Docsity
Docsity

Prepara i tuoi esami
Prepara i tuoi esami

Studia grazie alle numerose risorse presenti su Docsity


Ottieni i punti per scaricare
Ottieni i punti per scaricare

Guadagna punti aiutando altri studenti oppure acquistali con un piano Premium


Guide e consigli
Guide e consigli

Origini e sviluppo della World Music: una storia globale - Prof. Semi, Appunti di Musica

Una panoramica storica della world music, esplorando le origini mitologiche delle diverse religioni, le prime descrizioni della world music, l'influenza della musica folklorica e la sua trasformazione in discorso scientifico articolato. Vengono inoltre analizzati i congressi musicali internazionali, come il congresso di musica araba del cairo del 1932, e la diffusione della musica tradizionale in tutto il mondo, come la polka e la musica celtica.

Tipologia: Appunti

2021/2022

Caricato il 24/03/2024

francesca-cacciatore-3
francesca-cacciatore-3 🇮🇹

7 documenti

1 / 43

Toggle sidebar

Documenti correlati


Anteprima parziale del testo

Scarica Origini e sviluppo della World Music: una storia globale - Prof. Semi e più Appunti in PDF di Musica solo su Docsity! Il primo contatto con la World Music può avvenire in una quantità di modi e luoghi diversi. Per esempio, mettendosi in viaggio verso località remote. Oppure scoprendo suoni nuovi nel luogo in cui viviamo. Altre volte, il primo incontro con le musiche del mondo è propiziato dalla mediazione di dischi, video e altre forme di rappresentazione. Gli incontri iniziali con la World Music sono di frequente il risultato di un’esperienza personale, a volte addirittura intima, e spesso producono un’improvvisa presa di coscienza nei confronti delle culture locali. Indipendentemente dalle circostanze in cui si svolgono, questi primi incontri si mostrano in grado di modificare in maniera significativa la nostra percezione della musica e il nostro modo di intendere le sue funzioni e il suo significato nella vita degli individui. In un gran numero di miti la musica viene spesso rappresentata come dono offerto all’uomo da un essere soprannaturale. In quasi tutte le religioni del mondo incontriamo narrazioni riguardanti le origini della musica e ciò ci spinge a guardare a quegli incontri mitologici come una delle condizioni originarie della World Music. Il primo contatto tra le musiche del Vecchio e del Nuovo Mondo ebbe luogo nel 1557, durante il soggiorno del missionario ugonotto Jean de Léry, tra il popolo dei tupinamba, nella zona corrispondente all’attuale baia di Rio de Janeiro. Nel resoconto dell’esperienza, pubblicato nel 1578, Léry parla a lungo della musica di questa popolazione, fornendo trascrizioni di melodie e testi impiegati nel corso di particolari rituali, come pure descrizioni del contesto in cui questi si svolgevano. I tupinamba erano cannibali e prevedibilmente i rituali che accompagnavano il loro consumo di carne umana attirarono l'attenzione di Léry, nonché di altri scrittori del tempo, tra cui Montaigne . Basandosi in gran parte sugli scritti di Léry, questi propose nel suo Dei Cannibali una serie di riflessioni che contribuirono a dare larga diffusione al racconto fatto dal missionario francese del suo incontro con la popolazione indigena brasiliana. Gli scritti di Léry sulla musica di tale popolazione diedero l’avvio ad una serie di descrizioni della World Music, gettando le basi di una tradizione letteraria che si rafforzò durante l'epoca delle scoperte geografiche e l'inizio dell'era moderna, e che culminò alla fine del diciottesimo secolo, nella raccolta di canti popolari pubblicata da Herder , e in numerose altre cronache di incontri musicali. Il resoconto fornito da Léry è importante soprattutto perché ebbe origine dall’impressione che la musica dei tupinamba non fosse poi così lontana da quella della cultura del missionario francese, cioè dalla tradizione musicale occidentale e dalle sue radici nella Grecia antica. Léry descrisse il suo progressivo processo di avvicinamento e di conversione estetica alla musica degli indigeni brasiliani, da una fase iniziale in cui i loro canti gli apparvero come totalmente privi di significato, fino al momento in cui cominciò ad avvertire in quei suoni una vicinanza e persino un’affinità. La natura del contatto iniziale con la World Music fa sì che il ricordo dell’evento ci consenta di tornare quasi fisicamente a quell’istante; è un aspetto fondamentale dell’etnografia musicale - disciplina che abitualmente richiede la compresenza fisica dell’osservatore e delle persone che fanno musica - la quale fornisce un terreno comune alle analisi condotte da studiosi di etnomusicologia, Popular Music, musica folklorica e di tutte le altre discipline che si occupano di World Music. Significati originari della World Music Il termine musica possiede significati differenti in diverse parti del mondo. Guardando la musica da un punto di vista interculturale, apparirà evidente come questa sia spesso alimentata dal significato religioso. Essa può diventare veicolo per dar corpo alla voce della divinità, oppure essere di supporto nello svolgimento di rituali. In molte religioni, alcuni tipi di pratiche musicali evocano l’immagine di attività legate alla magia e all’immoralità. Questi modi diversi ed estremamente variegati della musica di rapportarsi con la religione rivelano qualcosa delle differenti concezioni riguardanti la musica. L’analisi di altri tipi di attività culturali, ad esempio le tradizioni legate ai cicli di vita, la cultura materiale, il cibo, la sessualità, e così via indica come la musica assuma qualità differenti. Tali qualità si manifestano spesso nella pratica musicale. Le proprietà della musica di essere parte di un mondo vissuto si rivelano invece più facilmente nei testi della pratica musicale. Le musiche del mondo sembrano possedere significati essenziali assai diversi e contraddittori. Dal punto di vista occidentale, la musica viene trattata come se fosse un oggetto, una cosa provvista in sé di significato. La reificazione dei significati essenziali della nostra musica è alimentata e irrigidita dal linguaggio con cui ne parliamo e dalle modalità con cui la interpretiamo. La musica viene esaminata sotto forma di opere e pezzi composti da movimenti e sezioni. L’interpretazione della musica come oggetto è però estranea alle culture musicali di molte parti del mondo, dove, ad esempio, talvolta non si ritrova neppure traccia di categorie linguistiche corrispondenti ai nostri concetti di pezzo e di opera. I casi più estremi di complessità della World Music sono costituiti da quelle culture che mancano di un termine equivalente al concetto occidentale di musica. La diversità delle musiche esistenti al mondo ha generato un gran numero di significati, che spaziano dall’idea che la musica possieda un carattere essenzialmente religioso alla diffusa convinzione che l’arte dei suoni costituisca un linguaggio universale. Musicisti originari I musicisti sono presenti in moltissimi scritti di carattere mitologico e filosofico religioso sulle origini della religione della storia, oltre che della musica, ove vi compaiono nei panni di ciò che potremmo definire primi musicisti. Si tratta di figure che si trovano a metà strada tra l’umano e il non umano, e che in qualità di musicisti svolgono due ruoli: quello di esecutori, ma anche quello di artigiani in grado di dar forma al proprio strumento musicale plasmando la materia terrestre o il corpo di un essere privo di vita. Alla figura del primo musicista viene normalmente attribuito il ruolo di far convergere l’attenzione sulle questioni identitarie fondamentali, offrendo la musica come mezzo per individuare delle possibili soluzioni. In questo modo il primo musicista inscrive la musica nei miti di fondazione delle religioni nella storia di tutto il mondo. Per quanto riguarda il ruolo dell’intervento umano nelle origini della musica, la tradizione ebraica presenta due miti originari entrambi narrati nella Genesi, il primo libro della Torah. Nel quarto capitolo del libro la musica compare associata a due diversi tipi di strumenti, quelli costruiti utilizzando parti di animali modellate in forme simili a quelle del corpo umano, e quelli plasmati utilizzando materiale estratto dalla terra. I due tipi di strumenti sono messi in relazione con i due inventori della musica, rispettivamente chiamati Yuval e Tubal Cain. In un’altra parte della Genesi, l’ontologia la musica costituisce il nucleo simbolico di una delle più note vicende bibliche, quella del Sacrificio di Isacco. In questa vicenda, Abramo accetta di compiere l’ordine dato da Dio di immolare il suo unico figlio Isacco. Quando ormai condotto il figlio sull’altare sta alzando su di lui il coltello per portare al termine il sacrificio, Abramo ode la voce di Dio che gli comunica che può sostituire Isacco con un montone intrappolata con le corna nei cespugli vicini. Dopo la conclusione del sacrificio dell’animale, Abramo recupera le corna e ne ricava lo shofar, il Corno, che affiderà al popolo ebraico come strumento rituale fondamentale. Il suono emesso dallo shofar conferisce significato al tempo e alla storia ed esprime in forma sonora l’identità ebraica, riconducendolo ancora oggi ai primi musicisti della Genesi. Per quanto riguarda l’induismo, il primo musicista che compare è Krishna, la cui presenza si manifesta non soltanto nel poema epico indù del Mahabharata, ma anche nell’iconografia musicale contemporanea. Krishna esprime una gamma di qualità divine tra cui la bellezza e l’amore divini. Nel ruolo di primo musicista in numerosi episodi che narrano la sua vita a partire dall’infanzia, nei quali è associato alle gopi, le custodi femminili di mucche, e che rappresentano un altro simbolo della relazione tra anima e divinità. Tale relazione si manifesta in moltissime immagini di Krishna, che lo raffigurano nell’atto di suonare il flauto la crescente frequenza con cui l’espressione musica sufi è stata intesa come categoria estetica autonoma all’interno della World Music, promossa, venduta e consumata come forma di popular music. La musica sufi è diventata l’espressione del nucleo estetico del sufismo globalizzata, ma così facendo è stata esclusa da numerose pratiche sufi tradizionali. Attraverso il distacco dal sufismo e la sua critica estetica della pratica religiosa, la musica sufi ha acquisito una serie di significati completamente nuovi, liberandosi dalle limitazioni imposte dalla necessità di aderire a uno stile musicale e a una funzione di tipo religioso. Ci troviamo perciò di fronte alle contraddizioni prodotte dai due modi diversi di leggere il rapporto tra World Music e globalizzazione. Da un certo punto di vista, la comparsa e la diffusione di musica sufi popolarizzata è stata accolta con favore come parte di un processo storico ampiamente positivo che, per esempio, accompagna in termini generali il revival religioso, in particolare il fondamentalismo islamico. Da un altro punto di vista, lo stesso processo storico è stato invece percepito sotto una luce fortemente negativa. Il caso di Nusrat Fateh Ali Khan rappresenta un esempio di musica che si muove in direzioni molteplici, non in una soltanto, dal momento che il cantante ha continuato ad eseguire un qawwali profondamente imbevuto della religiosità musulmana, mantenendo anzi una distinzione tra questo tipo di musica e le altre musiche da lui eseguite durante i concerti. All’inizio del ventunesimo secolo è diventato possibile parlare al tempo stesso di storicità della World Music. La traiettoria storica della World Music è ampiamente segnata da aspetti come il ritorno e il revival. Nel contesto mondiale della World Music, la musica sufi non esita a prendere parte al rinascimento islamico e a tornare alla venerazione di una genalogia di santi, molti dei quali, come ad esempio il poeta, musicista e pensatore sufi del tredicesimo secolo Amir Khusrau, hanno svolto un ruolo importante nella codificazione delle sue tradizioni musicali. Dovunque esistono World Music popolarizzate emerse da contesti tradizionali ritroviamo la nozione di ritorno e di revival. In altre zone del mondo islamico, come ad esempio in Turchia, il genere di popular music, conosciuto sotto il nome di arabesk, formula una critica della società turca moderna, e lo fa abbracciando uno sguardo nostalgico con precedenti stili popular, ma anche musiche folcloriche regionali provenienti dalle zone rurali e tradizioni religiose legate alla fede islamica. Nella World Music la tradizione ritorna continuamente, non per essere esaurita o relegata nel passato, ma per essere integrata nel presente con nuovi significati. La storicità risultante da questo processo mostra analogie con numerose critiche della modernità prodotte nel ventesimo secolo, particolarmente con il concetto di Wiederholung (ripetizione) elaborato da Martin Heidegger e con lo smantellamento filosofico della tradizione operato da Jacques Derrida con la sua decostruzione. Nel momento in cui diventa popular music, la World Music si appropria del passato e della tradizione per mettere in atto una rottura radicale nei loro confronti. Il grande paradosso è insito nel fatto che la popular music ristabilisce le condizioni dell’incontro perché la sua storicità, contrassegnata dal ritorno e alimentata dal revival, produce anche l’effetto di rinnovare l’incontro. I musicisti locali finiscono per dipendere dalla presenza di un’industria musicale globale. Le funzioni armoniche e melodiche tradizionali devono attraversare un processo di trasformazione che consenta loro di venire inscritte nell’armonia occidentale ed essere così riconfezionate per il consumismo globale. 2. L’Occidente e il resto del mondo I primi documenti della World Music La nota etnomusicologa Frances Densmore, autrice di una vastissima raccolta di registrazioni di musiche delle popolazioni indigene del Nord America, è ritratta a Washington D.C. mentre siede a fianco di Mountain Chief, capo della tribù degli indiani piedi neri. Il capo indiano si prepara ad eseguire i propri canti in presenza della studiosa, a cui spetterà poi il compito di trasformarli in segni tracciati sulla mappa musicale degli indiani d’America. Il religioso e appassionato di canti folklorici francese e Louis Pinck (1873-1940) è ritratto nel villaggio di Steinbersdorf, nell’Alsazia-Lorena, il 29 Aprile 1938 mentre si appresta a registrare sull’apparecchio a cilindri di cera la quasi centenaria Mama Türk nell’esecuzione di alcuni antichi canti. Si tratta di immagini che testimoniano un particolare momento etnografico della storia della World Music. Quello che riguarda l’impiego di mezzi tecnologici di rappresentazioni per spogliare il nativo della sua musica e appropriarsene per fini di intrattenimento, di studio o di consumo, operazioni condotte da coloro che non possiedono la musica ma controllano la tecnologia in grado di dominarla. Le nozioni di World Music, oggi come in passato, non soltanto riflettono ma incoraggiano una divisione del mondo tra chi detiene il potere e chi ne è privo. È un interrogativo fondamentale della storia della World Music: perché questa musica diventa un cuneo che si insinua tra l’occidente e il resto del mondo per separarli? La seconda questione riguarda le apparecchiature e gli strumenti che ci consentono di riprodurre e studiare la World Music. Questo quesito ci costringe a interrogarci sul problema della proprietà della musica. Erich Moritz von Hornbostel (1877-1935), uno dei numi tutelari della musicologia comparata tedesca, è l’autore di due raccolte di registrazioni che hanno messo in evidenza modelli di World Music radicalmente differenti. Tali modelli sono perfettamente visibili nelle prime antologie a stampa delle musiche del mondo, per esempio nella raccolta in due volumi di canti popolari pubblicata da Herder, così come in quasi tutte le più recenti compilation di World Music pubblicate su CD o attraverso Internet, utilizzate per fini educativi o per divertimento. Le due antologie analizzate rappresentano il primo tentativo fatto da un etnomusicologo di comporre su disco la diversità in modo da fornire una descrizione della musica del mondo. Erich Moritz von Hornbostel fu responsabile dell’organizzazione dell’editing di entrambi i progetti, che rivelano però alcune differenze fondamentali. Innanzitutto le due antologie sono pensate per pubblici diversi, cioè per diversi generi di utilizzatori e consumatori. L’esame della Demonstration Collection (1963) e della Music of the Orient (1979), pubblicata per la prima volta nel 1934 come una delle prime antologie su disco. Nell’insieme, le raccolte prodotte da von Hornbostel costituiscono un importante primo passo verso un uso delle antologie sonore che va oltre la semplice archiviazione delle registrazioni sul campo, e che intende piuttosto mettere quelle registrazioni a disposizione degli studiosi e di un ampio pubblico di consumatori non specialisti. Lo scientifico e il popolare rappresentano spesso due diversi aspetti del processo di mediazione. Da un lato queste raccolte ci permettono di osservare quali fossero i principali interessi dei primi musicologici comparativisti: le antologie contengono esempi pensati per dar conto delle origini e dell’autenticità della musica. Il viaggiatore delle musiche del mondo esplora l’antologia per mezzo di una mappa comparativa: a ogni nuovo avamposto l’ascoltatore arricchisce di nuovi suoni la propria conoscenza della diversità della musica. Qui entrano in gioco anche altri interessi che i primi studiosi di musicologia comparata consideravano irrilevanti, per esempio, la diffusione della musica come oggetto di cultura e la possibilità di identificare l’esistenza di religioni culturali. L’obiettivo degli autori dell’antologia è quello di tracciare nuove mappe del mondo servendosi della musica. Le antologie possono essere viste anche come raccolte di curiosità sonore la cui attrattiva deriva dalla mancanza di familiarità del pubblico con i suoni in esse contenuti. Le antologie di Hornbostel disegnano due mappe della musica del mondo che appaiono immediatamente e assolutamente diverse. La Demonstration Collection vede la World Music partendo dal basso, mentre Music of the Orient lo fa invece partendo dall’alto. La prima raccolta è un guazzabuglio di esempi molto brevi (42), spesso eseguiti da musicisti anonimi reclutati nei territori più estremi della ricerca tecnologica. Anche gli esempi che riguardano l’Europa infatti provengono da repertori ritenuti molto antichi, addirittura preistorici. La raccolta dedicata all’Oriente è invece caratterizzata da un interesse per pratiche riconducibili alla musica d’arte. La seconda antologia contiene un numero di esempi minori (24), molti dei quali sono frammenti di esecuzioni più ampie. Entrambe le antologie testimoniano un interesse di tipo storico, che però si manifesta in forme completamente diverse. Nella Demonstration Collection, la storia inizia con gli esempi più antichi, dispiegandosi lungo un percorso che procede in direzione di una maggiore complessità. Nell’altra antologia invece Hornbostel segue il modello storico orientalista sistematizzato da Hegel e dagli storici europei del diciannovesimo secolo, secondo il quale il cammino della civilizzazione procede da est verso ovest, ovvero da Oriente a Occidente. La Demonstration Collection La selezione mette insieme esempi sonori raccolti da studiosi, funzionari coloniali e missionari, individui dediti alla documentazione delle prime forme di musica e della trasformazione di questa in discorso scientifico articolato. La storia della Demonstration Collection copre un arco di tempo di quasi un secolo e fornisce anche una storia collettiva della scuola di Berlino, la più influente scuola della prima ricerca etnomusicologica e dei più importanti studiosi del ventesimo secolo in quest’ambito. Si sa che la Demonstration Collection utilizza esempi sonori raccolti esclusivamente in un arco di tempo compreso tra il 1900 e il 1913. La Musica Dell’Oriente Music of the Orient è un’antologia che ha senza dubbio obiettivi molto diversi da quelli della Demonstration Collection. A partire dai primi anni 30, sull’onda di una polarizzazione del sapere umanistico, erano comparsi un notevole numero di monografie di studi di tipo divulgativo sulle musiche del mondo. Durante gli anni 20, inoltre, le registrazioni sonore avevano guadagnato sempre un maggior spazio all’interno della sfera pubblica, trovando nuove platee che disponevano di un grammofono all’interno delle proprie abitazioni. Music of The Orient fu pubblicata dall’etichetta Odeon e Parlophone (all’epoca due case discografiche transnazionali, con sedi rispettivamente in Germania e Inghilterra), e realizzata con l’esplicita intenzione di trarre vantaggio dai profondi cambiamenti manifestati in quegli anni nel panorama del consumo di musica. Music of the Orient raggiunse una diffusione molto più ampia della Demonstration Collection, facendole scendere a zero le vendite. Considerata da numerosi punti di vista, le due antologie sul disco rappresentano musiche africane completamente dissimili dal punto di vista geografico, ontologico e storico. La Demonstration Collection dedica notevole attenzione all’Africa Sub-Sahariana, oggetto di brame coloniali da parte della Germania nel periodo precedente alla Prima Guerra Mondiale, mentre Music of the orient prende in considerazione soltanto l’Africa del nord. Nella prima antologia luogo di raccolta del materiale è rappresentato dal campo e dalla stazione missionaria, luoghi in cui, con la complicità della musicologia comparata, si svolgeva un tipo di attività di elaborazione culturale assai particolare. Il luogo di raccolta del materiale proveniente dall’africa Del Nord è invece rappresentato dalla città, il centro urbano cosmopolita in cui influenze andaluse e influenza occidentali moderne si fondono con le antiche concezioni di vita. L’esempio in questione era stato raccolto da un altro musicologo, il collega berlinese Robert Lachmann. In entrambi i casi vediamo i musicisti spostarsi lungo un percorso storico che li conduce in prossimità dell’occidente, attraverso la conversione alla cristianità dell’africa subsahariana, pure attraverso lo smantellamento delle frontiere tra Europa e Nordafrica nella canzone d’arte tunisina, che giocherà un ruolo dire che tutti gli esseri umani producono musica con il fine di esprimere se stessi e i tratti distintivi delle culture che li uniscono agli altri individui. Nella sua visione, inoltre l’origine comune dei linguaggi del canto contribuisce significativamente alla storia di un popolo, concorrendo allo sviluppo della letteratura, della pratica religiosa e dell’atteggiamento adottato nei confronti delle altre culture. Herder è stato un individuo dai molteplici interessi, a suo agio in campi come la teologia, la filosofia, la linguistica e lo studio approfondito della storia e della cultura. All’interno delle discipline da lui dominate emergeva l’interesse nei confronti della musica. Figlio di un maestro di cappella protestante (Kantor), attivo in una zona rurale della Prussia orientale, Herder amò fin da piccolo i canti liturgici, in particolare l’innodia praticata a livello locale, nella quale si fondevano tradizioni orali e scritte. Herder non era soltanto un musicista dilettante: nel corso della sua vita fu anche autore di diverse musiche, collaborò con compositori come Johann Christoph Friedrich Bach (uno dei figli di Johann Sebastian Bach) e con musicisti di Corte, scrivendo testi per loro, e incorporò temi musicali nella propria opera poetica, che fu poi messa in musica da vari compositori, tra cui Beethoven, Schubert, Brahms e Richard Strauss. Le prime manifestazioni di quello che sarebbe in seguito diventato un profondo interesse nei confronti del canto popolare appaiono con evidenza nel suo incontro con Goethe, tenutosi a Strasburgo nel 1770, e cioè esattamente nello stesso periodo in cui questi stava raccogliendo i canti popolari alsaziani, più tardi riuniti in quella che i folkloristi tedeschi considerano una delle prime antologie nate dalla ricerca sul campo. Lo stesso Herder manifestò particolare interesse per i canti popolari provenienti dalle periferie dell’Europa germanofona, e nelle sue raccolte dimostra una notevole attenzione nei confronti delle tradizioni provenienti da paesi come Estonia e Lettonia. Il ruolo di Herder come uno degli inventori della World Music è giustificato anche dall’influenza da lui esercitata su numerose aree critiche del pensiero illuminista, e in seguito sugli sviluppi romantici modernisti di tale pensiero. Herder è considerato l’artefice di diverse formulazioni fondamentali del nazionalismo, e l’autore di riflessioni sulla musica popolare che gli studiosi del diciannovesimo e ventesimo secolo hanno poi esteso alla musica nazionale e alla musica etnica. In qualità di co-inventore della World Music, Herder solleva il problema del rapporto tra l’Occidente e il resto del mondo, tra una visione della musica folklorica come riflesso della storia europea oppure come espressione della storia del mondo. In effetti gli scritti di Herder sulla musica manifestano una considerevole ampiezza di respiro e si mostrano più interessati alle musiche prodotte dalla periferia dell’Europa che alla musica popolare tedesca in sé. Dopo di lui, l’atteggiamento occidentale nei confronti della musica folclorica e della World Music è cambiato radicalmente. Herder fu in grado di tracciare la sua mappa della filosofia e della storia partendo dalla propria posizione di vantaggio come intellettuale mitteleuropeo. Ma egli seppe estendere quella mappa al mondo intero, ai popoli e alle nazioni del mondo, che, nelle intenzioni di Herder, si sarebbero completamente rivelati ai lettori proprio attraverso la musica. I Grammy per la world music: due istantanee A partire dai tempi di Herder la World Music è stata inventata e reinventata più volte. Da allora sono nate nuove definizioni e sono state elaborate nuove rappresentazioni dettagliate di suoni e repertori nuovi. La raccolta e la registrazione di musiche del pianeta è diventata più efficiente e i contatti tra culture, prima saltuari sono diventati più frequenti. Due secoli dopo Herder il termine world music abbraccia un'enorme quantità di musiche. La persistente presenza nella ricerca sul campo degli studiosi, i quali, dai primi eruditi agli etnomusicologi contemporanei sono entrati in contatto con gli altri attraverso esplorazioni e viaggi etnografici, con l'intenzione di conservarne e archiviarne la musica. La storia non è cambiata in modo sostanziale neppure nel ventesimo secolo, periodo nel corso del quale la produzione e il consumo di registrazioni sonore hanno acquisito un’enorme importanza commerciale. Il potenziale economico delle registrazioni di world Music, rivelatosi inizialmente nella prima metà del Novecento, è cresciuto rapidamente verso la metà del secolo, per manifestarsi completamente all'interno del mercato discografico commerciale negli ultimi 25 anni. La vendita di world music, prima sotto forma di LP in vinile e poi, a partire all'incirca dal 1990 di Compact Disc, ha raggiunto dimensioni economiche rilevanti e ha di fatto creato nuove forme di squilibrio di potere tra l'occidente gli altri, legati alla modalità di raccolta e di registrazione della musica. Come durante l'Illuminismo, i modi più recenti di rappresentare la world music hanno dato origine alla comparsa di numerosi neologismi: dove Herder aveva saputo elaborare un termine altamente inclusivo come Volkslied, l’industria discografica contemporanea ha coniato termini come global-pop, worldbeat e per l'appunto world music. Santiago, Grammy per il migliore album di world music nel 1997 Prima dell'epoca delle scoperte geografiche, Santiago De Compostela era per gli europei simbolo dei confini occidentali del mondo allora conosciuto. Per una serie di motivazioni tra le più diverse, il pellegrinaggio a Santiago definiva l'Occidente, ammonendo i cristiani che oltre ai limiti estremi dell'Europa c'era l'ignoto. Su questa città, nella Spagna nord occidentale, nella regione oggi chiamata Galizia, convergevano i pellegrini provenienti da tutta l'Europa medievale, dopo lunghissimi viaggi segnati e scanditi da canti e cerimonie religiose. Ciò fece del luogo di pellegrinaggio spagnolo anche un centro della world music. Le pratiche musicali che accompagnavano i pellegrini medievali furono registrate da documenti scritti, i quali, a loro volta fornirono una selezione e favorirono il consolidamento delle musiche del mondo, anche se originate ai margini estremi all'orizzonte medievale. Nel 1996, il gruppo tradizionale irlandese dei Chieftains decise di registrare un album dedicato al pellegrinaggio a Santiago de Compostela. Ciò li condusse a imboccare il percorso medievale verso i limiti occidentali del mondo, ma a percorrere allo stesso tempo una deviazione. Tra i pionieri del wordbeat celtico, i Chieftains hanno compiuto alla fine del ventesimo secolo un viaggio musicale che ha trasformato Santiago nel centro del mondo celtico. In questo modo la Galizia, la regione culturale che comprende Santiago, ha arricchito l'immaginario celticista di nuovi territori, attraverso i quali estendere i confini dell'Europa celtica, contribuendo a definire come area celtica tutta la fascia Costiera Atlantica dell'Europa occidentale, da nord a sud. Il viaggio musicale dei Chieftains di Santiago, comunque, non procede soltanto in direzione centripeta verso la città spagnola, ma muove in maniera centrifuga verso il mondo della musica galiziane e celtica, invitando altri viandanti della World Music a unirsi al viaggio. Nell' album, la band irlandese per esempio si unisce al gruppo dei Los Lobos e a Linda Ronstadt a Guadalupe, in Messico, che oggi costituisce il più grande centro di pellegrinaggio del mondo. La polka eseguita dei suonatori di cornamuse irlandese e di gaita galiziana funge da contrappunto popolare al canto medievale e al canto religioso asturiano. Due pezzi provenienti da Cuba vedono Ry Cooder imbracciare la mandola per intonare melodie afrocubane, nate in territori in territori di cui pellegrini in viaggio verso l’Occidente neppure sognavano l’esistenza. Santiago aveva tutte le caratteristiche necessarie per ottenere il Grammy come miglior album di musica del 1997. Il disco fondeva musica tradizionale e stili popular, e attraverso il suo ampio ventaglio di collaborazioni musicali simboleggiava una visione artistica che aspirava ad abbracciare il mondo intero. Oltre agli sconosciuti musicisti folklorici arruolati lungo la strada per Santiago, infatti, l'album ospitava anche importanti figure internazionali ampiamente osannate dagli organizzatori dei Grammy, ai quali veniva ascritto il merito di aver salvato dall’oblio i talenti della World Music, permettendo loro di incidere un disco. Anthology of American Folk Music, Grammy per la migliore registrazione storica del 1998 Attraverso la riedizione, la ripubblicazione e ri-confezionamento dell’Anthology of American Folk Music di Henry Smith, lo Smithsonian Institution ha scritto nel 1997 un capitolo significativo nella storia della world music. L’America contenuta nelle registrazioni originali di Smith, pubblicate dalla Folkaways negli anni cinquanta, era compresa soltanto parzialmente nel versante che potremmo definire World della world music. Talento multiforme ed eccentrico di proporzioni straordinarie, Smith mise insieme la sua antologia assemblando vecchie registrazioni commerciali provenienti da etichette etniche, race labels, sconosciute case discografiche locali e dischi a 78 giri autoprodotti. Harry Smith rappresenta da molti punti di vista una sorta di cugino intellettuale novecentesco di Johann Gottfried Herder. Come Herder, Smith aspirava ad estendere i confini del mondo e raccolse sotto il nome di “musica folklorica americana” ogni genere di musica locale presente all'interno dei confini degli Stati Uniti. Il suo interesse per il ruolo della registrazione sonora, al tempo stesso lo apparenta anche a un personaggio come Erich Moritz von Hornbostel. Il suo obiettivo principale sembra essere stato quello di utilizzare la musica per ridisegnare la geografia e la storia culturale degli Stati Uniti, e di far ciò abbattendo i confini tra una musica folklorica americana e il resto del mondo. Nell’Anthology of American Folk Music s'intrecciano una quantità di discorsi che appaiono però unificati da un uso complesso della registrazione sonora. Il progetto di Smith utilizza la registrazione per produrre un’antologia che funge da documentazione di altre registrazioni preesistenti. Tra storia e mito Il Congresso di musica araba del Cairo, 1932 Durante la primavera del 1932, la capitale egiziana del Cairo fu per un mese epicentro di numerosi dibattiti sulla posizione della musica araba all’interno del panorama della musica mondiale. Il Congresso di musica araba, ideato da Mahmoud Ahmad al-Hifni (1896-1973), riunì i maggiori studiosi e musicisti europei e i più importanti musicisti del mondo arabo, dal Marocco all’Iraq. Al-Hifni, che all’epoca ricopriva la carica di ispettore musicale presso il ministero dell’istruzione egiziano, godeva di un forte sostegno da parte di re Fu’ad I e si avvalse dell’assistenza amministrativa dell’accademia di musica orientale. Il Congresso mirava al riconoscimento dell’enorme apporto dato dalla musica araba alla storia della musica mondiale del passato, e intendeva preparare il terreno futuro a contributi artistici ancor più rilevanti. Il Congresso doveva abbracciare tutta la musica araba scrivendo il nome a chiare lettere negli annali della musica del mondo. Gli obiettivi del Congresso di musica araba nel 1932 erano ambiziosi, e avevano tutte le apparenze di un incontro che avrebbe cambiato il corso della storia della World Music. Gli europei vennero invitati dal Congresso non soltanto per discutere del passato, ma anche per dare il loro parere di esperti sul percorso più opportuno da adottare per il futuro. L’elenco delle autorità della musica e dell’etnomusicologia presenti è in effetti impressionante: dai compositori Paul Hindemnit e Béla Bartòk agli orientalisti Henry George Farmer e il barone Carra de Vaux, per finire con etnomusicologi del calibro di Curt Sachs, Erik Moritz Von Hornbostel e Robert Lachman. Le delegazioni provenienti dal Nord Africa e dal Levante portarono con sé numerosi ensemble di musica folklorica ed arte, i cui concerti dovevano testimoniare il pieno appoggio fornito dai governi di paesi che andavano dal Marocco al Libano alla cultura musicale di una nazione che stava facendo il suo ingresso nella comunità internazionale modo quella degli ebrei sefarditi che parlavano ladino, una sorta di dialetto derivato dallo spagnolo. La musica del Nordafrica non poteva essere esclusa dal quadro del crescente interesse per le storie mondiali della musica: anzi, è stata proprio quella musica a rendere possibile quelle storie. La presenza dell’islam, del Nordafrica e del Medio Oriente è percepibile in tutta la musica europea prodotta a partire dal diciottesimo secolo. Umm Kulthum: nascita di una stella Molti ritengono che Umm Kulthum (1904-1975) sia stata la più famosa cantante del ventesimo secolo. Essa raggiunse un’immensa popolarità come artista discografica. È sufficiente visitare qualsiasi luogo del mondo islamico in cui si venda musica registrata per trovare dischi e cassette di Umm Kulthum in quantità. Durante la parte conclusiva della sua carriera, la cantante divenne popolare in Egitto soprattutto per le trasmissioni radiofoniche visive, e ciò ha dato l’origine alla leggenda nazionale secondo cui l’ascolto della sua voce era in grado di immobilizzare completamente il paese. Nei film da lei interpretati e in quelli realizzati su di lei, l’importanza della figura di Umm Kulthum come donna, come musicista e come cittadina egiziana è giunta trascendere la società egiziana stessa e a penetrare nel mondo della World Music. La fama e la presenza della musica di Umm Kulthum, non soltanto sono sopravvissute alla morte dell’artista ma sono addirittura cresciute grazie al boom del worldbeat e dei meccanismi limiti d’azione caratteristici dell’epoca post coloniale. Da molti punti di vista la cantante condusse in esistenza abbastanza tradizionale. Figlia di un imam, ossia del responsabile della moschea locale, la futura superstar egiziana si avvicinò al canto durante l’infanzia all’interno di un contesto rigidamente musulmano, cominciando a frequentare la scuola religiosa del villaggio all’età di cinque anni. In tale scuola lo studio era basato sulla declamazione ad alta voce del Corano, il che implicava l’apprendimento delle regole della recitazione. Ben presto Umm Kulthum poté unirsi al padre, presenziando ai matrimoni e alle altre festività religiose a cui questi prendeva parte in qualità di cantante semi professionista. Fu così che imparò a cantare e acquisì un repertorio di canti religiosi. Da ogni punto di vista, il canto tradizionale costituì la base dello stile del repertorio di Umm Kulthum per tutta la vita. L’approccio con cui la cantante utilizzava la modalità era fondato sulla recitazione del Corano, la forma e la funzione della prosodia e delle strutture poetiche impiegate si basavano su testi sacri. La cantante è diventata una figura di livello internazionale proprio a causa del contesto tradizionale in cui è cresciuta e della sua riluttanza a trasgredire le regole di tale contesto. Le canzoni di Umm Kulthum evocavano un universo principalmente locale piuttosto che globale. Si trattava di un universo al tempo stesso collettivo e privato, che manifestava la risonanza estetica del canto sacro nel tempo presente e contemporaneamente apriva la tradizione a nuove prospettive politiche rispetto a un mondo in trasformazione. L’islam e il significato della musica In Nordafrica e nel Mediterraneo orientale il discorso sulla musica il discorso sulla musica risulta difficoltoso a causa dei problemi e della confusione che emergono dall’atteggiamento islamico nei confronti della musica. Secondo alcune opinioni l’islam vede la musica secondo una luce assolutamente negativa, mentre secondo altre i testi islamici rivelano un atteggiamento ambiguo nei confronti della pratica musicale. Coloro che sostengono l’accettabilità della musica da parte della religione islamica di solito fondano il loro giudizio su due principali fonti letterarie: il Corano e le numerose opere interpretative che hanno per oggetto gli insegnamenti del profeta Maometto, chiamate commentari. Nessuna delle due fonti formula un giudizio chiaro sulla musica. Alcuni capitoli del Corano sembrano accettare le attività che hanno una relazione con la musica, mentre altre sono spesso citate come prova della condanna della musica da parte di Maometto. Anche in questo tipo di fonti primarie non si parla tanto della musica in sé, quanto piuttosto delle attività culturali cui essa può essere associata, come ad esempio la poesia e la danza. La letteratura teologica dell’islam dei primi secoli raramente discute in dettaglio delle arti, mentre i primi scritti islamici che affrontano tale dibattito di rado lo fanno, fornendo ciò che si potrebbe definire per una teoria estetica. Non deve dunque stupire che l’islam moderno abbia assunto posizioni tanto diverse nei confronti della musica, all’interno delle quali si colloca anche il bando della musica proclamato dal regime dei talebani afghani. I riferimenti alla musica che si trovano nei primi scritti dell’islam hanno un carattere accidentale, e compaiono insieme a giudizi su credenze e fenomeni sociali preislamici che la religione mussulmana considera inaccettabili. A ciò va aggiunto il fatto che i commentari avevano spesso origini nei territori conquistati durante l’espansione dell’islam e dunque in un primo tempo facevano riferimento alle attività culturali locali in chiave esplicitamente didattica. Nel periodo della diffusione di dell’islam in Nordafrica la musica rimase sostanzialmente estranea alle preoccupazioni di ordine religioso. La recitazione del Corano e la chiamata alla preghiera non erano affatto concepite come attività dei tipo musicali, ma piuttosto come pratiche definite con il termine di lettura. Nella lettura dei testi religiosi la musica svolge un ruolo di puntualizzazione di significato. Tra ciò che alle orecchie dell’ascoltatore occidentale può risultare come musica, all’interno di un contesto musulmano passa indiscutibilmente in secondo piano rispetto all’interesse nei confronti della proiezione del testo e dell’espressione religiosa. Questo spiega perché in Nordafrica i generi di musica strettamente vocale godono di maggior favore rispetto a quelli che prevedono l’uso degli strumenti musicali. Lo sguardo dell’etnomusicologo. Robert Lachmann in Nord Africa Robert Lachmann (1892-1939) aveva effettuato numerose spedizioni di ricerca nel Magreb già negli anni 20. Forte di tale esperienza venne dunque scelto come relatore ufficiale dai musicisti, compositori e studiosi europei che si recarono al Cairo per prendere parte al Congresso. Nel corso delle spedizioni etnomusicologiche Lachmann modificò radicalmente la sua visione della musica del Magreb all’epoca delle prime ricerche condotte in Nordafrica negli anni 20. Lo studioso considerò le proprie esplorazioni come un viaggio nel passato dell’Europa, per mezzo del quale sarebbe stato in grado di trovare tracce di musica rimaste immutate per secoli. Lachmann riteneva che se fosse riuscito a condurre le proprie ricerche etnografiche abbastanza lontano dal mondo moderno e urbanizzato del nord del Mediterraneo, sarebbe forse arrivato a documentare la preistoria della musica europea. I risultati delle sue ricerche, tuttavia, lo condussero molto lontano rispetto alle aspettative. Nel corso di una delle più lunghe spedizioni sul campo da egli condotta in Tunisia, Lachmann decise di focalizzare l’attenzione sulle antiche comunità ebraiche presenti sull’isola di Djerba, situata nel Mediterraneo, al largo della costa orientale del paese. Djerba presentava tutte le caratteristiche tipiche di una cultura musicale isolata e costituiva una specie di laboratorio ideale per la musicologia comparata degli anni 20. Grazie all’antichità delle comunità ebraiche ivi residenti, la ricerca sull’isola doveva servire ad avvalorare le ipotesi teoriche formulate all’epoca da A.Z. Idelsohn e da altri studiosi ebrei, i quali immaginavano che la musica ebraica si fosse conservata dall’epoca precedente alla distruzione del secondo tempio di Gerusalemme (70 d.C.). Non si trattava di trovare un anello mancante, bensì di scrivere il primo capitolo della storia della musica dall’antichità ai giorni nostri. La musica raccolta da Robert Lachmann sull’isola, tuttavia, mise in evidenza caratteri che sembrano appartenere più alla modernità che all’antichità. Innanzitutto, la maggior parte della musica sacra, come ad esempio quella impiegata nelle sinagoghe e nei villaggi di Djerba, pur essendo chiaramente ebraica nei testi e nella funzione rituale, suonava del tutto simile alla musica che si poteva ascoltare nei villaggi musulmani dell’isola e di altre zone della Tunisia. In secondo luogo, gli strumenti e le strutture modali, in gran parte della musica secolare presentavano caratteri indistinguibili da quelli di altri stili magrebini. In terzo luogo la musica delle donne dei villaggi ebrei di Djerba era praticamente identica a quella presente nei repertori vernacoli della popolazione musulmana. Lachmann si rese conto che era impossibile affermare che la musica dell’isola era rimasta ebraica e che si era preservata nel tempo grazie all’isolamento del territorio, al largo della costa Nord africana. La scoperta però non scoraggiò Lachmann, il quale si domandò come si fossero determinate le condizioni che avevano reso possibile quel processo di ibridazione culturale. Lo studioso, trovò la risposta in un attento ascolto e in un’analisi della musica che aveva raccolto. Benché fisicamente isolata, Djerba sorgeva lungo un importante percorso di pellegrinaggio che dal Nord Africa conduceva verso il Mediterraneo orientale. L’isola aveva ospitato pellegrini, ebrei e musulmani che, dopo la loro partenza avevano lasciato tracce delle proprie musiche, parte delle quali erano state poi integrate nella musica del luogo. Fatto ancor più significativo, ebrei, musulmani e altri individui residenti sull’isola e sulla terraferma mostravano di possedere una vita musicale comune e di praticare intensi contatti sociali piuttosto che la testimonianza archeologica di un passato remoto. La musica degli ebrei di Djerba era perciò una prova della verità del presente. Negli ultimi 10 anni di vita, l’esistenza di Robert Lachmann fu segnata da molte delle tragedie che colpirono gli intellettuali ebrei tedeschi. Con l’ascesa al potere del nazismo nel 1933 egli perse il posto di Bibliotecario. Si vide preclusa ogni possibilità di carriera nella Germania di Hitler. Grazie alle numerose attività come studioso e come direttore di una rivista scientifica, Lachmann riuscì a ottenere il sostegno della Giovane Università Ebraica. Questa gli chiese di trasferire il suo archivio e il suo laboratorio etnomusicologico a Gerusalemme, dove lo studioso tedesco gettò le fondamenta della moderna musicologia israeliana. Nelle pubblicazioni e nelle conferenze tenute prima della sua morte avvenuta nel 1939, Lachmann descrisse il Nord Africa e il Mediterraneo orientale come un mondo musicale moderno e addirittura multiculturale, dove il cambiamento e il processo di adattamento delle condizioni di vita contemporanee avevano generato una cultura ibrida. Il Raï nella mediazione tra passato e presente Nessun altro tipo di Popular Music Nord africana è riuscita a guadagnarsi un posto tanto centrale nell’immaginario post moderno quanto il Raï, termine il cui significato può essere tradotto come opinione o punto di vista. Il Raï è la musica dei diseredati urbani nordafricani, specialmente di quelli che vivono in paesi come l’Algeria e il Marocco orientale. Si tratta di una musica che da molti punti di vista presenta radici e caratteri originari piuttosto particolari. Il Raï ha fatto la sua comparsa durante l’epoca coloniale, quando il Magreb era sotto la dominazione della Francia. Esso si è sviluppato come musica prodotta da sottoculture che si trovano tra il mondo rurale e la società urbana. I musicisti di Raï, suonavano ai margini della città all’interno dei locali socialmente ed economicamente marginali. Si trattava di un tipo di musica praticata da persone molto diverse fra loro, parecchie delle quali sicuramente non sarebbero state autorizzate a cantare in pubblico dall’islam ortodosso: è stato questo, specialmente, il caso delle donne, nonché di musicisti appartenenti a diverse minoranze etniche e religiose. La posizione marginale del raï ne favorì la fioritura come musica contrassegnata dall’ibridità. I testi dei cantanti, per lo più in dialetto, erano in contrasto con l’arabo classico e con il francese adottato dalle élite urbane. I contenuti erano caratterizzati da una complessa stratificazione di significati, da un legame tra temi sessuali e politici. Dal punto di vista musicale, il raï attingeva da tutti gli stili musica rom (zingara) sulla tradizione occidentale. La musica folklorica si è sviluppata a partire da un discorso musicale di ungheresità. Questo discorso ha avuto implicazioni di grandissima rilevanza, dal momento che ha sollevato questioni non solo d’identità etnica ma anche di purezza razziale e di integrità nazionale. La messa in scena nel giugno 2001 di Matrimonio di Moltin e Kiss per La rassegna di una notte d’estate a Budapest sembrava conformarsi perfettamente al tipo di prodotto generalmente proposto ai turisti nel corso di questo genere di manifestazioni. È però abbastanza difficile conoscere la reazione del turista, dal momento che alla fine nulla è stato fatto per rendere lo spettacolo particolarmente tourist-friendly. L’organizzazione ha fornito spiegazioni soltanto in lingua ungherese, senza traduzione e non ha distribuito alcun genere di testo scritto e non c’è stato alcun tentativo di spiegare perché le tradizioni dei villaggi ungheresi della Slovacchia, particolarmente autentiche e affascinanti, mantenessero una rilevanza storica nella Budapest del ventunesimo secolo. La ragione per cui ciò non è avvenuto e che il pubblico era perfettamente cosciente del fatto che la danza e la musica tradizionali continuavano a incidere con forza sulla storia dell’Ungheria moderna, mettendola in scena all’interno dei bastioni della vecchia Ungheria. La musica folclorica nel passaggio dal mito alla storia Si potrebbe sostenere che i canti e la musica folclorica rappresentino la World Music originaria, il filone principale di una tradizione storica che connette la musica agli eventi globali. Quando in pieno secolo dei Lumi Johann Gottfried Herder coniò il termine Volkslied (canto popolare), egli scelse intenzionalmente di documentarlo, con esempi provenienti da tutto il mondo a lui noto. Vi incluse perciò i canti raccolti dai missionari nell’America Latina coloniale, affiancandoli ai brani poetici scritti da Shakespeare e Goethe. I canti popolari di Herder presentavano tratti nazionali, puntellavano i confini linguistici, ma al tempo stesso li trasgredivano. Herder immaginava per il canto popolare una diffusione altrettanto ampia e abbondante come musica nel mondo. La musica folclorica ha reso possibile immaginare il mondo da un punto di vista musicale e ciò è avvenuto da una prospettiva specificamente europea. Quando gli studiosi europei hanno abbracciato gli studi originali di Herder ed esaminato la musica folclorica, al di là dei confini dell’Europa, il più delle volte hanno trovato suoni che somigliavano a quelli della musica folklorica europea. Di frequente gli studiosi hanno attribuito alla musica folklorica un carattere di estrema mobilità che ha consentito loro di passare al setaccio il mondo alla ricerca di varianti che avevano accompagnato la migrazione di interi popoli. Allo stesso tempo, l’operazione di mappatura della musica folclorica mondiale presentava tutti i caratteri del colonialismo. Non è un caso, infatti, che l’ideologia della musica folclorica sia stata chiamata in causa anche per giustificare l’espansione europea. La raccolta di musica folklorica costituiva parte integrante degli incontri effettuati dagli europei intorno al globo. E questa musica finì per riflettere progressivamente l’ideologia della modernità sotto forma non soltanto di colonialismo, ma anche di nazionalismo e di una ricerca fondamentalistica dell’autenticità. La musica folklorica esercita un’attrazione nei confronti di ideologie politiche, tanto di sinistra quanto di destra, è servita come simbolo della modernità e al tempo stesso ha fornito un’espressione del suo malcontento. Gli spazi temporali della musica tradizionale sono resi possibili dalle sue numerose qualità narrative, ossia dalla sua capacità di raccontare delle storie. Queste possono essere narrazioni che parlano di individui e di comunità e talvolta conferiscono una dimensione universale ai singoli momenti che compongono il racconto dell’esistenza umana. Costruiscono storie e personaggi esagerati, nati dalla fantasia, oppure forniscono narrazioni ispirate a fatti storici specifici. Alcuni repertori di canti folklorici sono legati strettamente ai riti di passaggio, mentre altri ormai lontani molte generazioni dagli eventi storici che li hanno visti nascere, danno origine a uno spazio narrativo che ricrea il passato nel presente. Per quanto diverse tra loro, tutte queste qualità narrative trasformano il canto e la danza folclorici in luoghi in cui mettere in scena gli eventi complessi che definiscono una comunità, una zona geografica o una nazione. L’immagine stessa del palcoscenico suggerisce l’esistenza di una correlazione tra metafore temporali e spaziali della musica folklorica. Dove però le qualità narrative appaiono distinti da quelle geografiche, la musica tradizionale dichiara costantemente ed esplicitamente in diverse forme il suo legame con determinati luoghi. Spesso i testi dei canti contengono riferimenti di questo tipo già nel primo o nel secondo verso, e le forme di danza identificano per mezzo del movimento il luogo da cui provengono o in cui si svolgono. Un tipo di danza folclorica tipicamente alpina, come il Ländler, trae origine dal Land: il tedesco Land significa letteralmente terra e possiede i vari significati di tipo geografico, ma nel contesto del Ländler si riferisce alla geografia culturale alpina, non solo nella sua forma originaria. Questa danza permette ai ballerini di mettere in scena, attraverso figure coreutiche, ossia gesti stilizzati, il proprio rapporto con la vita nelle montagne dell’Europa centrale. Katalin Szvòrak e i danzatori della compagnia ungherese dell’Honved Dance Theater hanno messo in scena lo spazio di un villaggio di lingua ungherese nella regione slovacca di Nitra, non di un qualsiasi altro luogo in cui si sarebbe potuto tenere un matrimonio di tipo tradizionale. Il riferimento al luogo espresso dalla musica folklorica implica anche l’adozione di una determinata prospettiva storica e di un particolare significato politico e nazionalistico nel presente. Il carattere narrativo e i riferimenti geografici in essa contenuti hanno così consentito di impiegare lo spazio culturale di questa musica. Per reclamare tale spazio, dichiarandone un diritto di proprietà, l’intreccio di qualità narrative e geografiche nella musica folklorica permettono a un insieme di persone di entrare in senso metaforico, attraverso l’esecuzione, negli spazi culturali evocati dischiusi e rappresentati dalla musica tradizionale. Nel raccogliere i canti popolari delle aree di lingua ungherese della Romania e della Slovacchia, questo aspetto è stato colto da Béla Bartòk, non meno che dall’Honvéd Dance Theater. Lo stesso si può dire delle generazioni di studiosi tedeschi che hanno tracciato il panorama del canto folclorico delle cosiddette Sprachinseln (isole linguistiche), e così facendo hanno identificato anche i possibili percorsi di un’espansione della dominazione tedesca su gran parte dell’Europa nel corso delle due guerre mondiali del ventesimo secolo. Gli spazi culturali della musica folclorica europea sono e sono sempre stati spazi contestati. Spesso anche all’interno del testo di un singolo canto o di una singola danza. I personaggi del canto combattono per occupare tali spazi, reali o immaginari che siano, non appena questi fanno la loro comparsa, mettendo simbolicamente in scena i molti e diversi piani così su cui si svolge la lotta per appropriarsi della storia e di un luogo fisico. Prendiamo per esempio la ballata folklorica yiddish intitolata D’altra parte della Polonia vive un ebreo. Esaminato anche dall’angolazione più circoscritta, il brano esprime attraverso i propri caratteri narrativi e geografici un conflitto per lo spazio. La figlia di una famiglia ebrea osservante sfida i genitori e la comunità, reclamando l’accesso a spazi pubblici che vanno oltre quelli riconosciuti dalla vita comunitaria tradizionale. Ma tali spazi sono negati sia dai genitori sia dalla storia europea. Fu infatti soltanto dalla metà del diciannovesimo secolo che gli ebrei europei furono autorizzati a diventare proprietari della propria terra, in una prospettiva maggiormente locale. Il problema è rappresentato dai vincoli imposti alla giovane dal suo corteggiatore, uno scrivano, il quale è disposto ad ammettere la ragazza come sua sposa all’interno dello spazio pubblico, a condizione che questa si converta al cristianesimo. Poche varianti di questo canto offrono una soluzione positiva del conflitto tra spazi reali e realizzabili. In molti di esse, la ragazza ebrea preferisce il suicidio alla conversione e si lancia in mare. La potenza delle metafore contenute Die Jüdin non è sfuggita al movimento del folk revival yiddish degli anni 80 e 90, per mezzo del quale folksingers europei hanno cercato di ricostruire uno spazio per la cultura ebraica europea post-Olocausto. Benché incapace da soli di recuperare o di creare tali spazi attraverso la propria forza narrativa i canti popolari ebraici si sono mostrati in grado di rendere più difficile la loro esclusione dalla storia della modernità europea. Leadbelly, nascita di un eroe folk Nessun musicista ha rivestito tanta importanza nella canzone Folclorica degli Stati Uniti della prima metà del ventesimo secolo, quanto Huddie Ledbetter, meglio conosciuto con il nome di Leadbelly (1885-1949). Ledbetter è diventato un simbolo di ciò che la musica folklorica ha rappresentato nell’Ottocento all’interno della cultura afroamericana nel sud prima della modernizzazione. Nato nella Louisiana rurale, Leadbelly cominciò a far musica fin da giovane, imparando a suonare la chitarra a 12 corde. Il giovane Leadbelly girovagò tra la Louisiana e il Texas, facendo una quantità di lavori diversi tra campi di cotone, impianti di estrazione petrolifera che all’epoca stavano proliferando. Fu anche arrestato e imprigionato parecchie volte per piccoli reati e per più gravi, tra cui omicidio (1918-1925) e tentato omicidio (1930-934). Mentre scontava l’ultima pena nel penitenziario di Stato della Louisiana, Leadbelly venne scoperto da John Lomax, che vide in lui un cantante di blues pienamente maturo, pronto per essere raccolto e condotto alla Library of Congress, ossia la più importante biblioteca pubblica statunitense. Leadbelly ha giocato senza alcun dubbio un ruolo fondamentale nella trasformazione della musica folklorica afro americana in World Music. Cantava e suonava il blues e una serie di canzoni e danze popolari del Sud, provenienti da una quantità di generi diversi. Attrasse l’attenzione degli studiosi, come ad esempio la famiglia Lomax e la famiglia Seeger ed etnomusicologi come George Herzog della Columbia University e di produttori discografici, in particolar modo di Moses Asch, fondatore della Folks Records e della Folk Music Publishers. Tutto ciò con il nome di Leadbelly. Con il nome di Huddie Leadbetter incarnò invece una figura al contempo più antica e più moderna di quella di Leadbelly, che testimonia un legame profondo con i canti della tradizione orale del Sud agricolo e al tempo stesso lo identificava come autore di una prodigiosa serie di canzoni. Egli sapeva perfettamente che il suo anacronistico stile blues sarebbe piaciuto soprattutto ai liberal bianchi del Nord, ma anche il pubblico dei jazz club di New York avrebbe più facilmente apprezzato una fusione eclettica di musiche vocali nere. Attraverso la sua musica era in grado di evocare e addirittura materializzare un reticolo di spazi culturali, alcuni dei quali coincidevano con periodi particolari della sua esistenza, come quelli della grande migrazione, della Grande depressione e della Seconda guerra mondiale. Musica celtica e geografica della musica tradizionale All’interno, come all’esterno della scena della World Music, la musica celtica è oggi conosciuta praticamente in tutto il mondo. Nell’ultimo decennio i Festival di musica celtica si sono moltiplicati e questo tipo di musica è ormai diventata una delle attrazioni principali dei Festival di World Music. Nonostante ciò, la fortuna planetaria della musica celtica si è costruita sulla capacità di mantenere le proprie radici folcloriche. Nelle sue manifestazioni globali sotto forma di World Music, la musica celtica si basa sulla messa in scena del mito di se stessa, un mito che è molto moderno e che trae origine dal modo in cui la storia di questa musica è stata costruita. Il contenuto mitologico della musica celtica prende forma in un remoto passato. Sulla scorta di una tradizione archeologica di tipo scientifico, alcuni studiosi hanno da tempo avanzato l’ipotesi che i celti costituissero una cultura dell’età del bronzo diffusa in tutta Europa. In altre parole, basandosi su elementi tratti dall’antichità, tali studiosi hanno ipotizzato che i celti fossero un popolo proto-europeo e utilizzato queste conclusioni per fondare le proprie rivendicazioni di modernità. Verso la fine dell’età antica, quando gli eserciti romani cominciarono a muovere verso nord e varie popolazioni di origine John Lomax sui canti dei cowboy, procede con una serie di volumi che danno voce agli afroamericani e agli oppressi e infine si apre a questioni di carattere generale legate al problema della globalizzazione. Il raggio dei progetti nati dalla famiglia Lomax è stato ed è tuttora estremamente ampio e ha fatto sì che molti di questi siano destinati a proseguire ancora per anni, come ad esempio il programma di pubblicazione su cd della World Library of Folk and Primitive Musica di Alan Lomax. La polka Belt, un posto nel mondo per la musica tradizionale Con l’esplosione e la diffusione della World Music si ha l’impressione che la musica tradizionale sia sul punto di soccombere di fronte alle forze egemoniche che essa stessa ha alimentato. Prendendo in esempio la vicenda di una musica come la polka, tuttavia, ci troviamo di fronte a un’immagine diversa del rapporto tra musica tradizionale e World Music. La polka è un tipo di musica presente e danzata praticamente in ogni parte del mondo in cui sia penetrata la musica prodotta dall’Occidente, sia essa pop, classica, folklorica. Il suo epicentro geografico ha origine nella parte settentrionale dell’odierna Repubblica Ceca. Questa danza si è diffusa in tutto l’impero austro ungarico per venire poi portata nel resto del mondo da emigranti, musicisti viaggianti e in seguito persino dalla salon music dei colonizzatori europei. Dovunque si è diffusa come musica da ballo, la polka è stata addomesticata dai musicisti che l’hanno adattata alle funzioni sociali, alle formazioni strumentali e ai parametri estetici del posto. Si è trasformata in musica locale in ogni luogo in cui è stata adottata e dopo aver viaggiato intorno al mondo, la polka è tornata a esibire le insegne della musica folklorica. Ha attraversato un processo di trasformazione culturale che ha dato origine a nuove varianti, influenzato altri stili, dando vigore al loro carattere locale e conquistando nuovi ascoltatori. Non esiste una spiegazione in grado di chiarire in maniera univoca le ragioni della malleabilità e adattabilità della polka. A questo proposito, sono stati formulate due interpretazioni: la prima è quella che potremmo chiamare dall’alto verso il basso, che sottolinea la polka come forma musicale multietnica, multiculturale e multi generica. Secondo tale lettura, la polka non è tanto uno stile derivato da una forma di danza a metro binario e generalmente organizzata secondo una struttura ternaria basata su varianti della forma ABA, ma un’estetica culturale sonora che si allarga a ombrello su musiche che esprimono un’identità collettiva. I sostenitori di questa interpretazione sottolineano la prevalenza di definizione come quella di musica polka (polka music) che attingono da stili e repertori molto più ampi della polka in senso stretto. La prospettiva opposta esamina invece la polka dal basso. Al centro dello stile della polka esistono determinati tratti che consentono a chiunque di prendere parte alla sua esecuzione come musicista, ballerino o semplice appassionato. La polka è dunque la musica della collettività, del popolo e in quanto tale esprime la coscienza collettiva. Entrambe le interpretazioni possono aiutarci a far luce sulla formazione geografica conosciuta in Nord America con il nome di Polka Belt, ossia fascia della Polka. Si tratta di un’area culturale definita dalla presenza della musica polka, che si estende dal Dakota e dalle province della prateria occidentale del Canada ai centri urbani multietnici della parte orientale degli Stati Uniti. La polka belt abbraccia una regione geografica di considerevoli dimensioni, caratterizzate da grande varietà etnica e culturale. All’interno di questa fascia gli stili musicali si muovono in maniera fluida da una zona all’altra e si fondono attraverso processi di scambio e di interpretazione favoriti da un insieme di fattori. Elementi musicali ed etnici si combinano per esprimere il carattere unico della polka in un determinato luogo, ad esempio nel famoso stile push nato nella zona di Chicago dominata da musicisti polacco-americani come Eddie Blazonczyk o nello stile sloveno di Cleveland, entrato sull’uso della fisarmonica ed esemplificato dalla musica di Frankie Yankovic. Nelle diverse zone in cui è presente, lo stile della polka si presenta anche in forma istituzionalizzata, per esempio ad opera delle sale da ballo e delle associazioni culturali che organizzano concerti e serate danzanti. La polka viene suonato in luoghi come i circoli etnici, chiese locali e associazioni di appassionati specificamente dedicate a questo tipo di musica, oppure in situazioni che appaiono collegate a una dimensione più internazionale, ad esempio attraverso l’attività della International Polk Association (IPA) o tramite eventi pubblicizzati attraverso le pagine di riviste e giornali come The Polka News. La popolarità storica della musica polka dipende da un’intensa attività di mediazione svolta dal numero di soggetti che hanno mantenuto la base operativa nei punti della polka belt. Editori di spartiti e partiture per banda, stazioni radiofoniche e case discografiche attive a livello sia locale sia nazionale, producono e riproducono la musica della polka dandole diffusione su aree molto ampie. Questi media hanno mantenuto un ruolo importante grazie alla capacità di creare sinergie con la popular Music globalizzata, fatto che per esempio ha permesso loro, nel 1986 di richiedere e ottenere la creazione di una categoria specifica dedicata alla polka all’interno dei Grammy Awards. La zona di diffusione della polka, comunque, non è soltanto alimentata dal Midwest al Nord West american e alle province multietniche del vicino Canada. Nel panorama della World Music si sono affacciate altre regioni geografiche definite dalla Polka, per esempio, le zone di confine tra Texas e Messico, dove la polka si è trasformata senza perdere la propria essenza. Sotto l’influsso di varie fusioni operate dallo stile del conjunto all’inizio del ventunesimo secolo, le città della Polka Belt traboccano di immigrati messicani e l’incontro tra culture proletarie urbane e nuove comunità etniche ha condotto alla nascita di nuovi stili di polka. La World Music è uno dei luoghi in cui la musica tradizionale può funzionare come tale. Possiamo osservare come l’elemento globale in realtà arrivi ad alimentare quello locale. Musica tradizionale e World Music si arricchiscono a vicenda e in determinate zone del mondo hanno addirittura raggiunto una condizione di dipendenza reciproca. La sopravvivenza e il recupero della musica tradizionale hanno tratto beneficio dalla diffusione della World Music. E questa si è a sua volta dimostrata più benevola nei confronti della musica tradizionale. 5. Musica e nazionalismo Il Festival europeo della canzone L’Eurovision Song Contest, altrimenti detto Eurofestival, è stato esplicitamente concepito sul modello del Festival di Sanremo italiano, cioè come una competizione canora da cui esce ogni anno un vincitore. Creato nel 1956, l’Eurofestival richiama ogni anno cantanti provenienti da tutti i paesi membri dell’European Broadcasting Union (EBU, Unione Europea di Radio e Televisione) e da altri paesi che per varie ragioni scelgono di allearsi alla politica culturale della canzone pop pan-europea. Fin dagli albori della manifestazione, nata in un’epoca in cui il clima politico della guerra fredda aveva creato profonde divisioni tra i paesi del vecchio continente, gli organizzatori hanno sottolineato il ruolo dell’Eurofestival nel rafforzare l’unità europea. La preparazione e la trasmissione televisiva dell’Eurofestival richiede tutti gli anni un processo organizzativo molto complesso che coinvolge diversi soggetti. Per i musicisti che vi prendono parte, il percorso inizia con la partecipazione a una serie di competizioni locali e nazionali, cioè si svolge presentando i pezzi in occasione di Festival minori oppure di fronte a un’apposita commissione incaricata di effettuare una prima selezione degli autori, che devono essere figure riconosciute. Comincia così un processo di scrematura che generalmente a fine inverno culmina in una serata durante la quale ogni paese sceglie il pezzo incaricato di rappresentarlo presso l’Eurofestival, tra una rosa di brani proposti. La competizione segue regole di valutazioni democratiche ed è trasmessa in televisione. A questo punto i rappresentanti designati dalle singole nazioni convergono sul paese ospite che di regola è quello da cui proviene il vincitore dell’ultima edizione, dove si svolge l’Eurofestival vero e proprio. Il Festival si tiene la sera di un sabato del mese di maggio in un auditorium di grandi dimensioni e viene trasmesso in diretta televisiva in tutta Europa. Al vertice dell’organizzazione dell’Eurofestival ci sono le reti radiotelevisive pubbliche nazionali che fanno parte dell’EBU, cui spetta il coordinamento della trasmissione del sistema di votazioni via telefono che stabilisce il vincitore. I cantanti raggiungono la serata del Festival dopo mesi di lobbying e di battage pubblicitario. Durante questo periodo, le canzoni selezionate sono trasmesse continuamente dalle reti, in modo da dare ai cittadini europei, cui spetta il giudizio musicale finale, la possibilità di prendere confidenza con largo anticipo con i brani del Festival. La serata si conclude con il voto nel corso del quale le singole commissioni si collegano una dopo l’altra alla sede del Festival per comunicare il risultato delle consultazioni a livello nazionale. Seguono la somma dei voti e la proclamazione del nuovo vincitore. L’Eurofestival rappresenta la più grande competizione canora a livello internazionale. Benché limitata all’Europa, il Festival non ha rivali in altre parti del mondo e può essere considerato una sorta di Olimpiade della canzone. Nel corso dei suoi cinquant’anni di vita, il Festival ha continuato a espandere i confini dell’Europa: durante l’epoca della guerra fredda, ha cercato di coinvolgere i paesi dell’Europa orientale, si è aperto alle nazioni del Mediterraneo attratte dalla politica culturale europea e si è mossa a favore dell’inclusione razziale ed etnica. Le norme che regolano la struttura e il contenuto di un brano vengono cambiate quasi ogni anno. Per molti anni, per esempio, sono stati ammessi alla manifestazione soltanto pezzi cantati in una lingua considerata internazionale. Ciò ha fatto sì che la maggior parte delle canzoni vincenti presentassero testi in inglese o in francese, e ha permesso ai paesi anglofoni e francofoni di ottenere il maggior numero di vittorie. Ciò ha però avuto l’effetto di penalizzare alcune canzoni poi diventate grandi successi internazionali. impedendo per esempio, nel 1958 a un pezzo come Nel blu dipinto di blu (Volare) di Domenico Modugno, di piazzarsi al primo posto. Nonostante le continue modifiche al regolamento, comunque da un punto di vista musicale, le canzoni dei vincenti risultano tutte abbastanza simili. Esse appaiono basate su una struttura standard che vede un’alternanza di strofa e ritornello, con un ponte centrale contrastante, in cui il pezzo diventa per un istante leggermente più interessante. Non ci sono regole che impongano l’aderenza dello stile musicale della canzone ai tratti musicali del paese di provenienza. I più famosi vincitori dell’Eurofestival sono stati probabilmente gli Abba (1974) e Céline Dion (1988), artisti a cui la manifestazione ha fornito un trampolino di lancio verso la scena internazionale. Gli Abba vinsero il Festival con Waterloo, una canzone in stile rock che rientrava perfettamente nel canone dei pezzi vincitori della competizione intorno a metà degli anni 70, e che in seguito avrebbe scalato rapidamente le classifiche pop dei paesi anglofoni. Céline Dion, di nazionalità canadese, cantò invece nel 1988 la canzone svizzera Ne partez sans moi. Da un punto di vista stilistico, questo pezzo rappresentato un allontanamento dal repertorio di sapore vagamente celtico intorno a cui l’artista canadese ha in larga misura ha costruito la propria carriera. Nonostante ciò, il fatto che la Dion abbia deciso di cantare un brano svizzero scritto in francese presentava implicazioni di tipo nazionalistico, perché poteva essere interpretato anche come un atto simbolico a favore delle aspirazioni nazionali dei Franco-canadesi del Québec. La vittoria dell’Eurofestival fornì al loro paese la possibilità di affermare sull’area politica mondiale la sua appartenenza all’Occidente. A questo proposito è assai significativo il fatto che ogni anno, durante la serie del Festival, il paese si fermi quasi completamente. Benché geograficamente si è parlato dall’Europa, a livello musicale Israele mantiene profondi legami con il Worldbeat. Come testimonia il successo della più famosa star israeliana lanciata dal Festival Ofra Haaza, che nel 1983 si classificò seconda con la canzone Chai. Con quel pezzo, la Haaza iniziò una Il 9 maggio 1998 la canzone Diva, presentata dalla concorrente israeliana Dana International, vinse l’Eurofestival che quell’anno si teneva a Birmingham, Inghilterra. Mescolando elementi di provenienza yemenita e sefardita, Dana si colloca nel solco di una serie di cantanti popolari assai familiare al pubblico israeliano. Si trattava di una genealogia inaugurata negli anni 30 e 40 da Beracha Zephira, è proseguita più recentemente da chi, pur senza vincere, nel 1983 aveva anch’esso rappresentate Israele all’Eurofestival. Come personaggio, Dana mostrava indiscutibilmente sentimenti patriottici ed esprimeva apertamente non soltanto il desiderio di rappresentare il suo paese, ma anche di vincere per quest’ultimo. Dana era però notoriamente transessuale e non si curava di nascondere la propria complessa sessualità. In uno Stato come Israele dove i cittadini, su posizioni religiose ortodosse e ultra-ortodosse, esercitano uno straordinario potere politico, l’immagine di una nazione che incarna forme multiple di sessualità non è particolarmente bene accetta, specialmente se rappresentata sul palcoscenico della competizione musicale più trasmessa del mondo. Dana International è nata come individuo di sesso maschile, ma vive oggi come una donna, canta in ebraico e in arabo ed è famosa nei paesi islamici del Medio Oriente sotto il nome di Sa’ida Sultan. E’ conosciuta per i sottintesi gay dei brani sentimentali che un tempo interpretava nei club di Tel Aviv e per le più esplicite allusioni multi sessuali delle sue registrazioni techno più recenti. La canzone Diva vinse l’Eurofestival nel 1998. La Diva citata nel titolo ha varie identità perché è una persona estrema ed è stata presente nella vita di donne famose come Maria, Cleopatra e Afrodite. In Dana International, il pezzo che identifica la cantante israeliana che compare in doppia versione nel CD omonimo del 1993, Dana assume l’identità di una viaggiatrice del mondo che parte dell’Arabia Saudita e prima di concludere il suo viaggio a Tel Aviv, tocca Monaco, Parigi e il Messico. Il brano dipinge una nazione all’interno della quale sono possibili molte differenti identità e sostiene musicalmente le dichiarazioni di Dana. Le canzoni di Dana sono un remix della nazione che campiona, rimescola gli elementi che da sempre costituiscono le storie multiple del passato di Israele e le multiple identità del suo presente. Gli inni nazionali Nella storia dell’edificazione delle Nazioni ci sono momenti in cui si è prestata enorme attenzione agli inni nazionali, che spesso vantano una lunghissima storia. Nelle loro diverse fasi critiche, numerose nazioni hanno selezionato ed eliminato, riorganizzato e ricomposto gli inni nazionali, tracciando la propria storia in modo incredibilmente complesso. All’indomani dell’attentato terroristico dell’11 settembre 2001 al Pentagono e alle Torri gemelle del World Trade Center di New York, l’inno nazionale statunitense The star spangled banner, cominciò a essere impiegato per aprire praticamente ogni genere di eventi pubblici, non soltanto le cerimonie commemorative, i soliti eventi sportivi, ma anche i concerti di quasi tutte le orchestre sinfoniche, persino durante le tournée all’estero. Gli inni nazionali sono una questione molto seria e vengono eseguiti nei momenti di maggiore. Sono quelli dedicati a mettere in scena l’essenza di una nazione. Nel momento più alto dell’espressione pubblica dell’orgoglio patriottico, quando l’identità della nazione appare realmente in gioco, ci si aspetterebbe di percepire differenze musicali vistose. Invece il suono degli inni nazionali, soprattutto quando capita di ascoltarli con attenzione, colpisce per un paradosso: le musiche sembrano tutte uguali. Gli inni nazionali più recenti, creati o adottati dalle nazioni africane e asiatiche postcoloniali, suonano più simili a quelli che siamo abituati ad ascoltare da secoli. Inni di nazioni differenti, che sono in realtà gli stessi e inni che hanno intenzionalmente preso in prestito temi e frasi da altri inni. E’ quasi come se a livello inconscio agisse l’idea che gli inni nazionali devono in un certo senso suonare tutti uguali. Nel 1965, quando la Rhodesia dichiarò unilateralmente l’indipendenza dalla Gran Bretagna, uno dei primi provvedimenti adottati dal governo fu quello di abbandonare l’Inno britannico God Save the Queen. Per breve tempo il paese si avventurò così in territorio musicale internazionale, adottando l’Inno alla gioia di Beethoven e Schiller. Nel 1994 e cioè più di 10 anni dopo la caduta del regime razzista e la nascita dello Zimbabwe, il nuovo governo decise di cambiare di nuovo, adottando Yumi i glat blong talem se. Le ragioni per cui gli inni nazionali suonano spesso molto simili sono di ordine sia testuale sia contestuale. In primo luogo molti nuovi inni nazionali si basano su pezzi preesistenti, anche quando quelli erano stati concepiti per fungere da composizioni transitorie in vista della creazione di un nuovo inno. Storicamente i modelli più imitati sono stati God Save the Queen (Inghilterra), la Marseillaise (Francia) e il Kaiserhymne di Franz Joseph Haydn, che fu l’inno dell’impero austro ungarico fino alla Prima guerra mondiale e poi della Germania a partire dal 1922. Gli inni nazionali hanno trovato un modello anche negli inni internazionali, in particolare nell’Internazionale e nel movimento conclusivo della Nona sinfonia di Beethoven. In secondo luogo, sebbene gli inni nazionali appartengano a generi distinti, si sono eseguiti secondo modalità che tendono a produrre un alto grado di omogeneità, per esempio impiegando un’orchestrazione per insiemi di ottoni che dà rilievo alla solennità. In terzo luogo gli inni suonano simili, anche perché vengono suonati in occasioni simili, per esempio nel corso di cerimonie di stato o di eventi sportivi, al teatro e al cinema, oppure inserite all’interno di trasmissioni radiofoniche televisive nazionali o internazionali. I testi e le melodie degli inni nazionali sono in genere piuttosto noiosi. La storia degli inni nazionali procede di pari passo con quella del nazionalismo e si sviluppa attraverso una serie di fasi storiografiche che cominciano dal diciottesimo secolo con l’Illuminismo e proseguono con il nazionalismo romantico del diciannovesimo secolo e con l’espansione coloniale tra la fine dell’Ottocento e la seconda guerra mondiale e giungono alla fase post coloniale che va dalla seconda metà del 900 fino a oggi. In ciascuna di queste fasi, gli inni nazionali hanno assunto significati diversi, sono stati costruiti per esprimere idee di nazioni diverse. Tipicamente i primi inni nazionali presentavano tracce del suono e della funzione dei canti folklorici. Nella fase intermedia e antinazionale si orientarono marcatamente verso generi di musica religiosa e militare. Nell’epoca post coloniale infine gli inni nazionali hanno di solito mostrato la tendenza a incarnare la storia della nazione moderna, vista in riferimento tanto alla sua lotta di liberazione recente quanto a quella di lunga durata. Gli inni nazionali si presentano sotto due forme diverse, entrambe rappresentative della pluralità di significati tra i quali è necessario mediare nel momento in cui si deve scegliere un canto che dia voce all’intera nazione. La prima forma è quella che ci è più familiare: la nazione decide di esprimere la propria identità nazionale per mezzo di un canto e affida il compito di realizzarlo a un compositore o frequentemente a un letterario. E’ lecito supporre che il processo di valutazione e di approvazione dell’inno nazionale non sia semplice. I gruppi che tentano di giungere all’elaborazione di un inno nazionale sono spesso motivati da ragioni ideologiche, più che musicali e le proposte più interessanti dal punto di vista musicale rischiano a volte di essere scartate su due piedi a causa della loro scarsa correttezza ideologica. L’altro processo con cui si arriva alle lavorazioni degli inni nazionali si può paragonare a un’operazione di raccolta indifferenziata per mezzo di un aspirapolvere gigantesco attraverso cui si risucchiano tutte le musiche che si suppone abbiano in qualche modo a che fare con il carattere nazionale. Questo atteggiamento si manifesta spesso nella produzione di antologie e repertori che si assumono il compito di rappresentare collettivamente la nazione. Tali antologie mescolano di frequente le nostre melodie con quelle degli altri, congelando l’identità del soggetto nazionale dell’altro in un processo di reciproca imitazione stilistica. Nel 1854, per esempio, in occasione del matrimonio con Francesco Giuseppe, l’Imperatrice dell’Impero Austro Ungarico Elisabetta ricevette in dono un volume contenente una magnifica incisione di canti. Si trattava di una raccolta delle melodie nazionali dell’impero che forniva nell’insieme un ritratto della complessità linguistica e culturale dell’Europa orientale. Anche l’organizzazione di eventi internazionali come fiere mondiali ai congressi culturali è stata spesso occasione per la compilazione di antologie di canti nazionali. Fu anche pubblicata una raccolta degli inni nazionali di tutto il mondo, curata da John Philip Sousa, direttore della banda della Marina, realizzata per conto del dipartimento della Marina degli Stati Uniti e perciò del popolo americano. Il Deutschlandleid, Canto della Germania, già citato sotto il nome di Kaiserhymne, la cui melodia ha fornito in un primo tempo la base dell’inno dell’impero austro ungarico. L’inno dell’imperatore fu scritto nel 1797 come parte di un quartetto d’archi composto da Franz Joseph Haydn. Questi era stato per parecchi anni compositore di Corte al servizio della famiglia ungherese degli Esterhazy, che possedevano una residenza estiva a Eisenstadt, città abitata prevalentemente da ebrei e situata nella parte croata dell’Ungheria occidentale. La melodia dell’Inno, in ogni caso, deriva da un canto popolare croato di cui sopravvivono ancora varianti nella zona creata del Burgenland, la provincia austriaca di cui Eisenstadt è oggi la capitale. Nel 1841 un maestro di scuola della Slesia, oggi parte della Polonia sud occidentale, di nome August Heinrich Hoffman von Fallersleben, che si trovava in esilio politico nell’isola di Helgoland sul Mare del Nord, scrisse il poema Deutschland, Deutschland über alles. A questo punto verrebbe da chiedersi che cosa ci sia stato di tanto tedesco nel canto, destinato a diventare l’inno nazionale della Germania. La popolarità dell’inno è stata determinata più dalle sue origini internazionali che dal suo carattere nazionalistico. IFMC e ICTM: a ogni nazione la sua musica Nel corso degli anni i nomi di organizzazioni come l’International Council for Traditional Music (ICTM, Consiglio internazionale per la musica tradizionale), si sono rivelati ambigui almeno quanto le loro finalità ufficiali, ossia quelle di sostenere lo studio, la pratica, la documentazione, la conservazione e la diffusione della musica tradizionale, compresa la musica folklorica popular, classica, urbana e la danza di ogni paese. Fondato nel 1947 con il con il nome di International Folk Music Council (Consiglio internazionale per la musica), l’IFMC ha deciso che nel 1981 di cambiare il nome assumendo quello di ICTM, aprendo i confini di genere del suo campo di intervento e abbattendo le barriere di quelle che molti dei suoi membri consideravano pratiche disciplinari eurocentriche. Nonostante la sua importanza, questa risistemazione concettuale non ha per nulla modificato l’organizzazione politica dell’ICTM, che resta l’identità culturale dedicata allo studio della World Music di carattere più spiccatamente internazionale. La politica culturale dell’ICTM si è fondata sul concetto di nazione che assume forme istituzionali, i cosiddetti comitati nazionali. Anche la politica internazionale dell’organizzazione opera ai confini delle nazioni, soprattutto attraverso l’affiliazione con organizzazioni come l’International Music Council e l’UNESCO. Indipendentemente dal modo in cui ogni singolo membro decide di affrontare lo studio della World Music situata all’interno della nazione, o meglio di ogni paese. Gli studiosi, musicisti e danzatori che hanno sostenuto l’ICTM lo hanno fatto in qualità di rappresentanti della propria nazione e della World Music nel proprio paese. Nei primi anni di vita dell’IFMC, la World Music nazionale era classificata sinteticamente sotto il termine di musica folclorica, definizione che ricompare nelle numerose pubblicazioni dell’organizzazione. I primi numeri del Journal of the International Folk Music Council (poi ribattezzato Yearbook of the IFMC, e dal 1981 Yearbook for Traditional Music), contengono una quantità di articoli che situano la musica folklorica all’interno della nazione, nell’evidente tentativo di coprire il maggior numero possibile di nazioni nel panorama geopolitico successivo alla Seconda guerra mondiale. Alcune iniziative di tipo cooperativo, ad esempio una collaborazione con l’UNESCO in una pubblicazione di una serie di lp dedicati a registrazioni di World Music di tutte le aree e nazioni nel mondo, rafforzavano i confini nazionali con altri generi e altre pratiche musicali. Inizialmente si è trattato delle musiche classiche di zone come l’Asia e interesse aveva privilegiato la vicenda degli ebrei askhenaziti dell’Europa centrale e orientale e la storia del moderno Stato nazione di Israele. Il 1992 ha rappresentato, in questo senso, un momento di svolta radicale, introducendo la storia sefardita in uno dei percorsi di avvicinamento al 1492. Si è trattato di un atto di revisione storiografica quasi istantanea, che ha visto elevare la musica sefardita allo stato di World Music. Questa musica si prestava in modo particolare alla riscoperta, precisamente perché era la musica della diaspora sopravvissuta fino a noi grazie alla sua mobilità. La musica folclorica sefardita, n particolare è una musica narrativa in cui troviamo generi come romance e romancero che intrecciano nelle ballate riferimenti a eventi storici reali. Il 1992 ha segnato il momento della trasformazione della musica sefardita in World Music. Il termine stesso di diaspora è particolarmente antico e si riferisce genericamente alla dispersione della civiltà greca classica dalle città centrali verso le isole e le colonie periferiche. Il primo tema conduttore è costituito dalla diaspora sefardita, conseguenza diretta dell’espulsione degli ebrei dall’Europa, la cui importanza non è dovuta solamente alla forza con cui è stata recentemente oggetto di riscoperta. Il secondo tema è quello della diaspora africana formatasi lungo un altro insieme di linee di faglia storiche diramatesi nella conquista del nuovo mondo che ha imposto lo sradicamento degli africani utilizzati come schiavi per alimentare il motore economico del colonialismo; durante le prime fasi della globalizzazione moderna era diventato quasi impossibile arginare l’influenza della musica africana sulle forme precedenti di World Music. Il terzo tema è fornito dalla diaspora originatosi nel sud dell’Asia, la cui musica è servita a rappresentare l’implosione storica del mondo post coloniale. Diaspora, spazio e sradicamento nella World Music La musica della diaspora descrive la condizione del distacco forzato dalla patria, inscrivendo al tempo stesso la storia e la geografia che collegano una cultura sradicata a quella patria, o perlomeno a un territorio considerato come luogo di origine. La diaspora può assumere forme molto diverse. E’ però possibile identificare tre tipi molto generali di forze che spingono ad abbandonare un luogo considerato come proprio. In primo luogo, l’espulsione dal paese d’origine può avvenire per ragioni religiose, in questo caso l’allontanamento dal luogo d’origine assume valenze sacrali, soprattutto perché la Provvidenza richiede che il viaggio si concluda un giorno nel luogo d’origine. Alcune delle diaspore storicamente più antiche e particolarmente la diaspora ebraica, hanno acquisito un carattere profondamente sacro proprio a causa di questa promessa di ritorno. In secondo luogo vi sono popoli e culture che non possiedono un territorio proprio e sono perciò costretti a spostarsi continuamente. Anche in questo caso si possono citare alcuni esempi classici, come quelli ben noti delle popolazioni rom e sinti. In terzo luogo è possibile identificare diaspore più recenti generate da cause socio economiche. Le grandi ondate di emigrazione e immigrazione prodotte dal crollo degli imperi e dai conflitti, del nazionalismo, sono alcune tra le principali manifestazioni di questo tipo di diaspora. Basandosi sulla nozione della doppia coscienza afroamericana formulata da W.E.B. Du Bois., Paul Giroy ha elaborato la suggestiva teoria del Black Atlantic, inteso come uno spazio concettuale in cui l’interazione di tratti culturali di origine africana e non africana dà origine a nuove storie e geografie diasporiche. La presenza di una coscienza doppia e forse anche multipla consente ad un determinato gruppo sociale di mantenere le pratiche culturali che esprimono un nesso con la patria storica, permettendogli al tempo stesso di interagire con la patria acquisita. Mentre la musica sopravvive come traccia del luogo d’origine, essa fornisce anche un mezzo per negoziare con le culture esterne nel contesto diasporico. In breve la musica proietta se stessa su entrambe le coscienze, diventando un modo di articolare la diaspora. Gli strumenti musicali forniscono spesso le tracce più evidenti delle origini della diaspora nella diaspora africana. Gli strumenti musicali hanno accompagnato gli schiavi, condotti attraverso il Middle Passage. Strumenti dotati di piastre in legno e metallo, simili a xilofoni, hanno da tempo fornito prove della presenza nel nuovo mondo degli strumenti impiegati nelle formazioni strumentali dell’Africa occidentale. Le orchestre cinesi Silk-and-Bamboo, per esempio, hanno seguito le rotte marittime dei commerci degli insediamenti cinesi nella zona sud orientale dell’Asia. Anche le orchestre di metallofoni, come ad esempio il Gamelan Giavanese, hanno partecipato alla diaspora della musica asiatica e si trovano oggi diffusi in tutta l’area geografica del Sud Est asiatico. L’apparato strumentale della diaspora nata nel sud dell’Asia offre uno degli esempi più complessi di scambio e contemporaneamente fornisce una rete di collegamento tra diaspora e patria d’origine. In India l’epoca coloniale, ha visto l’introduzione di strumenti musicali completamente nuovi, apparentemente estranei alle tradizioni locali, e sono stati però rapidamente integrati nelle pratiche musicali indiane. Nella maggior parte dei casi ciò non si è verificato come conseguenza di un’imposizione. Violino e clarinetto, sono penetrati nella musica classica carnatica dell’India meridionale, mentre l’armonium è stato adottato dalla musica semi-classica e devozionale indostana dell’India settentrionale. La diaspora seguita alla fine dei regimi coloniali ha dato origine a una massiccia esportazione di strumenti musicali. Ciò ha portato alla rapida migrazione di strumenti come il sitar, un tipo di liuto pizzicato a collo lungo e le tablas, una coppia di piccoli tamburi, dalla musica indostana verso il jazz e il rock occidentale e verso forme di World beat provenienti dal sud dell’Asia. Vi è testimonianza di come l’esplosione della World Music sia preceduta di pari passo con l’espansione della diaspora. Prima di tutto esistono oggi numerosi gruppi che identificano come diaspora fenomeni migratori altrimenti scarsamente collegati, e che così facendo attribuiscono loro in modo cosciente un carattere unitario. La World Music mette a disposizione uno spazio musicale alle narrazioni della diaspora, indipendentemente dal fatto che queste siano causate da questioni nazionalistiche di tipo religioso oppure siano il risultato di violazione dei diritti umani. Grazie alla World Music, molti popoli privi di uno Stato, per esempio i curdi, che abitano una terra a cavallo tra Turchia, Siria, Iran e Iraq, hanno visto il prodotto dalla diaspora dal formarsi contemporaneamente in luogo per esprimere una storia comune. Bob Marley, l’intreccio della rete diasporica Bob Marley (1945-1981) ha intessuto una sintesi che ha preso la forma di una rete diasporica che collega la Giamaica e i Carabi all’Africa e all’Europa, mettendo a confronto colonizzati e colonizzatori, schiavi e schiavisti. Senza l’identificazione nella diaspora di un tema comune in grado di collegare i vari elementi, la miscela di ska e reggae elaborata da Marley, il suo impatto sulla musica rock e rap, la sua evocazione delle resistenze del rastafarianesimo sarebbero potuti crollare sotto il peso del proprio eclettismo. Anche la vita del personaggio Bob Marley ha assunto le dimensioni di un viaggio sacro. Figlio di una donna nera proveniente da una zona rurale della Giamaica e di un padre mulatto, appartenente al ceto amministrativo urbano, durante la giovinezza Marley assorbe una forma tipicamente Giamaicana di doppia coscienza. Trascorsi gli anni dell’infanzia in una zona rurale, all’inizio dell’adolescenza si trasferì a Kingston, dove a18 anni formò il nucleo del suo gruppo, The Wailers. Ancora prima della pubblicazione del suo primo album di Ska, avvenuta nel 1965, Marley aveva composto parecchi singoli di successo come Simmer Down e Put It Down. A partire dalla fine degli anni 70, realizzò una serie di album di enorme successo come Rastaman Vibration (1976), Survival (1979), Zimbabwe (1979) e Uprising (1980). Marley morì nel 1981 dopo una lunga battaglia contro il cancro. Bob Marley è giunto a simboleggiare la doppia coscienza della diaspora, per la sua capacità di istituire molti tipi diversi di nessi con l’Africa, ognuno dei quali ha sottolineato innanzitutto l’esistenza di elementi comuni tra africani e giamaicani. Entrambi i popoli sono stati impegnati nella lotta prima contro le forze dell’oppressione storica della schiavitù e del colonialismo e poi contro le politiche economiche globali. Marley ha rivolto le sue attenzioni anche all’aspetto religioso della diaspora, particolarmente attraverso il suo profondo coinvolgimento personale nel rastafarianesimo, i cui simboli giunsero a indicare il tracciato metaforico del ritorno all’Africa dei primi cristiani neri. La musica nella diaspora del Sud dell’Asia La dispersione delle popolazioni provenienti da sud dell’Asia non ha prodotto una, ma molte diaspore che testimoniano una quantità di origini diverse. Tra queste si possono citare: la servitù a contratto, che nel diciannovesimo secolo ha svolto un ruolo particolarmente rilevante nella crescita della popolazione di origine indiana nei Caraibi e nelle colonie britanniche dell’Africa orientale e meridionale; l’implosione politica del subcontinente a metà del ventesimo secolo; le migrazioni di pakistani e bengalesi alla ricerca di migliori condizioni economiche; la fuga dei cervelli in direzione dell’Occidente, inaugurata dagli intellettuali e dagli scienziati del Sud dell’Asia, iniziata alla fine degli anni 70 e tuttora in corso. Da un punto di vista culturale, la diaspora proveniente da sud dell’Asia appare piuttosto matura. Da un punto di vista musicale anche la musica del Sud dell’Asia mostra una presenza ormai matura all’interno della diaspora. Numerosi musicisti indiani e pakistani trascorrono lunghi periodi di tempo all’estero dove si recano per suonare, ma anche per insegnare. Per i nati nella diaspora e semplicemente per quelli di loro che risiedono nei centri urbani e accademici che fungono da nodi della rete diasporica, è diventato oggi relativamente facile apprendere la musica indiana tradizionale e studiare la barhata natyam, la danza classica indiana. I dischi della precedente generazione di musicisti provenienti dalla zona del subcontinente indiano, per esempio Ravi Shankar e Ali Akhbar Khan sono oggi conosciuti in tutto l’Occidente. Lo stesso si può sostenere per i CD prodotti da musicisti più giovani che hanno trascorso la loro esistenza quasi interamente in Occidente, come ad esempio Sheila Chandra e Zakir Hussein. Punto di origine e di ritorno Le musiche della diaspora proveniente dal sud dell’Asia tendono con forza a identificare con tanta precisione il loro luogo d’origine, anziché fare genericamente riferimento a India, Pakistan, Bangladesh e Sri Lanka. Consideriamo per esempio il caso del bhangra. Per quanto oggi ormai irrimediabilmente mescolata a quegli altri suoni mondiali, questa musica fa risalire le sue origini al Punjab. L’istituzione di un punto d’origine costituisce una dichiarazione cruciale di autenticità culturale, consentendo inoltre di stabilire un ipotetico luogo di ritorno. Mito e narrazione religiosa Le storie del Ramayana e i cicli epici del Mahabharata aprono uno spazio narrativo ai viaggi della costellazione di soggetti sacri della mitologia hindu, e tali racconti sono assorbiti dalla musica, in modo particolare nelle strutture formali e nei testi dei canti. All’interno della diaspora il mito e la narrazione religiosa si organizzano e si situano in nuovi contesti, per esempio nei templi indù delle periferie delle città nordamericane o nei santuari sufi dell’Inghilterra settentrionale e della Scozia. Le associazioni di musica classica. All’inizio del ventunesimo secolo la diaspora abbonda ormai di organizzazioni destinate al sostegno alla musica classica del Sud dell’Asia. Questo genere di associazioni sono sostenute dal lavoro volontario dei loro membri e frequentemente ricevono finanziamenti statali. Esse svolgono una serie di funzioni a livello sia locale sia internazionale, pianificando trasmettono musica a tutto volume cui fanno da contrappunto i suoni provenienti dalle radio degli ambulanti. Parecchi commercianti vendono cassette, CD e strumenti musicali artigianali. Si tratta di flauti in legno e in terracotta, talvolta di strumenti a corda più sofisticati. Partendo dal mercato, la musica di strada penetra nella vita quotidiana di Cluj: i musicisti conoscono benissimo i punti della città in cui possono allestire uno spettacolo in grado di attrarre i pubblici più generosi, sanno qual è il tipo di repertorio che numerosi studenti della città preferiscono e sono perfettamente consapevoli della necessità di evitare passi falsi, come quello di sottolineare gli antichi rancori tra i cittadini di lingua rumena e di lingua ungherese. I musicisti di strada, hanno anche piena coscienza dei nuovi pubblici che stanno conquistando la città, rappresentati dal crescente numero di turisti che dopo la caduta del regime di Ceausescu visitano Romania e Transilvania. Gli anni 90 hanno innescato per l’Europa orientale un periodo di transizione vorticosa di cui i musicisti di strada romeni hanno saputo approfittare rapidamente. La musica di strada di Cluj-Napoca è World Music nel senso più moderno del termine. E’ musica globale suonata a livello locale e offre mescolanze e giustapposizioni imprevedibili, del tutto post moderne. Lo spettatore che decidesse di fermarsi a guardare e ad ascoltare questa musica vi troverebbe tracce di influenze provenienti da ogni angolo del mondo. La musica di strada di Cluj, però, è anche musica tradizionale. Molti musicisti che di giorno operano nelle strade della città, alla sera, o durante il fine settimana, fanno ritorno al proprio villaggio, dove suonano in occasione di matrimoni o altri eventi rituali tipici della cultura folklorica tradizionale. Non sono stati costretti dalla situazione economica a scegliere tra locali e globali, ma sono riusciti a trovare il modo di conciliare entrambe le dimensioni. La modernità di una città come Cluj-Napoca è un prodotto del passato, vale a dire del suo adattamento culturale all’Impero austro ungarico, al conflitto tra culture ungheresi e rumene e infine alla presenza di una quantità di minoranze etniche all’interno delle quali ebrei, rom e tedeschi hanno giocato un ruolo storicamente fondamentale. Metropoli globale e storia della World Music Nel mondo post moderno, la grande città rappresenta il porto degli incontri con la World Music. Le città hanno occupato nel corso della storia una posizione unica all’interno del paesaggio musicale, motivata dalla capacità di attrarre la diversità. Si può dire che la vita musicale della città premoderna possedesse i tratti di una forma primitiva di World Music. I mercanti che, per esempio attraversavano una città commerciale come quelle situate sulle coste del Mediterraneo, lungo la via della seta, erano sicuramente accompagnati da musicisti. In tali località lo scambio di beni di tipo musicale probabilmente occupava una parte importante nell’insieme delle transazioni commerciali. Con il passaggio dalla pre- modernità alla modernità, le città si sono trasformate da spazi di compravendita della World Music a luoghi in cui si concentravano la produzione e il consumo musicale. La vera esplosione di proporzioni mondiali della cultura urbana, tuttavia, si è manifestata soltanto nel diciannovesimo e nel ventesimo secolo, durante i quali le città si sono moltiplicate e sono rapidamente cresciute di dimensione. Il filosofo tedesco Walter Benjamin (1892-1940), ha teorizzato l’incontro con la cultura della città, per mezzo della metafora della galleria commerciale, luogo che acquisisce particolare significato nella Parigi, nella Francoforte e nella Berlino di inizio 900. I passages erano gallerie in metallo e vetro, all’interno delle quali si affacciavano i negozi di lusso che fecero la loro comparsa a Parigi nella prima metà dell’Ottocento. L’individuo che passeggia per le vie commerciali della città, ne scopre la cultura guardando le merci esposte nelle vetrine. Anche la musica fa parte degli incontri, resi possibili dalla presenza delle gallerie che si ramificano per passare di fronte a caffè musicali, teatri e musicisti di strada. Il mondo dei musicisti di strada è estremamente ancorato alla strada e alle altre arterie lungo le quali si spostano gli abitanti e i visitatori delle città. Questi musicisti sono condizionati dal movimento, perché i loro pubblici non sono stabili, ma costituiti da persone perennemente in transito. La musica della strada deve dunque rispondere a un pubblico di ascoltatori mobili. Norme di vario tipo consentono ai musicisti di fermarsi nello stesso luogo soltanto per breve tempo. Esse, infatti, costringono i musicisti a spostarsi per trovare nuovi pubblici, ossia persone che non hanno ancora donato denaro o acquistato cassette e CD della loro musica. Tuttavia, la musica di strada, la cui presenza è sempre più visibile nelle metropolitane, nelle stazioni degli autobus e nelle zone pedonali, in realtà appartiene raramente alla strada. Non proviene da una particolare zona etnica della città, ma anzi più di frequente utilizza forme musicali importate. I musicisti di strada traggono beneficio dalla possibilità di spostarsi di città in città e spesso alcuni gruppi giungono a sviluppare grandi reti di collegamento tra i centri urbani, che diventano così i nodi di una cultura globale della musica di strada. La grande città offre numerose possibilità di acculturazione e di elaborazione e diffusione musicale, così come moltissime opportunità di celebrare la diversità. Oggi le culture musicali delle grandi città mostrano di seguire differenti regole etniche, razziali e religiose, ma nascono dalle particolare modalità secondo le quali ogni singola città si adatta all’immigrazione proveniente dall’esterno, ai movimenti migratori all’interno del territorio urbano e al continuo rimescolamento della popolazione tra quartieri vecchi e nuovi. Manu Dibango: autobiografia della World Music. Manu Dibango nasce in Camerun nel 1933. Dibango è un musicista tanto africano quanto europeo. Manu Dibango trascorse la maggior parte della sua infanzia nella città portuale di Douala, in Camerun, dove il padre lavorava come dipendente statale. Ciò permise al giovane Manu di godere dei numerosi vantaggi concessi dall’amministrazione coloniale francese. Il ragazzo fu messo a frequentare le scuole missionarie e all’età di 15 anni, ottenne una borsa di studio per completare la propria istruzione in Francia. Frequentando la chiesa, Dibango ha scoperto l’importanza del rituale e del canto: sua madre dirigeva il coro femminile, e il direttore del coro maschile riuscì a trasmettergli il magico virus della musica. Lo sviluppo della carriera di Manu Dibango è proceduto in parallelo alla storia post coloniale dell’Africa francofona. Poco dopo avere cominciato gli studi in Francia, nel 1948, il giovane africano sostituì alla musica delle comunità coloniali del Camerun nuovi incontri con i musicisti afroamericani di jazz e di blues, con la popular Music francese e la chanson mediterranea. Si immerse in uno studio più approfondito della musica e prima dei vent’anni cominciò a dedicarsi con sempre maggior impegno all’apprendimento del sax alto, e in breve tempo si mosse con decisione in direzione della musica dei neri americani. Il suo movimento verso il Jazz e il Blues aprì a Manu nuove possibilità di incontro con i musicisti africani. In altre parole, lo condusse alla scoperta della presenza coloniale africana nel mondo della Popular Music francese. Dal secondo dopoguerra Dibango sviluppa una rete di contatti con musicisti provenienti dall’Africa francofona e con afro americani immigrati in Francia e Belgio. La sua comunità musicale giunse a comprendere non soltanto il Camerun, ma anche lo Zaire e altre colonie francesi e belghe. Dibango costruì la sua carriera musicale a livello internazionale collaborando con musicisti afroamericani come Harry Belafonte, Art Blakey, Don Cherry, Herbie Hancock e con musicisti bianchi come Paul Simon e Johnny Clegg. La sua carriera seguì una direzione di crescente internazionalizzazione sostenuta dall’industria discografica francese straniera. Nel 1974 Manu riuscì finalmente a entrare nel mercato della World Music con il successo di Soul Makossa, che ottenne una nomination al Grammy. Registrazione sonora e tecnologie di globalizzazione Come disciplina, l’etnomusicologia moderna, si è legata a ciò che Walter Benjamin ha chiamato l’era della riproducibilità tecnica. La disciplina etnomusicologica ha visto aumentare il proprio prestigio perché il progresso delle tecnologie di riproduzione le ha consentito di rivendicare una base scientifica sempre più rigorosa. All’interno dell’etnomusicologia esistono in effetti sottodiscipline che dipendono quasi interamente dalla tecnologia. e che hanno il fine di trasformare la musica in dati interpretabili mediante un processo di analisi oggettiva. Gli antenati della genealogia intellettuale della musicologia sono studiosi del diciannovesimo e del ventesimo secolo come Alexander Ellis, inventore di un metodo che divide le scale musicali in misure uguali di frequenza o cents, e Carl Strumpf, psicologo tedesco, fondatore del primo laboratorio dedicato all’analisi delle registrazioni di musiche del mondo presso l’Università di Berlino. Negli anni 90 del secolo scorso, le tecnologie digitali hanno invaso il mercato della musica mondiale, consentendo in pratica a chiunque l’accesso e il contatto con la World Music. La World Music ha fatto la sua comparsa ovunque su CD e Internet. Le Rough Guides e l’incontro etnomusicologico oggi L’esistenza di un’opera come le Rough Guides to World Music dissipa immediatamente qualsiasi possibile dubbio sulla piena maturazione del fenomeno World Music all’inizio del ventunesimo secolo. Le Rough Guides celebrano la propria completezza senza mezzi termini, descrivendo una musica che non ha limiti né confini e dichiarando che molto opportunamente la nuova edizione coincide con l’inizio di un nuovo millennio, dal momento che si occupa della musica più antica e di quella più nuova del mondo. Le Rough Guides forniscono in effetti una documentazione talmente ampia dell’incontro post moderno con la World Music da rivelarsi praticamente insostituibili per quasi tutti gli etnomusicologi. Le Rough Guides costituiscono una vera e propria guida alla diversità delle musiche del mondo, ma anche uno strumento pubblicitario a vantaggio dei musicisti che portano i loro spettacoli in giro per il mondo e delle loro case discografiche, senza considerare l’industria dei viaggi che sponsorizza il tipo di surfing turistico-culturale promosso da queste guide. I due volumi costituiscono una guida alla registrazioni e ai musicisti che devono il proprio successo alla disseminazione e al consumo di quelle registrazioni sotto forma di dischi. A livello globale la presenza e lo scambio di registrazioni sonore costituiscono probabilmente la forma di incontro più vitale con la diaspora. Esse sono soprattutto una guida alla popular Music di varie parti del mondo, e non ci sono dubbi sul fatto che nessuna area dell’etnousicologia è cresciuta tanto rapidamente ed è divenuta tanto influente negli anni 90 quanto i popular music studies. In larga parte grazie al ruolo di primo piano assegnato dalle Rough Guides alla popular Music, si è potuto sviluppare un discorso che comprende e analizza l’ibridità, la fusione e la contaminazione. In altre parole, le condizioni imprescindibili della globalizzazione contemporanea. La World Music si rafforza all’interno delle comunità esiliate e migranti, si presta alla manipolazione ideologica da parte di tutto l’arco del potere politico, si lega al revival come all’avanguardia e infine costituisce la base del turismo culturale e della cultura dei Festival. La cultura globale articolata dalla World Music è incredibilmente densa, a tal punto che l’incontro con questa musica è oggi diventata parte integrante del nostro mondo quotidiano. I Festival di World Music: il mondo come palcoscenico Durante il World Music Festival di Chicago, l’intera città si trasforma in palcoscenico della World Music. In queste circostanze la metropoli diventa una metafora del mondo e distribuisce la propria musica e le proprie culture musicali in modo che tutti vi possano accedere. La mappa del Festival abbraccia tutte le zone della città, tutti i quartieri. Non sarebbe difficile applicare al World Music Festival di Chicago l’etichetta di evento
Docsity logo


Copyright © 2024 Ladybird Srl - Via Leonardo da Vinci 16, 10126, Torino, Italy - VAT 10816460017 - All rights reserved