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Riassunto un medioevo mediterraneo, Dispense di Storia

Riassunto un medioevo mediterraneo di tanzani tocco

Tipologia: Dispense

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Scarica Riassunto un medioevo mediterraneo e più Dispense in PDF di Storia solo su Docsity! UN MEDIOEVO MEDITERRANEO Tanzini Tocco 1. L’ETÀ TARDOANTICA TRA POLITICA E RELIGIONE Le ristrutturazioni di un impero mediterraneo La tradizione storica europea ha quasi sempre fissato l’inizio del Medioevo al 476, anno della caduta dell’Impero romano d’Occidente: fu un cambiamento epocale che tuttavia non stravolgeva il panorama politico delle terre affacciate sul Grande Mare. Gli storici preferiscono parlare di una stagione molto lunga, il cosiddetto Tardoantico, che racchiude in sé i fattori di cambiamento e di continuità tra il passato romano e la storia medievale. Per Tardoantico si intende il periodo dalla fine del III all’inizio del VII secolo. Una fase densa di novità e cambiamenti, certo non di soggetti storici che “decadono” o spariscono, ma piuttosto piena di fenomeni inediti che cominciano a manifestarsi, sebbene in forma drammatica e con laceranti tensioni. L’Impero romano in età classica è uno spazio geopolitico eminentemente mediterraneo: l’espressione Mare Nostrum rappresenta ben più che un’orgogliosa rivendicazione di predominio. Questo spazio mediterraneo era unito dall’amministrazione, dal diritto, dall’esercito: una rete di strutture pubbliche che tenevano insieme i suoi vastissimi territori. Sarebbe però un errore pensare che l’impero fosse un’entità omogenea, retta da una struttura uniforme e sempre uguale a sé stessa in tutta l’area entro i suoi confini. Gli imperatori romani avevano avuto l’intelligenza di non calare una struttura rigida e uniforme su questo territorio di dominio. I ceti dirigenti delle province, infatti, avevano assimilato alcuni elementi fondamentali dell’identità romana: l’attitudine alla vita pubblica come responsabilità delle élite, l’ossequio per la formazione intellettuale, l’attaccamento a forme di socialità (le terme, il foro, il teatro) e a rituali collettivi che erano propri del mondo romano. L’impero, insieme flessibile e unitario, aveva conosciuto nel corso del III secolo una stagione di violenti conflitti interni e quindi di profonda crisi, economica e insieme demografica. Le riforme di Diocleziano (284-305) investirono tutta la compagine dell’impero dai livelli più alti fino alla vita concreta della società. L’imperatore introdusse il sistema della tetrarchia, in cui due Augusti, di fatto co-imperatori, e due Cesari, loro diretti collaboratori e auspicati successori, amministravano le diverse parti dell’impero con un’efficacia impossibile per un solo sovrano, consentendo di gestire la trasmissione dei poteri in maniera ordinata, senza conflitti di successione. Diocleziano introdusse un forte irrigidimento delle categorie sociali, imponendo per legge a una serie di ceti il carattere ereditario delle loro funzioni, in modo da impedire alla mobilità sociale di mettere a rischio la solidità dell’apparato statale. L’opera di Diocleziano fu portata avanti da Costantino (306-337), con il quale l’impero entrò in una nuova fase di fioritura. Un impero più burocratizzato e centralistico, diverso dalla struttura “leggera” e in definitiva decentrata di qualche decennio prima, ma anche molto più solido. Nel 330 Costantino fondò sul sito della città greca di Bisanzio una nuova capitale, Costantinopoli. Qui costituì un “suo” Senato, che affiancava quello romano, ma con una dignità maggiore considerando la prossimità del sovrano. Se fino ad allora la figura imperiale aveva dovuto fare i conti con il consenso del Senato, istituzione veneranda e autorevole fin dai tempi della repubblica, e con il mutevole appoggio dei capi dell’esercito, ora Costantino poteva disporre di un esercito fedele e di un Senato fatto a sua immagine. Dal IV secolo in poi riconosciamo nell’impero un apparato burocratico di controllo dal centro alla periferia estremamente pesante, sia perché impegnava una massa ingente di operatori al servizio dello Stato, sia perché poteva imporre con efficacia le direttive dall’alto applicate alle province. Le nuove esigenze di vita religiosa: il cristianesimo Il secondo fattore di cambiamento molto profondo era stato quello religioso. Nel III secolo si erano radicati dall’Oriente due nuovi culti, a volte percepiti come simili, il cristianesimo e il manicheismo. Il cristianesimo era arrivato dalla Palestina a Roma fin dalla metà del I secolo, e malgrado ripetute persecuzioni violente, motivate soprattutto dal rifiuto cristiano di partecipare ai rituali di culto dell’imperatore, si era fortemente radicato in varie parti dell’impero. Diocleziano fu un accanito persecutore di entrambi i nuovi culti. Costantino, al contrario, scelte di favorire il cristianesimo, che con l’editto di Milano del 313 diventava una religio licita. Il fatto di avere il favore dell’imperatore metteva la nuova religione con i suoi ministri in una posizione di privilegio: le chiese cristiane ebbero una grande crescita numerica e soprattutto cominciarono a diffondersi in maniera capillare in tutto l’impero. L’impero di Costantino poteva contare su una religione che a differenza dei culti pagani aveva un’articolata struttura organizzativa, con figure di “professionisti” incaricate della guida della comunità. Il cristianesimo si prestava a diventare stesso Valente. L’autorità romana riprese rapidamente il controllo grazie a un nuovo sovrano, Teodosio, ma con una massa di Goti ormai stanziati a pochi chilometri da Costantinopoli. Dopo la fine del regno di Teodosio le due parti dell’impero avevano caratteri sociali e territoriali molto diversi. L’impero d’Oriente, di gran lunga più densamente abitato, doveva fronteggiare il fenomeno delle migrazioni soltanto nella parte settentrionale. Gli imperatori provvidero alla fortificazione della capitale, munita di un poderoso sistema difensivo al tempo dell’imperatore Teodosio II, e continuarono sul piano politico l’accorta strategia di gestione delle relazioni con i capi delle tribù barbare. Gli imperatori occidentali, pur contando sul controllo dell’Italia, culla dell’impero, governavano territori meno intensamente romanizzati, con una rete urbana investita dai movimenti migratori lungo una frontiera estesa, dal Mediterraneo al Mare del Nord, fino alle lontanissime plaghe della Britannia. In un’area meno densamente popolata e quindi più in difficoltà per il reclutamento dell’esercito, l’equilibrio tra assimilazione dei Barbari e difesa dei confini era molto sbilanciato. Era frequente il caso di capi germanici non sono entrati nell’esercito ma anche assurti ai più alti gradi della gerarchia militare. La difficoltà di gestire il territorio con risorse militari sempre più risicate condusse a una scelta epocale, quella di ritirare sul continente le legione di stanza in Britannia, un territorio troppo remoto e difficile da raggiungere per un esercito che già stentava a presidiare il resto dell’impero. Le sempre più frequenti crisi e accelerazioni dei movimenti intorno al limes, come era accaduto nel 375-378, investivano soprattutto la parte occidentale. L’episodio decisivo giunse alla fine del 406, quando una massa di tribù diverse varcò indisturbata il limes del Reno riversandosi nelle campagne della Gallia, dove giù generazioni di comunità più assimilate avevano trovato i loro spazi di hospitalitas. Le trattative dei capi germanici come il goto Alarico furono difficili. Nella speranza di forzare la mano ottenendo vantaggiose offerte da Ravenna, Alarico condusse i suoi uomini in Italia, dove la situazione precipitò nel 410: Roma stessa venne occupata e saccheggiata dalle truppe dei Goti. La rottura dei 410 non impedì ai Goti di Alarico, morto poco dopo, di trovare comunque un accomodamento con l’impero, firmato nel 419 nella forma di un nuovo foedus: ai Goti era concessa un’intera area imperiale tra la Gallia meridionale e le coste iberiche, centrata sull’antica città di Tolosa. L’obiettivo dei capi barbari era quello di occupare territori con le proprie genti, non di sostituirsi all’impero. Per tutto il resto del V secolo l’impero in Occidente continuò a vivere come una sorta di autorità simbolica intorno alla quale si muovevano capi germanici assunti come ufficiali dell’esercito romano, membri della vecchia aristocrazia senatoria, capi di tribù alla ricerca di spazi. La frammentazione e il disordine politico dei territori occidentali crescevano con l’afflusso dei nuovi gruppi germanici, sotto la spinta delle conquiste degli Unni. Le armate dei Vandali guidati da Genserico, ritenendo rotti gli accordi con l’imperatore occuparono di nuovo Roma nel 455 e misero in atto un saccheggio molto più organizzato e sistematico di quello di quarant’anni prima. Gli eventi del V secolo fondavano una situazione destinata a restare tipica di tutto l’Alto Medioevo. Nella crisi delle strutture imperiali romane i vescovi, spesso reclutati proprio tra le fila della vecchia aristocrazia imperiale, furono i principali punti di riferimento per la popolazione, e assunsero un enorme prestigio come veri e propri simboli della comunità cittadina. Una data dal valore simbolico: il 476 Considerando questo quadro, l’ufficiale estinzione dell’Impero romano d’Occidente nel 476 non fu certo un evento inatteso né un cambiamento epocale. La scomparsa dell’autorità imperiale in Occidente ebbe l’effetto di rendere irreversibile l’insediamento delle popolazioni germaniche all’interno di quello che era stato il limes. Non si trattava più di foederati, ma di dominatori stabili, i cui capi portavano il titolo di rex. Le categorie politiche di questi nuovi soggetto erano spesso molto diverse da quelle antiche. La fiscalità, vero e proprio asse portante della statualità romana, venne sostanzialmente meno: in mancanza di risorse tecniche per gestire un sistema di tassazione, i sovrani germanici governarono in nome di fedeltà etniche e di controllo militare, senza una vera e propria struttura amministrativa. Anche l’esercito, del resto, assumeva un valore differente: non più un servizio prestato all’autorità del sovrano, ma una prerogativa propria della categoria degli uomini liberi, i membri del popolo dominatore che trovavano nelle armi il loro simbolo identitario. Entro queste forme rudimentali di potere il prestigio legato alla sfera religiosa trovava una sua importante funzione, e anche in tal caso le varianti furono notevoli. Per quanto non del tutto inedita la scelta di adesione alla confessione religiosa della gerarchia “imperiale” gettò le basi per una collaborazione intensa tra l’autorità regia e la rete episcopale. A oriente del bacino del Reno, ma anche oltre la Manica, nell’antica Britannia, il cristianesimo non giunse a comporsi con le identità germaniche. L’Italia ostrogota Odoacre non poté beneficiare a lungo del suo dominio sull’Italia. L’imperatore Zenone non intendeva rinunciare alla possibilità di controllare il giardino dell’impero in assenza di un imperatore d’Occidente. Rassicurato dal sostegno di Zenone, Teodorico giunse in Italia con il seguito dell’intero suo popolo, probabilmente intorno a centomila persone di cui solo un quarto uomini atti alle armi. A Ravenna si scontrò con Odoacre, lo sconfisse e uccise, prendendone il posto come dominatore dell’Italia nel 493. Teodorico regnò fino al 526 con il titolo di “patrizio dei Romani”: il re ostrogoto poteva così fare affidamento sull’acquiescenza dell’aristocrazia romana, visto che il vecchio ceto dirigente dell’impero, ancora forte di grandi proprietà fondiarie, era anche depositario di un’esperienza di governo di cui la compagine germanica non poteva fare a meno. Anche sul piano religioso Teodorico si attenne a questa scelta di equilibrio. Volle mantenere, infatti, la confessione ariana delle tradizioni gote, come contrassegno identitario del popolo dei dominatori, ma cercò relazioni positive con il vescovo di Roma. La relativa prosperità del regno ostrogoto dopo decenni di disordini consentì a Teodorico di consolidare la sua autorità anche nella Dalmazia e nell’area della Provenza. Per la popolazione italiana, insomma, il governo di Teodorico poté rappresentare un momento di relativa continuità con il passato romano. Visto dall’imperatore di Bisanzio, il regno ostrogoto era un buon compromesso tra il controllo diretto e l’abbandono nelle mani di capi germanici: un esperimento che, se prolungato, avrebbe potuto creare uno Stato cuscinetto vagamente assimilato alla romanità nei pressi dell’Impero d’Oriente. 3. L’EREDITÀ POLITICA ROMANA TRA RIELABORAZIONI, ASSESTAMENTI E RECUPERI I regni romano-barbarici All’inizio del VI secolo il Mediterraneo occidentale aveva conosciuto il passaggio da un vasto impero a una varietà di regni locali, nati dall’insediamento di popoli germanici. Il cambio di dominazione politica non aveva affatto alterato radicalmente la società. Quelle del V-VI secolo sono società romano-germaniche, nel senso che gli usi romani, non più governati dall’impero, permangono nei territori nella forma di consuetudini, affidate solo alla tradizione e all’inerziale conservazione delle popolazioni latine, specie nelle società più dinamiche come i centri urbani, mentre quelle germaniche subiscono a loro volta il fortissimo influsso della romanità, a cui i re si ispirano in forme più o meno semplificate. Un suggestivo segnale di questo carattere è la monetazione. L’esempio più emblematico di questa romanità germanizzata è il regno visigoto. I re visigoti, insediati nella capitale Toledo, si fregiarono dell’appellativo di flavius, ormai privo di contenuti storici ma utile per dare al regno il lustro dell’autorità per eccellenza, quella degli antichi imperatori romani. Nel conio delle monete, nella committenza artistica come nei rituali pubblici, quella di Toledo era una monarchia di imitazione antica, una rota di romanità in tono molto minore. Non si trattava però solo di facciata. Il re Alarico II emanò intorno al 506 il cosiddetto Breviarium alaricianum, con il quale provvedeva a dare una legge ai suoi sudditi romani: non emanata di sua iniziativa ma adattata a partire dall’originale romano. Questa assimilazione parziale e a distanza delle tradizioni romane vale pure sul piano amministrativo: se è vero che in tutti i regni le strutture dell’amministrazione regredivano a livello di estrema rudimentalità, in quello visigoto del VI secolo vigevano ancora forme di tassazione delle merci di passaggio che non hanno pari in tutto l’Occidente. Alla fine del secolo, nel 589, il re Recaredo decise la conversione del suo popolo al cattolicesimo: una scelta che tra l’altro seguiva l’esempio del piccolo regno degli Svevi, insediato nell’attuale Galizia, già passato al cattolicesimo prima di essere sottomesso dai sovrani di Toledo. A questo elemento di “romanità” la sintesi visigota aggiungeva un fattore originale, perché già dall’inizio del VII secolo i sovrani consolidarono l’abitudine di periodici incontri dei vescovi del regno alla presenza del re. Negli altri regni più lontani dall’area mediterranea la compenetrazione romano-germanica fu molto meno equilibrata e prevalsero dinamiche diverse. Nell regioni del Nord, in particolare, l’impatto delle strutture romane era minimo e assai fragile; molto forte, invece, era nei territori conquistati da Clodoveo nel 507, l’Aquitania, o nella Burgundia verso cui mosse l’espansione franca nel 534. I re franchi succeduti a Clodoveo si affidarono soprattutto alle usanze più tipicamente germaniche. L’ancoraggio all’universo simbolico della romanità, e quindi di un’autorità statale del re, venne soprattutto dalle file dei vescovi, e non per nulla lo stesso Clodoveo si preoccupò di riunire un concilio regionale, quello di Orléans nel 511. Giustiniano Le profonde trasformazioni in atto nella parte occidentale dell’impero prima e dopo il 476 avevano lasciato immune quella orientale, dove il potere imperiale era stato in grado di gestire l’emergenza. Regioni più ricche e floride, più intensamente popolate, avevano dato ai sovrani la possibilità di governare l’esercito senza innescare i meccanismi di disgregazione in atto in Occidente. La storia dell’Impero orientale poté perciò proseguire per un millennio, fino alla sua cessazione definitiva nel 1453. Questa lunghissima stagione, un vero e proprio Medioevo parallelo a quello occidentale, è di solito relegata alla storia dell’Impero bizantino. L’Impero bizantino rappresenta un polo di eccezionale durata e importanza nella storia del Mediterraneo, sia in maniera diretta per le terre soggette all’impero, sia per le sue relazioni tanto con le aree circostanti quanto con il resto d’Europa. Nei suoi caratteri di fondo l’Impero orientale sviluppa l’eredità costantiniana e teodosiana. È una realtà politica con una forte componente religiosa, in cui l’imperatore è altresì il custode e tutore dell’ortodossia, quindi anche supervisore dell’autorità ecclesiastica dei patriarchi. Giustiniano, che salì al trono nel 527, segnò la storia bizantina del suo secolo e oltre. Era un uomo di grandi doti politiche: energico, deciso, capace di visioni di larghissimi orizzonti, fu noto ai contemporanei pure come dominatore di implacabile crudeltà, capace di qualsiasi nefandezza per soddisfare la sua immensa sete di potere. Rimase sul trono per quasi quarant’anni e poté attuare un organico disegno di consolidamento ed espansione dell’ecumene romana. Dal 529 in poi un gruppo di giuristi imperiali lavorò alla redazione del Corpus iuris civilis, la raccolta organica dell’intero patrimonio normativo e di riflessione giuridica romana. Con questa titanica opera di riordino Giustiniano apriva una nuova epoca nella storia del diritto. Il Codex era di per sé una nuova versione del Codex theodosianus del 438, ma la sua logica era molto più ambiziosa, perché tutto il patrimonio di leggi e dottrina non riportato in esso fu destinato, per esplicita disposizione imperiale, alla distruzione. Inoltre Giustiniano portava avanti il versante geopolitico della sua grande impresa di maestà imperiale. Il primo fronte fu quello orientale, lungo i deserti tra Siria e Mesopotamia, dove ottenne nel 532 una “pace perpetua” con i vicini Persiani, e poté rafforzare Palmira, splendida oasi e crocevia dei traffici carovanieri tra il Medio Oriente greco-siriano e il mondo persiano. Messo in sicurezza il confine orientale, Giustiniano poté guardare a Occidente, dove dominatori molto meno temibili dei Persiani occupavano i territori un tempo dell’Impero. La prima vittoria dell’espansionismo bizantino fu il regno africano dei Vandali, facilmente conquistato tra il 533 e 534 dalla flotta del generale Belisario. Il regno conquistato, con la strategica appendice della Sardegna, divenne una base fondamentale per successive imprese, mentre il grande porto di Cartagine diventava il capoluogo della provincia appena annessa. Giustiniano poté passare alla seconda tappa, di gran lunga più problematica, quella dell’Italia. Alla morte di Teodorico i conflitti interni tra Amalasunta e Teodato rendevano il regno assai instabile. L’occasione fu propizia per l’inizio della campagna militare, avviata di nuovo dalla flotta che prese rapidamente possesso di Siracusa per poi volgere verso il continente. Napoli fu espugnata nel 536 ma da lì l’esercito di Belisario si trovò bloccato da un’accanita resistenza dei Goti, ricompattati da un sovrano guerriero di grande carisma, Totila, che riuscì a impegnare Belisario per molti anni. La stessa Roma fu conquistata e persa più volte. Soltanto nel 553, dopo la morte di Totila e la successione dello sfortunato re Teia, una battaglia campale a Gualdo Tadino forse fine alla resistenza gota. L’ultima delle guerre imperialistiche di Giustiniano venne condotta contro il regno dei Visigoti nella penisola iberica. In questo caso soltanto una parte dei territori su assoggettata al dominio bizantino, l’area sudorientale aperta verso il Mediterraneo. A ogni modo, il Grande Mare poteva a pieno titolo tornare a chiamarsi Mare Nostrum. Le straordinarie imprese di Giustiniano non possono nascondere le ombre oscure che le fonti gettano sul periodo del suo lunghissimo regno. Innanzitutto nelle forme di potere: di fronte alle opposizioni e ai tumulti della plebe di Costantinopoli il principe non esitò a ricorrere alla repressione violenta. Inoltre la città fu colpita dalla peste (542-543) e gli effetti furono tragici per l’intero impero, perché il calo della popolazione mise in crisi il funzionamento della macchina statale e accentuò l’affanno economico a cui era sottoposta Bisanzio. Verso la fine del suo regno, Giustiniano da grande conquistatore conobbe, inoltre, la necessità di difendere i suoi confini. I conflitti interni che minavano l’impero erano alimentati pure dalla dimensione della fede. Forte dell’ininterrotta tradizione costantiniana, Giustiniano intervenne apertamente nei dibattiti religiosi nel suo ruolo di custode La morte di Maometto nel 632 segnò, come prevedibile, uno spartiacque nella storia della prima comunità islamica. La figura del Profeta era per sua natura irripetibile; d’altro canto, forte era l’esigenza di una personalità che gestisse il governo della comunità, che ormai teneva insieme il frastagliato mondo delle tribù dell’intera penisola arabica. La comunità dei credenti scelte uno dei primi seguaci del Profeta, padre di una delle sue mogli, Abu Bakr, come “sostituto” di Maometto non nel suo carisma religioso, ma nelle funzioni di guida della comunità; il termine “sostituto” in arabo avrebbe dato luogo alla definizione di califfo per tale funzione nei secoli a venire. Una delle principali realizzazioni del periodo dei primi califfi fu la fissazione del testo del Corano. L’altra, più vistosa, fu l’avvio di una straordinaria successione di conquiste al di fuori della penisola arabica. Negli anni Trenta, infatti, le armate islamiche si lanciarono alla conquista dei territori settentrionali verso la Giordania, la Siria e la Mesopotamia. L'impatto con le armate dei grandi imperi ebbe un esito sorprendente: nel 636 le armate di Umar sbaragliarono l’esercito bizantino presso il fiume Yarmuk, tra Siria e Giordania, aprendosi la strada per la conquista della Terrasanta e della Siria; poco dopo fu ancora più spettacolare la vittoria dei Qadisiyya contro l’esercito persiano, perché dovpo aver sconfitto l’imperatore i comandanti islamici poterono procedere fino alla capitale persiana, Ctesifonte, nel 637. Pochi anni dopo, nel 640, l’espansione islamica prendeva la volta dell’Egitto, con la conquista della grande metropoli mediterranea di Alessandria. Un’espansione così rapida ha sempre rappresentato un evento storico difficile da spiegare. Vi furono senz’altro ragioni strettamente militari. Per entrambi gli imperi, poi, valeva un fattore geopolitico ulteriore: i regni tribali di Ghassanidi e Lakhmidi erano stati assorbiti all’interno dei domini bizantini e persiani, ma le rispettive aree geografiche erano rimaste territorio di conquista, occupate dall’esterno. L’arrivo delle armate arabe non venne sentito come un’intrusione: per alcuni versi era un cambiamento favorevole rispetto al dominio di Bisanzio o Ctesifonte. Giocava a favore dell’espansione islamica anche un atteggiamento particolarmente moderato nei confronti dei territori conquistati. Le comunità locali, cristiane ebraiche o zoroastriane in Persia, non erano soggette ad alcuna prescrizione religiosa, ma potevano mantenere le proprie usanze in cambio della formale sottomissione al governo del califfo. Questo consentì l’assestarsi abbastanza pacifico di un immenso impero abitato in grandissima parte da cristiani, ma governato da una piccola minoranza di dominatori musulmani. La fitna e il califfato omayyade L’autorità dei sostituti del Profeta era minata da conflitti interni per una successione che non era mai stata fissata con regole certe: quasi tutti i califfi morirono per congiure o assassinati da sicari. Questa incertezza interna esplose soprattutto dopo la morte di Uthman nel 656, che aprì una fase di torbidi detta fitna, ovvero la lotta di partiti interna alla comunità. Un gruppo più vicino ad Alì, espressione degli stretti familiari del Profeta, si contrappose a una coalizione di tribù arabe di credenti vicini a Uthman. Alì stesso, divenuto califfo, venne assassinato nel 661, e le redini della comunità furono alla fine prese da Mu’awiya, governatore della Siria. Mu’awiya, come di consueto per tutti i califfi, apparteneva al medesimo clan di Maometto, ma era discendente di un ramo diverso dalla complicata genealogia delle tribù, i Banu Umayya: il suo regno avviò così il periodo detto della dinastia omayyade. La fazione che aveva sostenuto Alì, tuttavia, non accettò la successione califfale, ritenendo che il titolo spettasse di diritto a un membro della famiglia del Profeta, quindi a uno dei figli di Fatima: nacque al shi-at Alì, il “partito di Alì”, un vero e proprio movimento politico- religioso alternativo al governo califfale. Risale a questo periodo, dunque, la divisione di fondo del mondo musulmano tra una maggioranza “sunnita”, vale a dire legata alla tradizione (sunna) del califfato, e un’agguerrita minoranza sciita. Per contro, un partito alternativo a quello di Alì ma altrettanto ostile alla successione califfale ufficiale furono i Kharigiti, diffusi soprattutto in Africa settentrionale. L’unità religiosa dell’Islam era rotta, insomma, già pochi decenni dopo la morte del Profeta: le divisioni non sarebbero passate attraverso questioni di natura teologica, ma dall’interpretazione del problema della successione califfale, che a sua volta risaliva alla funzione di Maometto come ultimo Profeta. La presa del potere di Mu’awiya segnò la fine della prima fitna, ma anche un cambio di passo notevole dei caratteri dell'impero. Il nuovo califfo scelse come sua residenza non più La Mecca o Medina, ma Damasco: la capitale del grande impero si spostava così nel cuore del Medio Oriente bizantino. Il governo dell’impero spostava il suo baricentro al di fuori del mondo arabo, in un contesto nel quale non era possibile non sentire l’influsso profondo della storia bizantina. Dopo una prima fase di governo dei familiari di Mu’awiya, una sollevazione militare sconvolse di nuovo l’impero finché riuscì a emergere come dominatore di tutto l’impero Abd al-Malik, un membro del medesimo clan omayyade. L’impero di Damasco stava cambiando forma. Innanzitutto i guerrieri arabi che avevano accompagnato i primi califfi nella stagione gloriosa delle conquiste si erano stanziati nelle città. I Califfi omayyadi assecondarono questo processo di separazione della sfera civile da quella militare, costituendo un esercito stabile di professionisti, che era meglio manovrabile e più stabile. Il dominio arabo di urbanizzava, adattandosi alla rete dell’urbanesimo tardoantico ereditata dall’Impero bizantino. Nei primi decenni del nuovo dominio vennero create alcune città-fortezza, riservate ai dominatori arabi distinti dalle popolazioni locali. Ma visto che la linfa della vita economica passava attraverso quelle metropoli, anche la struttura dell'impero si adattò al modello cittadino. Quello omayyade, specialmente nell’VIII secolo, era insomma un impero di grandi città. Le chiese e i luoghi di culto continuarono a essere frequentati e mantenuti senza particolari traumi. L’amministrazione dello Stato, d’altra parte, impiegava molto spesso quadri di funzionari locali cristiani o ebrei, già abituati alla gestione della cosa pubblica al tempo del dominio bizantino. Almeno per buona parte del VII secolo le pratiche amministrative rimasero così continue a quelle romane che persino la lingua greca continuò a essere usata negli uffici pubblici. In questo dominio greco-islamico i successori di Adb al-Malik ripristinarono altresì il sistema di tassazione romano, pur con importanti novità. Dall’VIII secolo al pagamento di un tributo per teste sui sudditi non musulmani si aggiunse quello della tassa fondiaria, che gravava sui proprietari senza distinzione di appartenenza religiosa: una grande novità per gli Arabi, ma una tradizione consueta per i Romani. Queste riforme amministrative impiantarono una struttura centralizzata in quello che ancora era rimasto un impero in formazione, e consentirono, inoltre, di rilanciare le campagne di conquista. In Occidente le armate califfali occuparono Cartagine nel 698 e si spinsero fino al Maghreb; nel 711 poterono varcare le Colonne d’Ercole e dilagare nella penisola iberica. Di nuovo il massimo dell’espansione dell’impero fu raggiunto pure nella parte settentrionale, dove un primo, infruttuoso assedio a Costantinopoli fu tentato nel 674-678; l’impresa fu ripetuta nel 717-718. Il fronte con il mondo bizantino e quello islamico si arrestò nell'Anatolia meridionale, dove le montagne del Tauro erano una linea di difesa dall’esercito imperiale. Spettacolare su l’espansione verso oriente, che arrivo oltre il Lago d’Aral, alle porte delle grandi vie di comunicazione dell'Asia centrale verso Samarcanda e Bukhara, e nella regione del Sing, dalla quale i califfi potevano guardare all'orizzonte del subcontinente indiano. Bisanzio di fronte all’Islam La fulminea espansione araba inghiottì in tempi straordinariamente rapidi il Medio Oriente e l’Egitto, cioè alcune delle regioni più ricche dell’Impero bizantino. Ad affrontare l’emergenza, più che Eraclio, morto nel 641, fu Costante II (641- 668) che dedicò i suoi sforzi a contenere l’avanzata araba da sud ma anche quella longobarda da nord. Il protagonista della salvaguardia di Costantinopoli, in particolare nel secondo assedio califfale, fu Leone III Isaurico (717-740). La sua politica fu tutta centrata sulla protezione delle frontiere orientali, a favorì per vari motivi il distacco delle province dell’Occidente, principalmente l’Italia, dall’effettivo controllo di Bisanzio. Allo stesso tempo il prestigio dell'imperatore accompagnò pure una nuova compilazione legislativa nel 741, al cosiddetta Ecloghè (“Selezione”), che costituiva una sorta di versione semplificata del grande Corpus giustiniano. Nel medesimo periodo fu riformata l’organizzazione dell’esercito, per cui il sistema dei temi venne integrato dall’inserimento dei tagmata, reparti di soldati a cavallo, professionisti a servizio dell’imperatore, molto più mobili e meglio equipaggiati, che permettevano di far fronte a emergenze e necessità strategiche complesse. La dimensione religiosa, simbolo della grazia divina sul basileus, fu uno strumento usato con decisione. Già Eraclio aveva promosso la dottrina del monotelismo. Questa interpretazione, che venne percepita dai critici come una forma di monofisismo attenuato, fu rifiutata in Occidente. A seguito di una serie di censure imperiali, il vescovo di Roma, papa Martino I, venne fatto arrestare nel 653 perché ostile alla dottrina teologica dell’imperatore, e fu condannato all’esilio nella remota Cherson in Crimea, dove morì poco dopo. La Chiesa di Roma si adattò a questa umiliazione ricomponendo il dissidio con l’imperatore, ma il segno di una distanza e di un crescente sospetto reciproco tra la Chiesa latina e quella greca era molto netto. In queste prese di posizione così aspre l’imperatore non poteva sempre contare sull’appoggio della Chiesa greca. In Occidente la politica religiosa di Bisanzio è stata spesso definita “cesaropapismo”, un concetto di derivazione moderna che suppone la sovrapposizione dei poteri religiosi e civili nella medesima figura del sovrano, il Cesare. Di nuovo nel contesto delle minacce all’impero, sorse sotto il regno di Leone III una nuova e più aspra controversia, quella sul culto delle immagini. Nel 726, infatti, l’imperatore isaurico prese pubblicamente le difese della dottrina iconoclasta, secondo la quale era da ritenersi idolatrica e riprovevole la venerazione riservata alle immagini sacre di Cristo, della Vergine e dei santi. L’intervento imperiale si scontrò duramente con pratiche devozionali assai diffuse, e prese una forma di persecuzione anche violenta sotto Costantino V, il cui nome di Copronimo venne affibbiato proprio dalla parte degli iconoduli, coloro che sostenevano la liceità delle immagini. Gli storici si interrogano da tempo sul senso e sull’origine della politica iconoclasta. Il fattore decisivo fu proprio la volontà dell’imperatore di farsi interprete di una reale riforma delle pratiche religiose, in modo da scongiurare momenti di pericolo. In altre parole proprio quando i confini dell’impero erano messi a rischio, si faceva più forte negli imperatori la preoccupazione per l’ortodossia religiosa e la fedeltà alla tradizione del credo, e quindi nascevano iniziative di grande impatto come l’iconoclastia, che avrebbe dovuto riportare l’impero a una retta celebrazione del culto e, dunque, anche alla conferma dell’aiuto divino. Questo lungo periodo di conflitti si concluse solo quando Michele III nell’843 pose definitivamente fine alla persecuzione delle immagini. Restava così la demarcazione già delineata dagli autori dell’VIII secolo, tra doulia (“venerazione”) che può essere riservata alle immagini dei santi, e latreia (“culto”), destinata soltanto alla divinità. La distinzione era sottile, ma consentiva alle pratiche religiose orientali di mantenere senza confusioni teologiche l’importanza delle immagini, che in effetti sarebbero rimaste cruciali nella sensibilità del cristianesimo orientale nei secoli a venire. 5. L’ECONOMIA E LA SOCIETÀ NEL PRIMO MEDIOEVO Un mondo in recessione La storia dell’Occidente medievale inizia sotto il segno della crisi economica. Il dato più impressionante di questo regresso è la riduzione della popolazione. La guerra e gli effetti della peste degli anni di Giustiniano avevano intensificato questo collasso. Per quanto sia difficile, lo storico che provi a pensare alla società dell’Alto Medioevo deve ipotizzare nella maggior parte dei casi una terra senza uomini, con immensi spazi avvolti nel silenzio rotto solo sporadicamente dalla presenza umana. Sappiamo ormai abbastanza sulla storia delle città dall'inizio del Medioevo. In qualche caso si tratta di una storia di abbandono: Aquileia, sede di patriarcato, devastata da Attila nel 452 e mai più ritornata a dimensioni urbane; Capua, che conobbe, se non l’abbandono, una contrazione fortissima. Gli abbandoni furono ancora più frequenti nell’Europa centro-settentrionale, dove la forma urbana era arrivata con le conquiste romane e per certi versi regrediva con il loro riflusso. Questi casi di città scomparse, però, non sono la norma. L’effetto della caduta dell'impero fu in prima battuta una destrutturazione del tessuto sociale ed economico tardoantico. Ciò che accadde tra V e VI secolo fu il venir meno di questa integrazione centro-periferia. Il commercio a largo raggio, non più supportato dall’autorità pubblica e non più confortato dalle infrastrutture mantenute a spese dello Stato, subì una robusta decrescita, con l’effetto di rallentare la circolazione delle merci e di deprimere i centri di produzione, ormai separati dai propri mercati. Per l’Italia la nascita del regno vandalo fu un trauma forse più grave degli effetti del 476, perché l’occupazione di Cartagine del 439 rendeva difficile il trasporto del grano africano che da secoli riforniva la capitale. Nello studio del commercio a lunga distanza la fonte materiale più ricorrente è costituita dai depositi di ceramiche, sia in siti urbani che nei ritrovamenti marini di navi naufragate. L’analisi delle ceramiche ha mostrato che dal V al VII secolo l’importazione di manufatti da centri lontani, ad esempio le ceramiche africane in Italia, divenne sempre meno usuale, benché il calo sia stato costante, non improvviso. Nelle città tutto ciò si sommava a fenomeni ancor di più lunga data. Il ceto dei decuriones o curiales, cioè l’elite cittadina che nella classicità aveva fornito le risorse per l’abbellimento dei centri urbani, era in crisi già in età costantiniana e andò scomparendo già prima che finisse l’impero, sotto il peso di una fiscalità troppo pesante e oppressiva. Alla contrazione degli spazi abitati, effetto di una popolazione meno numerosa, corrispose l’abbandono di strutture tipicamente classiche, magari riutilizzate a fini difensivi o abitativi approfittando della disponibilità di pietre e laterizi. Il riuso di materiali antichi, adattati a fini pratici, è una prassi tipica dell’Occidente altomedievale. Fenomeni di questo genere avvennero, con una cronologia leggermente ritardata, anche nell’Impero bizantino. In particolare tutta l’area dei Balcani con l’arrivo delle popolazioni slave perse il suo tessuto urbano; nella sponda asiatica dell’impero, in Anatolia, questo processo fu meno spiccato, ma comunque altrettanto presente. L’area del Mediterraneo che, invece, conobbe meno, o non conobbe affatto, la contrazione della vita cittadina fu l’Egitto e il Vicino Oriente. Sia nel VI secolo, sia dopo la conquista islamica, i centri urbani mediorientali mantennero le loro funzioni amministrative, le loro reti di relazioni commerciali e in larga parte anche i loro ceti dirigenti, che furono assimilati alla dominazione arabo-islamica abbastanza lentamente e senza particolari traumi. Guardando, quindi, al quadro globale mediterraneo, si può dire che l’inizio del Medioevo portò principalmente la rottura di un sistema di scambi, rimasto integrato fino al tardo impero. Al suo posto subentrava un assetto economico frammentato, fatto di regioni e microregioni, ognuna delle quali seguì storie diverse a seconda delle proprie potenzialità e caratteristiche. Nella ricostruzione dell’economia altomedievale ha avuto un’enorme fortuna l’interpretazione del grande storico belga Henri Pirenne (1937), secondo il quale l’espansione islamica, che aveva interrotto per motivi monaco e diplomatico divenne pontefice, Gregorio si trovò ad essere un perfetto interprete di una Chiesa “romana” non in senso municipale, ma come erede della dimensione dell’Impero romano mediterraneo. Durante il suo breve e intenso pontificato Gregorio, oltre a promuovere il consolidamento delle gerarchie in Italia, nelle regioni sconvolte dalle conquiste degli ariani Longobardi o in aree poco evangelizzate come le zone interne della Sardegna dei “Barbaricini”, condusse una politica di attenzione e dialogo con la corte longobarda di Pavia. A proposito di vita religiosa, Gregorio fu autore di molte opere di teologia e ammaestramento o guida per i pastori. A più vasto raggio Gregorio concepì l’invio di una missione di evangelizzazione nell’estremo Nord del mondo conosciuto, in Britannia. La missione fu affidata a un monaco di fiducia, Agostino, e ottenne uno straordinario risultato con la conversione del re del Kent, Eterlberto, e la fondazione della prima grande sede episcopale nell’isola, quella di Canterbury, a partire dalla quale si avviò il processo di cristianizzazione del territorio. L’evangelizzazione della Britannia conferì un prestigio fondamentale al papato romano, anche perché conseguito in autonomia e lontano dalla sfera di influenza dell'imperatore di Bisanzio, ben al di là di quel bacino mediterraneo in cui si svolgeva ancora tutto l’orizzonte della cristianità romana. San Benedetto Nel corso del VI secolo prendevano forma anche le esperienza religiose più originali del cristianesimo latino del primo Medioevo e fu in Italia che prese forma la versione più fortunata di monachesimo occidentale, quella elaborata da Benedetto, un giovane proveniente dalla cittadina di Nursia, che dopo varie esperienze eremitiche creò un cenobio a Montecassino. Per inquadrare la vita religiosa della sua comunità Benedetto redasse una Regola, per la quale attinse alle regole orientali conosciute in Italia ma soprattutto alla cosiddetta Regola del Maestro, un testo molto ampio ispirato al modello del cenobitismo orientale. Benedetto elaborò una norma alquanto stringata, tutta volta a descrivere l’attività quotidiana del monaco fra officio divino, lettura e lavoro manuale. La regola benedettina delineava una comunità ordinata, dedita al servizio divino ma allo stesso tempo organizzata con ruoli ben definiti, primo fra tutti l’abate, che è la guida indiscussa dei suoi monaci ed è liberamente scelto con i voti dei componenti della comunità. Il cenobio di Benedetto ebbe una storia tormentata, anche perché nel 577 Montecassino venne saccheggiata dai Longobardi e la comunità abbandonò la sede originaria, dove sarebbe tornata solo nell’VIII secolo. Anche per questo motivo non nacque nulla di simile a un ordine monastico, una rete di comunità rette organicamente. Il vantaggio di cui però poté godere la regola benedettina era legato alla fama del suo fondatore, a sua volta effetto della risonanza a vasto raggio del secondo libro dei Dialogi di Gregorio Magno, che aveva diffuso con l’autorevolezza del pontefice la vita di Benedetto come un modello per tutti i monaci. Roma e l’Occidente: il regno longobardo Gli anni di Gregorio Magno e dei suoi successori furono un momento cruciale per la storia del regno longobardo. Quando Autari salì al trono nel 584 dalla sua corte di Pavia cominciò a costruire una vera compagine politica e a dare corpo a un senso di appartenenza comune a un medesimo popolo, anche grazie alle prime narrazioni storiche quali la Origo gentis langobardorum. Allo stesso tempo iniziò, sulla spinta di Gregorio, un percorso di avvicinamento al cristianesimo cattolico che si ritiene concluso intorno alla metà del VII secolo. Abbattuta pure la divisione religiosa, si completò in fretta un progetto di rimescolamento etnico probabilmente iniziato già dalla fine del VI secolo. In latino venne redatto il primo codice delle consuetudini longobarde, l’Editto emanato dal re Rotari nel 643. Era un testo davvero di passaggio. Il fatto che si trattasse di un testo scritto in latino innestava le consuetudini germaniche in un mondo di cultura scritta del diritto, e infatti i re successivi intervennero a modificare o integrare le norme del 643. Liutprando, il più importante dei sovrani longobardi dell’VIII secolo, durante il suo lungo regno, dal 712 al 744, intervenne varie volte con riforme dell’editto, introducendo regole sui matrimoni misti, sulla tutela dell’ortodossia cattolica e la protezione delle chiese. Astolfo successivamente introdusse previsioni accurate per gli obblighi degli uomini liberi nel servizio militare al re, ma senza distinguere la popolazione con criteri etnici, bensì soltanto secondo le capacità economiche. Il regno longobardo aveva attraversato un processo di stabilizzazione in cui molti elementi dell’esperienza romana erano stati in parte assimilati. I duchi potevano essere intesi come grandi dignitari del regno, le cui funzioni si integravano con quelle dei castaldi, incaricati dell'amministrazione del rendite e dei diritti della corona nei diversi territori, e dei giudici locali per la risoluzione delle controversie, che usavano la scrittura come forma abituale di fissazione della memoria e non più la ritualità orale delle origini germaniche. Questa stabilizzazione beneficia anche di un accordo di pace stipulato con Bisanzio già nel 680, che permetteva al regno di essere considerato una presenza riconosciuta nel panorama politico mediterraneo; allo stesso tempo i traffici commerciali lungo il Po univano la Lombardia all’area adriatica, dove dal porto di Comacchio si aprivano i collegamenti con il mondo bizantino. La fine del regno visigoto e la Spagna islamica All’inizio dell’VIII secolo il regno visigoto venne travolto da una fulminea conquista. La Spagna, infatti, rappresentò l’ultimo passo della grande conquista dell’impero islamico al tempo degli Omayyadi. Il luogotenente Tariq ben Ziyad varcò nel 711 le Colonne d’Ercole nel luogo che in suo onore si sarebbe chiamato Gebel al-Tariq (il “Monte di Tariq”, oggi Gibilterra). L’avanzata di Tariq, a capo di un esercito di circa settemila uomini, in gran parte non arabi ma berberi convertiti alla causa califfale, fu incredibilmente rapida, e giunse già prima della fine dell’anno a occupare la capitale visigota, Toledo. La morte del re Witiza nel 710 aveva gettato nel caos un regno privo di un vero e proprio criterio dinastico. Le rivalità tra famiglie dell’aristocrazia, unite anche alle persecuzioni con cui i re visigoti avevano vessato la forte comunità ebraica del regno, spiegano almeno in parte la mancata resistenza all’arrivo dei conquistatori. Nel giro di pochi anni la quasi totalità della penisola iberica cadde in mano islamica, esclusa una ristretta fascia settentrionale nelle Asturie e nella regione dei Pirenei. Il passaggio dalla conquista militare al governo ordinario della nuova provincia di al-Andalus, come veniva chiamata in arabo la penisola iberica, fu piuttosto lento. Il punto di svolta fu segnato dall’arrivo a Cordoba di Abd al-Rahman, membro della famiglia imperiale omayyade, che era riuscito a sfuggire al massacro dei congiunti per mano dei nuovi dominatori abbasidi di Baghdad. Abd al-Rahman cacciò il governatore e divenne emiro di al-Andalus nel 756. La storia della dinastia omayyade in Spagna (756-1031) conobbe fasi alterne. In alcune zone si assisté a una rapida islamizzazione dei ceti dirigenti, per cui intere famiglie passarono alla nuova religione come muwalladun e mantennero un ruolo eminente. Allo stesso tempo, nella consueta tradizione islamica, le comunità religiose ebraiche e cristiane non furono forzate alla conversione - anche perché il pagamento della jizya, la tassa dovuta dai non musulmani, era un ambìto cespite della fiscalità dell’emiro - e quindi continuarono a vivere secondo le loro tradizioni. La Spagna omayyade fu l’incubatore di una fiorente letteratura ebraica in lingua araba, e di un’originale forma di liturgia cristiana - detta mozarabica - tipica delle popolazioni di al-Andalus e diversa da quella delle altre regioni d’Europa. Nelle fonti occidentali la conoscenza dei caratteri della nuova religione dominante in Spagna era molto superficiale: l’Islam era una reatlà in sostanza ignota negli ambienti romani, e solo gli intellettuali del Vicino Oriente cominciavano proprio in quegli anni a riflettere sui contenuti religiosi della fede musulmana. Roma e il regno dei Franchi: una proficua alleanza In tutta questa lunga vicenda il papato di Roma continuò a essere un pezzo dell’impero incuneato nell'Europa germanica. I pontefici romani partecipavano alle controversie teologiche e allo stesso tempo curavano un fitto scambio di comunicazioni con la corte imperiale. D'altra parte, tra il VII e la prima metà del VIII secolo, gran parte dei papi furono chierici o monaci di origine orientale, greca o siriana. Si ripeteva a Roma quell’apertura mediterranea propria dell’Impero di Bisanzio. Quella città così intensamente “greca” nella sua tradizione e nei suoi riferimenti culturali viveva però ormai un crescente distacco dall'autorità sovrana da cui dipendeva. La lotta per il monotelismo fu un fattore decisivo, che non isolò Roma dalla Chiesa orientale ma compromise pesantemente la fedeltà all’imperatore. Con il VII secolo si era incrinata in maniera definitiva l’oikumene religiosa antica, e sebbene formalmente la Chiesa si mantenesse unita, gli intendimenti dei papi di Roma erano sempre più indipendenti quando non difformi da quelli della corte imperiale. L'esito di questa situazione si vede in occasione del grande conflitto iconoclasta. Per molti anni i papi romani, messi in difficoltà dalla politica imperiale anche dal punto di vista economico, si opposero con durezza all’iconoclastia. In un simile contesto era plausibile, anzi per certi versi necessario per la Chiesa di Roma, concordare un quadro politico alternativo. Innanzitutto in Italia, dove la conversione al cattolicesimo aveva molto avvicinato la corte di Pavia, con cui i rapporti si fecero assai positivi specie durante il regno di Liutprando. Ma il regno longobardo era troppo vicino e troppo interessato ai territori dell’Italia centrale per essere un alleato utile al papato. Entrò così in gioco l’opportunità di uno speciale legame con il regno dei Franchi. Dal tempo di Clodoveo il regno aveva conosciuto alcune evoluzioni importanti. Sul piano religioso il clero franco non era affatto in grado di perpetuare le tradizioni di eredità antica, ma aveva ricevuto proprio nel corso del VII e dei primi dell'VIII secolo un apporto cruciale da parte dei monaci anglosassoni. Allo stesso tempo sul piano politico il regno andava trasformandosi. Nonostante la consuetudine di dividerlo tra i figli maschi dei sovrani mantenesse in vita la strutturazione nelle sue varie parti (Austrasia, Neustria, Borgogna, Aquitania), un fattore di potenziale unità era rappresentato dalle figure dei cosiddetti maestri di palazzo, ossia grandi dignitari incaricati della gestione dei possedimenti regi. In particolare in Austrasia fin dal VII secolo emerse una famiglia che ebbe il quasi monopolio della funzione di maiores, i Pipinidi, grandi possidenti nella porzione nord-orientale del regno, capaci di mobilitare una vasta rete di fedeltà personali e clientele, molti utili specialmente in senso militare. Fu uno dei maestri di palazzo in Austrasia, Carlo Martello, a riportare nel 732 a nome del sovrano merovingio la vittoria in battaglia a Poitiers contro le armate della Spagna musulmana penetrate nel cuore dell’antica Gallia. L’episodio non ebbe un valore militare di grande rilievo, ma contribuì a fare la fortuna dei Franchi, e soprattutto della famiglia dei maestri di palazzo, agli occhi del papato di Roma. Fu in effetti il figlio di Carlo, Pipino detto il Breve, a tentare l’ascesa al trono. Il colpo di Stato ai danni del re Childerico III fu abilmente orchestrato sondando la disponibilità di papa Zaccaria, che si mostrò favorevole a riconoscere come legittimo sovrano l’ex maestro di palazzo pur di acquistare un energico e fedele alleato in Occidente. In questo modo riuscì a spostare l’asse della politica papale non più verso Bisanzio ma verso l’Europa continentale. Quanto il cambio di dinastia aprisse nuovi scenari geopolitici lo si vide poco dopo. Papa Stefano II, membro di una famiglia romana e dunque rappresentante della nuova aristocrazia della città, strinse nel 754 un esplicito patto di alleanza con re Pipino, sancito da un viaggio nel cuore del regno, a Quierzy-sur-Oise, che prese il nome di Promissio carisiaca. Al sostegno politico e alla consacrazione religiosa del re faceva da controparte la promessa di protezione militare del papa assicurata da Pipino. Lo scambio diventò immediatamente operativo, perché pochi mesi dopo il re franco varcò le Alpi e sconfisse in Val di Susa il re longobardo Astolfo, che aveva ampliato i confini del suo regno contro Stefano II. In quell'occasione Astolfo fu anche costretto ad abbandonare il territorio dell’Esarcato, che non toccò all’imperatore di Bisanzio, cui spettava di diritto: l’esarcato fu invece consegnato a papa Stefano, che in questo modo subentrava all’imperatore come vera e propria autorità pubblica nelle terre romagnole. 7. DUE IMPERI: CAROLINGI E ABBASIDI Carlo Magno e il suo regno Alla morte di Pipino nel 768 il regno franco passò ai suoi due figli Carlo e Carlomanno. La figura di Carlo, universalmente nota come Carlo Magno, fu centrale non solo per il territorio franco ma per tutta la storia dell’Occidente medievale. Forte della legittimazione che gli veniva dall’unzione e dall’appoggio del papa, Carlo fu un sovrano straordinariamente attivo, e in particolare i primi trent’anni del suo regno furono un’impressionante serie di campagne militari in ogni direzione. Una delle prime fu quella avviata già nel 772 contro i Sassoni, una popolazione pagana che abitava le foreste a est del fiume Elba. Nel frattempo Carlo aveva attuato altre due decisive spedizioni belliche. La prima avvenne nel 774, quando papa Adriano I, attivando le clausole dell’accordo di Quierzy, chiese l’intervento di Carlo per difendersi dalle mire territoriali del re longobardo Desiderio. Carlo pose l’assedio a Pavia, la capitale dei Longobardi, e si impadronì di tutto il regno assumendo la corona dei re dei Longobardi. Inizialmente Carlo mantenne un controllo indiretto sui nuovi territori, lasciando immutati gli equilibri locali dell’aristocrazia longobarda, ma dopo una rivolta del 776 intervenne direttamente assegnando i ducati italiani a suoi fedeli. In questo modo era integrata nel dominio carolingio tutta la parte centro-settentrionale dell’Italia. Molto meno propizia fu la spedizione dell’esercito di Carlo in un’altra area mediterranea, la penisola iberica. La spedizione si tradusse in una rovinosa disfatta subita nel 778 a Roncisvalle nei Pirenei, sotto i colpi di un agguato delle popolazioni autoctone basche. Negli anni Novanta, mentre continuavano le periodiche campagne contro i Sassoni, Carlo riuscì in un’ulteriore impresa: l’attacco al popolo degli Avari. Dopo una prima campagna vittoriosa nel 791, nel 795-796 Carlo arrivò a saccheggiare il Ring, cioè l’accampamento-capitale degli Avari sul Danubio; un’immensa quantità di ricchezze, specialmente in metalli preziosi depredati per anni dagli Avari nelle loro imprese, fu convogliata verso la corte di Carlo. Successi di questo tipo erano particolarmente preziosi per il re franco, soprattutto a motivo della particolare struttura del suo potere. Nell’VIII secolo, infatti, il sovrano carolingio non poteva contare su un organico sistema fiscale di imposte per finanziare lo Stato. La potenza del suo dominio era tutta centrata sulla fedeltà delle aristocrazie guerriere, che gli assicuravano la disponibilità di soldati ben armati ed esperti. Per ottenere questa fedeltà Carlo non attingeva a un criterio astratto di dovere pubblico verso lo Stato, ma alla relazione di lealtà personale con il re da parte dei “suoi” uomini. Una forma rituale di cameratismo, alimentato dallo scambio di doni e dalla distribuzione del bottino, in termini di terre, cavalli e oggetti di valore. Le conquiste erano in sostanza la linfa del regno: grazie a esse il re guadagnava e nutriva le reti di fedeltà, e accresceva altresì le sue proprietà personali, dalle quali traeva il necessario per il mantenimento della corte. Già nel corso del IX secolo i califfi dovettero comunque affrontare crescenti difficoltà politiche. A parte le lotte di potere interne, la vastità dell’impero e il suo carattere etnicamente molto composito rendevano arduo mantenere il controllo della capitale. Se già alle origini della dinastia il territorio di al-Andalus aveva preso una via politica indipendente, nel IX secolo alcuni governatori di grandi regioni, che si fregiavano del titolo di emiri, costruirono un dominio semindipendente, pur mantenendo l’ossequio formale per l’autorità del califfo. La necessità di pagare in maniera rapida e soddisfacente l’esercito aveva poi condotto a escogitare sistemi innovativi, dei quali il più rilevante fu l’iqta. In sostanza il fornitore di soldati diventava un riscossore delle imposte, sebbene militarizzato. 8. CENTRI E PERIFERIE DEL MEDITERRANEO DEL X SECOLO Dall’Impero califfale ai califfati regionali Il 945 aveva segnato la fine della stagione classica del califfato abbaside. Il califfo non aveva più un effettivo potere di governo. Allo stesso tempo le grandi regioni dell’Impero califfale cominciavano a essere rette dai governatori come veri e propri Stati indipendenti. Uno tra i territori dell’Impero califfale molto presto resisi autonomi dalla capitale fu, come detto, quello dell’Ifriqiya, che si estendeva dall’attuale Algeria orientale alla Cirenaica. Qui ebbe origine uno dei cambiamenti più originali della storia islamica. Durante tutto il periodo abbaside le comunità sciite avevano rappresentato una forma sotterranea di opposizione al regime. Alcuni esponenti sciiti riuscirono alla fine del IX secolo a convertire una parte importante delle tribù berbere dell’Africa settentrionale, e questo permise ad Abdullah al-Mahdi di rovesciare il potere dei governatori sunniti aghlabiti e di prendere possesso dell’Ifriqiya nel 909. Il movimento si trasformava così in un regime politico, e quel che più conta, il mahdi veniva acclamato come vero califfo, in contrapposizione a quello sunnita di Baghdad. La nuova dinastia venne abitualmente detta dei Fatimidi, dal riferimento a Fatima, la figlia del Profeta e sposa di Alì, simbolo del legame privilegiato della comunità sciita con la famiglia di Maometto. Lo slancio di conquista dei Fatimidi non si fermò all’Ifriqiya: dopo una fase di assestamento il califfo al-Mu’izz nel 969 conquistò l’Egitto, dove nel 973 trasferì la sua capitale nell’accampamento presso Fustat, intorno al quale si sviluppò la città di al-Quaira (“la vittoriosa”), cioè l’attuale Il Cairo. Nacque un vero e proprio impero sciita, che aveva al suo centro l’oEgitto ma che esterndeva il proprio dominio, più o meno stabilmente, fino alla Sicilia in Occidente, mentre in Oriente nella stagione più florida sarebbe arrivato alla Siria e anche ai luoghi santi dell’Islam, La Mecca e Medina, strappati al controllo dei deboli califfi di Baghdad sotto tutela buwayhde. Una delle realizzazioni più durature della dinastia fatimide in Egitto fu la fondazione della moschea di al-Azhar del Cairo, che univa le funzioni di luogo di culto a quelle dell’insegnamento delle discipline coraniche: passata attraverso i regimi e le differenti confessioni islamiche, la scuola di al-Azhar rappresenta un complesso di formazione in qualche modo simile a quello delle università occidentali, ed è rimasta un faro di cultura religiosa e giuridica fino ai nostri giorni. L’Islam tra la Sicilia e la penisola L’Ifriqiya era collocata in una posizione per certi versi molto favorevole, ma doveva affrontare gravi problemi di stabilità. In particolare, tutta l’area era resa insicura dall’atteggiamento delle tribù berbere, che avevano accettato l’Islam, ma guardavano ancora con insofferenza al governo del ceto dirigente di provenienza araba. Per dare slancio alla propria maestà di governo e per mostrare agli occhi del califfo la piena ortodossia della dinastia, l’emiro aghlabita condusse una politica aggressiva di jihad contro i nemici: un jihad tutto marittimo, prima per la difesa delle coste contro al marineria bizantina, ma poi tradotto in conquiste oltremare. A coronamento di questa politica l’emiro aghlabita iniziò nell’827 una campagna di conquista della Sicilia bizantina: era un territorio ricco e tra l’altro forniva l’opportunità di rinnovare l’immagine di un islam conquistatore in nome del jihad ormai da tempo molto appannata. In realtà l’impresa si rivelò estremamente ardua. La conquista poté procedere più spedita solo dopo la caduta di Siracusa nell’868: ma gli emiri di Kairouan poterono prendere possesso di tutto il territorio siciliano solo a partire dalla prima metà del X secolo. Dalla metà del X secolo la Sicilia venne governata da una successione di dominatori semindipendenti, la dinastia dei Khalbiti. L’isola assimilò via via e con modalità molto autonome, e perciò spesso criticate dagli osservatori islamici più ortodossi, la religione, le consuetudini linguistiche, gli usi urbanistici e di cultura materiale, le stesse strutture sociali proprie delle società islamiche, e trovò anzi a Palermo un centro di grande vitalità culturale ed economica. Dai primi dell’XI secolo i Khalbiti conobbero una frammentazione interna e un avvicendamento di lotte di potere che portarono alla frammentazione in potentati locali: questa sarebbe stata la premessa di una nuova invasione dall’esterno. La parte dell’isola in mano agli Aghlabiti fungeva da punto di partenza per ulteriori spedizioni verso nord; una delle quali, particolarmente memorabile, giuse nell’846 a risalire il corso del Tevere per penetrare a Roma e saccheggiare la basilica del Laterano. Questo ebbe una grande eco al tempo, come una violenza inaudita al cuore della cristianità occidentale a opera dei “Saraceni”, giustificando tra l’altro la costruzione delle mura “leonine” da parte di papa Leone IV. Chi fossero questi feroci invasori non era chiaro al tempo: senza dubbio nemici della fede, qualificati con nomi biblici o di natura etnografica come “Saraceni”, “Agareni” o “Mori”. La reazione, di cui si fecero portatori soprattutto i vescovi di Roma, fu quella di una chiamata alle armi ai principi occidentali, specialmente agli imperatori carolingi. L’appello era tra l’altro molto gradito, perché per gli imperatori germanici la possibilità di intervenire militarmente in Italia, nel nome della missione in difesa del papato, era un modo per concludere anche simbolicamente l’impresa iniziata da Carlo, e portare entro i propri confini pure i resti più meridionali dell’Italia longobarda. La Spagna islamica Ciò che accadeva nell’Africa settentrionale ebbe ripercussioni decisive nella storia di al-Andalus. Fin dal 756 Abd al- Rahman si era atteggiato a sovrano indipendente, anzi ostile all’autorità del califfo di Baghdad. Quando l’Ifriqiya nel 909 cadde in mano sciita, e quindi il collegamento politico con il cuore dell’impero fu anche materialmente reciso, l’emiro Abd al-Rahman III colse l’occasione per accrescere il suo titolo, autoproclamandosi califfo nel 929 e facendosi salutare con il titolo califfale di al-Nasir (“il vittorioso”). Cordoba e le città di al-Andalus vissero nel X secolo una stagione di grande fioritura: le relazioni commerciali verso il Mediterraneo potevano beneficiare anche della koinè linguistica e religiosa islamica che arrivava fino all’Oceano Indiano, non intaccata dalla divisione politica. La storia successiva del califfato fu però segnata pure da alcune debolezze. Innanzitutto la figura del califfo venne sempre più relegata nel ruolo di vuoto simulacro, isolato nel suo splendido palazzo, ma sostituito nell'effettività del regno da ministri plenipotenziari: il più noto fu al-Mansur che per guadagnare prestigio lanciò alcune spedizioni di jihad contro i cristiani. Questa insistita retoria jihadista nascondeva una difficoltà di fondo, anch’essa molto tipica degli imperi islamici, cioè la fatica nel costruire forze armate, che richiedeva l’importazione di guerrieri dall’esterno. Nei primi decenni del secolo le lotte di potere si fecero feroci, fino ad arrivare alla fine del califfato nel 1031. Da quel momento in poi al-Andalus fu frammentata in una serie di piccole dominazioni regionali. In una situazione così parcellizzata la Spagna islamica era più vulnerabile che mai alle minacce che venivano da nord. Una minoranza diffusa e integrata: le comunità ebraiche Le comunità ebraiche erano una realtà molto radicata in tutto il Mediterraneo fin dall’età antica. In Siria, in Egitto e in alcune città dell’Impero bizantino si trovavano i gruppi più cospicui: specialmente nelle città sotto dominio islamico quella ebraica era spesso una minoranza molto ben inserita, dedita ad attività molto varie che andavano dal commercio alle professioni. Si trattava di comunità ricche ed estremamente ben connesse con il contesto islamico e cristiano, dedite alle imprese economiche più diverse. Nell’Occidente le comunità più numerose erano in Sicilia, nell’Italia continentale e soprattutto a Roma, in Spagna (sia nella parte cristiana che quella islamica). Gli ebrei tedeschi furono noti di solito come Ashkenaziti, dal termine ebraico per designare proprio la regione del Reno, che con i secoli maturarono una tradizione letteraria in una lingua propria, lo yiddish. Nell’Oriente islamico la cornice legale della presenza ebraica era fin dai secoli dell’espansione la dhimma, che normalmente metteva le comunità al sicuro da persecuzioni. In Occidente il contesto era differente; il cristianesimo occidentale non aveva veri e propri strumenti legali per inquadrare le minoranze religiose. Gli ebrei in Occidente furono normalmente considerati come sottoposti alla tutela vescovile (da cui l’uso di costruire le sinagoghe nei pressi della cattedrale), come una sorta di protezione/sottomissione, oppure a quella del sovrano, in modo particolare in Francia e in Spagna. Bisanzio e il mediterraneo da Basilio I alla fioritura macedone Questa stagione di divisioni e percorsi originali nella storia islamica coincide con la fase storica dell’Impero bizantino sotto la cosiddetta dinastia macedone. Basilio il Macedone (867-886), che prese il potere nell’867 dopo aver assassinato l’imperatore Michele III, era in realtà un personaggio di origini molto umili. Le sue qualità come esperto di cavalli e di cavallerie gli avevano guadagnato i favori dell'imperatore, per cui poté in pochi anni ascendere ai sommi gradi della corte fino al colpo di mano che lo vide prendere il potere. Sul piano della politica religiosa Basilio portò avanti l’impresa bulgara già avviata dal predecessore, ma fu anche impegnato in una lunga controversia con Roma. Con il papato romano, retto dall’energico Nicola I, la corte di Bisanzio era in contrasto per una questione teologica, il dissidio sul filioque. Per anni le ambasciate romane a Bisanzio animarono il dibattito, acuito dalla personalità controversa di Fozio, un brillantissimo intellettuale diventato patriarca di Costantinopoli nell’858 e deposto nell’867 sotto la pressione di papa Nicola I. Nell’877 Basilio riuscì a far di nuovo nominare Fozio come patriarca: l’equilibrio con Roma era stato ristabilito ma le distanze tra i due patriarcati erano accresciute. Basilico condusse altresì una vasta impresa di riconquista territoriale verso l’Italia. Nei primi anni di regno collaborò con Ludovico II nella spedizione per la riconquista di Basi in mano saracena: la caduta della città arrivò nell’871, ma quasi soltanto grazie alle forze di terra dell’imperatore carolingio. Queste imprese militari bizantine si collocano tutte le versante ionico della penisola. Per la flotta e per la stessa attività diplomatica di Costantinopoli il Tirreno era diventato una spazio troppo remoto, specie dopo la caduta in mano islamica delle basi navali siciliane e africane. Il X secolo fu un periodo di grande fioritura per Bisanzio. Sotto l’impero di Leone VI il Saggio si colloca un trattato noto come il Libro dell’eparco, in cui si descrivono i regolamenti delle arti attive a Costantinopoli sotto la supervisione del funzionario imperiale, appunto l’eparco. La produzione della seta, manifattura di enorme valore le cui tecniche erano tenute scrupolosamente segrete, il commercio e la trasformazione dei metalli preziosi e in generale l’abbondanza e la varietà dei prodotti di tutto il mondo conosciuto che transitavano da Bisanzio nel racconto del libro sono una testimonianza della forza di questa grande capitale posta al crocevia dei rapporti commerciali tra Mediterraneo, Asia centrale e Medio Oriente. Altrettanto emblematico, per un periodo di poco successivo e nell’ambito di governo, è il trattato De administrando imperio composto nientemeno che dall’imperatore Costantino VII Porfirogenito, che voleva essere una sorta di testamento politico per l’istruzione del figlio sui valori e sui caratteri del dominio imperiale: è, tuttavia, pure una magnifica descrizione del governo dell’impero. I sovrani del periodo macedone, però, erano principalmente grandi guerrieri. Niceforo II Focas occupò nel 965 Tarso in Cilicia e riprese pieno possesso di Cipro, una base navale fondamentale a lungo esposta al dominio dei califfi. Nel 969 una grande campagna verso la Siria portò alla riconquista di Antiochia e di Aleppo. Il successore di Niceforo, Giovanni Zimisce, si spinse ancora più a sud verso le coste del Libano: immaginare il recupero di Gerusalemme poteva essere un obiettivo non impossibile. Anche perché il potere dei califfi di Baghdad faceva molta fatica a uscire dall'ambito della Mesopotamia. Il lungo regno di Basilio II (976-1025) può essere davvero il punto d’arrivo di un secolo di fioritura. Nelle preoccupazioni politiche dell’imperatore, tuttavia, c'era un altro territorio di recente cristianizzazione, il regno bulgaro. I Bulgari avevano adottato il cristianesimo, promosso il monachesimo e protetto la gerarchia ecclesiastica locale, ma questo non aveva impedito loro di condurre una politica molto energica verso i confini dell’impero, specialmente verso sud. Tra la fine del X e l’inizio dell’XI secolo Basilio affrontò con inaudita durezza questa ravvicinata minaccia, meritandosi il titolo di Bulgaroctono (“il massacratore dei Bulgari”). L’atto finali si compì nel 1014, quando l’imperatore condusse l’esercito attraverso il passo di Kleidon, nel cuore della Macedonia, sorprendendo e annientando l’esercito nemico. Spostandosi poi all’estremità orientale del suo dominio, Basilio condusse una vittoriosa spedizione con cui riuscì a sottomettere l’Armenia di re Giovanni Vaspurakan. Basilio II morì nel 1025. Negli oltre cinquant’anni di regno non si era mai sposato, e quindi non aveva discendenza. Lasciava l’impero, però, in una condizione di cui mai aveva goduto dai tempi di Eraclio. Non solo l'amministrazione imperiale poteva stendersi tra Occidente e Oriente, dalla Calabria fino all’Armenia, inclusi tutti i Balcani ormai strappati ai Bulgari, ma anche al di fuori dei confini popolazioni straniere come i Rus’ del Nord o i Georgiani del Caucaso potevano rientrare nella sfera d’influenza religiosa, politica e culturale di Bisanzio. 9. GLI OTTONI, BISANZIO E IL CRISTIANESIMO DEI CONFINI L’Europa postcarolingia Durante il regno di Ludovico il Pio l’Impero carolingio sembrò raggiungere il suo apogeo. In realtà già solo i meccanismi di trasmissione del potere erano un fattore di grande debolezza. Sarebbe bastata la nascita di un figlio di seconde nozze a Ludovico il Pio, Carlo, poi detto il Calvo, per far crollare tutta l’impalcatura successoria e la progettualità unitaria di Ludovico che, con l’obiettivo di riservare pure la quarto figlio un ambito di potere, metteva mano all’Ordinatio imperii dell’817, suscitando sia la ribellione dei figli di primo letto, sia dei vescovi, che non riconoscevano più in lui il garante della pace. Il mancato sostegno dell’episcopato, che contendeva alla politica di Ludovico la dignità sacrale, fu uno dei motivi che resero l’imperatore vulnerabile nello scontro con le diverse coalizioni guidate dai figli. all’uso di una lingua scritta nata per la prima volta proprio nei testi religiosi. Un po’ come accadeva presso gli slavi settentrionali, il passaggio al cristianesimo portava con sé una speciale valorizzazione della figura del re. L’ultimo ambito di espansione religiosa da Bisanzio riguardò i confini settentrionali dell’impero. In maniera non molto diversa da quanto era accaduto ai Bulgari, anche i Russi sentivano l’attrazione per Bisanzio, sia nelle sue enormi potenzialità commerciali, sia per il magnifico armamentario culturale e cerimoniale della capitale, che doveva avere un effetto abbagliante agli occhi dei rudi guerrieri di Kiev. Tra i dominatori di Kiev vi era sicuramente la coscienza che una fede con una struttura centrale potesse essere un valido strumento per consolidare l’autorità sovrana. D’altra parte per Bisanzio i buoni rapporti con la Rus’ erano vitalia, perché permettevano di contrattare l'invio di cospicui contingenti di guerrieri al servizio dell’imperatore. Il principe Vladimir sposò la sorella di Basilio II, la porfirogenita Anna, portando in dote seimila guerrieri per l’esercito dell’imperatore. Nel 988 Vladimir si fece infine battezzare secondo il rito bizantino a Cherson, in Crimea. I riti bizantini e la secolare tradizione religiosa della Chiesa greca trovavano quindi una possibilità di espansione nei vasti territori della Russia, mentre Kiev e i suoi sovrani costruivano un’immagine di eredi della cristianità orientale destinata a durare per secoli e a marcare profondamente l’identità di quelle regioni. All’inizio dell’XI secolo si può parlare di un mondo cristiano europeo, sorprendentemente più vasto e articolato di quanto era accaduto solo poche generazioni prima. Erano due mondi diversi ma certo non incomunicanti: il papato di Roma aveva del resto rapporti diplomatici assai intensi con gli imperatori di Bisanzio. L’invio di ambasciate e lo scambio di corrispondenza, benché spesso polemico o conflittuale, era comunque un ponte di cultura. L’altro fattore che agiva ancora con forza come ponte tra cristianesimo occidentale e bizantino era il monachesimo. 10. L’OCCIDENTE DEI POTERI LOCALI La dissoluzione dell’impero in Italia L’impero carolingio era stato un complesso di entità territoriali molto differenti tra loro. Questa naturale tendenza alla disgregazione era insita nel rapporto dell’imperatore con le sue aristocrazie. I conti rappresentavano l'autorità monarchica, curandone in suo nome l’ordine pubblico, applicandone le disposizioni, raccogliendo le entrate fiscali e amministrando la giustizia; nell’Impero carolingio l’assenza di un sistema fiscale e il carattere perlopiù rurale dell’economia obbligavano a strumenti più rudimentali. I conti erano remunerati dal sovrano con terre concesse in beneficio nella loro contea, e allo stesso tempo godevano di rendite legate proprio all'adempimento dei loro doveri “imperiali”: gestione delle terre del demanio regio, incameramento di confische e multe e così via. In una situazione del genere i funzionari pubblici finivano spesso per accumulare nella contea di loro pertinenza grandi proprietà private “allodiali”. Allo stesso tempo la necessità di disporre di uomini d'arme portava le stesse grandi famiglie aristocratiche a replicare il modello di fedeltà e sostegno militare che le legava al re, quindi a creare vaste clientele vassallatiche, fondando vere e proprie casate innestate su specifici territori. Il bilanciamento previsto dal sovrano con la nomina di vassalli che dipendevano direttamente da lui, i missi dominici, si trasformò con il passare dei decenni in un ulteriore elemento di nuclearizzazione e patrimonializzazione del potere locale. I missi, infatti, pure se sottoposti vassallaticamente al potere regio, erano legati attraverso i più svariati rapporti ai conti che dovevano controllare, finendo per approfittare in maniera molto concreta della loro posizione di mediatori tra l’imperatore e le aristocrazie e le chiese locali. A questa dinamica si aggiungeva la pratica dell’immunità, che creava vere e proprie isole di giurisdizione all’interno del territorio imperiale. Tutti questi elementi erano in definitiva pensati per tenere unita la compagine imperiale, consolidandola con una trama di favori, privilegi e relazioni personali. Ma in uno stato di endemica insicurezza prodotto dalle non di rado concomitanti pressioni di Normanni, Ungari e Saraceni si amplificava la tendenza delle aristocrazie locali a subentrare ai sovrani nella sfera locale. A nord delle Alpi questo si tradusse nella nascita di “principati territoriali”, retti dalle maggiori famiglie comitali: la contea di Tolosa, il ducato di Acquitania, il ducato di Normandia. Nel versante mediterraneo del vecchio impero questo avvenne con modalità più complesse. Nei territori al sud delle Alpi, alla caduta di Carlo il Grosso, un’assemblea di nobili incoronò nell’888 re d’Italia il marchese del Friuli, Berengario, in considerazione della sua parentela con la dinastia carolingia. Era una scelta precaria, rigettata dalla nobiltà dell’Italia centrale, che dopo soli due anni conferiva il titolo a Guido, duca di Spoleto; il conflitto indusse Berengario a richiedere l’intervento di Arnolfo di Carinzia, sceso in Italia in supporto e per farsi incoronare imperatore nell’894. Alla partenza di Arnolfo si venne a creare una spartizione di fatto del regno tra Berengario e Lamberto, figlio di Guido, che riuscì a conquistare una città importante come Milano e si trovò a scontrarsi con un altro grande pretendente, il marchese di Toscana. Alla morte quasi contemporanea di Lamberto e di Arnolfo di Carinzia, Berengario rimase unico re d’Italia: un territorio prostrato dalle lotte intestine e anche dalle violente scorrerie degli Ungari e dei Saraceni. Berengario era di fatto signore solo della parte nord-orientale del regno, ma nel 915 riuscì a smantellare una temibile base saracena nel Garigliano, e fu perciò incoronato imperatore dal pontefice. Morto Berengario nel 924, la feudalità del regno puntò su un nuovo pretendente, Ugo di Provenza, che nella primavera del 926 raggiunse l’Italia assumendone la corona dopo essersi accordato con Rodolfo di Borgogna. Durante il regno di Ugo emerse una nuova aristocrazia, spesso di origine longobarda, ben radicata a livello locale e, quel che più conta, lontana dalla cultura e dai rapporti internazionali della nobiltà di origine carolingia, ma in condizione di garantire con le armi e la fedeltà personale un controllo effettivo del territorio. Nel 945 una sollevazione costrinse Ugo a tornare in Provenza e in Italia rimase suo figlio Lotario, morto senza eredi nel 950. A Ugo, sostenuto dal re di Germania Ottone I di Sassonia, subentrava il marchese d’Ivrea, Berengario II che, tentando di rafforzare la propria posizione decise di imprigionare Adelaide, la vedova di Lotario. Ottone I vide dietro questa mossa il segno dell'inaffidabilità di Berengario II. Ergendosi a difensore di Adelaide scese in Italia, sconfisse Berengario II, fu incoronato re d’Italia e sposò Adelaide. Lo spazio politico italiano entrava così stabilmente nell’ambito dell’orizzonte imperiale germanico. Era stato un periodo certamente controverso, dipinto spesso a tinte fosche anche dalla storiografia che vi ha di frequente ravvisato la fase più cupa della storia italiana medievale. Le forme “nuove” erano quelle che vedevano il prevalere dei soggetti e delle prospettive locali rispetto ai poteri centrali: soggetti locali che sovente erano famiglie aristocratiche ma pure sedi episcopali nelle antiche città della penisola, i cui presuli provenivano del resto molto spesso dalle stesse file delle grandi famiglie. Quella del X secolo è dunque l’Italia dei poteri locali. Il Meridione Il ducato e poi principato longobardo di Benevento, dopo un processo espansivo ai danni dei territori bizantini che aveva prodotto un’entità politica estesa dal nord dell’Abruzzo fino al nord della Calabria, subì nel corso della prima metà del IX secolo spinte disgregatrici a opera di conti e gastaldi, sempre più veri signori dei propri potentati territoriali e, quando iniziò una vera e propria guerra civile fomentata dagli aristocratici che detenevano le cariche centrali, il ducato di frammentò. Nell’849 da Benevento si separò il principato di Salerno, comprendente Taranto, parte della Campania interna con Capua, e le zone longobarde della Calabria. La tendenza alla frammentazione caratterizzava del resto anche l’Italia bizantina, specie nel versante tirrenico. Tagliate fuori dal contatto diretto con la capitale, le aristocrazie di origine bizantina conobbero un tutto l’Alto Medioevo una profonda trasformazione. In questa parte dell’impero il blocco territoriale più importante era il ducato di Napoli, nominalmente soggetto al controllo dello stratego di Sicilia. Con l’avanzata islamica nell’isola gli strateghi persero una capacità di intervento in Campania, e le aristocrazie dei funzionari bizantini si trasformarono rapidamente in dinastie di autocrati locali. A Napoli i duchi agirono in piena autonomia, e allo stesso tempo concentrarono i propri interessi sulla città, peraltro molto vasta e con un fiorente entroterra rurale. Nel frattempo a Gaeta una famiglia di origine greca, i Docibile, trasformavano il titolo funzionariale di ipatos in una specie di fregio familiare trasmesso per eredità come simbolo di indipendenza. Altrettanto indipendente si rese Amalfi, una città molto piccola e protetta da un ristretto territorio costiero, ma i cui mercanti mostrarono per secoli un'incredibile vitalità attraverso il Mediterraneo. Nell’estremità occidentale degli antichi domini bizantini, la Sardegna aveva perso già con la caduta di Cartagine nel 698 un effettivo legame con l’amministrazione bizantina. Per quanto le fonti siano avare per i secoli altomedievali, i quattro “giudicati” perpetuarono in forme molto semplificate gli stili di amministrazione dell’estrema provincia imperiale, tanto che ancora nell’XI secolo i caratteri dell’alfabeto greco venivano usati per documenti in lingua volgare e gli usi liturgici orientali erano rimasti a testimoniare un legale culturale, sebbene ormai non più suffragato dalla dipendenza politica. Nel panorama dell’Italia bizantina si deve includere Roma. Nel IX secolo, specialmente dopo la seconda ondata iconoclasta, furono i papi ad appropriarsi dei titoli ufficiali imperiali e della responsabilità di cura della città e dei suoi dintorni. Leone IV fu l’artefice della costruzione di una nuova cerchia di mura: la cerchia leonina, eretta dopo la traumatica spedizione saracena dell’846, consentì ai papi di proteggere la zona intorno alla basilica di San Pietro e alla vicina sponda del Tevere, e allo stesso tempo di disegnare uno spazio urbano su misura per la figura del papa. Quando poi Ottone I giunse a Roma, la sua politica di romanizzazione dell’impero ebbe come effetto anche una germanizzazione del papato. Un caso estremamente peculiare di sviluppo locale di un territorio sul limitare del mondo già carolingio è quello della laguna veneta. La storia di quella che sarebbe diventata Venezia nacque come lento popolamento della laguna da parte degli abitanti di vari centro dell’immediato entroterra, decisi ad abbandonare le vecchie sedi diventate insicure. Gli abitanti lagunari, che si riconoscevano in un dux di tradizione bizantina, oscillarono a lungo tra la fedeltà all'Impero di Costantinopoli e il legame con i sovrani carolingi. Furono molto precoci, però, nel costruire una propria identità locale, a cui contribuì in maniera decisiva il furto delle reliquie dell’evangelista Marco, portate nell’828 da Alessandria d’Egitto e Rialto, il nuovo centro dell’abitato di Venetia, dove dall’810 circa aveva preso residenza il “doge” (la versione veneta del termine dux). La marineria veneziana subentrava a quella bizantina nei traffici lungo il corso del Po e nell’alto Adriatico verso la Dalmazia, sia in tempo di pace che nelle spedizioni militari. All’inizio dell’XI secolo, al tempo del doge Pietro II Orseolo, le navi di Venezia erano in grado di combattere contro i pirati saraceni fino alle coste pugliesi: l’Adriatico si avviava a diventare il Golfo di Venezia. La proliferazione dei poteri signorili nel X e XI secolo In molte aree dell’Italia, ma anche del resto nell’antico Impero carolingio, si assisté già nel corso del X secolo alla proliferazione di centri fortificati. L’osservazione di fondo dello storico Toubert era che nei territori dell’Italia centrale del X secolo a un linguaggio del potere legato all’esercizio di funzioni pubbliche era subentrata una logica di controllo di centri fortificati, che venivano concessi a “signori” locali in cambio di fedeltà e appoggio militare. La stessa evoluzione è stata osservata dagli studiosi nell’area franca, che hanno parlato per il tardo X secolo di una “mutazione feudale”. La mutazione consiste nel fatto che, mentre nella tarda età carolingia i sovrani e i conti potevano far valere la propria autorità come detentori di un potere pubblico su una certa area, a partire dal X secolo l’unica forma di autorità riconosciuta divenne quella dei possessori di castelli, di coloro che in virtù di una pura forza violenta sullo spazio controllato potevano contare di farsi ubbidire. I castelli, dunque, erano la veste materiale e lo strumento della cosiddetta “signoria di banno”. La formazione di poteri di questo tipo aveva effetti rilevanti anche per il abitanti delle campagne. La signoria di banno assegnava al dominus una serie di attribuzioni che andavano oltre l’elemento patrimoniale: prestare servizio militare nel castello del signore, portare il proprio grano al mulino del signore e sottostare alle sue decisioni per le cause giudiziarie divenivano esperienze comuni per gli abitanti delle aree soggette alla signoria di banno. Detentori di queste signorie territoriali erano talvolta membri di vecchie aristocrazie comitali, che sceglievano di declinare in senso localistico il prestigio un tempo goduto all’interno delle strutture dell’impero. Il senso della “mutazione”, quindi, era da una parte spaziale (dal territorio uniforme a una galassia di microsignorie), dall’altra sostanziale, perché al linguaggio del pubblico subentrava quello del privato, della detenzione di capacità di comando come beni patrimoniali. Di tutto questo gli emblemi erano sia i castelli, sia l’esercizio della guerra, l’uso delle armi e il combattimento a cavallo, che divenne il simbolo di questo variegato ceto di signori territoriali e delle loro bande di scherani. Il termine miles aveva significato fin dall’antichità il soldato che presta ubbidiente servizio all’autorità precostituita. Ora al contrario, in un tempo di armi private, miles era sinonimo di individuo in grado di combattere a cavallo, principalmente per sé stesso, e per esercitare con la forza il suo controllo sugli uomini. Pure nelle terre di Bisanzio, per non parlare dei territori dei califfati islamici, l’uso delle armi e la capacità di combattere erano sempre più un fattore decisivo nelle identità politiche. Ciò che però caratterizzava la versione occidentale di questo processo è che in Europa i milites non avevano solo una posizione di vantaggio politico o di privilegio fiscale: erano anche in grado di “distringere”, di esercitare la giustizia sui propri sottoposti, perché il potere centrale, a differenza di quanto accadeva nel mondo islamico o bizantino, era ormai così debole e distante da non poter far valere localmente le proprie funzioni essenziali. Sarebbe sbagliato comunque immaginare l’Italia e l’Europa del tempo come il teatro di un’anarchia militare; esistevano relazioni strette di fedeltà, rituali di amicizia, scambi di sostegno reciproco tra aristocratici grandi e piccoli. I legami vassallatici si diffondevano soprattutto come effetto della dissoluzione dell’impero, tipico di una società senza Stato, in cui l’Occidente si allontanava sempre più dal modello degli imperi mediterranei fondati sulla fiscalità. “Feudo” era una parola germanica che andò a indicare il contenuto patrimoniale del rapporto tra il senior e il suo uomo. Ora i poteri sugli uomini, il districtus o banno, diventavano un bene patrimoniale, quasi che le funzioni di controllo sugli uomini fossero “attaccate” al territorio, e quindi potevano essere concesse “in feudo”. Le relazioni feudali costituivano un meccanismo di riti e di tradizioni con cui le aristocrazie grandi e piccole legittimavano il proprio potere. Il definirsi di questo sistema di riti in una forma riconoscibile e sempre meglio codificata è ciò che si può correttamente definire come feudalesimo. La relazione tra l’uomo e il suo senior divenne una pratica diffusa nella società, una circostanza che rientrava nei rapporti ordinari, che generava consuetudini e richiedeva regole specifiche. Tale processo vedrà il suo compimento con la Constitutio de beneficiis prodotta dall'imperatore Corrado II nel 1037, per contingenze del tutto politiche, ma che in sostanza decretava che anche i feudi minori, cioè le concessioni di terreni ai piccoli milites della campagne, si intendessero come ereditarie. Il feudo, una concessione che a rigore poteva essere revocata dal senior, tendeva sempre più a essere assimilato al bene allodiale, proprietà perpetua del vassallo. Il feudalesimo non fu mai, nonostante le convinzioni degli storici successivi, un sistema diffuso uniformemente in tutta l’Europa. In altre parole non è il feudalesimo il carattere comune delle evoluzioni dell’Occidente tra X e XI secolo. Lo è, obbedire al sovrano in caso di sue azioni riprovevoli. Di quest’ultimo, straordinario potere Gregorio fece uso nel febbraio 1076, quando di fronte a nomine di vescovi fedeli all’imperatore, un sinodo romano depose Enrico IV. Enrico, messo in difficoltà dagli aristocratici tedeschi pronti ad approfittare della circostanza per sciogliersi dagli obblighi con l’imperatore, si risolse a chiedere il perdono del papa e fu costretto ad attendere il papa ospitato da Matilde di Canossa per tre giorni, fino ad ottenere l’assoluzione solo dopo questa umiliante anticamera. Anni dopo, nel 1080, Gregorio tornò a deporre l’imperatore, che tuttavia in questo caso seppe raccogliere l’ostilità montata contro il papa: adunato un sinodo “concorrente” a Bressanone, fece dichiarare deposto il pontefice e nominare al suo posto un suo alleato, già condannato per simonia, il vescovo di Ravenna Guiberto, che prese il nome di Clemente III. Enrico mise sotto assedio Roma e nel 1084 poté impadronirsi della città, dove Clemente III fu intronizzato sulla cattedra di Pietro e l’imperatore solennemente incoronato, mentre Gregorio VII si rifugiava nella fortezza di Castel Sant’Angelo. Nello stesso 1084, però, l’esercito del normanno Roberto il Guiscardo, dal 1059 vassallo del papa, giunse a Roma per liberare Gregorio VII ed Enrico fu costretto ad abbandonare la città con il “suo” papa. Il problema dei poteri dell’imperatore sulla nomina dei vescovi era certo importante nello specifico, ma aveva anche un significato simbolico particolare in rapporto all’imperatore. Le investiture erano un problema imperiale perché nell’ottica di Gregorio VII servivano a spogliare l’impero del suo carattere sacrale. L’imperatore non andava più inteso come il cardine dell’ordine cristiano, perché un ruolo del genere andava riservato soltanto al papa. La riforma gregoriana induce così a mettere in discussione per la prima volta nel Medioevo l'immagine dell'imperatore come ordine cristiano, e dava volto a un ordine nuovo: non la cristianità dell'imperatore, ma l’unità cristiana, dei pellegrinaggi, delle cattedrali e dei monasteri come Cluny, con il papa al suo centro. Un Medioevo forse meno mediterraneo e più europeo. Un nuovo ordine cristiano, oltre la tradizione mediterranea Questo modello di società cristiana, come sovente accade quando si immagina un ordine che tiene insieme l’intera società, aveva bisogno di un nemico: meglio se un nemico esterno, un elemento da indicare come estraneo, difforme, irregolare. La cristianità dall’XI secolo in poi avrebbe assunto spesso questo atteggiamento di persecuzione del diverso. Il protagonismo papale aveva altresì attivato relazioni al di fuori della gerarchia ecclesiasti. La campagna contro la simonia e il nicolaismo lanciata dalla Chiesa di Roma, infatti, aveva raccolto seguaci, specialmente in alcune città italiane dove gruppi organizzati di chierici o semplici fedeli misero in atto veri e propri scioperi delle funzioni religiose contro i sacerdoti ritenuti indegni perché simoniaci o concubinari. Quei movimenti, però, erano anche qualcosa di diverso: erano il segnale di una ricerca di spazi religiosi per i laici, di una qualità spirituale che i fedeli cristiani cominciavano a percepire come necessità. I fedeli più intraprendenti iniziavano a pretendere a loro volta un clero all’altezza delle aspettative. Con percorsi che talora andavano al di là del consentito. E’ proprio nell’XI secolo, infatti, che compaiono nelle fonti pontificie casi di comunità o di singole persone giudicate eretiche dai vescovi o dai papi. Il termine “eresia”, comparto al tempo dei grandi concili del IV e V secolo, aveva avuto un senso soprattutto dottrinale, teologico. Ora andava a indicare non solo il contenuto delle forme religiose irregolari, ma pure vere e proprie comunità ispirate a modi “alternativi” di vivere il cristianesimo. La loro repressione diventò subito centrale nelle preoccupazioni del papato. Una cristianità perlopiù occidentale e latina: i rapporti con le Chiese non latine si fecero sempre più conflittuali, fino ad arrivare allo scisma d’Oriente. Il modo di intendere il cristianesimo della Chiesa di Roma stava diventando, insomma, lo standard applicato a tutta l’Europa, ampliando la separazione del cristianesimo occidentale dalle antiche tradizioni mediterranee. 12. I NUOVI POPOLI E LE NUOVE CULTURE I Turchi selgiuchidi Molti dei cambiamenti della storia mediterranea dell’XI secolo sono legati alla comparsa di un nuovo soggetto politico nel mondo islamico orientale, quelli dei Turchi selgiuchidi. Le relazioni tra i centri urbani dell’Impero califfale e queste popolazioni sono una variante di una vicenda che attraversò tutta la storia islamica: quella delle interazioni tra la società stanziale, cittadina e dei poteri pubblici civili, che costituiva l’Islam dell’età classica, e la società dei guerrieri nomadi, legati da identità tribali, da consuetudini guerriere, dallo spazio non urbanizzato del deserto o delle steppe. Per come erano strutturate le società e i poteri islamici del tempo, il mondo stanziale percepiva i nomadi come una minaccia per la loro abitudine al saccheggio, ma anche come una risorsa, specialmente per l’inesauribile necessità di uomini per l’esercito, oltre che per i collegamenti commerciali con le aree più lontane. I Selgiuchidi emergono dalle fonti all’inizio dell’XI secolo, quando comparvero come tribù di confine di recente islamizzazione: probabilmente fino a poco prima avevano aderito all’ebraismo, forse per influsso del vecchio Impero kazaro. Da lì si inserirono nelle lotte di potere della dominazione duwayhda, dirigendosi con il capo carismatico Tughril Beg prima verso la Persia, poi in Mesopotamia. Nel 1055 Tughril prese possesso della capitale Baghdad, cacciando i governatori buwayhdi e ponendosi con il titolo di sultano quale protettore del califfo. Si costituiva così un impero assai singolare, che aveva una sostanza etnico-linguistica persiana e in parte araba, ma sotto il controllo politico-militare di una minoranza di guerrieri turchi. Il califfato rimase in vigore e le varie figure di califfi continuarono a succedersi secondo la tradizione, sempre all’interno dei discendenti del clan del Profeta. Fino al 1258 il califfo restò una sorta di simulacro, venerato e allo stesso tempo privato di ogni potere politico effettivo, nella mani del sultano e dei suoi collaboratori selgiuchidi. Questi ultimi, percepiti dai raffinati ceti dirigenti arabo- persiani come rozzi combattenti delle steppe, si legittimavano soprattutto usando l’unico elemento che li univa, cioè la religione. Una volta diventati dominatori stabili, i sultani selgiuchidi si fecero promotori dell’identità religiosa dell’impero. Innanzitutto contro i nemici della fede più vicini, ossia gli eretici sciiti: i sultani Alp Arslan e Malikshah spinsero il loro slancio di conquista verso Occidente strappando all’Impero fatimide buona parte della Siria. La stessa Gerusalemme era caduta in mano turca ed era stata poi riconquistata dagli Egiziani nel 1098. Alp Arslan fu anche protagonista della storico scontro con un altro esercito di nemici della fede, quello dell’imperatore bizantino Romano IV Diogene, che venne sconfitto a Manzikert nel 1071; in questo modo le armate selgiuchidi si spinsero fino nel cuore dell'Anatolia, dove l’espansione islamica non era mai arrivata prima. La politica di espansione nel nome della vera fede islamica aveva anche risvolti meno cruenti: Nizam al-Mulk fu ministro (visir) dei primi sultani selgiuchidi e in quanto tale fu grande sponsor della creazione di scuole religiose, le madrase. La madrasa era una moschea-collegio, in cui la pratica ordinaria della preghiera si sviluppava in un vero e proprio programma di studi religiosi. L’insegnamento religioso aveva come base lo studio del Corano e degli hadith. Dal momento che gli hadith erano migliaia, ognuno originato da una catena di trasmissione diversa, il loro senso poteva essere contraddittorio e oscuro, perciò necessitavano di una lettura globale. Emersero allo alcune “scuole” di interpretazione che portavano avanti criteri differenziati. Le inclinazioni interpretative dei vari maestri connotavano i vari centri di insegnamento, e sono rimaste tuttora la ragione delle sfumature che l’Islam conosce nelle diverse regioni del mondo. Il sistema delle madrase ebbe una rapida espansione in tutto il mondo islamico, si venne a creare così una rete di scuole diverse, tra le quali i maestri potevano circolare in un’unità sostanziale di metodi da al-Andalus a Timbuctu nel Mali fino alla Persia e alle estreme propaggini orientali verso l’India. Il papa e Costantinopoli La metà dell’XI secolo fu un momento delicato anche nelle relazioni tra la Chiesa romana e Bisanzio. Nel 1053 in particolare una qualificata missione diplomatica papale era arrivata a Costantinopoli. La discussione fu particolarmente accesa sull'uso del pane non lievitato per la consacrazione della messa, che in Occidente era comune e in Oriente era considerata una pericolosa deviazione “giudaizzante”. Nonostante i tentativi dell'imperatore, molto interessato a mantenere buoni rapporti con l’occidente, la delegazione romana finì per scomunicare il patriarca, che fece lo stesso con il papa di Roma nel 1054. La data sarebbe rimasta a segnare l’inizio del cosiddetto scisma d’Oriente, cioè la separazione, fino a oggi mai più superata, delle due Chiese di Roma e Costantinopoli, in gerarchie diverse. Operò nella scissione un’estraneità di fondo nella cultura e nel modo di pensare la funzione patriarcale. Il papato di Roma, nel pieno di una intensissima stagione di riforma, si stava identificando con il centro della cristianità. Dal canto suo il patriarca di Costantinopoli stava assumendo un prestigio e una capacità politica inaudita, che lo rendevano poco incline a cercare l’accordo. Si potrebbe dire che la rottura giunse proprio nel momento in cui sia a Roma che a Bisanzio i vertici ecclesiastici percepivano di poter prendere decisioni pur senza il sostegno e la protezione di un imperatore. A Roma questa situazione si sarebbe protratta a lungo, mentre a Bisanzio la forza di Michele Cerulario ebbe vita breve. La figura culturale dominante fu Michele Psello, un intellettuale straordinariamente dotto e versato negli studi classici, cultore di Platone, che l’imperatore Costantino Monomaco aveva nominato “console dei filosofi”, vale a dire sovrintendente di tutte le scuole della capitale, e che tornò a essere la figura più influente della corte dopo la scomparsa di Cerulario. Quello di Psello fu un vero e proprio umanesimo, non solo per l’impiego vastissimo delle fonti classiche ma anche per la sua concezione dell’essere umano. Il suo era un messaggio di predilezione per la conoscenza della natura dell’uomo e del cosmo che avrebbe raccolto seguaci pure in Occidente. Considerando queste affinità culturali ancora vive nell’XI secolo, forse la temperie degli anni dopo la morte di Cerulario avrebbe potuto favorire un riavvicinamento con Roma, e in effetti un evento drammatico sembrò andare in tal senso. L'espansione selgiuchide dall’area centrale del califfato verso occidente venne presto a contatto con il territorio bizantino. I Bizantini furono drammaticamente sconfitti e l’imperatore stesso, catturato e fatto prigioniero, fu costretto a una disastrosa resa. Le truppe selgiuchidi potevano dilagare in tutta l’Anatolia fino quasi all’Egeo, così che la regione per secoli considerata il cuore dell’impero cadeva quasi interamente nelle mani dei conquistatori turchi. La Prima crociata Nel 1096 papa Urbano II, un monaco di Cluny asceso ai sommi gradi della Chiesa romana, si trovava a Clermont nella regione francese dell’Alvernia, non molto lontano dal grande monastero. Il papa volle rivolgere un appello ai laici, e in particolare ai cavalieri. Secondo le testimonianze successive, il papa rimproverò loro le violenze e i soprusi di cui si macchiavano quotidianamente, e li invitò a rivolgere le proprie armi altrove: non contro i cristiani, ma piuttosto per un'impresa degna e meritoria. Nella migliore tradizione cluniacense, il papa intendeva orientare la violenza delle aristocrazie laiche convogliandola verso un nemico. Nell’immediato la funzione di avversari per eccellenza fu attribuita per comodità ai Saraceni. Quest’originale appello del papa era del resto in linea con le aspettative dell’imperatore di Bisanzio, che sperava di trovare in Occidente fresche schiere di mercenari per difendere l’Anatolia dalla minaccia selgiuchide. L’esito dell'occasione di Clermont fu però un coacervo di ambiguità e malintesi. Il primo riguardò gli stessi partecipanti all’impresa. Nei primi mesi dopo l’appello del papa si formò una composita armata di semplici fedeli, non organizzati militarmente ma guidati da un predicatore itinerante, noto come Pietro l'Eremita, determinati a raggiungere la Terrasanta. L’idea della crociata aveva intercettato una fascia di popolazione abituata all'idea del pellegrinaggio e animata dallo stesso, confuso ma pressante desiderio, di una santità di vita per i semplici fedeli, che era in un certo senso il frutto della riforma della Chiesa. Di quella riforma i “crociati” avevano assimilato anche l’inclinazione all’odio per il diverso, che si tradusse in sconsiderate violenze contro le comunità ebraiche nelle città tedesche e in Boemia. Una parte della schiera arrivò accidentalmente in territorio bizantino, dove tuttavia fu allontanata con disprezzo dall’imperatore che certo non aveva nulla da guadagnare dalla presente di un esercito di tal fatta. Nel frattempo nel 1097 si era costituita una spedizione che rispondeva ai veri intendimenti del papa. Un gruppo cospicuo ed eterogeneo di aristocratici europei di provenienza, tedesca, lorenese, fiamminga, normanna e provenzale. Quanto i crociati arrivarono a Costantinopoli si palesò un nuovo malinteso: l’imperatore Alessio Comneno intendeva inquadrare i nuovi arrivati nelle proprie attività militari, mentre l’esercito occidentale era partito solo con l‘intento di prendere Gerusalemme. Superati comunque con un compromesso i contrasti iniziali, i crociati ripresero la marcia attraverso l’Anatolia, fino a raggiungere la Siria. Qui i guerrieri occidentali si trovarono in un ambiente inatteso, abitato pacificamente da importanti comunità cristiane sotto il governo islamico, ma soprattutto beneficiarono del vantaggio di agire in un teatro politico molto diviso al suo interno, frammentato tra aree dell’estrema periferia selgiuchide in mano a signori della guerra turchi semindipendenti. Circostanze così fortunose permisero di raggiungere la Città santa. Nel 1099, finalmente, Gerusalemme fu assediata e conquistata in un pauroso bagno di sangue. I residenti musulmani ed ebrei furono massacrati, e per alcuni anni ai loro correligionari fu impedito di risiedere nella Città santa. Con la proclamazione a re di Gerusalemme di Goffredo di Buglione (che però declinò l’invito) sulla costa mediterranea dell’Asia nasceva una costellazione di Stati cristiani, determinando un ampliamento imprevisto della cristianità occidentale in territori lontani e abituati, pur se tra guerre e nascite e morti di imperi, a una convivenza complessivamente tollerante tra popolazioni di religioni diverse. La religione e la cultura in Occidente tra XI e XII secolo La grande vitalità religiosa dell’XI secolo vide la nascita di nuove esperienze monastiche. Bruno di Colonia fondò nel 1084 l’esperienza dei certosini. Di fronte alla scintillante liturgia delle preghiere cluniacensi, che si tenevano nel teatro grandioso di immense chiese romaniche piene di luci e decorazioni, lo stile di vita cistercense era quello di monaci tutti dediti alla fatica materiale del lavoro nei campi e alla semplicità apostolica. Il periodo tra XI e XII secolo vide in Occidente, come accadeva anche nel mondo islamico e bizantino, un’intensa evoluzione delle forme di insegnamento e cultura. I luoghi di insegnamento erano stati per secoli essenzialmente i monasteri e le chiese cattedrali, che avevano attività di formazione annesse funzionali alle esigenze del clero cittadino. Anche in questi ambienti religiosi, però, specie quelli più aperti verso il “mondo” come le scuole cattedrali, nel XII secolo emersero tendenze nuove. Tra queste il naturalismo, cioè l’interesse per il cosmo e le sue leggi naturali, che non sono contrarie alle leggi divine ma possono essere conosciute al di fuori dei testi sacri. Emblematica in particolare l’esperienza della scuola cattedrale di Chartres, i cui maestri si dedicarono a una riflessione sulle relazioni tra il macrocosmo (l’universo naturale) e il microcosmo (l’essere umano). Il termine adoperato dalla storiografia per indicare tali spedizioni è “crociate”, ma si tratta di un vocabolo coniato almeno due secoli dopo lo svolgimento della prima di queste imprese militari. C’è chi ha provocatoriamente sostenuto che le crociate sono state inventate in età moderna. Il minimo che si possa dire è che il portato ideologico di tali missioni non si sia formato subito e, come peraltro si è già detto, non abbia avuto sempre e per forza come nemico unico la religione islamica. La coloritura dichiaratamente e univocamente anti islamica di solito associata alle crociate deriva per un verso dallo scontro politico per eccellenza del Mediterraneo moderno, cioè quello tra Impero asburgico e ottomano, e per un altro verso dalla concezione tipica dell’Ottocento, nell’ambito del cosiddetto orientalismo, che vede nello slancio crociato le antiche radici di una riscossa cristiana contro una civiltà destinata al declino come quella islamica. Gli stessi canonisti duecenteschi, per meglio caratterizzare quella che noi in genere denominiamo crociata, parlavano di crux transmarina contro gli infedeli e crux cismarina contro i “mali cristiani”. Dopo la conquista di Gerusalemme del 1099 si apriva per le potenze occidentali un nuovo spazio potenzialmente ricco di prospettive. Le stesse città italiane ne colsero abbastanza presto le opportunità. Fin dal 1100 le navi veneziane e genovesi diedero il loro contributo a consolidare il dominio crociato sui porti del Libano e della Palestina, principalmente Tiro, dove installarono delle fiorenti colonie mercantili, e in alcuni quartieri dei centri portuali ricostruirono vita e istituzioni della madrepatria, spesso amministrandosi autonomamente grazie ai privilegi loro concessi dalle autorità locali. Tanto l’aristocrazia latina quanto i mercanti italiani iniziarono, quindi, a drenare ricchezze da questi territori, mentre, non di rado, il loro atteggiamento nei confronti degli abitanti locali assumeva toni di particolare durezza. L'intolleranza diffusa e quello che per alcuni può definirsi sfruttamento economico hanno fatto parlare di colonialismo latino del Vicino Oriente. La crociata del 1147 (la seconda) era guidata addirittura dal re di Francia, Luigi VII, e dall’imperatore Corrado III. Dopo non poche difficoltà, soprattutto per le truppe tedesche, malviste dalle popolazioni slave e dall’imperatore bizantino nella loro marcia verso Oriente, mentre il re di Francia poteva giovarsi del sostegno delle navi delle principali repubbliche marinare, lo slancio della crociata si arenò sotto le mura di Damasco, nella consapevolezza che solo uno sforzo probabilmente insostenibile e dagli esiti assai incerti avrebbe eventualmente consentito di conquistare la città siriana. Il 4 luglio 1187 il fiore della nobiltà cristiana fu disastrosamente sconfitto nella battaglia di Hattin a opera dell’esercito guidato dal sultano d'Egitto e Siria, Saladino. La sconfitta cristiana consentì all’esercito del sultano di porre l’assedio a Gerusalemme; i cristiani si arresero a Saladino, a patto di avere salva la vita pagando un riscatto. Nel 1187 la tragedia di Gerusalemme compattò molto velocemente i migliori principi della cristianità, Filippo II Augusto, re di Francia, l’imperatore Federico I Barbarossa, il re d’Inghilterra Riccardo I, detto Cuor di Leone e, addirittura Guglielmo II, il re di Sicilia che inviò una flotta che ottenne l'unico vero successo della crociata, impedendo la presa di Tripoli da parte del Saladino. Per il resto il contingente tedesco ben presto si arrestò e tornò indietro dopo che Federico I Barbarossa era morto nel 1190; il re di Francia, dopo una nutrita serie di incomprensioni con quello d’Inghilterra, preferì abbandonare l’impresa nel luglio 1191, mentre Riccardo Cuor di Leone si limitò a strappare Cipro ai BIzantini, poi venduta alla dinastia dei Lusignani, prima di lasciare la Terrasanta nel 1192. Il fallimento della terza crociata fu particolarmente grave, e impose una ristrutturazione della strategia cristiana in Terrasanta; un certo impeto crociato era ormai venuto meno, come avrebbe dimostrato la quarta crociata, quella del 1204, il cui bersaglio sarebbe divenuto in corso d’opera l’Impero bizantino, o la crociata del 1229 guidata da Federico II di Svevia, che fu un successo dal punto di vista diplomatico perché l'imperatore riuscì a ottenere mediante un trattato la presenza dei pellegrini cristiani a Gerusalemme. Alle iniziali ispirazioni forse si possono ricondurre le due crociate guidate dal re di Francia Luigi IX il Santo, entrambe partite da Aigues Mortes. La prima svoltasi tra il 1248 e il 1254, indirizzata contro l’Egitto ayyubita che, dopo la conquista di Damietta nel 1249, in pratica si concluse con la battaglia di al-Mansurah, nel corso della quale i crociati furono decimati e Luigi IX catturato, dovendo poi pagare un riscatto per tornare in Francia. Molto peggio andò la crociata successiva, nel 1270, indirizzata, per motivi sui quali ancora si dibatte, contro Tunisi. Il re santo vi trovò la morte per dissenteria, e per un lungo periodo non si parlò più di crociate per recuperare Gerusalemme che, come ben sappiamo, non sarebbe mai più tornata alla cristianità. A partire dal Quattrocento si sarebbero moltiplicate, invece, le crociate, tanto per via di terra quanto per mare, finalizzate vanamente a bloccare l’avanzata turca. Gli ordini cavallereschi e l’espansione cristiana nella penisola iberica Nel corso del XII secolo si erano andate moltiplicando delle associazioni caratterizzate da finalità insieme religiose e militari, formate da membri che vi aderivano prendendo i voti e che seguivano le regole dei principali ordini monastici. Si trattava dell'evoluzione di associazioni dedite in principio esclusivamente alla cura di malati e pellegrini, convertite alla difesa dei luoghi santi. Sono i cosiddetti ordini cavallereschi, il primo dei quali fu quello di San Lazzaro, mentre verso il 1020 veniva fondato l’ordine degli ospitalieri di San Giovanni di Gerusalemme che poi, a causa dello spostamento della sua sede dovuto all’avanzata islamica, sarebbe diventato l'ordine degli ospitalieri di Rodi e, in età moderna, di Malta. Come si può arguire dai nomi o dalle dedicazioni è evidente che funzione precipua di questi ordini era quella assistenziale. Le cose sarebbero cambiate ed evolute a partire dalla conquista di Gerusalemme e dalla necessità di combattere per difendere gli Stati latini d’Oriente. Nel 1118 nacque così l’ordine dei templari, mentre intorno al 1179, quello del Santo Sepolcro di Gerusalemme. Nel frattempo il modello dell’ordine cavalleresco prendeva piede in altre zone caratterizzate dalla lotta tra cristiani e musulmani, e in particolare nella penisola iberica. Molti altri ordini cavallereschi sarebbero poi stati fondati nei secoli a venire, compresa l'età moderna, ma ci soffermeremo in breve solo su quelli che ebbero un ruolo preminente in Terrasanta, e cioè gli ospitalieri, i templari e i teutonici. Per quanto riguarda i primi, l’ordine fu forse in origine fondato dagli Amalfitani, saldamente presenti per le loro attività commerciali in Terrasanta. Nel 1154 l’ordine ottenne un privilegio che lo svincolava dal clero secolare e lo pose in diretta dipendenza dal papa. La dimensione bellica dell'ordine fu esemplata su quella dei templari, fondati a Gerusalemme intorno al 1114 da Hughues da Payns. Si trattava di associazioni di guerrieri laci che offrivano la loro protezione militare a dei santuari, ottenendo in cambio preghiere e benefici spirituali. Nel 1129 i templari ricevettero una regola fondata su quella benedettina con influssi di quella agostiniana. I cavalieri del tempio facevano voto di povertà, obbedienza e castità, e venivano divisi in due categorie: i milites veri e propri, di origine nobile, e i servientes, alle loro dipendenze, di estrazione sociale meno elevata. Ottennero come propria sede un’ala del palazzo reale di Gerusalemme e vari privilegi dai pontefici nel corso del XII secolo, alla fine del quale l’ordine templare diverrà ricchissimo e potentissimo. Troppo potente forse, visto che, mutati i tempi, verrà eliminato con la forza dal re di Francia Filippo il Bello, con il sostengo dei pontefici del tempo, all'inizio del Trecento, dopo un processo per eresia ai capi dell'ordine passato alla storia. I cavalieri teutonici nacquero da un gruppo di cavalieri distaccatosi dal seguito del Barbarossa durante la terza crociata. Nel 1199 Innocenzo III istituì ufficialmente quest’ordine che diventò piuttosto potente, con possedimenti sparsi in tutta Europa e nel Mediterraneo, specie in Sicilia. Il connubio tra componente militare e religiosa che sta alla base dell’evoluzione degli ordini cavallereschi in Terrasanta ha, come si è detto, origine nell’ambiente della Francia meridionale e, in modo particolare, della penisola iberica dove, già dal X secolo, ma con una decisa accelerazione dall’XI, i piccoli regni cristiani del Nord, approfittando della fine del califfato omayyade di al-Andalus, iniziarono un movimenti di espansione verso sud, comunemente definito Reconquista. Ma più in generale il contributo degli ordini cavallereschi, tanto nella pensiola quanto in tutta Europa, andò oltre la mera funzione militare e si espresse piuttosto nel rappresentare un’etica di virtù guerriere declinate in senso cristiano, che al di là delle vicende dei singoli ordini influenzò a fondo le stesse consuetudini e i sistemi di valori dell’aristocrazia europea. 14. IL DECOLLO DELLE CITTÀ Ancora e di nuovo le città A partire dall’XI secolo l’Europa cristiana conobbe un periodo di eccezionale fioritura della vita cittadina. Le città sono i primi beneficiari di quel generale moto di crescita che investe l’Europa almeno a partire dall’XI secolo, e per i secoli a venire diventano anche i luoghi di elezione della vita politica. Accanto all’aumento demografico e all’espansione urbana che abbiamo già incontrato, dall’XI secolo si moltiplicano i segni di una vera identità urbana, del senso di appartenenza a una comunità che può agire per proprio conto e avere un ruolo nel rapporto con il sovrano, con la Chiesa o con lo spazio circostante. Il Basso Medioevo è quindi anche il periodo delle città come soggetti politici. Nella storia dell’Occidente dal X-XI secolo i poteri si ricompongono a partire da dominazioni locali e la città porta in questa dinamica alcune caratteristiche peculiari. Ci dobbiamo innanzitutto chiedere cosa sia una città. Si potrebbe adottare una soglia di dimensioni, ma la rilevanza demografica non è sempre la stessa che ci si trovi in un’area molto densamente popolata o in uno spazio quasi vuoto di abitanti. Le fonti medievali, almeno quelle italiane, usano spesso il nome di civitas come titolo riservato ai centri di sede vescovile, negandolo invece agli abitati senza un vescovo: ma pure in questo caso basta varcare le Alpi affinché il criterio perda di senso. E’ più utile un criterio funzionale, che riconosce nella città un centro abitato con un elevato livello di articolazione sociale e varietà di funzioni economiche. Bisogna considerare il fenomeno urbano, insomma, come un tema storico molto vario, nel quale però grande spazio ha la capacità dei cittadini di sentirsi tali, di agire collettivamente. Si potrebbero distinguere alcune tipologie di città nello spazio mediterraneo: 1. Le città antiche: ancora nell’XI secolo molte delle grandi città mediterranee erano gli stessi centri fioriti al tempo dell’Impero romano. Per l’Occidente questo è vero soprattutto in Italia, e ciò vale per tutto il bacino mediterraneo. 2. Le città fondate dai sovrani, create per un’iniziativa dall’alto: questa situazione l’abbiamo vista operare di frequente nella storia islamica. Durante l’avanzata della conquista era stata una scelta consueta fondare centri di presidio militare distinti dalle vecchie popolazioni. Più significativi i casi di fondazioni “politiche”, per rimarcare la forza di una dinastia: Baghdad o Samarra sono esempi grandiosi. Quello che si riscontra in Occidente già nel IX secolo è il caso dei centri di popolamento nati in territori di confine, o al limite di aree poco sicure. Questi sorgevano come piccoli insediamenti fortificati, magari con funzioni l’insieme di controllo e di inquadramento religioso di un’area di confine. A partire dal XII secolo pure in Europa occidentale ricomparvero esempi di vere proprie città di nuova fondazione. Alcune grandi dinastie signorili germaniche scelsero la costituzione di un centro urbano per convogliare la popolazione e consolidare il proprio dominio. 3. I centri nati spontaneamente, come punti di coagulo di attività commerciali: spesso si trattava di piccoli castelli, di villaggi o agglomerati intorno a una chiesa abbaziale, ma che la fortuna di trovarsi lungo vie di terra o d’acqua importanti fece crescere fino a dimensioni urbane. Queste varietà di origine compongono un panorama urbano molto denso in tutta l’Europa. Le diverse origini urbane, però, portavano con sé peculiarità socioeconomiche. Le città antiche non erano strutturalmente separate dal territorio circostante. Avevano un popolamento più concentrato rispetto alle campagna ma sul piano giuridico l’esterno e l'interno dell'abitato non erano così diversi: questo è un carattere che resterà costante nelle città del Mediterraneo orientale. In Occidente le città medievali di origine antica si erano sovente ripiegate su sé stesse, chiudendosi all'interno delle mura, ma non avevano perso la capacità di proiezione verso l'esterno. Nei centri di nuova fondazione, o nelle città cresciute intorno a piccoli castelli, invece, era molto forte la separazione tra dentro e fuori, tra città e campagna. Una separazione pure sociale: il luogo del mercato e quello dei castelli, la società degli artigiani e dei mercanti e quella dei cavalieri. L’affermazione “l’aria della città rende liberi” non era etica ma giuridica, dal momento che la residenza in città per almeno un anno rendeva una persona esente dai diritti di dipendenza o servitù nei confronti di un signore fuori dalle mura. Le mura cittadine, in altre parole, erano un diaframma tra due mondi sociali del tutto differenti. Le città e i poteri Se è vero che la città era tale non per il numero degli abitanti ma per il senso di appartenenza a una comunità, nel fenomeno urbano dell’Occidente medievale c’è una componente decisiva e caratterizzante di autonomia politica. L’iniziativa autonoma delle comunità aveva un peso notevole in tutta l’Europa dei secoli centrali del Medioevo: il re aveva bisogno del consiglio dell’assemblea dei suoi guerrieri o aristocratici, la comunità religiosa viveva della condivisione dei suoi membri, il signore locale doveva in qualche modo avere a che fare con la collettività del villaggio. Le comunità erano meno visibili dei signori, ma rappresentavano un dato costante della storia medievale. Innanzitutto gli abitanti delle città si riconoscevano in consuetudini proprie: modi di risolvere i conflitti, regole di giudizio, tradizioni locali. La città si identificava poi in alcuni simboli, come le mura o le chiese. La cattedrale o la chiesa maggiore era probabilmente il fattore più profondo di identità e i cittadini si muovevano fisicamente per difenderla o sostenerla. Come si esprimesse politicamente la collettività è un problema più vasto, e la risposta varia a seconda dei luoghi. In linea di massima sussistevano due livelli. Innanzitutto esisteva nelle città, specie nell’area dell’Impero carolingio, figure di scabini addetti alla gestione delle cause. Accanto agli scabini stava poi l'abitudine delle assemblee della comunità: in tal caso si trattava non proprio di un’istituzione, quanto piuttosto di una pratica. Di fronte a pericoli o a situazioni di incertezza i cittadini si incontravano, affollavano il sagrato della chiesa maggiore, discutevano e talvolta prendevano decisioni. Procedendo nel XII secolo il panorama si precisa. I regni europei andavano costruendo le loro strutture, non solo fondate sulle fedeltà personali dell'aristocrazia ma anche su un sistema di regole. Le città subiscono questa tendenza generale verso l'istituzionalizzazione, cioè la traduzione di pratiche e tradizioni in forme scritte riconoscibili. Il XII secolo è così il tempo delle “carte di franchigia”, “carte di comune”, “carte di consolato” e simili, ossia documenti in cui il diritto cittadino e i rapporti della comunità con il signore vengono messi nero su bianco. Talvolta le carte di franchigia autorizzavano i cittadini ad eleggere ufficiali propri per alcune mansioni amministrative, o menzionavano un'entità ordine variabile. Il che doveva rassicurare anche l'imperatore sulla possibilità di mantenere una voce decisiva nella scelta della persona. L’enorme armamentario di argomenti giuridici accumulato negli anni stimolò la raccolta di grandi compilazioni del diritto della Chiesa, il diritto canonico. Di gran lunga la più importante è quella composta nel 1140 a Bologna da Graziano (il Decreto di Graziano), che fu così il testo base per lo studio del diritto della Chiesa, una sorta di parallelo del Corpus iuris che esprimeva la maturità della gerarchia come ordine autonomo di ogni potere secolare. All’indomani del Concordato di Worms iniziò anche una nuova stagione di concili. Non è un caso che in meno di un secolo si fossero tenuti quattro concili a Roma. Dopo la lotta per le investiture e la rottura con la Chiesa di Bisanzio i papi portarono avanti con decisione una concezione della Chiesa in cui il vescovo di Roma era il vertice della cristianità. La grande capacità di creare relazioni in tutta Europa fece sì che da tutta la cristianità occidentale il vescovo di Roma fosse visto come un interlocutore privilegiato per le questioni religiose. Il vescovo di Roma, da secoli considerato una figura prestigiosa ma non gerarchicamente superiore agli altri patriarchi, ora si affermava in maniera esplicita come vertice di una vera e propria monarchia papale estesa su tutta la cristianità. Uno degli effetti di questa crescita della Chiesa come gerarchia fondata sul diritto fu la nascita di una vera e propria dottrina giuridica della crociata. La Prima crociata era nata in circostanze particolari, ma sarebbe stato solo negli anni successivi, dopo la conquista di Gerusalemme del 1099, che la Chiesa avrebbe precisato ciò che ai crociati si prospettava come guadagno spirituale. Il motivo di questa precisazione era anche pratico: il regno di Gerusalemme era un'acquisizione gradita, per certi versi inaspettata, ma straordinariamente fragile. Il regno aveva bisogno di un continuo ricambio di forze militari, e dato il numero esiguo di combattenti occidentali stabiliti in Terrasanta questi potevano arrivare soltanto da fuori. Il XII secolo fu così il tempo della fioritura della letteratura crociata, in cui l’epopea del regno d’oltremare era una sorta di sogno aristocratico per l’intera Europa, e insieme promuoveva l'invio di nuovi armati per sostenere l’impresa. L’esigenza si fece drammatica quando nel 1144 la caduta di Edessa giustificò gravi preoccupazioni sul futuro degli insediamenti crociati. Il papa Eugenio III lanciò quindi l’appello alla crociata, sotto la spinta e l’iniziativa pressante di Bernardo di Chiaravalle. Lo stesso Bernardo fu poi molto efficace nel proporla anche alle aristocrazie guerriere europee, perché volle promuovere con grande decisione gli ospitalieri di San Giovanni e i templari, che aggiungevano ai voti tradizionali quello dell'impegno alla difesa armata del regno di Gerusalemme. Bernardo promosse la diffusione in Europa dei templari con un trattato, il De laude novae militiae. La definizione degli impegni del crociato era ora più chiara. Ciò che si prospettava a chi intraprendesse la crociata per almeno un anno era l’indulgenza, cioè la cancellazione di una parte delle pene ultraterrene per i propri peccati. Oltretutto, specie nelle crociate dalla fine del XII secolo, ai sovrani che si impegnavano a partecipare era concessa la possibilità di riscuotere una parte dei contributi richiesti a tutte le chiese della cristianità, quella che alla fine del XII secolo si sarebbe chiamata la “decima del Saladino”. La crociata era così una prospettiva suggerita soprattutto ai principi e sovrani. La Chiesa e gli eretici La partecipazione alla lotta contro il clero concubinario aveva visto emergere i gruppi di fedeli laici come attori in prima persona delle vicende della Chiesa. Questa possibilità si chiuse molto presto, perché le strutture ecclesiastiche una volta passata la stagione gregoriana ribadirono con chiarezza come non fosse lecito ai laici giudicare il clero. Nel corso del XII secolo lo stesso movimento riformatore avere molto enfatizzato la necessità di imporre al clero comportamenti adatti al proprio status, nettamente separati da quelli dal laicato anche nella vita quotidiana. Ideali di questo tipo furono al centro della predicazione di Arnaldo da Brescia, che si mise a capo di un movimento prevalentemente di laici, che traeva le conseguenze dello spirito della riforma: se i chierici devono tenersi lontani dalla corruzione del mondo per essere riconosciuti dai fedeli, allora la Chiesa di Roma deve rinunciare al suo potere temporale sulla città e non può chiedere l’obbedienza ai cittadini in nome di un dominio terreno. Arnaldo fu così l'ispiratore della nascita del Comune di Roma nel 1143, un’istituzione apertamente ostile al potere del papa. Il successo della predicazione di Arnaldo presso gli uomini del Comune di Roma è anche un segnale di come presso i laici nel corso del XII secolo si stesse diffondendo una speciale sensibilità nei confronti della povertà come stile di vita necessario alla perfezione cristiana. Nell’Europa fino al X secolo, la ricchezza era associata soprattutto al potere e alla gloria, più che a un fattore di natura eminentemente economica, quindi era sembrato naturale che le chiese fossero ricche. La mentalità dei laici tra XI e XII secolo era cambiata: in un mondo in crescita la ricchezza era ora associata all’immagine del mercante, e così quegli stessi oggetti e paramenti sacri un tempo sentiti come riflesso della gloria divina nella Chiesa erano ora visti come una deviazione della Chiesa verso l’avidità dei mercanti. Cresceva alla stesso tempo l’esigenza di trovare forme di vita lontane da questa pericolosa opulenza. Uno dei casi più interessanti fu quello dei Poveri di Lione con il loro fondatore Pietro Valdo (o Valdesio). La posizione ufficiale della Chiesa nei loro confronti fu ambivalente. In un primo tempo, in occasione del terzo Concilio lateranense del 1179, vennero ammessi, con la raccomandazione di non predicare senza l'autorizzazione del vescovo locale. Nel 1184, però, il papa Lucio III nella celebre bolla Ad abolendam li tacciò apertamente di eresia vietando ogni forma di comunità ispirata al modello valdese. Ma dopo il 1184 i papi, specialmente Innocenzo III, affiancarono la repressione a una certa forma di recupero, per cui alcune porzioni delle comunità valdesi e gran parte di quelle umiliate vennero reintegrate nella Chiesa sotto speciali clausole di garanzia e controllo. Con l’avvicinarsi al XII secolo, questa galassia di forme religiose alternative si precisò, ed emerse una categoria di eretici alquanto riconoscibili dai documenti: i catari. In questo caso si trattava di una vera e propria Chiesa parallela, che giungeva in Occidente dai Balcani, in particolare dalle comunità bogomile che a loro volta si ispiravano a comunità religiose ancora più orientali, provenienti dall'Armenia. Professavano una religione dualistica, secondo la quale tutto l’universo sarebbe stato il frutto dell’azione di due forze eterne e opposte: bene e male, luce e tenebre, spirito e materia. I catari, termine greco che significa “i puri”, erano appunto la comunità di coloro che seguendo l'insegnamento di Cristo praticavano la mortificazione della carne, la separazione dal mondo e, infine, il ritorno al principio del bene spirituale. Il catarismo ebbe una grande diffusione in Occidente, specie in Italia e nella Francia meridionale: in Italia nel XII secolo vi furono intellettuali catari e figure eminenti delle aristocrazie urbane aderenti alla Chiesa. I mezzi repressivi, dalla Ad abolendam in poi, furono molto duri. Il passaggio fondamentale si compì con il papa Innocenzo III che nel 1199 emanò la bolla Vergentis in senium, secondo la quale il peccato di eresia, riconosciuto dai tribunali ecclesiastici, era equivalente al reato di lesa maestà, cioè al crimine di attentato allo Stato già presente nel diritto penale romano come una colpa gravissima. Tanto era più grande la maestà divina che gli eretici offendevano di quella dei sovrani terreni! Per questo il papa invitava tutti i sovrani del tempo a punire gli eretici con i loro mezzi di repressione, in particolare con il fuoco del rogo previsto per il crimine di lesa maestà. Innocenzo III La figura di Innocenzo III è il punto di snodo di tutta la storia della Chiesa occidentale nel XII secolo, sia quanto alla vita religiosa, sia per l'organizzazione politica. Sul piano della repressione dell’eresia Innocenzo scelse la via più sanguinosa. Dopo l’assassinio nel 1208 di un emissario papale in loco, Pietro di Castelnau, lanciò un appello alla crociata contro gli eretici. La crociata contro gli albigesi si svolse in una successione di campagne di conquista, portate avanti dal re Filippo II Augusto e dalla nobiltà della Francia settentrionale contro gli eretici ma anche contro gli uomini del conte di Tolosa, che avevano ostacolato l’opera dei legati papali. Dopo anni di violenze, l’intera Francia meridionale venne assoggettata all’ortodossia sul piano religioso, e su quello politico sottomessa al re di Francia. Nel corso di tutto il XII secolo l'autorità dei vescovi di Roma si era dispiegata in una fittissima corrispondenza, tenuta grazie a un sistema di cancelleria molto raffinato. Le lettere della Cancelleria più significative, le decretali, assumevano valore di precedente per la risoluzione di dubbi e controversie e, dunque, andavano ad arricchire il patrimonio del diritto della Chiesa. Uno dei successori di Innocenzo, Gregorio IX (1227-41) avrebbe promulgato la raccolta definitiva delle decretali, il cosiddetto Liber extra, nel 1234. Uno degli ambiti in cui la normativa pontificia conobbe una crescente specializzazione fu quello della santità: la mentalità giuridica e accentratrice del papato imposte una serie di requisiti formali, fino a costituire nel primo Duecento la forma di un vero e proprio processo. Il papa, quindi, diventava altresì l’unico arbitro della legittimità dei culti religiosi. Forte di questo esercizio dell'autorità su tutta la Chiesa dell’Occidente, Innocenzo formulò una dottrina del potere papale: il vescovo di Roma, definito ora “vicario di Cristo”, era rivestito della plenitudo potestati, cioè della “pienezza della potestà”. Il papa disponeva di ogni potere, incluso quello di concedere privilegi e dispense dalle stesse norme della Chiesa. Per far valere questa autorità assoluta sul piano spirituale, Innocenzo curò con grande impegno anche l’aspetto temporale del suo potere. Il papa avviò la politica delle cosiddette recuperationes: Innocenzo, in altri termini, volle rinnovare le concessioni fatte ai papi dagli imperatori carolingi, e rimaste perlopiù sulla carta, di vasti territori dell’Italia centrale. Nel corso del Duecento la Chiesa avrebbe consolidato il suo controllo e la sua autorità sul cosiddetto Patrimonio di San Pietro, composto dalla Campagna e dalla Marittima del Lazio meridionale, e dalla parte meridionale della Tuscia, sul ducato di Spoleto e sulla marca di Ancona, nonché sulla Romagna. Le province furono rette da cardinali, mentre la Chiesa si assicurava molteplici entrare sia dall'esazione fiscale nei territori direttamente governati, sia dalla concessione di benefici in tutta Europa. Inoltre, i papi iniziarono un processo di sempre maggior controllo della nomina dei vescovi, sottraendola al clero locale, e potenziarono la Cancelleria, strumento fondamentale per dialogare con le monarchie del tempo e far valere la propria posizione politica. Il quarto Concilio lateranense, che Innocenzo III riunì nel 1215, fu di gran lunga il più importante dei concili occidentali del Medioevo e rappresentò un momento cruciale per l’organizzazione della Chiesa nei secoli successivi. Furono ricapitolate le varie forme di comunità religiose ammesse secondo le regole esistenti e vietata la fondazione di altre differenti. Vennero esplicitati i doveri del clero parrocchiale. Il concilio stabilì anche l’obbligo per tutti i cristiani di accedere al sacramento dell'eucaristia e della confessione almeno una volta l’anno; la confessione auricolare sarebbe rimasta una delle pratiche più caratteristiche del cristianesimo cattolico e uno dei mezzi più potenti del controllo delle coscienze da parte della gerarchia ecclesiastica. Nel contempo il concilio ribadì le forme di repressione delle comunità ereticali e gli obblighi imposti alle comunità ebraiche, tollerate ma vincolate a speciali contrassegni nel vestito e nelle pratiche pubbliche. Quanto alla repressione dell’eresia, gli strumenti in mano al papato furono specificati con crescente durezza. Pure in questo caso sarà un successore di Innocenzo, Gregorio IX, a portare a compimento l’evoluzione, con la creazione di un vero e proprio tribunale della fede, l’Inquisizione, nel 1231. Gli ordini mendicanti Agli anni di Innocenzo III risale la nascita di alcune comunità religiose che avrebbero profondamente segnato la storia successiva della Chiesa occidentale. Domenico di Calaruega o di Guzmàn era un prete castigliano che suggeriva di applicare una predicazione accurata e ben fondata sul piano dottrinale, accompagnata da un irreprensibile rigore di vita di coloro che se ne facevano portatori. Giunse presso il papa, che nel 1210 confermò il suo proposito. I domenicani, più correttamente noti come “frati predicatori”, erano, però, religiosi la cui attività pastorale era vissuta in uno stile di vita piuttosto essenziale e sobrio, tutto dedito agli studi teologici e alla predicazione per riportare, o mantenere, i fedeli nell'alveo dell’ortodossia. Meno inquadrabile nelle tradizioni giuridiche della Chiesa era l’esperienza di Francesco d’Assisi (1180-1226) che era figlio di un ricco mercante umbro; dopo una giovinezza di sogni cavallereschi conobbe intorno al 1205 una conversione profonda al mistero dell’umanità di Cristo. Il nome con cui volle definire la comunità, quello di “frati minori”, voleva marcare proprio questo porsi al di sotto di ogni ricchezza, dignità o potere. Lo stile di vita dei primi francescani fu, dunque, quello di una povertà estrema, che certo sfidava il rigore delle più estreme esperienze ereticali, ma che era ispirato a una gioiosa comunione con il creato, vissuto come manifestazione della gloria divina e non come segno di una materialità negativa. La comunità di Francesco presentava più di un problema agli occhi delle gerarchie ecclesiastiche, soprattutto perché i suoi componenti (e il suo stesso fondatore) erano in larga parte laici, non avevano nessuna formazione religiosa e nessuna consacrazione sacerdotale. Papa Innocenzo volle tuttavia approvare la comunità, seppure senza una bolla di conferma scritta, conferendo a Francesco la tonsura. La comunità divenne un’esperienza di vita molto fortunata e rapidamente diffusa in tutta Italia e oltre. Con gli anni il movimento francescano crebbe in maniera esponenziale, perché la scelta senza compromessi per la povertà del Vangelo raccoglieva un grande successo presso i cristiani più esigenti, laici e sacerdoti. Emerse così la necessità di definire una regola, che fosse approvata da papa in deroga alle norme del quarto Concilio lateranense. Una prima versione della regole venne redatta da Francesco nel 1221, ma l’approvazione papale giunse solo con una seconda versione del 1223 (la Regula bullata). Al di là delle loro profonde differenze, gli ordini mendicanti si rivelarono un fattore potente dell’egemonia della Chiesa papale del XIII secolo. Una tra le peculiarità che li distinguevano dalle vecchie esperienze monastiche era la struttura gerarchica, con un ministro generale e vari responsabili provinciali nelle diverse aree in cui trovavano insediamento le comunità o “conventi”; i conventi si collocavano non in territori rurali ma nelle città, da dove i frati potevano dedicarsi a un’intensa attività di apostolato, predicazione e cura pastorale. Queste comunità molto motivate erano proprio ciò che serviva al papato. Gli ordini mendicanti iniziarono così a dispiegare la propria attività di insegnamento, di predizione e pastorale grazie a una presenza capillare nel territorio che li porterà in ogni parte d’Europa e che nel corso del XIII secolo consentirà loro di inserirsi ai massimi livelli nella gerarchia ecclesiastica, riuscendo ad arrivare anche al pontificato con il domenicano Innocenzo V nel 1276 e il francescano Niccolò IV nel 1288. Nell’XI e XII secolo la parte Occidentale del Dar al-Islam conobbe trasformazioni altrettanto profonde, non di rado legate di nuovo all’impatto con i nomadi del deserto. Nell’Africa settentrionale, ad esempio, furono i beduini nomadi dell’area a est del Delta del Nilo a dilagare, provocando l’ennesima destabilizzazione dell'area e forse anche l’avvio di un declino profondo all'agricoltura stanziale in quelle aree a lungo così floride. Il Vicino Oriente nel XII secolo era la periferie dell’Impero selgiuchide: lontana da Baghdad e troppo vicina ai confini dell’Impero fatimide, era uno spazio politico perfetto per governatori intraprendenti o avventurieri che costituivano principati semi-autonomi rispetto al potere del centro. La presenza dello Stato crociato dava una doppia possibilità a questi principi e signori della guerra turchi. Da una parte la riattivazione dei traffici commerciali dall'Occidente verso i porti di Acri, Tiro e Antiochia rappresentava un obiettivo allettante di conquista. In secondo luogo i principi turchi potevano usare l’arma della guerra religiosa contro i crociati presentandola come jihad, e quindi guadagnando il prestigio e l’autorevolezza di difensori della fede in imprese che altrimenti sarebbero state motivate solo dall’ambizione personale. Protagonista di questa strategia su Zengi, che strappò ai crociati la città di Edessa nel 1144, il che innescò in Occidente la reazione papale e il bando della Seconda crociata. Morto Zengi nel 1146, l’eredità del suo dominio siriano passò al figlio Nur ad-Din. Un emiro di Nur ad-Din, il curdo Shirkuh, insieme con il nipote Yusuf ibn Ayyub Salah ad-Din (letteralmente “roccia della fede”, il celebre Saladino) attaccò nel 1169 l’Egitto e ottenne la sottomissione del califfo del Cairo. Per alcuni anni Saladino governò come una sorta di plenipotenziario di Nur ad-Din in Egitto, ma dal 1174 il suo prestigio, per essere stato colui che aveva riportato l’Egitto all’obbedienza del califfo sunnita di Baghdad, gli consentì di ereditare un dominio molto vasto che univa la Siria e l’Egitto. Saladino approfittò dello strumento del jihad contro i crociati, e nel 1187 sbaragliò le truppe del regno di Gerusalemme. Poco dopo la Città santa, incapace di difendersi, cadde nelle sue mani. L’arrivo dei crociati dall’Occidente nel 1190 impedì a Saladino di completare la conquista, ma l’accordo stipulato nel 1192 gli consentiva comunque di essere il dominatore di tutta la regione. Con lui nasceva un nuovo Stato sunnita, fedele al califfo di Baghdad, retto dai suoi discendenti e centrato sulle città del Cairo e Damasco, nonché sulla regione del Mar Rosso e i luoghi santi dell’Islam. 1204: una crociata particolare La Quarta crociata, lanciata da Innocenzo III già nei primi anni del suo pontificato, ebbe una storia molto particolare. Una vasta coalizione di grandi aristocratici europei concordò con le autorità di Venezia l’affitto di una grande flotta, che avrebbe fornito il supporto logistico indispensabile per la spedizione verso l’Egitto. Nelle difficoltà organizzative, però, alla data fissata giunse a Venezia un esercito molto più piccolo di quanto programmato, e di certo non in grado di pagare l’enorme costo della flotta allestita nell’arsenale veneziano. Le autorità della Serenissima accettarono di effettuare comunque il trasporto delle truppe crociate, ma con l'accompagnamento del doge in persona, e con l'impegno di sostenere alcune imprese militari collaterali al servizio di Venezia. La prima fu la riconquista di Zara in Dalmazia, già ribellata al dominio veneto. A Zara la spedizione si incontrò con le vicende politiche dell’Impero bizantino. L’obiettivo del giovane Alessio era di spodestare l’omonimo zio e di riprendere la corona di Isacco. Un cambio di vertice a Bisanzio sembrava alle cancellerie europee una buona prospettiva per la causa della crociata, per la possibilità di estendere l'autorità papale verso oriente, per soddisfare le ambizioni dei regni occidentali. La decisione della spedizione crociata, con la benedizione del doge Dandolo, fu allora quella di dirigersi a Costantinopoli, dove in effetti nel 1203 i crociati si accamparono e consentirono al giovane Alessio di spodestare lo zio e diventare imperatore con il nome di Alessio IV. I problemi, tuttavia, restavano gravi, perché il nuovo basileus aveva preso impegni molto gravosi con i crociati, a loro volta indebitati con i Veneziani, e non riusciva a trarre dalle casse dell’impero, da tempo in ristrettezze economiche, le somme necessarie. Dopo alcuni mesi di incertezza Alessio IV venne rovesciato e assassinato da una congiura di palazzo che portò sul trono Alessio V. Alessio V cercò di risolvere il grave imbarazzo con i crociati usando una politica più dura, ma questo scatenò l’ostilità degli occidentali, che nell’aprile 1204 si scatenarono in un selvaggio saccheggio della capitale. Alla fine delle violenze l’esercito di occupazione scelse uno degli aristocratici che avevano preso la croce, Baldovino di Hainaut-Fiandre, come nuovo imperatore di Costantinopoli: iniziava così la stagione dell’Impero latino di Costantinopoli. Costantinopoli subiva un saccheggio per la prima volta nella sua storia a opera di cristiani sacrileghi. Se lo scisma del 1054 era stato un fatto perlopiù di gerarchie ecclesiastiche, che non aveva scavato un abisso tra mondo greco e latino, la ferita insanabile dei fatti del 1204 creò nel cristianesimo greco un senso di sdegno e sfiducia verso l’Occidente che non si sarebbe mai sanato nei secoli successivi. Baldovino acquisì il titolo ma dovette spartire le spoglie della conquista con i suoi invadenti compagni di impresa. Tre ottavi del vecchio territorio imperiale vennero direttamente ceduti a Venezia: oltre al controllo del porto e dell’arsenale di Costantinopoli, si trattava di Creta e di una serie di isole dell’Egeo. L’esito del 1204 fu, insomma, un inserimento delle potenze occidentali molto in profondità nel Mediterraneo orientale e, inoltre, un’estrema frammentazione di quello che era stato il grande dominio bizantino, nonché una destabilizzazione forse irrimediabile degli equilibri geopolitici del Mediterraneo. Degli attori della Quarta crociata, fu di fatto solo la città lagunare a trarre vantaggi duraturi, mentre i nobili latini video, in un modo o nell’altro, indebolirsi i loro possedimenti, soprattutto dal 1261 quando Costantinopoli fu riconquistata da Michele VIII Paleologo, erede del dominio dei Laskaris su Nicea. Nello stesso anno sarebbe rinato l’Impero bizantino e avrebbe cessato di esistere il fragile Impero latino d’Oriente. Solo Venezia sarebbe riuscita a superare con danni limitati la morte dell’impero che aveva contribuito a creare, dovendo subire la temporanea espulsione da Bisanzio e accettando poi la convivenza, non di rado bellicosa, con i Genovesi nel Mediterraneo orientale. 17. I REGNI OCCIDENTALI FINO ALL’INIZIO DEL DUECENTO L’area francese Il disfacimento della parte occidentale dell’Impero carolingio e la proliferazione dei poteri locali avevano portato nei territori dell'antico regno franco a una situazione molto particolare. A partire dal 987 il titolo di re dei Franchi occidentali era stato assunto da Ugo Capeto, membro di una famiglia di grandi aristocratici, i cosiddetti Robertingi. La nascita di figli maschi legittimi per molte generazioni fece sì che i discendenti di Capeto potessero continuare a regnare senza particolari sconvolgimenti per secoli: al dinastia capetingia si sarebbe estinta solo nel 1328. Nonostante questa continuità del titolo, tuttavia, la sostanza del regno era inizialmente molto esigua e fragile. Nel corso del XII secolo le corti di questa monarchi tanto illustre quanto debole vennero risollevate da tre grandi sovrani, che ebbero la fortuna di una permanenza sul trono sempre molto lunga: Luigi VI, Luigi VII e Filippo II detto l’Augusto. Negli anni di Luigi VI furono molto intensi gli scontri militari con le più piccole signorie feudali, con i quali il re riuscì a imporre il proprio controllo sull’ordine pubblico nelle campagne. La ritualità della paci di Dio dell’XI secolo veniva ora ereditata dall’autorità sovrana, e la “pace del re”, imposta con la forza ottenuta per via di accordi, veniva presentata come la garanzia della protezione regia sulla sicurezza dei fedeli e delle chiese. A confermare questa immagine giunse nel 1146 la decisione di Luigi VII di partecipare alla crociata su invito del papa. Nei tre anni di assenza del sovrano le sorti del regno furono rette da un consigliere di grande talento, Sugero, abate dell'abbazia regia di Saint Denis, nei dintorni di Parigi. Negli anni successivi Luigi si dedicò a perfezionare l’amministrazione del demanio, impiegando gli ufficiali periferici o preposti. Soprattutto negli anni Settanta le finanze regie poterono prosperare pure grazie alle quote arrivate dalle città e dai centri mercantili della regione. Filippo II, nei suoi oltre quarant’anni di regno, rappresentò il culmine di questa stagione di crescita. Di fronte all'interlocutore più difficile, l’alta aristocrazia, Filippo giocò di nuovo la carta della crociata, partendo nel 1190 e imponendo alla vassallità maggiore di seguirlo per combattere la causa della fede. Il giovane re poté tornare in patria rivestito dell’autorevolezza dell’impresa: con il vantaggio ulteriore che una parte degli aristocratici al suo seguito non era sopravvissuta, e per giunta i privilegi papali per la crociata gli avevano consentito di rifinire le imposizioni fiscali su laici ed ecclesiastici. Ad aumentare la rispettabilità del re, inoltre, giungeva la retorica e l’efficace cerimoniale liturgico che circondava la sua persona, anche grazie alla diffusione della credenza sui poteri miracolosi di cui soltanto il re poteva disporre per curare alcune malattie della pelle. Filippo fu tra l’altro nel 1194 il fondatore del Trésor des Chartes e di nuovo ai tempi di Filippo risalgono i primi esempi di rendiconti annuali delle finanze del regno. Questi notevoli miglioramenti consentirono a Filippo di disporre delle risorse necessarie a una serie di imprese di primo piano. Negli anni Ottanta il sovrano francese poté annettere la parte settentrionale del ducato d’Aquitania e organizzò una spedizione militare che nel 1204 conquistò la Normandia. Negli anni successivi Filippo raccolse anche i frutti della sanguinosa crociata contro gli albigesi mossa dal papato di Innocenzo III: buona parte dei territori della Linguadoca sottratti al conte di Tolosa entrarono a far parte del demanio regio. L’Inghilterra La storia del regno d’Inghilterra tra XI e XIII secolo è fatto soprattutto di conquiste. Il protagonista della parte iniziale fu Guglielmo duca di Normandia che nel 1066 sconfisse il re anglosassone Aroldo nella battaglia di Hastings. Il duca di Normandia diventava così re d’Inghilterra. In Inghilterra arrivavano le consuetudini culturali e i gusti artistici della Francia del Nord, oltre a figure di collaboratori del sovrano venuti dal continente. Sovrano per diritto di conquista, Guglielmo poté distribuire i territori del nuovo regno secondo un piano per remunerare i grandi aristocratici che lo avevano seguito nell'impresa. La centralità dell’elemento patrimoniale è spiegata dal Domesday Book, completato nel 1087, un registro che contiene la descrizione di tutto il regno, una base preziosa per il re che poteva calcolare quanto dovuto dalle sue terre ma anche misurare le proprietà degli aristocratici dai quali attendeva il debito riconoscimento. Il consolidamento del regno fu turbato però dalle controversi per la successione. Alla morte di Enrico I nel 1135 si aprì una lunga fase di incertezza. L’unica discendente diretta era Matilde, vedova dell’imperatore Enrico V. Il suo secondo marito, Goffredo d’Angiò, un grande feudatario francese, poté ambire al trono ma incontrò un'accanita opposizione dei magnati dell’isola. Nel 1158 il figlio di Goffredo e Matilde, Enrico II Plantageneto, ereditò tutti i domini del padre: l’Inghilterra, la Normandia e la vasta contea d’Angiò; a questi poté aggiungere l’Aquitania, portafogli in dote da Eleonora d’Aquitania, la ex moglie di Luigi VII di Francia con cui contrasse matrimonio nel 1152. Non stupisce quindi che Enrico II, e il suo successore Riccardo, trascorressero gran parte del loro tempo in Normandia o comunque nel continente e non sull'isola, che era la parte più periferica e anche meno salda del loro dominio. Forte di questa posizione di grande favore Enrico condusse, inoltre, una decisa politica di riordino amministrativo volta a impiantare una vera giustizia e fiscalità 18. LA CASA DI SVEVIA E LA PARABOLA DELL’UNIVERSALISMO IMPERIALE Federico I Barbarossa: aspirazioni universalistiche dell’Impero germanico Il 4 marzo 1152 il giovane duca di Svevia, Federico di Hohenstaufen, veniva eletto re di Germania, risolvendo il problema della successione al trono che era sempre segnata dalle rivalità tra la casata dei duchi di Svevia (ghibellini) e la casa di Baviera (guelfi). Il giovane Federico, soprannominato in Italia Barbarossa, risultava gradito a entrambi i fronti perché, pur essendo svevo e nipote dell’imperatore Corrado III, era anche figlio di Giuditta di Baviera. Questa felice congiuntura permise a Federico di tentare di dare piena attuazione alle prospettive politiche imperiali. In Germania lo strumento fu quello della pace territoriale, di fatto un incontro dei grandi aristocratici che si impegnavano con il giuramento al rispetto dell'ordine e della pace, secondo il modello della pax Dei. La pace di Federico, redatta nel 1152 in venti articoli, rappresentava il primo nucleo del diritto dell’imperatore al di sopra delle consuetudini locali. Qualcosa di simile volle fare Federico nella discesa in Italia del 1154, primo di cinque viaggi attraverso le Alpi durante il suo lungo regno. Era indispensabile rinnovare le prerogative sulla penisola italiana, che gli avrebbero consentito di giocare un ruolo da protagonista in un’area cruciale, ora che la proiezione mediterranea dell'Europa andava intensificandosi. Prima di essere incoronato re d’Italia a Monza nel 1155, Federico aveva già indetto a Roncaglia, nei pressi di Piacenza, una dieta, ovvero un’assemblea dei suoi sudditi italiani, dalla nobiltà ai rappresentanti dei comuni. Nella dieta si affermarono gli iura regalia, volgarmente detti “regalie”, emblemi dell’identità dell’imperatore come continuatore della politica imperiale romana. Questo recupero ideologico poteva entrare in conflitto con il papato. Intanto però Federico, recandosi a Roma, assecondava la volontà del pontefice, Adriano IV, rifugiatosi a Tivoli, catturando l’eretico Arnaldo da Brescia. Subito dopo, il 18 giugno 1155, Federico ottenne l’unzione dal pontefice e conseguì il titolo imperiale in una Roma profondamente ostile alle truppe tedesche. L’incoronazione imperiale e il giuramento a essa connesso erano soggette a due letture di ven diverso valore da parte di Adriano IV e di Federico I. Il papa riteneva di aver concesso all’imperatore un beneficio di tipo feudale, mentre Federico considerava l’atto pontificale semplicemente il tramite della volontà divina, l’unica alla quale egli dovesse rispondere delle sue azioni. Non è un caso, infatti, che dal 1158 l’impero della nazione germanica inizierà a essere connotato con l’espressione Sacrum imperium, evidente manifestazione di una sacralità che non aveva bisogno della mediazione papale. Questa reciproca polemica incomprensione avrebbe ben presto prodotto uno scisma: nel 1159, morto Adriano IV, divenne papa Alessandro III, fiero sostenitore della politica ierocratica del papato, cui Federico contrappose un antipapa a lui fedele, Vittore IV, cui sarebbero succeduti altri due antipapi, Pasquale III e Callisto III, producendo una rottura che sarebbe durata fino al 1177. Alessandro III avrebbe così consolidato il ruolo di naturale guida degli oppositori italiani dell’imperatore che, con le iniziative e le decisioni prese durante la seconda Dieta di Roncaglia, avrebbe creato i presupposti definitivi per creare un fronte di comuni a lui ostile. La Dieta di Roncaglia può considerarsi un momento di svolta non solo della politica imperiale, ma anche delle vicende italiane nel loro complesso, a cominciare dai rapporti tra impero e realtà comunali. Il prodotto fondamentale della dieta sarebbe stata la cosiddetta Constitutio de regalibus, una serie dettagliata di rivendicazioni di diritti spettanti all’imperatore in quanto re d'Italia in materia fiscale, ma anche di definizione del suo ruolo di pacificatore e regolatore delle controversie fra i singoli e, soprattutto, le città, contro ogni tentativo di autonoma aggregazione dei comuni tra loro. Dietro la Constitutio de regalibus bisogna in primo luogo riconoscere il contributo decisivo dei grandi giuristi della scuola di diritto dell’Università di Bologna, nel segno di una riscoperta e di una riflessione sistematica e scientifica della tradizione del diritto romano, pienamente recuperato anche grazie all'apporto del mondo bizantino. Veniva così teorizzato il primato del “diritto comune”, frutto dell’incontro tra diritto romano e canonico sopra la molteplicità di diritti locali e consuetudini che si erano andati sviluppando nei secoli precedenti. A tale sistematizzazione dei rapporti di potere, però, faceva da contraltare l'evoluzione storico-politica dell’Italia centro settentrionale, in cui le istituzioni comunali erano ormai abituate a gestire autonomamente la propria politica e la propria fiscalità, in una dipendenza sempre più nominale dalla lontana figura imperiale. Alla luce di tali premesse lo scontro tra l’imperatore e i comuni a lui fedeli e quelli dissidenti sostenuti con interessato vigore da Alessandro III incrinò quasi immediatamente la utopistica pacificazione proclamata a Roncaglia nel segno della sacralità imperiale. L’imperatore marciò contro Milano nel 1162, facendo radere al suolo le mura. Tale drastico atteggiamento, unito a una politica fiscale piuttosto esosa, favorirono il costituirsi di leghe antimperiali. Prima, nel 1164, la Lega Veneta, poi nel 1167 il nucleo fondativo, destinato ad ampliarsi, della Lega Lombarda, con l’appoggio, decisivo ai fini della legittimazione del fronte comunale, di Alessandro III. Nel 1176 si giunse, infine, allo scontro in campo aperto dell’esercito di Federico con quella della lega. A Legnano l’esito della battaglia fu disastroso per Federico, che a quando pare rischiò addirittura di cadere in mano dei nemici. L’imperatore, consapevole che una lotta prolungata non avrebbe prodotto utili risultati, nel 1177 a Venezia stipulò con la lega una tregua di sei anni, suggellata dalla Pace di Costanza del 1183. Federico riconosceva gli iura regalia, che tornavano di pertinenza comunale, e inoltre, aveva ammesso già da tempo la sua sottomissione formale a Alessandro III. Quando il papa bandì la crociata nel 1188 Federico non seppe trattenersi, ma non poté raggiungere la Terrasanta: morì in un incidente guadando un fiume in Cilicia nel 1190. Gli Svevi verso il Mediterraneo tra ascese e cadute Morto Federico I, non veniva tuttavia meno la sua idea sacrale di impero, coerentemente ripresa dal figlio, Enrico VI, presto asceso al soglio imperiale e destinato, peraltro, a giocare molto più intensamente la carta di cun continuativo impegno medietrraneo. Il caso volle che, essendo morto Guglielmo II solo trentaseienne e senza eredi, nel 1189, la corona dovesse passare a Costanza e, di conseguente, a Enrico. La successione sveva sul trono di Sicilia trovà la decisa ostilità delle élite regnicole, soprattutto isolane, che scelsero proprio come sovrano il conte Tancredi di Lecce, nato da un figlio naturale di Ruggero II. Legittimato da papa Clemente III, signore feudale del Regnum, Tancredi fu incoronato re di Sicilia a Palermo nel gennaio 1190. Enrico preparò una spedizione, ma già nei pressi di Napoli fu fermato da un’epidemia. Il giovane imperatore nel 1194 ne avrebbe poi intrapreso una nuova facilitata dalle circostanze contingenti: nello stesso anno, infatti, morì Tancredi, lasciando un figlio in tenera età, sotto la tutela della madre Sibilla, incoronato con il nome di Guglielmo III ma ben presto imprigionato con la madre da Enrico VI, ormai vittorioso, e tradotto in Germania, dove morì. L’imperatore svevo si faceva così incoronare re di Sicilia e Palermo nel Natale del 1194. Enrico morì a Messina, secondo alcune voci indimostrabili avvelenato da Costanza. Lasciava il regno a un figlio di soli 3 anni, Federico. Alla sua morte si contrapposero in Germania il fratello del defunto imperatore, Filippo di Svevia, e Ottone di Brunswick, che si sarebbero contesi per un decennio la corona imperiale. Al piccolo Federico restava il regno di Sicilia, il cui possesso, tuttavia, fu reso più incerto nel 1198 dalla morte della madre Costanza. La sovrana normanna nel testamento nominò tutore del piccolo Federico il papa, Innocenzo III, che perciò sembrava offrire piene garanzie contro un’eventuale ricostituzione dell’enorme impero euro-mediterraneo sul quale Enrico VI aveva regnato per pochissimi anni. Federico si trovò a crescere in un territorio dilaniato dalla lotta fra fazioni, in particolare quella tedesca che sostanzialmente tenne il giovane sovrano in ostaggio, e quella dei musulmani asserragliati in rocche inespugnabili all’interno della Sicilia occidentale, ormai estranei al tessuto sociale di un'isola nella quale non erano più in grado di integrarsi. Nel 1208, anno in cui Federico poteva finalmente essere incoronato re di Sicilia, Innocenzo III concluse le trattative per le nozze tra il giovanissimo sovrano e Costanza, figlia del re di Aragona, prefigurando in tal modo un futuro totalmente mediterraneo per il re di Sicilia con il chiaro obiettivo di spezza uan volta per tutte il legame tra impero e Regnum. Ma la proiezione imperiale verso il Mediterraneo era ormai divenuta una costante, e Ottone di Brunswick nel 1201 entrava nel Regnum e si impadroniva, seppur per un periodo, di Campania e Puglia. La discesa di Ottone in italia, e una condotta ritenuta inaffidabile, indussero Innocenzo III a scomunicare il neo imperatore nel 1211 e a proporre come candidato al titolo imperiale proprio Federico, da lui ritenuto più sicuro e controllabile di Ottone. Federico fu di nuovo eletto re dei Romani nel 1212, mentre nel tentativo di cingere la corona imperiale si diresse avventurosamente in Germania. Qui, con la Bolla di Eger del 1213, con la quale in pratica annullava le prerogative imperiali sancite nel Concordato di Worms, prometteva di tutelare lo Stato pontificio e, quel che più contava per Innocenzo III, di tenere separata la corona imperiale da quella del regno di Sicilia, che sarebbe andata a suo figlio Enrico. Il nuovo progetto imperiale di Federico II di Svevia: l’apogeo Morto nel 1218 Ottone, Federico poté marciare speditamente verso l’incoronazione imperiale, avvenuta il 22 novembre 1220 a Roma per mano del nuovo pontefice, Onorio III. Nel frattempo, nonostante la promessa fatta a Innocenzo III, era chiaro a tutti che Federico intendeva mantenere tanto il titolo imperiale quanto quello di re di Sicilia. Il voto di crociata fu rinnovato proprio in occasione dell’incoronazione imperiale a Roma. Nel dicembre dello stesso anno Federico tornò in Sicilia da trionfatore e con le Assise di Capua revocò tutti i privilegi concessi in precedenza a nobili e città. Questa rinnovata politica verticistica suscitò la reazione di varie componenti della società regnicola, abituata ormai a più di vent’anni di quasi totale autonomia. Federico II dedicò quasi un decennio a stroncare con durezza qualunque forma di opposizione, si impegnò a sradicare sistematicamente i focolai siciliani di opposizione islamica, deportando tutti i musulmani superstiti a Lucera. Nel 1231 Federico II emanava le costituzioni di Melfi: veniva costituito il demanio regio, controllati centralisticamente i castelli, mentre la giustizia veniva esercitata in maniera più coordinata con il potere sovrano attraverso l'istituzione della figura dei giustizieri. La stessa riorganizzazione avveniva in ambito economico-fiscale, con l’istituzione di camerari, portulani e secreti. Questi ultimi erano incaricati di riscuotere una tassa straordinaria deputata a far fronte alle crescenti spese militari (collecta). Federico II volle garantirsi una schiera di burocrati fidati e, per far ciò, nel 1224 fondò l’Università di Napoli, deputata a produrre esperti di diritto filoimperiali, che avessero competenze equiparabili a quelle dei laureati di Bologna. La fondazione dell’università a Napoli consente di sottolineare che Palermo durante tutti gli anni di reggenza di Federico, visse una profonda crisi, di ruolo e soprattutto insediativa. La stessa collocazione dell'università a Napoli, dunque vicino al confine con lo Stato della Chiesa, era il chiaro segno che federico II intendeva riprendere e chiudere una volta per tutte la politica imperiale. Finalmente, nel 1227 Federico II partì da Brindisi verso oriente, ma dovette tornare subito perché il suo esercito fu colpito da un’epidemia. Il pontefice, Gregorio IX, non accettò questa giustificazione e scomunicò l’imperatore che, nel 1228, nonostante ciò, partì daccapo per la crociata. Il pontefice, nel frattempo, disapprovando la conduzione della crociata, inviò un suo esercito a invadere il Regnum: al suo rientro nel 1230 l’imperatore riconquistò le terre perdute e stipulò con Gregorio IX la Pace di San Germano, che comportò anche l’assoluzione dalla scomunica. Nello stesso anno della promulgazione del Liber augustalis l’imperatore dovette fronteggiare la rivolta del figlio primogenito Enrico che, in qualità di re dei Romani, riteneva di poter governare la Germania autonomamente. Fu perciò deposto nel 1235 e imprigionato in Italia fino alla morte nel 1242. Il nuovo progetto imperiale di Federico II di Svevia: il tramonto Dal 1237 inizia l’ultima decisiva fase della vita di Federico II di Svevia: il tentativo, che si sarebbe rivelato esiziale per l’impero, di sottomettere definitivamente ed effettivamente i comuni all’autorità imperiale. Tornato in Italia, affrontò la ricostituita Lega lombarda e la sconfisse a Cortenuova nel novembre 1237. Gregorio IX decise di schierarsi definitivamente con i comuni, per impedire che lo Stato della Chiesa finisse stritolato tra i possedimenti dello svevo e nel 1239 scomunicò nuovamente Federico II. Da questo momento iniziò una lotta tra comuni e papato da una parte, e aristocratici e città fedeli a Federico II dall’altra. Nel 1241 Gregorio IX indisse un concilio per deporre l’imperatore ma questi, presso l’isola d’Elba, catturò le navi che trasportavano molti vescovi a Roma. Dopo il brevissimo pontificato di Celestino IV la sede rimase vacante fino all’elezione di Innocenzo IV, forte oppositore di Federico. Il papa si rifugiò a Lione, dove si tenne nel 1245 il concilio che depose Federico II dalla carica imperiale. Nel 1246 Federico dovette reprimere la rivolta dei nobili a Capaccio, nel Regnum, mentre nel 1248 fu pesantemente sconfitto a Parma, assediata dall’esercito imperiale. Il 13 dicembre 1250 Federico morì a Castel Fiorentino, in Puglia. Con la sua scomparsa venivano meno per sempre l’aspirazione universalistica del Sacro romano impero e, di conseguenza, la sua proiezione mediterranea. Nella su controversa traiettoria politica, Federico II ritenne l’intera penisola Italia il fulcro dell’impero, e in questo senso le recuperò una centralità che sarebbe rimasta ideala, ma che interpretava in maniera molto più coerente di tutte le scelte imperiali passate l’eredità geopolitica dell’Impero romano. Questo elemento risultò evidente sul piano culturale come, seppur retrospettivamente e da un punto di vista ormai anacronisticamente conservatore, ebbe modo di sottolineare Dante nel De vulgari eloquentia: Federico aveva posto le basi per quella curialità della lingua che vide la sua massima espressione nella Scuola poetica siciliana, dalla quale, ma solo con la successiva rielaborazione toscana, sarebbero partite le scaturigini della lingua italiana, che è lingua eminentemente letteraria. era accaduto in Inghilterra, pure qui la resistenza si coagulò nella convocazione del Parlamento, la Cortes di Valladolid del 1282, nelle quali i nobili appoggiarono il principe ribelle Sancio come candidato la regno. Gli ultimi anni di Alfonso furono così guastati dalla ribellione del figlio, che alla sua morte gli successe con il nome di Sancio IV (1284-95). Il vortice italiano La storia dei regni europei conosce dopo il 1250 un fenomeno di fortissima attrazione verso le sorti dell’Italia, che finisce per condizionare profondamente anche le circostanze interne di quegli stessi regni e la loro successiva evoluzione. L’evento centrale in questo senso è la fine della dinastia sveva, con la morte di Federico II nel 1250 e quella di suo figlio Corrado nel 1254. Questa data apriva un doppio vuoto di potere, in Germania e nel Regno di Sicilia, dove il figlio naturale di Federico II, Manfredi, non era stato riconosciuto dal papa. I pontefici furono in effetti i protagonisti di questo vortice politico italiano, perché per entrambe le corone vollero cercare in Europa candidati graditi: in Sicilia in virtù del rapporto vassallatico instaurato al tempo di Roberto il Guiscardo nel 1059, in Germania per il diritto papale di incoronare l'imperatore. Il papa Alessandro IV cercò innanzitutto candidati per una campagna militare in Sicilia, che scacciasse Manfredi per instaurare un regno amico. Il primo individuato nel 1255 fu Edmondo, il figlio del re inglese Enrico III. Il re volle accettare la proposta ma si dovette scontrare con le enormi spese che l’impresa comportava. Il costo gravò soprattutto sulla Chiesa inglese, e comportò, inoltre, la richiesta di contributi straordinari al Parlamento. L’esplosione della crisi che avrebbe portato alle Provvisioni di Oxford del 1258 era in buona parte proprio l’effetto di quest pericoloso sogno mediterraneo del re inglese. Di fronte a simili difficoltà, il papa si risolse a trovare un secondo candidato, nella persona di Carlo d’Angiò, il fratello del re Luigi IX già titolare della contea di Provenza. In questo caso il principe francese fu in grado di riunire un esercito, che dopo alcuni anni giunse a conquistare l’intera Italia meridionale nel 1266. Dagli anni Sessanta in poi la dinastia angioina rappresentò il principale alleato della politica papale non solo in Italia. Nel frattempo il papa era altrettanto impegnato sul fronte imperiale. Per scongiurare la scelta di un candidato poco gradito, il pontefice appoggiò la decisione di alcuni principi tedeschi di eleggere re dei Romani Riccardo di Cornovaglia, il fratello del re inglese, nel 1256. Nel caso della Germania i progetti papali e il coinvolgimento di principi stranieri non ebbero un esito duraturo. Dopo la morte nel 1272 di Riccardo di Cornovaglia, i principi tedeschi accordarono il loro favore a Rodolfo d’Asburgo, che divenne re dei Romani nel 1273. La Germania e i regni orientali All’ascesa al trono di Rodolfo d’Asburgo il panorama dei regni tedeschi era molto diverso da quello delle altre monarchie europee. Il regno di Germania non aveva mai conosciuto un vero principio dinastico, e la fine della successione degli Svevi esaltò l’indipendenza dei grandi principi secolari ed ecclesiastici, che potevano negoziare la scelta di un candidato gradito usando pure l’intervento papale come abbiamo visto. I suoi poteri restavano molto limitati, e agiva più come un coordinatore che come un sovrano. Oltretutto all’intraprendenza dei principi si univa quella delle grandi città. Segnale eloquente di questo carattere mai compiuto dell’impero come regno era l'assenza di un diritto condiviso in tutto il territorio tedesco. La Germania conobbe la redazione di vari codici di consuetudini scritte, ma sempre per singoli principati e non per il regno intero (Specchio dei Sassoni nel 1255 e Specchio degli Svevi nel 1270). L’altro grande evento per l’impero è l’evoluzione verso oriente. Nel 1198 il duca di Boemia era stato riconosciuto come re, ammesso a sedere nella Dieta imperiale con gli altri principi tedeschi. Non faceva parte dell’impero, invece, ma era tradizionalmente legato al mondo germanico per tradizioni e costumi il regno di Ungheria, che fino al 1301 fu retto dalla dinastia degli Arpadi. I sovrani ungheresi ebbero, come molti contemporanei, il problema di gestire i rapporti con l’aristocrazia, e lo risolsero con i sistemi ormai noti. Al di là della politica territoriale, comunque, la Boemia e l’Ungheria, e persino la Polonia, avevano rapporti intensi con il mondo italiano: il papato e la diffusione degli ordini mendicanti, e soprattutto la frequentazione di università italiane come Bologna e Padova, fecero da ponte per simili relazioni. Allo stesso tempo i grandi regni mitteleuropei promossero nel corso del Duecento una grandiosa opera di immigrazione e popolamento verso le regioni più settentrionali e orientali. Una rete di insediamenti e piccole ma vivaci città costruiva il complesso di una società molto variegata per lingue e provenienze etniche. Tra l’Occidente e Bisanzio Il punto di contatto del mondo latino-ermanico con quello greco-bizantino era, come nel passato, la regione dei Balcani. Lo stesso Impero bulgaro, ormai sottomesso a Bisanzio dopo le vittorie di Basilio II, riprese una politica indipendente. Ma il soggetto più significativo fu la Serbia, che conobbe un leader di grande prestigio in Stefano I (1170-96), che seppe approfittare delle incertezze dell’ultima fase della dinastia comnena. Un gesto inaudito fu quello di abdicare al figlio e di farsi monaco, con il nome di Simone, presso il monastero di Vatopedi sul Monte Athos. La fama della sua santità, da subito celebrata come una gloria del regno, produsse un forte consolidamento della fisionomia religiosa e indirettamente politica della Serbia. Il suo successore, Stefano detto il Primo incoronato, si fece riconoscere il titolo di re dal papa nel 1217, con la promessa di portare la Chiesa serba verso l’obbedienza a Roma. In realtà il nuovo regno visse soprattutto nell’influsso religioso, culturale e cerimoniale della tradizione bizantina. I rituali della Chiesa e della corte di Costantinopoli erano un oggetto di imitazione da parte dei re serbi, che adottarono altresì il sistema greco della pronoia per sostenere le aristocrazie militari; per valorizzare l’aristocrazia nella gestione del regno si instaurò, inoltre, una consuetudine di convocazione del sabor, una sorta di Parlamento serbo. I serbi arrivarono a conquistare Skopje e una stretta fascia costiera macedone verso l’Egeo, e in seguito acquisirono Durazzo. Questa espansione fu favorita pure dalla disponibilità di risorse finanziarie, perché nel Duecento il territorio serbo vide lo sfruttamento di ricche miniere di argento e di altri metalli. L’estrazione di questi ultimi, curata normalmente da comunità di immigrati tedeschi (“sassoni”) alimentava un intenso scambio commerciale dall’Adriatico. I commerci si univano così alla politica nel creare legami sempre più stretti tra i regni balcanici e il mondo latino mediterraneo, e a comporre identità sociali composite per provenienza, lingua e tradizioni. 20. IL MONDO CITTADINO NEL XIII E XIV SECOLO Una realtà dinamica e i suoi necessari conflitti All’inizio del Duecento la struttura istituzionale delle città italiane del Centro-Nord era ormai matura, e poteva contare su una forma di autogoverno che univa le competenze tecniche della familia podestarile con la partecipazione delle assemblee consiliari di cittadini. Le tensioni che attraversano le città comunale nel Duecento si possono tuttavia collocare su due livelli diversi. In primo luogo, il XIII secolo è il tempo dell'emersione del cosiddetto populus, che indicava in linea di massima l’organizzazione associativa di una fetta della cittadinanza. Si può qualificare questo nuovo soggetto come espressione dei ceti sociali più dinamici esterni alla milita: uomini delle professioni, in particolare notai, mercanti e imprenditori e una porzione consistente dei ceti dell’artigianato. Talvolta il popolo era espresso dalle corporazioni delle arti e mestieri, ossia da quel mondo variegato composto da decine di organizzazioni professionali; in altri casi, come spesso successo nell’Italia del Nord, l'elemento più attivo erano le associazioni di quartiere, pure a carattere armato, che sorgevano intorno alle chiese cittadine per la difesa dell'ordine pubblico o la gestione della vita pratica della città. Allo stesso tempo l’associazionismo religioso forniva, se non un attore direttamente coinvolto, di sicuro un modello di vita comunitaria, magari sull’esempio e secondo i valori della spiritualità mendicante. Vi erano tra l’altro nelle rivendicazioni delle associazioni popolari alcune questioni politiche ricorrenti che avevano una reale affinità con il mondo religioso. Innanzitutto il tema della pace, della concordia e del pacifico ordine della società. Non si trattava di pacifismo, ma di una modalità di comportamento sociale, che si contrapponeva al costume della violenza come stile di vita proprio della categoria dei milites. Un altro terreno di conflitto era quello della finanza pubblica e dell’uso delle risorse cittadine. Avanzando nel secolo il tema discale divenne sempre più rilevante. Obiettivo dello scontro era l’eliminazione o l’indebolimento dei vecchi privilegi dei milites: le esenzioni fiscali per i combattenti a cavallo, i generosi meccanismi di rimborso delle spese militari, l’accesso privilegiato allo sfruttamento dei beni comuni. I primi esempi di confronto popolo-milites data all’inizio del secolo, e si risolsero spesso in una negoziazione degli spazi di rappresentanza politica: gli accordi di Cremona, MIlano, San Gimignano o Viterbo stabilivano quote di partecipazione dei due gruppi nelle sedi di potere, in particolare nei consigli cittadini. In altri casi la componente popolare fu capace di imporre una vera e propria egemonia politica, presentandosi come una sorta di comune alternativo. Nascevano così i Consigli del popolo, o la figura del capitano del popolo, che sdoppiava le competenze tradizionali del podestà ma con un connotato politico di parte. I conflitti tra milites e popolo non esaurivano la conflittualità politica del tempo. C’era, infatti, un altro livello di spaccatura che coincideva con la presenza di “parti” o “fazioni”. L’ostilità violenta, sovente legata a identità familiari e all’esito di faide o catene di vendette con origini a volte oscure agli stessi protagonisti, era un connotato tipico delle famiglie della militia. Questo elemento finì per essere alimentato anche dalla grande lotta politica che divise l'Italia del Duecento, cioè lo scontro dei papi con Federico II e poi con i suoi successori re di Sicilia. Le fazioni di una città si integravano con quelle dei centri vicini e giocavano nel complicato scacchiere della lotta per il dominio sull’Italia. Si cominciò, quindi, a parlare di uno schema di partiti valido per l’Italia intera, quello che contrapponeva guelfi e ghibellini. I primi si allineavano alla politica dei papi, mentre i secondi trovavano il loro punto di riferimento nella figura di Federico II e poi ne suoi successori in Sicilia, soprattutto Manfredi. Il contenuto ideologico di queste due contrapposizioni non era così nitido: un vero e proprio sistema di pensiero alternativamente guelfo o ghibellino non è mai esistito, oscurato da un turbinoso succedersi di rivalità politiche, progetti di egemonia locali e brutali strumentalizzazioni. Al di là delle connessioni molto fumose a idealità universali, nei vari contesti quelle parole richiamavano una rete di fedeltà o rivalità concretamente ben riconoscibili a livello locale. In linea di massima la logica del conflitto di parte era tipica del mondo dei milites, mentre i ceti sociali popolari ne erano almeno teoricamente estranei. Ma molto presto le stesse istituzioni del popolo finirono coinvolte nelle guerre di fazione: la parte popolare trovava utile appoggiarsi alla fazione prevalente. Le esperienze di poteri personali nell’Italia del Duecento La sanguinosa rete di lotte politiche che animava l’Italia del Duecento fu altresì il contesto per la nascita di regimi politici dominati da figure di leader individuali. La ragione di questo sta anche nelle caratteristiche dei due grandi poteri universali in lotta, l’impero e il papato. Nessuno dei due era in grado di esercitare un dominio politico efficace sui “propri” territori italiani. Di fatto per stendere le mani sulla vita politica delle città italiane sia il papa che l'imperatore avevano bisogno di appoggiarsi su figure fidate in loco. La logica della fazione finiva così per essere anche il senso profondo dell’azione politica del papa e dell’imperatore, e della lotta di fazione si assumeva uno dei criteri, vale a dire la valorizzazione dell’uomo forte. Di figure di questo tipo ne emersero molte nel campo imperiale, tutti personaggi che grazie all’appoggio imperiale e a solide reti di alleanze locali seppero affermarsi come domini, cioè signori riconosciuti
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