si tratta di versi brevi e liberi, dove anche una semplice parola può dare vita a un verso. Affronta la tematica della metamorfosi: si ha la trasformazione dall’umano al vegetale e quindi troviamo anche il tema del panismo cioè i personaggi diventano un tutt’uno con la natura. La poesia inizia con la parola “taci”: il poeta invita Ermione a tacere e ad ascoltare la musica della pioggia; il ritmo è spezzato per indicare la lentezza del processo di assimilazione e il poeta mette in evidenza che c’è una condizione preliminare: IL SILENZIO. Egli è intento a cogliere le sfumature più diverse e le varie modulazioni che le gocce di pioggia producono sulle diverse piante del bosco che vengono descritte attraverso l’utilizzo della figura retorica dell’anafora (ad esempio il mirto è considerato la pianta degli dei ed ecco perché gli viene associato l’aggettivo divino; le ginestre danno vita a dei piccoli fiori gialli, ecc.). Inoltre, “nuvole sparse” al verso 9 ci fa capire che non siamo in pieno inverno. A questo concerto della pioggia partecipano anche le cicale con il loro canto, al quale subentra quello delle rane, il cui verso roco si spegne nell’ombra di un luogo lontano e indeterminato. La sinfonia dei suoni conduce gradualmente l’uomo e la donna in una dimensione di sogno, dove vanno incontro alla metamorfosi. La prima trasformazione si verifica al verso 20: i volti, da umani, diventano silvani. Poi Ermione è paragonata agli elementi della natura (il volto come una foglia, le chiome come le ginestre), diventa quasi una ninfa del bosco. Infine si fondono entrambi con gli elementi della natura, sentendosi parte viva e integrante di essa: il cuore è come una pesca, gli occhi sono come sorgenti, i denti come mandorle acerbe. La lirica si chiude con la ripresa del tema della pioggia, quasi a prolungare quello stato di estasi cui sono pervenuti il poeta e la sua compagna. . Pascol La Vita Giovanni Pascoli proviene da una famiglia molto numerosa della piccola borghesia rurale. Lui era il quarto di 10 figli.La sua vita presto fu segnata da un tragico evento, ovvero la morte del padre Ruggero,assassinato nel suo carro, sulla strada del ritorno verso casa. Dopo la morte del padre, a seguito di difficoltà economiche, dovette trasferirsi a Rimini. Dopo un paio d’anni, nel 1868, morirono la madre e la sorella maggiore; Nel 1871 venne a mancare il fratello Luigi e nel 1876 il fratello Giacomo. Pascoli ricevette una rigorosa formazione classica.Negli anni universitari Pascoli subì il fascino dell'ideologia socialista. Partecipò a manifestazioni contro il governo, e nel 1879 fu arrestato. Il carcere fu un’esperienza traumatica per lui e ciò determinò il suo distacco dalla politica militante. In seguito divenne insegnante liceale dedica la sua raccolta di poesie proprio ad una pianta umile e semplice perché vuole dare spazio alla descrizione delle piccole cose di campagna. Si tratta in prevalenza di componimenti molto brevi, che all’apparenza si presentano come quadretti di vita campestre. Spesso le atmosfere che avvolgono queste realtà evocano l’idea della morte. Compaiono quelle soluzioni formali che costituiscono la profonda originalità della poesia pascoliana: l’insistenza sulle onomatopee, il valore simbolico dei suoni, l’uso di un ardito linguaggio analogico, la sintassi frantumata. Pascoli sperimenta anche una varietà di combinazioni metriche inedite. Lavandare In Lavandare, i temi principali sono quelli dell’abbandono e della solitudine, rappresentati dall’immagine dell’aratro dimenticato in mezzo al campo deserto, che torna all’inizio e alla fine, conferendo alla poesia una struttura circolare ed assurgendo a simbolo dell’abbandono e della nostalgia. Già il titolo evoca un mondo quotidiano e semplice, quale è quello delle donne che lavano i panni al fiume; il lessico e la sintassi sono elementari e quotidiani, a differenza della struttura fonica, che è molto elaborata e ben studiata. Le pause marcate (dopo “buoi”, “dimenticato”, “spessi” e “partisti”), insieme all’enjambement dei versi 2-3, creano un ritmo spezzato e mesto, quasi a voler riprodurre le “lunghe cantilene” delle donne. Nella prima strofa viene descritto un campo immerso nella nebbia su cui spicca un aratro abbandonato. Dominano i colori spenti: il campo viene descritto infatti come mezzo grigio e mezzo nero. Nella seconda strofa viene descritto il rumore dei panni che vengono lavati nell’acqua e il canto delle lavandaie. Qui prevalgono le sensazioni uditive (suono dei panni, il canto triste, il tonfo). Nella terza strofa viene riportata la canzone cantata dalle lavandaie che parla di una giovane donna abbandonata dall’innamorato e che è rimasta sola come l’aratro in mezzo al campo. La lirica è quindi circolare: si apre e si chiude con l’immagine- simbolo dell’aratro abbandonato che rappresenta la solitudine. Questa scena descritta nella poesia serve proprio a trasmettere la sensazione di abbandono e malinconia che rinvia proprio al poeta stesso: egli si sente abbandonato dai suoi cari perché è rimasto orfano del padre e la sua vita è stata funestata da una serie di lutti. Il paesaggio diventa quindi un simbolo per raccontare il proprio stato d’animo. La poesia Lavandare si caratterizza per il ritmo lento, quasi da cantilena, l’utilizzo di molte allitterazioni (v. 8 tu non torni, v. 10 in mezzo alla maggese) di rime interne (v. 5 sciabordare-lavandare). Importante l’utilizzo transitivo del verbo nevicare al verso 7 il ramo fa cadere le foglie come fossero fiocchi di neve. È presente anche una similitudine al verso 10 come paragone tra la ragazza abbandonata e l’aratro in mezzo al campo. X Agosto Giovanni Pascoli non scrisse questa poesia in onore della notte di San Lorenzo, ma per ricordare il padre. Il 10 agosto del 1867, infatti, il padre Ruggero Pascoli veniva assassinato da due sicari appostati sul luogo dove stava passando con il suo carretto, sulla via del ritorno a casa. Le motivazioni che spinsero i due a sparare sono rimaste ignote: probabilmente si trattò di un attacco di brigantaggio ai danni dell’uomo. Prima strofa: il Poeta si rivolge a San Lorenzo, il santo celebrato il 10 agosto, quando il numero di stelle cadenti è molto più intenso rispetto al solito, e paragona la breve e luminosa traiettoria delle stelle cadenti allo scorrere delle lacrime, al pianto; Seconda strofa: mentre una rondine stava ritornando al nido la uccisero, lasciando i suoi piccoli senza cibo; Terza strofa: la rondine abbattuta ha le ali aperte come se fosse stata crocifissa con in bocca il cibo per i propri piccoli e i rondinini rimasti soli piangono sempre più fievolmente, ormai prossimi alla morte; Quarta strofa: anche il padre del Poeta mentre tornava dalla sua famiglia venne ucciso. Egli perdonò i suoi assassini e rimase con gli occhi spalancati che gridavano il dolore che la voce ormai non poteva più esprimere: aveva con sé due bambole da regalare alle sue bambine. Quinta strofa: invano la sua famiglia lo aspetta egli ora è immobile, stupito da tanta violenza e indicando il cielo mostra le bambole per le sue bambine. Sesta strofa: il poeta si rivolge al cielo chiedendo che sommerga con le stelle cadenti questo piccolo pianeta colmo di malvagità che è la terra. Tra la seconda e la quinta strofa Pascoli sviluppa il paragone tra i rondinini, la cui madre è stata uccisa mentre tornava al nido con il loro cibo, e la famiglia Pascoli, che attende come i piccoli animali il ritorno del padre a casa, che non avverrà mai. Entrambi, dunque, hanno conosciuto il dolore, la tragedia di rimanere orfani e privi di protezione, la distruzione del “nido”, la solitudine, l’infanzia violata. entrambi recanti in dono qualcosa per i propri piccoli (il verme e le bambole) ed entrambi rimasti a tendere il dono, sdraiati a terra, verso un cielo indifferente. Non solo: la rondine morta è stesa sul suolo “come in croce” (v. 9). Si crea così una similitudine tra la rondine e Gesù Cristo, anch’egli innocente e ucciso e, per proprietà transitiva, tra Gesù Cristo e Ruggero Pascoli. Questo espediente serve al poeta per mostrare l’assoluta innocenza del padre: il caso non sarà mai risolto e Pascoli non avrà mai una spiegazione sul motivo che spinse i due uomini appostati a uccidere il padre. La punteggiatura offre un ritmo molto singhiozzante, i segni di interpunzione sono moltissimi e rendono il senso di struggimento del poeta. Si possono notare alcune metafore (v. 3, perché si gran pianto; v. 13, tornava al suo nido; v. 23, d’un pianto di stelle; v. 24, quest’atomo opaco del Male). Al v. 5 è presente una sineddoche (Ritornava una rondine al tetto). Al v. 9 è presente una similitudine (Ora è là, come in croce). Ai v. 9 e 17 si nota la presenza di anafora (Ora è là… / Ora là). Ai vv. 11-12 è presente una metonimia (e il suo nido è nell’ombra, che attende, / che pigola sempre più piano). Il v. 15 è un notevole esempio di sinestesia (e restò negli aperti occhi un grido). Temporale Temporale è una poesia di Pascoli, raccolta nel libro "Myricae", composta da 7 versi settenari divisi in 2 strofe (la prima costituita da un solo verso). La poesia descrive appunto, il fenomeno atmosferico del temporale, ma il poeta non vuole limitarsi a esprimere solo questo; infatti, per il poeta, il temporale è simbolo per comunicare uno stato d’animo turbato e tormentato. Questo tormento ci è presentato anche grazie all’allitterazione della vocale o, che rende cupo il componimento. La poesia inizia con un verso in cui è presente l’unica nota uditiva della poesia (il resto, infatti, è basato sulle sensazioni visive), “bubbolio”, che è anche una parola onomatopeica avente la funzione di rappresentare il rumore e il mormorio sordo del tuono, che avviene grazie alla presenza della consonante b che ne rendo molto l’idea. Questo verso ha la funzione di apertura della poesia, perché infatti, già dal secondo, il poeta comincia a descrivere il temporale ormai arrivato, mentre nel primo ancora si sta avvicinando. Nella seconda strofa, con delle frasi corte e prive di verbo (tranne nel secondo rigo in cui è presente l’unico verbo del componimento, “rosseggia”), ci descrive il temporale che si abbatte sulla terra. Questa tempesta non è descritta nei dettagli, ma con poche ed efficaci parole, descrivendo il paesaggio con 3 colori: rosso, nero e bianco. La realtà è quindi rappresentata attraverso colori (il «rossastro» e «affocato» dell’orizzonte, il «nero di pece» di alcune nubi, che però a tratti sono anche «chiare») e impressioni: verso il mare, l’io poetico osserva un orizzonte rossastro (probabilmente per i tuoni in lontananza, o forse perché è l’ora del tramonto), mentre in direzione dei monti appare un’atmosfera cupa a causa delle nubi temporalesche. Ciò che emerge è un clima minaccioso e inquieto e l’unico elemento “umano” che appare è un «casolare» il cui colore bianco o la cui apparizione rapida in mezzo al nero delle nubi richiama, per analogia, un’ala di gabbiano. Nella poesia di Pascoli la casa ha spesso il significato di nido e protezione, ma in questo testo il casolare appare isolato e lontano, dunque soggetto all’incombere del pericolo. Novembre Novembre è una poesia di Giovanni Pascoli tratta dalla raccolta poetica Myricae e pubblicata per la prima volta nel 1891. Il titolo originario era San Martino, come la poesia omonima di Carducci da cui prende spunto. Nella poesia è l’11 novembre a essere definito l’estate di San Martino, poiché, dopo l’arrivo del primo freddo, si torna a un relativo tepore, come se il calo della temperatura fosse stata un’illusione. Nel componimento, però, ci sono richiami di luce e di gioia portati nell’aria, ai quali la natura non dà risposta. Tutto intorno è secco e il colore funebre dell’autunno è la sola cornice che fa da ricordo a coloro che non ci sono più. L’incipit della poesia sembra gioioso, ma presto viene lasciato spazio a versi di tristezza. All’inizio c’è l’illusione di una bella giornata primaverile in atto, ma presto il poeta rende noti i particolari che la rendono evidentemente autunnale (il pruno secco, le foglie che cadono, le sagome nere degli alberi spogli ai vv. 5-6). Il poeta fa riferimento alla cosiddetta estate di San Martino, il periodo che parte dal 2 novembre (giorno dei morti) e va avanti per una decina di giorni. Nella prima strofa Pascoli descrive un giorno che sembra quasi primaverile, caratterizzato da una serie di immagini felici e solari. In chiusura, tuttavia, si può già notare una prima nota cupa data da una brutta sensazione a livello olfattivo (l’odore del prunalbo è “amaro”, v. 4). Nella seconda strofa i primi segnali positivi cedono definitivamente il passo alla negatività dell’autunno e del dolore umano. Nel mondo, che prima era aperto e pronto a nuova vita, si notano con lo sguardo solamente segnali di morte. Nella terza strofa, infine, tutti questi segnali vengono poi amaramente confermati in una desolata sentenza e i segnali visti lasciano lo spazio a quelli uditi, le ventate che spezzano il silenzio e il solo rumore di foglie morte che cadono. Ecco qui dipinta l’estate dei morti. Le figure retoriche presenti nel componimento sono: -Sinestesie: “Gemmea l’aria” (v. 1) e “odorino amaro” (v. 3) sono due espressioni che uniscono due sensazioni legate a campi sensoriali diversi. -Ossimoro: “estate fredda” (v. 11) -Chiasmi: “Gemmea l’aria, il sole così chiaro” (v. 1), “tu ricerchi gli albicocchi in fiore, / e del prunalbo l’odorino amaro / senti nel cuore” (vv. 2-4); -Metafore: “Gemmea l’aria” (v. 1), “vuoto il cielo” (v. 7), “estate dei morti” (vv. 11-12); -Allitterazioni e ricorrenze sonore: tutto il componimento è caratterizzato dalla ricorrenza di suoni aspri e duri, r, t, s. La strofa centrale è percorsa dall’allitterazione della s ("secco", “stecchite”, “segnano”, “sereno”, “sonante”, “sembra”). I Poemetti Una fisionomia diversa possiedono i Poemetti, raccolti una prima volta nel 1897, l’anno del Fanciullino e della quarta edizione di Myricae, divisi in due raccolte distinte, Primi poemetti e Nuovi poemetti. Si tratta di componimenti più ampi di quelli di Myricae; muta anche la struttura metrica: ai versi brevi subentrano le terzine dantesche. Anche qui però assume rilievo dominante la vita della campagna. La narrazione è articolata in veri e propri cicli, che traggono il titolo dalle varie operazioni del lavoro dei campi, La sementa, L’accestire, La fiorita e La mietitura. Il poeta vuole celebrare la piccola proprietà rurale, presentandola come depositaria di tutta una serie di valori tradizionali e autentici. La vita del contadino, scandita dal ritorno ciclico delle stagioni e dall’avvicendarsi sempre uguale dei lavori dei campi, appare al poeta come un rifugio rassicurante. La rappresentazione della vita contadina assume quindi la fisionomia di un’utopia regressiva, nel senso che Pascoli proietta il suo ideale nel passato, in forme di vita travolte dallo sviluppo della realtà sociale ed economica moderna. Questa raffigurazione della campagna non abbia punti di contatto con quella che pochi anni prima era stata offerta dal Verismo, in particolare da Verga: il mondo rurale pascoliano è idealizzato e idillico, ignora gli aspetti più crudi della realtà popolare, il bisogno, la miseria, la degradazione. Pascoli si sofferma sugli aspetti più quotidiani, umili e dimessi di quel mondo, designando con minuziosa precisione gli oggetti e le operazioni del lavoro dei campi. I Canti di Castelvecchio I Canti di Castelvecchio sono definiti dal poeta stesso, nella prefazione, “myricae”, quindi si propongono intenzionalmente di continuare la linea della prima raccolta. Anche qui ritornano immagini della vita di campagna, canti d’uccelli, alberi, fiori, suoni di campane. I componimenti si susseguono secondo un disegno segreto, che allude al succedersi delle stagioni. Ricorre con frequenza ossessiva, infatti, il motivo della tragedia familiare e dei cari morti. Non mancano però anche in questa raccolta i temi più inquieti e morbosi, che danno corpo alle segrete ossessioni del poeta: l’eros, contemplato col turbamento del fanciullo per il quale il rapporto adulto è qualcosa di ignoto, affascinante e ripugnante insieme (Il gelsomino notturno), e la morte, che a volte appare un rifugio dolce in cui sprofondare, come in una regressione nel grembo materno. Il gelsomino notturno Il gelsomino notturno è una poesia scritta da Giovanni Pascoli in occasione delle nozze di un amico, Gabriele Briganti. Fu Inserita nella raccolta Canti di Castelvecchio nel 1903. È composta da sei quartine di novenari a rime alternate (ABAB); nell’ultima quartina non c’è rima tra il primo e il terzo verso.Gelsomino notturno è uno dei grandi esempi del simbolismo pascoliano dove viene descritta una notte ricca di vita ed eventi. La poesia sprigiona allusioni che creano un clima ambiguo in cui viene esaltata la sensualità, il vagheggiamento del fiorire della vita ma anche il senso di solitudine ed il ricordo dei morti.
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