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Riassunto "Tutto De Sica" di Aldo Viganò, Sintesi del corso di Storia E Critica Del Cinema

Riassunto del libro "Tutto De Sica" e analisi dettagliata dei 5 film: LADRI DI BICICLETTE (1948), MIRACOLO A MILANO (1951), MATRIMONIO ALL’ITALIANA (1964), IL SIGNOR MAX (1937), LA CIOCIARA (1960).

Tipologia: Sintesi del corso

2021/2022

In vendita dal 25/10/2023

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Seelvea483 🇮🇹

4.9

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20 documenti

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Scarica Riassunto "Tutto De Sica" di Aldo Viganò e più Sintesi del corso in PDF di Storia E Critica Del Cinema solo su Docsity! TUTTO DE SICA – Aldo Viganò INTRODUZIONE: I mille volti di un attore che volle farsi regista Vittorio De Sica, nato a Sora in Ciociaria il 7 luglio 1901 e morto a Neully-sur-Seine in Francia il 13 novembre 1974, è stato un attore prolifico e popolare ma anche un regista dalla carriera con esiti discontinui. Alle sue due carriere principali si aggiunsero nel corso degli anni quelle di cantante confidenziale, di sceneggiatore e produttore: esse si sono sovrapposte raramente. Egli inoltre è stato interprete di 148 film a soggetto e di una ventina di film per la tv, ha filmato la regia di 28 lungometraggi e di 6 cortometraggi e ha recitato, tra gli anni Venti e Quaranta, in decine di spettacoli teatrali. Parlare di De Sica significa innanzitutto tener presente la complessità di un personaggio che ha saputo inventare e reiventare se stesso, accreditando come autentica la sua desiderata origine partenopea e accettando che la vita debba essere continuamente rifondata. Soprattutto nella consapevolezza che le proprie scelte devono tener conto del contesto nel quale hanno potuto e dovuto essere fatte. Questo realismo di fondo ha permesso a Vittorio De Sica di essere protagonista di una delle carriere artistiche più articolate e sorprendenti del 900. Negli anni Cinquanta De Sica, che è stato il primo regista italiano premiato con 3 Oscar, seppe reinventarsi come attore caratterista, diventando popolarissimo e amato dal grande pubblico. Senza però rinunciare al suo ruolo di regista anche dopo il tramonto storico del Neorealismo, sapendosi proporre nella nuova veste di autore di film di successo, con personaggi costruiti a tutto tondo da interpreti che seppero nutrirsi dei suoi insegnamenti come direttore di attori, ora non più presi soltanto dalla strada. Quella di De Sica è una carriera fatta di “alti e bassi”, una carriera unica ma anche un’esistenza molte volte bruciata nella vitalistica frenesia del giocatore d’azzardo, fu protagonista di un’opera sempre attraversata da un autentico amore per gli esseri umani, visti nei loro pregi e nei loro difetti, abitata da personaggi sempre considerati con grande rispetto, davanti o dietro la cinepresa. Capitolo Primo. ESSERE E APPARIRE: LA DOPPIA VIA DEL SUCCESSO Vittorio De Sica diventa attore sul palcoscenico, rinunciando al posto che era di suo padre e che lo attendeva per “diritto ereditario” alla Banca d’Italia. Senza aver frequentato alcuna scuola, egli impara a recitare, dopo una breve esperienza filodrammatica, osservando i propri capocomici e i compagni di scena. Entrato in arte come “generico” nella compagnia di Tatiana Pavlova, debutta al suo fianco sul palcoscenico del romano Teatro Valle, scalando ben presto tutti i ruoli previsti allora in una Compagnia. Se nel primo spettacolo debutta come “generico” (Sogno 1 d’amore di Alexander Kosotorov), già nel seguente Miss Hobbs era un “secondo brillante” con l’obbligo di frac, ottenendo dalla stampa la sua prima citazione (“divertente il De Sica”) e partecipando con lo stesso ruolo alla tournée in America del Sud. Successivamente prese lezioni di dizione ed entrò, dapprima come “secondo brillante” e poi come “attor giovane” nella Compagnia che Luigi Almirante dirigeva sino al marzo 1927 insieme a sua moglie Itala e poi dal 1927 al 1929 con Giulietta Rissone e Sergio Tofano. De Sica imparò l’arte dell’attore e cominciò a farsi notare anche nel cinema, che però era ancora muto e gli offriva poche occasioni per emergere. Le cose cambiarono solo quando, ormai elevato al ruolo di “primo attore” nella Compagnia Artisti Associati guidata da Guido Salvini, De Sica e i suoi giovani complici furono notati sul palcoscenico da Mario Mattioli, direttore della compagnia Za Bum n. 8, che li ingaggiò in blocco per il suo fortunato repertorio di rivista, con prosa e musica. Con i primi successi popolari sulla scena, per il trentenne De Sica venne anche il tempo del successo sullo schermo (Gli uomini che mascalzoni…) con il personaggio di un proletario (meccanico), il quale gli aprì le porte di un divismo che richiedeva soprattutto capelli impomatati e abiti eleganti che sfoggiò per tutti gli anni Trenta. I personaggi con i quali nel corso degli anni Trenta De Sica trionfò sono caratterizzati da alcune costanti significative, tendenti a confinare la parte del giovane di origine popolare solo in alcuni film di Camerini ma promuovendolo socialmente in numerose altre occasioni in cui egli ricoprì il ruolo del ricco borghese (Darò un milione, Pazza di gioia), del nobile (Il signor Max), del professore (Tempo massimo) e soprattutto dell’artista più o meno scapestrato (Amo te sola, Napoli d’altri tempi, Hanno rapito un uomo, Le due madri…). Poco alla volta questi ruoli portarono in primo piano una componente specifica della recitazione di Vittorio De Sica: quella del doppio, del personaggio dalla doppia vita. Cioè quella dell’interprete che trascorre senza difficoltà senza difficoltà anche all’interno dello stesso personaggio, a comportamenti, ruoli sociali e stati d’animo molto diversi tra loro; dettati dalle circostanze, dalle situazioni e anche dall’opportunismo. Gli esempi sono molteplici, riguardano gli sdoppiamenti ricco/autista (Gli uomini che mascalzoni…), segretario/tenore (La canzone del sole), investigatore/innamorato (Lisetta), milionario/barbone (Darò un milione), don giovanni/marito (Ma non è una cosa seria), sino a quello povero/ricco (Ai vostri ordini, signora!). Tutti questi ruoli portarono in primo piano una delle caratteristiche fondamentali di De Sica attore, vale a dire quella dell’interprete che non si identifica mai completamente nel personaggio, ma ne prevede sempre una certa distanza, anche perché lo spettatore non doveva mai dimenticare che egli stava recitando. Egli passò 2 Coppa del Ministero della Cultura Popolare alla Mostra di Venezia 1937 per la “migliore regia italiana”. Il giornalaio di un’edicola romana in via Veneto vive a casa dello zio tramviere, ma è irresistibilmente attratto dal gran mondo. In partenza per le ferie sulla nave da crociera tra Napoli e Sanremo, viene scambiato per un nobile e lui sta al gioco, corteggiando sotto falso nome una dama dell’alta società. Fa così la conoscenza anche dell’istitutrice della sorellina della nobildonna. Quando lei lo rincontra in veste di giornalaio ne è attratta ma anche insospettita della somiglianza con l’accompagnatore della sua padrona. Tra incontri al Gran Hotel, partite di bridge, uscite a cavallo, la doppia tresca del giornalaio continua con la complicità del collega nell’edicola e con il silenzio dello zio. Infine, disgustato da quel mondo fatuo e dal modo in cui viene trattata la ragazza che inizia ad amare, il giornalaio torna al suo lavoro e annuncia per la gioia della famiglia il suo prossimo matrimonio con la fedele ragazza che nel frattempo si è licenziata. Ma, su consiglio dello zio, egli decide di non rivelare nulla alla sua futura moglie della doppia esistenza che ha vissuto. Considerato da molti il capolavoro della sua lunga collaborazione con Camerini, Il signor Max vede Vittorio De Sica portare alle estreme conseguenze il gioco del doppio già presente nei loro due film precedenti e riproposto sovente anche in seguito. Qui, lo spartiacque tra vita quotidiana e recitazione, tra verità e apparenza, sparisce ormai quasi completamente per lasciare solo il posto alle virtù dell’attore, che insieme interpreta due personaggi antitetici e il desiderio di riscatto sociale in un mondo considerato ingiusto. Un’interpretazione sempre sul filo del rasoio, quella di De Sica giornalaio e aristocratico, vista con divertita ammirazione dal collega Virgilio Riento e con paterna complicità dallo zio Giovanni Barrella; ma soprattutto spiata con amorevole preoccupazione da Assia Noris, la quale, pur non credendo che De Sica sia contemporaneamente due persone, si lascia ingannare dalla sua capacità recitativa sino al punto di dargli uno schiaffo quando questi, dopo averla baciata in veste di signor Max, le confessa in treno di essere Gianni il giornalaio. Quella tendenza, che è stata e sarà sempre (o quasi) presente nei film di Vittorio De Sica, di portare sullo schermo contemporaneamente il personaggio e l’attore che lo interpreta, trova in Il signor Max la sua sublimazione, mettendo a profitto la lunga frequentazione teatrale dei commediografi anglosassoni, da Oscar Wilde in poi, specialisti nel dar vita sul palcoscenico a personaggi doppi; ma anche traducendo in compiuta forma narrativa la sua naturale tendenza, come attore, di essere sempre dentro e fuori del personaggio, senza mai (o quasi mai) identificarvisi completamente. E questa sua operazione attoriale sul doppio, trova in Camerini un complice, capace di farla vivere su un personalissimo sfondo realistico. 5 1938 – HANNO RAPITO UN UOMO, regia di Gennaro Righelli; De Sica (attore cinematografico). Una granduchessa russa, per evitare il matrimonio organizzato dai parenti, finge di essersi già sposata con un attore cinematografico. Le cose però si complicano almeno sino a quando il finto sposo, che nel frattempo si è innamorato davvero della nobildonna, mette fine alla recita, liberandosi dell’invadente amichetta e diventando a tutti gli effetti un marito “autentico”. 1939 – I GRANDI MAGAZZINI, regia di Mario Camerini; De Sica (Bruno Zecchi). Presentato alla Mostra di Venezia 1939. La vita all’interno dei 7 piani dei Grandi Magazzini. Gelosa di Anna, la commessa Lauretta prende “in prestito” un completo da sci per andare in montagna con l’autista Bruno, con il quale si fidanza. Scoperta, viene ricattata dal capoufficio con scopi sessuali. Bisticci di coppia, mentre la migliore amica di Lauretta scopre di essere incinta e si riconcilia con il marito. Intanto, Bruno, insospettito da strani pacchi con indirizzi sbagliati, scopre che il losco capo del personale gestisce un’associazione a delinquere di cui fanno parte anche Anna e suo fratello. Inseguimento in macchina. Denuncia alla polizia. Ringraziamenti della direzione. Ora Lauretta e Bruno possono finalmente sposarsi. Capitolo Secondo. LA CARRIERA DI UN REGISTA Anche De Sica amava attribuire la scelta di diventare regista alle divergenze d’opinione con Carmine Gallone a proposito dell’impostazione del protagonista di Manon Lescaut, è più plausibile che questa scelta nacque principalmente dal fatto che, viaggiando verso i 40 anni, egli si sentisse ormai maturo per assumere la totale responsabilità artistica dei suoi film; e che forse fosse anche un po’ stufo dei ruoli di bel giovanotto che faceva innamorare di sé le partner e le spettatrici. Certo è che a partire dal 1940 De Sica cessò di essere solo l’attore più amato dagli italiani e il cantante adorato dai discografici ma s’impegnò con passione ad apprendere il mestiere di regista. Egli seppe imparare molto velocemente l’arte di fare cinema ma separando ben presto il nuovo ruolo del regista da quello dell’attore, pur non rinunciando mai a mettere le mani sulla sceneggiatura dei film da lui diretti, e spesso anche interpretati. In poco più di 30 anni, da Rose scarlatte (1940) a Il viaggio (1974), Vittorio de Sica ha diretto 28 lungometraggi, 3 cortometraggi e altrettanti episodi di film collettivi. Sempre più convinto di darsi alla regia, Vittorio de Sica decise di non abbandonare affatto la carriera d’attore. Dapprima per valorizzare il 6 proprio lavoro con la sua presenza divistica e poi per esigenza di mantenere, dopo il connubio con Maria Mercader, le sue ormai due famiglie. Fondamentalmente però, De Sica continuava a sentirsi, nel profondo, un attore. E comunque come tutti i veri attori aveva bisogno di continuare a recitare per poter insegnare agli atri a farlo. 1940 – ROSE SCARLATTE, regia di Vittorio De Sica e Giuseppe Amato; De Sica nei panni di ing. Alberto Verani. Nel giorno in cui la moglie sta per andare in vacanza, l’ingegnere Verani riceve per errore la telefonata di una donna che gli chiede due dozzine di rose scarlatte. Sperando in un’avventura, egli fa l’ordine al fioraio e detta all’amico Savelli un biglietto galante, firmato “Misterioso”. Caso vuole che la moglie, tornando a casa, veda le rose e legga il biglietto. Con sorpresa per il coniuge, la donna finge di aver ordinato i fiori lei stessa. Scatta così la gelosia del marito, alimentata da ulteriori episodi. Irritato dal silenzio della moglie, Varani giunge al punto di chiedere la separazione dalla moglie, la quale si dimostra sempre più turbata dall’arrivo di quelle rose. Più per narcisismo che per astuzia, Savelli si fa strappare dalla moglie dell’amico la confessione di essere lui l’autore del biglietto. Il risultato è che, apparentemente riconciliati, i coniugi Verani partono insieme per Venezia. 1941 – TERESA VENERDì, regia di Vittorio De Sica; sceneggiatura di De Sica; De Sica in dott. Pietro Vignali. Pieno di debiti a causa delle donne, il dott. Pietro accetta l’incarico di ispettore sanitario in un orfanotrofio e subisce il ruolo di fidanzato della figlia di coloro che potrebbero acquistare la sua villa. All’orfanotrofio, Pietro conosce una ragazza fantasiosa che s’innamora di lui. La ragazza, quando fugge dall’istituto, si rifugia a casa del dottore, si fa passare per sua sorella, riesca ad allontanare da casa la sua amante di turno. Ne manda anche a monte il fidanzamento e infine riesce a farlo innamorare di sé. 1942 – UN GARIBALDINO AL CONVENTO, regia di Vittorio De Sica; sceneggiatura di De Sica, Franci, Magione e Zucca; De Sica in Nino Bixio. In attesa dell’amica Mariella, la nonna Caterinetta racconta alle nipoti. Nel convento campano di Santa Rossana, studiavano due fanciulle divise nella vita esterna dai contrasti tra le loro famiglie: una nobile (Mariella) e l’altra borghese (Caterinetta). Quando tra quelle mura trovò rifugio un garibaldino ferito, le due ragazze l’assistettero con l’aiuto del guardiano del convento, fervente seguace di Garibaldi. Ma il rifugiato (che era già l’innamorato di Mariella) fu scoperto. L’abitazione del custode venne circondata. E iniziò l’estrema difesa, mentre Caterinetta cavalcava ad 7 Nastro d’argento 1948 a Ennio Flaiano per il migliore soggetto originale. Un ladro penetra di notte, dal tetto, nell’appartamento di un giovanotto che sta per suicidarsi e gli salva la vita. Insieme si aggirano per Roma, dove rapinano un passante, portandogli via una collana di perle di cui non riconoscono il valore e incontrano una fauna assortita (baristi e biscazzieri, soldati americani e una cantante…) che frequenta locali notturni, sale da gioco e tabarin. Per le strade della città incontrano anche uno smemorato vestito in smoking e una ragazza che scambiano per prostituta. Il giovane ritrova anche la donna che lo aveva portato alla disperazione, diventata ora l’amante di un poco di buono. Infine, il giovanotto e la ragazza scoprono con sorpresa e reciproca felicità di abitare nella stessa pensione. 1948 – LADRI DI BICICLETTE, regia di De Sica; soggetto: Zavattini; sceneggiatura: Biancoli, Zavattini, D’Amico, Gherardi, De Sica, Guerrieri. Premio Oscar per il migliore film straniero 1949. Nastri d’argento 1948 per migliore film, soggetto, regia, sceneggiatura, fotografia e musica. Premio speciale alla giuria al IV Festival di Locarno. Gran Premio al Festival mondiale del Belgio. Premio British Film Academy 1950. Con gli ultimi soldi racimolati dalla moglie impegnando le lenzuola del letto matrimoniale, un disoccupato riscatta al banco dei pegni la bicicletta indispensabile al suo lavoro di attacchino. Ma questa gli viene subito rubata. In compagnia del figlioletto, egli la cerca disperatamente per un intero fine settimana, in giro per Roma; sino a che decide di rubarne anche lui una. Subito scoperto e catturato, l’attacchino riesce a evitare il carcere solo grazie alla pietà che suscitano alla gente le lacrime del figlio. Padre e figlio, mano nella mano, si allontanano sino a disperdersi nella folla. Con tutti gli attori principali non professionisti, questo film fu girato quasi interamente per le strade di Roma. Luoghi topici e situazioni emblematiche del dopoguerra quale in gigantesco deposito del banco dei pegni e le file per prendere il tram o per trovare un posto di lavoro. Ma anche la sede periferica del partito comunista dove si svolgono i dibattiti e si prova uno spettacolo filodrammatico o il mercatino dell’usato stracolmo di cose, molte delle quali probabilmente rubate. E ancora: la mensa di beneficienza riservata solo a chi assiste in silenzio alla celebrazione della messa; la trattoria con i musicisti, frequentata da avventori di diverse classi sociali; la casa chiusa con le ragazze raccolte intorno alla tavola da pranzo; la visita alla “santona” che predice il futuro; la omertosa solidarietà degli 10 abitanti del quartiere popolare; infine la folla che alla domenica assiste in massa alla partita di calcio. Sfruttando al meglio una sceneggiatura scritta a più mani – nella quale accade di tutto… ma nient’altro che il furto di una bicicletta usata – Vittorio De Sica mette in scena un film che si propone esplicitamente di “dire la verità” anche se diventa qualcosa di molto più complesso: in sintesi, il suo più convincente contributo al Neorealismo italiano. E lo fa pedinando con la sua cinepresa, mai invadente, i propri 2 protagonisti, (un padre sul cui volto si leggono la disperazione e la fame e un bambino nei cui occhi, anche quando sono pieni di lacrime s’intravede una luce di speranza) sia raccontando la città di Roma attraverso il loro sguardo ansioso. Ladri di biciclette, ancor più di quanto lo era Sciuscià, è un film di messa in scena. Un film di regia che va, più o meno volontariamente, molto al di là della semplice rappresentazione di una società distrutta dalla guerra e tutta da ricostruire. Un film che nel rapporto tra ladro e derubato non si limita a constatare che essi sono entrambi sulla stessa barca, ma allarga lo sguardo verso orizzonti quasi metafisici, sfiorando soluzioni dal retrogusto hitchcockiano, che fanno del ladro, una volta scoperto, una vittima con la quale si solidarizza, e trasformano la vera vittima in un ladro per disperazione: sempre sotto lo sguardo innocente, insieme commosso e oggettivante, del figlio. Tutto questo fa di Ladri di biciclette un film dal valore universale, certificando nel contempo che la sua paternità appartiene interamente e inequivocabilmente a De Sica. Un film collettivo certo, ma anche un’opera molto personale. Non solo perché De Sica ne ha scelti gli interpreti, i luoghi delle riprese e le luci che permettono di fotografarli; ma anche perché è stato lui a determinare la distanza della cinepresa dagli oggetti rappresentati e la durata delle singole immagini sullo schermo, in modo da definirne il ritmo e il respiro esistenziale. De Sica conferma di essere diventato ormai un vero regista, capace di sparire completamente dentro alle inquadrature che ha scelto di immaginare e di filmare. E così facendo consegna allo schermo, come sottolinea Pietro Bianchi su Filmcritica (n. 6/7 giugno-luglio 1951), “un capolavoro fatto di nulla, tra il primo Clair e il secondo Chaplin, pieno di delicate osservazioni d’ambiente, di trovate, d’atmosfera: un’elegia nata sotto il segno della grazia, e che sarà difficile ripetere”. 1951 – MIRACOLO A MILANO, REGIA DI Vittorio De Sica; soggetto: Cesare Zavattini dal suo romanzo Totò il buono; sceneggiatura: Zavattini e De Sica, con la collaborazione di Suso Cecchi D’Amico, Mario Chiari, Adolfo Franci; interpreti: Francesco Golisano (Totò), Emma Gramatica (la vecchia Lolotta), Paolo Stoppa 11 (Rappi, il cattivo), Guglielmo Barnabò (Mobbi, il ricco), Brunella Bovo (Edvige), Arturo Bragaglia (Alfredo). Palma d’oro e premio Fipresci al Festival di Cannes. Nastro d’argento per la scenografia. Miglior film straniero per i critici di New York. Dopo il deludente esito al botteghino nazionale dei loro precedenti film neorealisti, De Sica e Zavattini cercano di rinnovare il “genere” dirottandolo verso la favola ideologica. Siccome la sceneggiatura prevedeva molti effetti speciali, De Sica accolse il suggerimento di Alexander Korda di contattare l’americano Ned Mann. A causa dei suoi trucchi il costo del film lievitò sino a raddoppiarsi. Inoltre, come tutti gli anglosassoni alle 5 del pomeriggio iniziava a bere. De Sica annota: “i trucchi durarono 5 mesi, mentre il film lo finii in 14 settimane. E il risultato non fu neanche dei migliori”. Quella che ne uscì però fu un’opera che piacque a tutto il mondo ma poco in Italia. Questo risulta essere un film che appartiene più a Zavattini, un film cioè più scritto che messo in scena; nel quale De Sica dà l’impressione di essersi dedicato soprattutto alla scelta degli attori (sia professionisti che non) sui volti dei quali concentra soprattutto il proprio interesse. Nel suo insieme ha l’andamento e la tonalità di un cartone animato. I suoi personaggi non hanno un vero sviluppo narrativo ma sono delle maschere sempre identiche a se stesse, ora allegre e ora malinconiche, ora sintesi di un’idea malvagia e ora candidi come creature provenienti dal cielo. E al cielo destinati a fare ritorno. Capitolo Quarto. IL PIACERE DI FARSI CARATTERIZZA A CINQUANT’ANNI Non è consueto nel cinema italiano l’attore che accetti di buon grado il ruolo del caratterista. Per chi a suo tempo è stato nel pantheon degli interpreti principali, questo nuovo stato appare un declassamento mentre colui che, per studi o esperienza sul campo, crede di ben conoscere il proprio valore non può fare a meno di ritenere che fare il caratterista sia quantomeno il risultato di un’ingiustizia sociale o culturale o economica nei suoi confronti. Ma così non è stato per De Sica. Dopo aver scalato a teatro tutti i ruoli, da generico a protagonista con nome in Ditta, ed essere stato per anni, sulla scena come sullo schermo, un primo attore amato dal pubblico, De Sica già negli anni Quaranta avvertiva che questo ruolo ormai gli andava stretto. Molto meglio gli sembrava quello di essere regista, dove comunque l’attore che era in lui poteva trarre ampia soddisfazione nell’insegnare agli altri l’arte del recitare. Il fatto era, comunque, che ciò nonostante, il contatto diretto con il pubblico gli mancava non poco. Ma dopo la guerra il teatro e il cinema stavano 12 1954 – L’ORO DI NAPOLI, regia di De Sica, sceneggiatura di Zavattini, Marotta e De Sica, interpreti: De Sica (giocatore, conte Prospero). Sei episodi da 5 racconti di Marotta più uno scritto da Zavattini. 1) un “guappo” s’installa a casa di un “pazzariello”, che subisce la sua prepotenza, ma che, quando il suo “ospite” si crede malato di cuore, si ribella spalleggiato dalla famiglia. 2) Una procace pizzaiola tradisce il marito dimenticando un anello di valore sul comodino dell’amante: sospettando che il gioiello sia finito nella pasta della pizza, il marito inizia una lunga ricerca che lo porterà anche in casa di un vedovo inconsolabile. 3) Una madre fa passare il carro funebre con la bara del figlio per la via principale di Napoli, distribuendo generosamente confetti lungo la strada. 4) Un nobile interdetto dalla famiglia sfida il figlio del portinaio a scopa, e perde regolarmente. 5) Per punirsi del suicidio di una ragazza innamorata di lui, un ricco commerciante sposa “in bianco” una prostituta. 6) Un “professore” elargisce saggezza e tiene lezione di pernacchio agli abitanti del quartiere in lite con un nobile in automobile. 1959 – IL GENERALE DELLA ROVERE, regia di Roberto Rossellini; soggetto: da un racconto di Indro Montanelli; interpreti: De Sica (Giovanni Bertone/ing. Grimaldi/falso gen. Della Rovere). Leone d’oro ex aequo con La grande guerra e premio OCIC alla XX Mostra del Cinema di Venezia. Premi alla regia, al soggetto, a De Sica e a Messemer al III Festival di San Sebastiano 1959. Nastro d’argento per la miglior regia. David di Donatello per la migliore produzione. Rovinato dal gioco, Giovanni Bertone vive d’espedienti, cercando di far fruttare le sue amicizie con gli occupanti tedeschi. In cambio della libertà e di una ingente somma, il colonnello delle SS gli propone il patto di assumere l’identità del generale badogliano Della Rovere e, nel carcere di San Vittore, scoprire il capo della Resistenza. Visto torturare un suo compagno di cella, e a sua volta sottoposto a sevizie, il finto generale prende lentamente coscienza e, infine, accetta la fucilazione, senza parlare. Capitolo Quinto. LO SGUARDO E LO STILE Nei 4 anni che trascorrono da Il tetto a La ciociara, De Sica ha interpretato 41 film di produzione nazionale o internazionale ma non ha diretto alcuna nuova pellicola. La sua carriera dietro la cinepresa sembrava ormai irrimediabilmente finita con il fallimento al botteghino del progetto neorealista. Ma con La ciociara inizia per De 15 Sica una nuova vita anche come regista. Una novità che è insieme quantitativa e artistica. Per quanto riguarda la quantità basta constatare che, rispetto ai 13 lungometraggi in precedenza firmati nel corso di 17 anni, negli ultimi 3 lustri della sua esistenza, De Sica ne realizzerà 15 (uno all’anno), più 3 episodi per antologie collettive, ottenendo due altri Oscar e facendo registrare degli incassi al box office da hit parade. Ma anche dal punto di vista estetico, si può constatare che La ciociara segna la nascita di un nuovo autore. Non più vincolato al rigore oggettivante e alle regole ideologiche del neorealismo zavattiano, De Sica può ora permettersi il lusso di andare alla ricerca di una nuova verità che tenderà a coincidere almeno in parte con quella del cinema. Però esiste una precisa linea di continuità artistica nella carriera di De Sica. Qual è questo filo rosso? Probabilmente la risposta deve essere individuata nella costante centralità dello sguardo di de Sica sugli esseri umani e sui loro sentimenti. Infatti sono sempre questi che egli racconta: uomini e sentimenti, sia come regista che come attore. È questo sguardo, sommariamente definito umanistico, che contraddistingue tutto il suo cinema, sino al punto che ne diventa una precisa cifra stilistica d’autore. In fin dei conti, diversamente da Zavattini, a De Sica interessano poco sia i fatti della storia, sia i pensieri o le ideologie che li determinano. Il suo sguardo cinematografico tende sempre a privilegiare la singola persona nella sua specificità esistenziale. Bambini o anziani, uomini o donne, personaggi che portano sullo schermo se stessi o attori che impegnano tutta la propria professionalità per meglio raccontarli. Gli esseri umani, innanzitutto, le circostanze che ne determinano i comportamenti, i modi di sentire e di vivere, sono sempre delle subordinate nel suo cinema. È l’umanità in quanto tale che sta sempre al centro dei suoi film. Quello che però, soprattutto in Italia, si rimprovera a De Sica era di aver tradito la dimensione ideologica dell’impegno e il cinema tout-court, inteso come autonoma rappresentazione del mondo e della vita. Qualcosa di nuovo accadde nel cinema di De Sica, da La ciociara in poi. Mentre, infatti, nei suoi film neorealisti i personaggi tendevano a definirsi entro lo spazio, oggettivandosi; ora avviene sempre più sovente che sia proprio il loro sguardo a definire lo spazio circostante, secondo il loro stato d’animo. Il risultato è quello che si potrebbe definire un ribaltamento del punto di vista della cinepresa. Cioè, mentre ad esempio i protagonisti di Sciuscià, di Ladri di biciclette o di Umberto D. erano “veri” perché raccontati e visti nel contesto della realtà fisica circostante, ora (in La ciociara, come in Ieri, oggi e domani, in Amanti come in Una breve vacanza, in Matrimonio all’italiana e Il viaggio) accade con sempre maggiore evidenza che è la cinepresa stessa, identificandosi con il punto di vista del personaggio, a dare senso e una giustificazione alla rappresentazione del reale. 16 Lo sguardo del regista De Sica cioè, oggettivandosi in quello del personaggio, tende con sempre maggiore chiarezza a fare in modo che sia lui a costruire la realtà estetica del suo cinema. Lo sguardo diventa cioè stile. Proprio nei suoi film migliori questa sintesi tra la soggettività dello sguardo dei protagonisti e lo stile dell’opera riesca veramente a concretizzarsi, in modo personale e innovativo. 1960 – LA CIOCIARA, regia di Vittorio De Sica; soggetto: dal romanzo omonimo di Alberto Moravia; interpreti: Sophia Loren (Cesira). Oscar per la migliore interpretazione femminile a Sophia Loren. David di Donatello a Taormina. Premio della critica a New York. A causa dei bombardamenti su Roma, la vedova Cesira decide di tornare al paese in Ciociaria con la figlia, affidando il negozio di alimentari a un amico carbonaio. Al paese, ritrova amici e conoscenti, ma con il passaggio degli alleati, lei e la figlia vengono violentate da un gruppo di marocchini. Distrutta psicologicamente, Cesira apprende la morte del ragazzo intellettuale cui voleva bene e non può far altro che tenere tra le braccia la figlia diventata ormai donna. Pensato da De Sica come un film da affidare all’interpretazione di Anna Magnani (nel ruolo della madre) e di Sophia Loren (in quello di sua figlia), il film cambiò improvvisamente rotta dopo il rifiuto della Magnani di accettare il ruolo e la scommessa di De Sica e di Ponti di affidare la parte della protagonista a Sophia, la quale – fatti pochi ritocchi alla sceneggiatura – si gettò nell’impresa con entusiasmo. C’è qui evidentemente qualcosa di nuovo nel modo di fare del cinema da parte di Vittorio De Sica. Novità che da parte della critica italiana fu giudicata soprattutto in negativo, coincidendo con l’accusa di aver ceduto alle lusinghe commerciali del modello hollywoodiano, già sperimentato con Stazione Termini. Ma di fatto la cosa è molto più complessa e articolata. Avvicinandosi ai 60 anni, De Sica sta scoprendo che la tanto ricercata verità non sta solo nelle cose rappresentate ma passa soprattutto attraverso la rappresentazione della cosa: cioè, attraverso la specificità della messa in scena, il linguaggio utilizzato e i suoi risultati estetici. Non che questo non gli fosse già noto. Ma sino a ora sembrava una cosa che riguardasse solo la recitazione degli attori e tuttalpiù il ritmo del racconto. Mentre con La ciociara la sua attenzione si posa anche e soprattutto sovente, sulla scelta consapevole delle inquadrature, sulle luci e sui movimenti della cinepresa, tendendo verso risultati che sono appunto più articolati e complessi. Come accade sempre in De Sica, la novità non ha nulla di dichiaratamente rivoluzionario ma viene determinata poco alla volta in corso d’opera. È l’esito di un lavoro artigianale sempre più consapevole (probabilmente non è un caso che 17 del cinema con dignità, facendone la fondamentale cifra stilistica di tutta la propria filmografia e della sua irripetibile vita di artista. 20 LADRI DI BICICLETTE (1948) Film P.D.S “Produzioni De Sica – S.A.” Soggetto di Cesare Zavattini tratto dall’omonimo romanzo di Luigi Bartolini. Interpretato da: Lamberto Maggiorani, Enzo Staiola, Lianella Carell, Elena Altieri, Gino Saltamerenda, Giulio Chiari, Vittorio Antonucci, Michele Sakara, Fausto Guerzoni, Carlo Jachino. Regia: Vittorio De Sica Girato su Negativo GEVAERT “PANCRO 47” negli stabilimenti S.A.F.A. Ricci necessita di una bicicletta per il nuovo lavoro municipale (ufficio di collocamento). Si confida con la moglie che decide di vendere le lenzuola di lino e cotone (un po’ nuove e un po’ usate) per fare un po’ di soldi e comprare/barattare una bici. Antonio Ricci si presenta al nuovo posto di lavoro e ritira il cappello/divisa. Lei le chiede di accompagnarla a casa di una donna, la “Santona” che tempo prima le aveva detto che il marito avrebbe trovato lavoro. La mattina dopo: immagini di tanti uomini che si recano a lavoro in bici o autobus, lui accompagna prima il figlio dal benzinaio e poi si reca a lavoro: incollare manifesti. Mentre sta lavorando alcuni uomini si organizzano e uno di loro gli ruba la bici. Fa una denuncia, presa sottogamba. Torna a prendere il figlio con l’autobus e poi continuano a piedi verso casa. Al figlio dice che si è rotta. Poi si recano a Piazza Vittorio in cui c’è il mercato e persone che vendono oggetti vari, vogliono controllare se chi l’ha rubata ora l’ha messa in vendita lì. Poi a Porta Portese quando inizia a diluviare. Dopo la pioggia Antonio nota un giovane con una bici che crede sia la sua e lo rincorre urlando “a ladro” ma non riesce a raggiungerlo. Allora segue l’uomo più anziano con cui stava parlando il giovane. Non gli dice nulla e lui continua a seguirlo fino ad arrivare in Chiesa. Padre e figlio vanno a mangiare e a bere. Poi a parlare con la Santona che dice “o la trovi subito o non la trovi più, cerca di intendere”. La disperazione lo porta a rubare una bici e viene inseguito e preso. Se ne va piangendo a testa bassa tenendo per mano il figlio. Nel secondo dopoguerra, in Italia a pezzi dopo un conflitto che aveva diviso e distrutto paese, il cinema ha aiutato in maniera profonda la ricostruzione morale e materiale del nostro paese. Ladri di biciclette di Vittorio De Sica contribuì forse più di qualunque altra opera artistica a mostrare al mondo come l’Italia avesse affrontato con dignità la dura sconfitta subita. Il film uscì nel 1948 ed è considerato tutt’ora una delle opere cinematografiche più importanti della storia del cinema e l’opera più conosciuta – assieme a Roma città aperta (1954) – del neorealismo italiano. Ladri di biciclette racconta la disavventura di Antonio Ricci un operaio costretto a ritrovare la propria bicicletta rubata, per evitare il licenziamento. In questa avventura è accompagnato dal piccolo figlio Bruno. Alla fine del film scoprendo l’impossibilità di ritrovarla tenta disperatamente di rubarne una venendo fermato e rischiando l’arresto. Il lungometraggio si conclude con la commovente immagine dell’operaio e del figlio che si tengono la mano per le strade di Roma. LADRI DI BICICLETTE: IL RACCONTO DI BARTOLINI Il film prende spunto dal racconto di Luigi Bartolini Ladri di biciclette. Il racconto uscì sulla rivista “Città” nel 1944 e poi venne pubblicato nel 1946 dall’editore Poli (vendendo solo sessanta copie) e nel 1948 da Longanesi. Il racconto venne scoperto dallo sceneggiatore Cesare Zavattini che propose quindi a De Sica di lavorare per un film con lo stesso argomento. Tuttavia sin da subito era chiaro che il racconto di Bartolini doveva essere uno spunto e non un vero e proprio soggetto. L’unica similitudine tra il libro e il film sta nel titolo e nel fatto che entrambi trattino il furto di una bicicletta. Lo stesso De Sica ricordò che Zavattini gli disse, proponendogli l’idea per il film “è uscito un libro di Luigi Bartolini, leggilo, c’è da prendere il titolo e lo spunto”. Bartolini cederà i diritti per poter trarre dal libro un film a De Sica, non consapevole tuttavia che la 21 sua opera verrà completamente ignorata per la realizzazione del film. De Sica raccontò che Bartolini “protesterà violentemente” dopo aver visto il film. LADRI DI BICICLETTE: UNA STORIA SEMPLICE La sceneggiatura di Ladri di biciclette è stata realizzata grazie al contributo, più o meno influente, di molte persone (nei titoli di testa compaiono sette nomi). Tuttavia il contributo più importante è stato dato da De Sica e Zavattini. La genialità della sceneggiatura sta nel modo semplice nel quale si affrontano tematiche importantissime. Per cui partendo da una storia quotidiana e all’apparenza banale Zavattini e De Sica arrivano ad affrontare problemi importanti della società Italiana del dopoguerra. In fondo che importanza ha il furto di una bicicletta? Ben poco di solito, ma se questa bicicletta diventa essenziale per il mantenimento della propria famiglia il furto diventa qualcos’altro. Questa idea sta alla base di altri film di De Sica, si pensi per esempio ad Umberto D. De Sica dichiarerà: Il mio scopo è rintracciare il drammatico nelle situazioni quotidiane, il meraviglioso nella piccola cronaca, considerata dai più come materia consunta. (….) Perché pensare avventure straordinarie quando ciò che passa sotto i nostri occhi e che succede ai più sprovveduti di noi è così pieno di una reale angoscia? Quello che colpisce nel film è che pur essendoci un’idea politica di fondo molto forte il film non sembra mai una propaganda. I fatti accadono soprattutto per caso e non per la volontà di qualcuno. Proprio così, senza veli ideologici, lo spettatore può comprendere come la realtà delle cose vada cambiata. Come notò il critico francese Andrè Bazin: Il film di propaganda cercherebbe di dimostrarci che l’operaio non può ritrovare la sua bicicletta e che è necessariamente preso nel cerchio infernale della sua povertà. De Sica si limita mostrarci che l’operaio può non ritrovare la sua bicicletta e perciò tornerà senza dubbio a essere disoccupato. LADRI DI BICICLETTE: IL BAMBINO L’idea di inserire il figlio dell’operaio fu di De Sica e ad essa si deve probabilmente la grandezza del film. Nel racconto di Bartolini il bambino non è assolutamente presente. La presenza di questo nuovo personaggio permette di dare maggiore impatto umano alla storia. La cosa incredibile è che in realtà il bambino non è un elemento essenziale per far proseguire la storia. Tuttavia la presenza del figlio che osserva e partecipa alle disavventure del padre cambia la prospettiva del film. Non si tratta più solo di ritrovare la bicicletta per non essere disoccupato ma anche per permettersi di mantenere il figlio e allo stesso tempo essere un esempio di vita per il pargolo. La grande tragedia finale per il padre quindi è doppia. Da una parte la perdita del lavoro che lo condannerà a far vivere di stenti la famiglia e soprattutto il fatto di non aver perso completamente la propria dignità davanti agli occhi del figlio. Probabilmente per questa idea De Sica prese ispirazione dal famoso film di Chaplin Il Monello (1921). Sempre Bazin scrisse: Non sarebbe esagerato dire che Ladri di biciclette è la storia della camminata per le strade di Roma di un padre e di suo figlio. LA RICERCA DEI LUOGHI E DEL CAST De Sica, sposando in pieno i concetti del neorealismo, decise di non girare nessuna scena in un teatro di posa e di servirsi principalmente di attori non professionisti. La ricerca per le location del film sono state molto accurate, tanto che nel film viene mostrata una zona di Roma ben poco accessibile ai turisti. Ben più difficile fu la ricerca degli attori. Volendo De Sica avere a che fare con attori non professionisti trovarne di perfetti per i ruoli fu molto difficile. Particolarmente arduo per De Sica fu trovare il bambino. Facendo i casting per i bambini trovò ironicamente la persona adatta per fare l’operaio. Questa persona era Lamberto Maggiorani, un operaio della Breda. Il bambino ancora non si trovava, a quel punto proprio mentre stavano girando una delle prime scene con Maggiorani comparve quasi miracolosamente quello adatto per il ruolo: Enzo Staiola. Questi piccoli aneddoti mostrano come la produzione del film dovette essere molto avventurosa ma anche la testardaggine (ripagata) di De Sica nel voler ritrovare dei volti e dei corpi adatti 22 ultime opere, senza però rinnegarne l’urgenza sociale e la poetica. L’idea di Miracolo a Milano nasce dunque da questo azzardo: raccontare l’Italia della ricostruzione in tutta la sua durezza, attraverso un filtro allegro e spensierato. De Sica, anche per la volontà di rendere omaggio a Cesare Zavattini, il grande sceneggiatore con cui sta riscrivendo la Storia del cinema italiano, decide di esaudire un suo desiderio nascosto, quello di portare sul grande schermo un suo piccolo romanzo per ragazzi Totò il buono, uscito nel 1942 a puntate sul quotidiano Il Tempo. Miracolo a Milano (il primo titolo I poveri disturbano viene cambiato dopo le insistenze dei produttori) è così il tentativo di rivoluzionare una poetica, rimanendo sempre coerenti a se stessi. L’obiettivo di De Sica e Zavattini è raccontare una favola visivamente esagerata (per i tempi dell’epoca, ovviamente) con un nucleo morale però lucido è rigoroso. Il risultato finale è un capolavoro, premiato a Cannes con la Palma d’oro, ma un disastro economico fragoroso. De Sica, che crede così tanto al progetto da investire i suoi soldi personali, è trascinato dentro un buco nero finanziario, tra effetti speciali sempre più cari (sono chiamati addirittura tecnici americani per realizzarli) e una stampa conservatrice che martella il film sin dai primi giorni di distribuzione, augurando a De Sica e a Zavattini procedimenti giudiziari e altre avversità. Miracolo a Milano fa così paura all’élite conservatrici e reazionarie dell’Italia del Dopoguerra perché racconta gli invisibili e gli emarginati, non con gli strumenti respingenti del primo neorealismo ma con uno sguardo scanzonato e caloroso di chi non piange davanti alle avversità ma è felice, ogni mattina, di vivere un buongiorno. Il giovane e solare Totò, interpretato dal semi professionista Francesco Golisano, nasce sotto un cavolo come nelle più divertenti leggende contadine ed è il simbolo felice di un’Italia pura ma mai sciocca. Come un buffo angelo urbano, la sua contagiosa felicità, nonostante tutto e tutti, è la cifra di un modo di vivere che deve essere la risposta più efficace alle violenze dei padroni, dei borghesi, dei reazionari. Un sorriso per una rivoluzione allegra. De Sica e Zavattini rispondono in questo modo ad anni di accuse di disfattismo, di ipocrisia, di anti-patriottismo (“i panni sporchi si lavano a casa”). In Miracolo a Milano le traiettorie che si creano, sono talmente forti e urgenti, che arrivano intatte fino a oggi. Una storia che, anche a 70 anni, stupisce come possa raccontare l’Italia del terzo millennio. L’universo di povertà e marginalità che vive nascosto tra le ombre periferiche delle nostre grandi città, soprattutto la Milano capitale morale del Paese che lavora, ci arriva addosso prima e meglio dei tanti periferia-movie che credono che mostrare qualcosa vuole dire denunciare. De Sica con il suo piccolo Totò, protagonista felice, invece si muove negli ambiti della favola spassosa, dell’elegia leggera. La naïveté di Totò (radice su cui sono nati i tanti Candido milanesi degli anni 80, i Pozzetto e i Boldi nelle loro uscite più poetiche) è l’unica cosa che serve. Una piccola magia per volare, anche su un manico di scopa, sopra lo squallore del profitto, del moralismo, del capitale. MATRIMONIO ALL’ITALIANA (1964) Questo film è dedicato a Titina De Filippo Carlo Ponti presenta Sophia Loren e Marcello Mastroianni. In un film di Vittorio De Sica, tratto dalla commedia “Filumena Marturano” di Eduardo De Filippo. Donna Filomena sta male, Domenico sta terminando i preparativi per il matrimonio con la sua futura sposa (abito). Sembra essere sul punto di morte. Domenico corre da lei. Eduardo De Filippo, quando ha scritto la sua opera teatrale Filumena Marturano, ha consegnato nelle nostre mani un capolavoro, nel senso etimologico del termine, una pièce memorabile, una fotografia indelebile della crisi della famiglia borghese, e che ha contemporaneamente delineato una figura femminile, anzi la figura femminile quasi per eccellenza del suo teatro: una donna colma di fierezza, esilarante, intraprendente, passionale e intelligente. Filumena Marturano è un personaggio che non sbiadisce mai, non conosce dissoluzione, sembra non risentire mai delle pieghe del tempo, dei cambiamenti, delle circostanze, dei mutamenti della nostra società. 25 Questo perché Eduardo ha colto l’essenza della famiglia italiana, ha colto i costumi, le debolezze, i vizi e le incurie dell’italiano, e li ha riproposti attraverso una forma e una scrittura ineguagliabile. Era il 1946 quando la commedia teatrale esordì al Politeama di Napoli; dalla sua stessa commedia Eduardo trasse il film omonimo (1951), diretto e interpretato da lui stesso e da sua sorella Titina. Ma è stato Vittorio De Sica che ha conferito nuova vita e ha donato nuovo vigore al testo eduardiano, realizzando il film Matrimonio all’italiana (1964), con Sophia Loren e Marcello Mastroianni. Matrimonio all’italiana: il film di Vittorio De Sica tratto dalla commedia di Eduardo Il quartiere napoletano è in subbuglio. Filumena Marturano sta morendo. Il cinquantenne Domenico Soriano, Dummì, che ha condiviso con lei la sua vita per più di venti anni, accorre al suo capezzale per esaudire il suo ultimo desiderio: sposarla sul suo letto di morte. I due ricordano le loro vite, ricordano gli episodi più sorprendenti della loro convivenza. Lui, benestante, donnaiolo, sempre ben vestito, vive trascorrendo buona parte del suo tempo frequentando case chiuse, viaggiando, scommettendo e correndo dietro le donne, sempre più giovani. Filumena è una donna nata in condizioni umilissime, cresciuta in una casa di tolleranza dove ha incontrato Dummì. Scampata a un destino di prostituzione, Dummì è ben contento di sottrarla a quella realtà; Filumena ne diventa prima l’amante, e poi ottiene la gestione e la responsabilità delle sue attività e anche di sua mamma. Ma Filumena, dopo vent’anni trascorsi con lui, nasconde un segreto che non può più tenere per sé: ha tre figli che ha sostenuto a distanza, che ha visto crescere, e ora desidera ardentemente che sappiano che lei è la loro madre. Uno di loro è figlio di Dummì. Filumena Marturano: una donna colma di fierezza, esilarante e intraprendente Matrimonio all’italiana ha visto la luce all’interno di un teatro, ha respirato per la prima volta attraverso le pareti, il sipario e le quinte di un palcoscenico. Ed è da un teatro che ha preso forma il film di Vittorio De Sica, cercando in un certo senso di spalleggiare il successo di Divorzio all‘italiana di Pietro Germi, uscito nel ’61, e di continuare quel ritratto tagliente, feroce e ironico della mentalità e delle pulsioni tutte italiane, ma soprattutto di provincia, dell’epoca. Quindi De Sica, mimando Germi, sceglie di cominciare la sua commedia come Eduardo aveva ideato ovvero a cose fatte, durante il terzo atto, quando la storia è cominciata: laddove un altro autore avrebbe cominciato a scrivere le ultime parole, per Eduardo era un input e ci costruiva attorno una commedia. Il film di Vittorio De Sica prende il personaggio di Filumena Marturano e lo trasforma, gli dà una direzione e una connotazione che si allontana leggermente dall’idea di commedia sociale. Oltre ad essere una donna mossa dal proprio emancipazionismo, e di cercare una reale affermazione sociale, Filumena Marturano muove i primi passi all’interno di una realtà che non le permette di esprimersi, in un’Italia postbellica che non considera i suoi sentimenti, privata della dignità, ma con un desiderio fortissimo di riscatto nel cuore, ma non solamente per se stessa ma per i suoi figli. Nel loro nome, a tutti gli effetti, che lei è disposta a far valere i suoi diritti: il diritto di essere riconosciuta come moglie, come madre, e di donare a loro anche una figura paterna. Filumena si finge morente per sposare Dummì, non considera ciò che potrebbe andare storto in seguito a un inganno così forte, questo perché lei conosce le leggi della sua vita, non conosce le leggi dell’uomo, e non le rispetta, e a suo modo le agisce e le affronta. Matrimonio all’italiana: una fotografia indelebile della crisi della famiglia borghese 26 Il personaggio di Filumena è una donna innamorata che aspira a una vita ordinaria, desidera essere rispettata e riconosciuta dall’uomo che ama. La sua storia è una storia di amori perduti e ritrovati, di amori impossibili perché socialmente incompatibili, di persone che nascono per amarsi ma che finiscono per vivere separati, che non possono vivere insieme e non possono vivere divisi. Ecco perché l’amore, così evidente e presente nel film di De Sica, è un amore che sembra fiorire nei luoghi più difficili, più scomodi, scegli i posti sbagliati per imporsi nella vita dei personaggi eduardiani. L’amore è il motore assoluto della vita di Filumena, amore per se stessa, per i suoi figli, che ha visto crescere da lontano, amore che non ha mai potuto donar loro e che loro non hanno potuto ricambiare in nessun modo. Matrimonio all’italiana si differenzia dal suo originale testo teatrale proprio perché vive, nella sua stesura filmica, di due momenti chiave che sono i flashback dei personaggi principali, all’interno dei quali vengono ripercorsi i vent’anni di storia comune dei due innamorati, con una malinconia piuttosto amara. Il testo di Eduardo è inscalfibile, si percepisce il territorio, il dialetto italianizzato, Napoli del dopoguerra, che è molto più che un territorio in ricostruzione: il suo dopoguerra sembra non limitarsi ai solchi nel terreno o nei palazzi. Anzi, il mondo per una donna come Filumena sembra non essere cambiato, è sempre uguale, è il dramma interiore a scalfire i cambiamenti reali, il dopoguerra è quello dei sentimenti, la ricostruzione sociale che è in atto si giustifica e si attua sul corpo delle donne e agisce sulla loro emancipazione. La commedia è il vettore sociologico, lo specchio in cui il pubblico ha potuto specchiarsi Sophia Loren ha un’attitudine nel porsi al personaggio di Filumena che forse non ha avuto eguali nella storia del cinema italiano, ha un potere visivo, un portamento persuasivo, quella rara capacità di camminare come una top model e di travolgerti con quella fierezza, spontaneità e caratterialità napoletana (e campana), sempre infondendo ai suoi personaggi un cervello e una spina dorsale decisivi e assoluti. L’inizio degli anni ’60 ha in un certo qual modo segnato l’inizio di un genere cinematografico, la commedia all’italiana, molto celebre e diffuso, che in un modo davvero singolare, ha saputo unire energia comica, satira sociale e dramma. La commedia è sempre stato quello specchio in cui il pubblico ha potuto guardarsi e vedere il proprio volto riflesso, con tutta l’esuberanza, i difetti, spesso anche con note volutamente stereotipiate, forse anche volgari; quell’insolenza di spirito tipica della commedia fungeva da vettore sociologico, in una fase di ricostruzione, di cambiamento sociale, la cui rappresentazione è servita all’Italia e agli italiani per osservare da vicino le proprie falle, le proprie voragini ideologiche, politiche e sociali, al punto che tutti quegli edifici in rovina, i cantieri, diventarono molto più di un simbolo di riedificazione capillare del territorio, ma evocarono la dissoluzione di una società, partendo dalla lezione del neorealismo, e il mutamento radicale della mentalità e del costume sessuale degli italiani, che si incrinano e si dipanano all’interno di nuove forme sociali economiche e familiari. IL SIGNOR MAX (1937) Soggetto di Amleto Palermi Sceneggiatura di Mario Camerini e Mario Soldati Produzione ASTRA FILM S.A. Con Vittorio De Sica e Assia Noris; Rubi Dalma Adonella, Caterina Collo, Umberto Melnati, Mario Casaleggio Riento. Registrato con sistema RCA Photophone 27 Altrettanto evidente è la necessarietà di questa classe come motore economico, in quanto possidente, proprietaria e sapiente manipolatrice del necessario ma peccaminoso denaro, quello che stava portando Gianni, significativamente, alla rovina. Prima di essere “salvato” dalla semplice “donna di casa”, Lauretta, il cui corpo abbiamo sempre visto ingessato in rigidi e formali tailleur. Solo così ella ha potuto salvare la sua verginità e offrirla all’uomo “giusto”, con cui darà seguito alla “integra” razza italica. Il popolo incarna tutte le virtù italiche: famiglia, patria, onore, dedizione femminile silenziosa, anelli inscindibili della spina dorsale fascista del nostro paese. Tra l’una e l’altra classe la separazione è netta e impossibile da colmare. La lotta di classe, da sempre ridotta dal fascismo a invidia di classe, non avrebbe neppure senso, secondo la prospettiva del film. Perché il popolo dovrebbe invidiare chi è corrotto e carico di vizi? La rivoluzione sarebbe soltanto un farsi del male, allontanarsi dalle proprie virtù, già lì e solo da conservare. Siamo a quell’anticapitalismo di destra che fu alle origini del fascismo e che rispunta quando il fascismo realizza un relativo benessere, che dopo pochi anni sarebbe stato travolto dall’inevitabile avventura bellica. E a conferma delle dinamiche di questa propaganda, involontaria ma potente, inconscia ma fattiva, valida anche, e forse ancora di più, in democrazia, ricordiamo il remake de “Il signor Max”: “Il conte Max”, di Giorgio Bianchi, ‘56 con protagonista Alberto Sordi. Le motivazioni del primo film sono ancora lì, e non per caso. Quanto di cultura fascista c’era ancora nell’Italia popolare degli anni ’50! veicolata da una forte tradizione clericale e dalla vulgata catto-comunista, che soltanto il boom economico del decennio successivo avrebbe cominciato a mettere in crisi. E, relativamente ai nostri giorni, quanta propaganda consumistico-capitalistica si cela, ad esempio, dietro la facciata comicarola dei cinepanettoni dei fratelli Vanzina… LA CIOCIARA (1960) Regia: Vittorio De Sica Interpreti: Sophia Loren, Jean-Paul Belmondo, Eleonora Brown, Raf Vallone, Carlo Ninchi, Pupella Maggio Origine: Italia/Francia 1960 Durata: 110’ Genere: Drammatico Sceneggiatura: Cesare Zavattini Soggetto: Alberto Moravia, dal romanzo Musiche: Armando Trovajoli Nel riadattamento del romanzo, Cesare Zavattini, che sceneggiò il film, ridusse l’età di Cesira e per mantenere la distanza generazionale tra la protagonista del racconto di Moravia e la figlia, ridusse anche quella di Rosetta. Sophia Loren, in origine destinata ad interpretare la figlia Rosetta, diventò invece la madre e Anna Magnani che avrebbe dovuto interpretare la madre, abbandonò il progetto. Una circolarità di eventi che sembra segnare, sin dalla preparazione, un film che non può prescindere dall’esclusivo rapporto madre-figlia che la storia, con evidenza, rimette in discussione, risolvendolo con un irrinunciabile maturazione delle due protagoniste e l’acquisizione di una coscienza dei rispettivi ruoli. Cesira è vedova, ha una figlia, Rosetta, di mestiere vende alimentari. Ma durante la guerra la vita è dura nella grande città. Dopo il bombardamento del 19 luglio 1943 decide di andare a S. Eufemia, immaginario paese della Ciociaria di cui è originaria. Interrompe la sua intermittente relazione con il carbonaio Giovanni e con la figlia si rifugia nel piccolo paese alla ricerca di una tranquillità anche per Rosetta. Conoscerà Michele un idealista professore disoccupato. La fine delle ostilità sembra la fine di ogni paura e Cesira vuole tornare a Roma. Ma sulla via del ritorno per lei si materializzerà l’incubo di non avere saputo proteggere Rosetta. 30 La Cesira del film non è una antifascista, ma non è neppure una fascista. È una donna che si adatta alla circostanza e che prova a sbarcare il lunario anche in mezzo alla guerra. Il suo interesse dominante è la figlia. Nonostante sia ancora giovane e avvenente e non le manchino i corteggiatori, non è quello che le interessa. Personaggio privo di coscienza politica, ma determinata a sopravvivere, determinata, soprattutto, a proteggere la fragile Rosetta da ogni inganno e da ogni trappola della vita. In una nemesi spietata sarà proprio la più brutale delle violenze, che Cesira non potrà impedire venga perpetrata contro sua figlia, a diventare amaro contrappasso di questa costante protezione. Sarà proprio dopo questo episodio che la mutazione profonda della esile Rosetta, la colpirà al cuore facendole crollare ogni certezza e ogni illusione. La maturazione di Rosetta è repentina e, soprattutto, non è frutto di una libera, progressiva e consapevole scelta, ma di una violenza feroce che solo l’effetto di un malefico epilogo della guerra ha potuto creare. È proprio la violenza a rendere irriconoscibile Rosetta e la sua radicale trasformazione oltre a costituire un atto indiretto d’accusa verso la madre che non l’ha saputa proteggere, ha accelerato innaturalmente il pur inevitabile termine del percorso adolescenziale, con una sacrilega crudeltà. La bella e scenografica ambientazione in cui avviene la violenza –contribuisce all’effetto la profonda e sempre dosata fotografia affidata all’esperto Gábor Pogány – sembra fare da teatro non solo alla violazione dei corpi, ma anche alla sacralità del luogo che avrebbe dovuto religiosamente proteggere madre e figlia. La chiesa distrutta assurge a forma devastante degli effetti della guerra e delle esistenze delle due donne. La ciociara è a suo modo un film spietato, estraneo al Neorealismo del De Sica precedente e nonostante prosegua la proficua collaborazione con Cesare Zavattini, il film si abbandona ad un realismo che, dopo la grandissima stagione artistica appena trascorsa, assomiglia ad una sperimentazione tutta da inventare. Ma De Sica inventa e sperimenta bene e nonostante questo non possa essere considerato uno degli apici della sua carriera, La ciociara è un film in cui è possibile ritrovare i segni di quello sguardo amorevole sulla gente che il regista di Sora ha sempre avuto da Ladri di biciclette a Umberto D. il film, dopo un avvio che sembra preludere ad una divagazione da commedia, ad un affresco popolare sulla salvezza da una tragedia collettiva, alle piccole realtà delle comunità paesane solidali, vira, d’improvviso, verso il dramma non più collettivo – anzi la gente è impazzita di gioia perché la guerra è finita – ma personale, tanto imprevisto, quanto inevitabile. Un vero ciclone che spazza via il passato, preludendo al nuovo. Una specie di monito per quell’Italia che con la guerra aveva ancora una volta perso l’innocenza. È però anche il frutto di quella sorda carica distruttiva e pervasiva della guerra che tutto distrugge e tutto contamina. Un “effetto collaterale” di brutale violenza che sembra anche qui fare da contrappasso alla, tutto sommato, tranquillità della campagna che teneva gli sfollati lontani dalla calamità bellica. Una intensissima Sophia Loren, vincitrice dell’Oscar come migliore attrice protagonista, dimostra le sue qualità in un ruolo che evidentemente sentiva come proprio. Il premio Oscar del 1962 per la migliore interpretazione femminile venne a coronare il successo del suo lavoro sul personaggio che sa essere femminile e seducente con l’ingenuo Michele, quando si stende sull’erba sapendo di volere sedurre; sensuale e anche rabbiosa con l’impetuoso e insinuante Giovanni; decisa e durissima con chi attenta o vorrebbe attentare alla illibatezza ancora giovanile di Rosetta. È in questa variegata gamma di toni che il personaggio di Cesira acquista non solo le caratteristiche di una madre tutta italiana, iperprotettiva e fagocitante, ma anche quelle di una donna decisa a combattere per la propria sopravvivenza, mai perduta d’animo, se non davanti all’imponderabile. Ma è proprio qui che il cinema di De Sica sembra che davvero abbia subito una genetica mutazione dopo i quattro anni di silenzio artistico che separano questo film dal precedente Il tetto che è del 1956. Se il neorealismo aveva privilegiato lo spessore dei personaggi, con La ciociara il cinema di De Sica sembra appassionarsi all’intreccio e l’unico personaggio davvero riccamente intessuto è proprio quello di Cesira che – salvo errori – è presente in ogni scena del film, se non addirittura in ogni inquadratura. Cesira/Loren è la centralità della ricerca dell’autore e Cesira è indissolubile dal suo ruolo di madre (anche coraggio). Per queste ragioni si provava a ridefinire questo film quasi esclusivamente dentro la dialettica del rapporto madre/figlia, un’analisi, magari grezza, ma con dentro capisaldi per un’indagine psicologica che sarebbe spettata ai cineasti futuri e al cinema a venire. Non è un caso che 31 anche Michele, un insolito e dimesso Jean-Paul Belmondo, sia anch’egli figlio, anch’egli iperprotetto dai genitori ansiosi per lui e anch’egli vittima di un brutale assassinio frutto di una innata bontà d’animo mal riposta. Non è un caso, infine che Rosetta, nutra dei sentimenti acerbi, ma puri per Michele che saranno gli unici a restituirla alla vita giovanile ancora possibile, dopo la violenza, perché non sporcati da quegli effetti collaterali che hanno infangato, invece le loro vite materiali. ________________________________________________________________________________________ __ Cesira (Sophia Loren) è una giovane forte e risoluta, che vive a Roma insieme alla figlia di 13 anni, Rosetta (Eleonora Brown), durante la seconda guerra mondiale. Per sfuggire ai bombardamenti e alle mille insidie di una città allo sbando, affida il proprio negozio a Giovanni (Raf Vallone), un vecchio amico del marito con cui ha una fuggevole relazione adulterina, e intraprende un viaggio non semplice verso Fondi per rifugiarsi insieme alla figlia a Sant'Eufemia di fronte la valle di Fondi, suo paese d'origine. Arrivate non senza difficoltà a destinazione, Cesira fa subito la conoscenza di Michele (Jean-Paul Belmondo), un giovane intellettuale comunista che ha trovato rifugio anche lui in quei posti. Il giovane, puro e idealista, si innamora di lei, riconoscendone la forza e la dignità e Cesira dopo alcuni attriti iniziali lo ricambia; anche Rosetta gli si affeziona profondamente, vedendolo avvicinarsi alla madre, e un po' forse immaginandolo ingenuamente accanto a sé. Michele, però, viene preso da cinque soldati tedeschi proprio pochi giorni prima della liberazione e si incammina con loro sui monti senza lasciare più sue tracce. Quando il peggio sembra passato Cesira decide di far ritorno a Roma, ma proprio questo viaggio verso la serenità risulta fatale. Sulla via verso la città le due, fermatesi in una chiesa diroccata per riposarsi, vengono assalite da un gruppo di soldati nord-africani, che le violentano. Rosetta ne esce profondamente traumatizzata, si chiude in un freddo silenzio, rimane fuori per tutta la notte col camionista Florindo, rozzo e superficiale, che ne approfitta in cambio di calze di nylon. Al giovane infatti la ragazza si offre in maniera indifferente, risentendo probabilmente di una falsa aura di protezione che egli emana. Cesira è colpita da un dolore profondo, turbata più per la figlia che per sé, non sa come poterla aiutare a sciogliere l'orrore, il disorientamento, lo smarrimento di sé e dei valori e un rancore, persino verso la madre, che sembra dominarla e prevalere su tutto. Alla notizia della tragica morte di Michele, fucilato in montagna dai tedeschi come si sospettava, le due donne si riavvicinano abbandonandosi, insieme, a versare lacrime cariche di dolore, di disperazione, in un pianto più che mai liberatorio: una madre e sua figlia nonostante tutto e inevitabilmente attaccate l'una all'altra. Attori del film La ciociara Sophia Loren nel ruolo di Cesira Jean-Paul Belmondo nel ruolo di Michele Eleonora Brown nel ruolo di Rosetta Carlo Ninchi nel ruolo di Filippo, il padre di Michele 32
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