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Riassunto "Un Vivaio di Storia - L'Europa nel Mondo Moderno" di Aurelio Musi, Sintesi del corso di Storia Moderna

Riassunto del manuale di storia moderna "Un Vivaio di Storia - L'Europa nel Mondo Moderno" di Aurelio Musi, con appunti del prof. Barbagallo integrati.

Tipologia: Sintesi del corso

2020/2021

In vendita dal 02/07/2021

Chiara7497
Chiara7497 🇮🇹

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Scarica Riassunto "Un Vivaio di Storia - L'Europa nel Mondo Moderno" di Aurelio Musi e più Sintesi del corso in PDF di Storia Moderna solo su Docsity! Caduta dell’Impero Bizantino come inizio della storia moderna Si suole far iniziare la storia moderna dal 1492, data importante per le scoperte geografiche a partire da Cristoforo Colombo, ma anche il 1453 fu una data determinante, perché vide la caduta dell’Impero Bizantino e l’affermazione dell’Impero Ottomano. Ciò determinò infatti la fine dell’osmosi che si era creata tra Oriente ed Occidente. L’Impero Ottomano è espressione di una civiltà orientale e costituisce un blocco territoriale problematico per i regni Occidentali, in particolare al grande complesso asburgico, che si forma attorno al 1516- 19 con la salita al trono dei territori del Sacro Romano Impero, dei regni castigliano-aragonesi e dei regni continentali come Napoli, Sicilia e Sardegna. Cause della caduta dell’Impero Bizantino Alla fine del XIII secolo, la presenza di genovesi e veneziani, volta a controllare i più lontani avamposti lungo le vie di traffico con l’Oriente (Caffa in Crimea, Pama, Trebisonda etc.), aveva impoverito la più ricca città del Bosforo, Costantinopoli, privandola delle sue fonti di ricchezza. Gli arrendamenti per la riscossione dei tributi dell’Impero Bizantino furono monopolizzati da questi mercanti. Nel 1348 le dogane di Pera, comunità vicino Costantinopoli in cui si erano insediati molti genovesi, rendevano alla città ligure 200mila soldi d’oro, mentre Costantinopoli ne percepiva 30mila da tutte le dogane imperiali. Una serie di rapporti di sfruttamento si instaurarono a danno dei territori imperiali. L’Impero infatti disponeva di un corpo di burocrati che potevano attendere alla riscossione delle tasse, e queste venivano vendute agli arrendatori, che le percepivano in nome dell’Imperatore, guadagnandoci. Questo guadagno non veniva speso sul territorio bizantino, ma a Genova e Venezia: si instaura un rapporto di colonialismo in cui le risorse vengono sottratte da un territorio e spese su un altro. L’origine della ricchezza di Genova e Venezia sta proprio in questo fenomeno di colonizzazione. Intanto subentrano altri problemi: le ricchezze dell’Impero Bizantino erano dovute alla capacità di produrre ed esportare seta grezza, la quale veniva perlopiù lavorata in Italia, ed i manufatti venivano venduti nel nord Europa. I mercanti italiani riuscirono a costruire dei setifici propri sperimentando un progressivo aumento e adattamento del baco da seta al clima italiano. Lo sviluppo dell’industria tessile dunque determinò un declino dell’esportazione di semilavorati, sottraendo alla città bizantina l’antico monopolio di quel prodotto. Colonizzazione ed impoverimento economico determinarono la debolezza dell’Impero. Nel frattempo, dal disfacimento dell’Impero Abbaside, si era sviluppata una nuova compagine: quella dei Turchi Selgiuchidi, che dal Turkestan conquistarono Bagdad ed ottennero il titolo di sultani. La riorganizzazione militare imposta dai turchi rivitalizzò l’antico organismo politico musulmano prossimo al disfacimento, ed i nuclei asiatici ricostruirono l’organizzazione statale e religiosa sunnita e gettarono le premesse per imporsi nella regione Medio-Orientale. L’avanzata degli Ottomani fu inarrestabile. Nel 1354 varcarono lo stretto dei Dardanelli, occuparono la penisola Balcanica e nel 1361 assoggettarono Adrianopoli. Nel 1389, con la battaglia di Cosso fecero crollare il regno di Serbia, costruito nel XIII secolo e che aveva influenzato la geopolitica della penisola balcanica, e nel 1393 invasero il regno di Bulgaria mettendo in pericolo i confini dell’Ungheria. Successivamente, il futuro imperatore Gismondo di Ungheria cercò di impedirne l’avanzata, ma fu battuto nella battaglia di Nicolopoli del 1396. Alla fine del XIV secolo la penetrazione ottomana in Occidente fu bloccata da un capotribù di una tribù mongola turchizzata, Tamerluk, che aveva elevato Samarcanda a capitale del suo regno. Tamerluk aveva formato un impero che si estendeva dall’India al Mediterraneo ed al Mar Nero. Lo scontro decisivo tra Tamerlano e le armate ottomane avvenne nel 1402 ad Ankara: gli ottomani subirono una disfatta. Nel 1405, con la morte di Tamerlano si esaurì la fame di conquista che animava i mongoli che, privi di una struttura di governo, non riuscirono a bloccare il processo di disgregazione della struttura dell’Impero. Nel 1421, con Murad II, gli ottomani ripresero l’espansione verso l’Europa. Giovanni il Paleologo, Imperatore Bizantino, tentò una strategia di opposizione attraverso relazioni diplomatiche con l’occidente cristiano per formare un argine all’avanzata ottomana. Sperava di risollevare le sorti bizantine con gli aiuti degli eserciti europei e nel 1438 si recò in Italia. Poteva offrire in cambio di protezione solo la sottomissione della chiesa di Costantinopoli al Papa di Roma, azione che in precedenza sarebbe stata sacrilega. I cittadini di Costantinopoli non erano d’accordo con la scelta del sovrano e molti si sostenevano pronti a morire sotto i nemici piuttosto che sottomettersi ai cattolici. Malgrado l’ostilità dei popoli bizantini, l’unione fu proclamata ugualmente durante un Concilio a Firenze del 1439. Si presentarono però altri ostacoli: la debolezza degli stati europei, che versavano in un clima ricco di tensioni e di guerre civili. Inghilterra e Francia uscivano indebolite dalla Guerra dei Cent’anni che si era protratta dal 1337 al 1453 con una pausa dal 1380 al 1415. Intanto in Francia vi erano contrasti e crisi dell’autorità regia seguita dalla morte di Carlo V. alla morte del dodicenne Carlo VI si costituirono due fazioni: quella retta dal fratello del re Luigi d’Orléans, e quella guidata dallo zio, il Duca di Borgogna Filippo l’Ardito, e dal figlio Giovanni Senza Paura. Questi principi esercitavano il potere su vasti domini di forte autonomia, ottenuti in feudo dalla Corona. Nel 1407 l’uccisione per mano dei sicari di Luigi portò il paese alla guerra civile, nella quale si affrontavano i Borgognoli da una parte, gli Orlanisti dall’altra, o Armagnacchi, dal Conte di Armagnac che subentrò a Luigi. Il conflitto si rivelò aspro, si protrasse per decenni, e consentì ad Enrico V di Inghilterra, esortato da Giovanni di Borgogna, di inserirsi nelle ostilità, dando il via alla seconda fase della Guerra dei Cent’anni. L’Inghilterra era dilaniata dalla Guerra delle Due Rose, dal 1455 al 1485, che vide fronteggiarsi due casate: York e Tudor da un lato (rosa bianca) e Lancaster dall’altro (rosa rossa). La crisi ebbe inizio durante il fiacco regno di Enrico VI di Lancaster, si protrasse sotto Riccardo di York ed i suoi discendenti, e si concluse con l’ascesa al trono di Enrico VII Tudor. Nel Sacro Romano Impero invece si verificò una profonda crisi dell’autorità imperiale che, tra la fine del XIII secolo e l’inizio del XIV secolo, lasciò campo libero alle città ed in particolar modo ai principati ed alle nobiltà territoriali. La Dichiarazione di Rhens del 1338 stabilì che ai principi spettasse la designazione del re di Germania e l’imposizione automatica della dignità imperiale. L’incoronazione pontificia assumeva così un valore simbolico. Ciò rafforzò le autorità e le prerogative dei principi tedeschi, ottenendo la potestà di scegliere l’Imperatore. Nel 1346 i cinque principi elettori detronizzarono Ludovico di Baviera ed elessero Carlo IV di Boemia, che formulò la bolla d’oro nel 1356 in cui si conferiva al re di Germania il titolo imperiale. Nella Bolla d’Oro si accordava il diritto di eleggere il re a 7 principi, detti principi elettori, i quali, nei loro territori, assunsero pieni ed assoluti poteri, come piccoli sovrani. Questi elettori erano: re di Boemia, margravio di Brandeburgo, Duca di Sassonia, Conte Palatino e gli Arcivescovi di Colonia, Treviri e Magonza. Nello Stato Pontificio nel XIV secolo si era delineato un movimento di opposizione ai sostenitori della pienezza dei poteri del papa. Marsiglio da Padova, nel Defensor Pacis, scritto nel 1324, sostenne che la fonte della sovranità doveva essere rintracciata nel popolo, il quale si sarebbe potuto esprimere nel Concilio convocato eventualmente anche dall’Imperatore, in quanto suprema autorità incivile. Guglielmo d’Ockam affermò che il Papa doveva sottostare alla Dea Chiesa, costituita da tutti i fedeli; inoltre teorizzò l’intervento legittimo dei sovrani nel rispetto delle gerarchie ecclesiastiche quando queste venissero meno ai doveri religiosi. Le ambizioni del movimento conciliarista si radicarono all’interno della Chiesa cattolica, e divennero prassi con il Concilio di Costanza. Sigismondo, re di Germania e futuro imperatore, fu il maggior artefice della sua convocazione: persuase Giovanni XXIII a convocare l’assemblea ecumenica e scelse il luogo della città Costanza, città imperiale posta sotto la diretta tutela del sovrano. Il concilio ebbe inizio il 5 novembre del 1414: l’assemblea depose Giovanni XXIII che fuggì da Costanza ed i Padri approvarono un decreto del 6 aprile del 1415 in cui si sosteneva che il Concilio derivava la sua autorità direttamente da Cristo e che il Papa, nelle questioni teologiche ed in quelle riguardanti la riforma e l’unione della Chiesa, doveva essere sottoposto ad esso. Sotto il papato di Eugenio IV fu riunito il Concilio di Basilea, nel quale il conflitto tra conciliaristi e Papa assunse toni aspri: il papa fu condotto a trasferire i lavori dell’assemblea a Ferrara, i Padri conciliaristi si opposero e non abbandonarono Basilea, anzi, sottoposero il Papa ad un processo che sancì la deposizione di Eugenio IV e l’elezione, nel novembre del 1439 di Felice V Amedeo VIII Duca di Savoia. Le divisioni tra i Padri Conciliaristi e la diffidenza verso le posizioni più estreme indussero gli ecclesiastici a favorire una restaurazione del governo della Chiesa unitario ed efficace. Anche dottori ed autorevoli membri della Chiesa, sostenitori delle teorie conciliariste, aderirono alle posizioni romane, e tra gli altri Niccolò da Cusa e l’umanista Enea Silvio Piccolomini, poi pontefice con il nome di Pio II. Anche la Chiesa dunque evidenziava debolezze interne e non poteva sostenere l’assalto ottomano nei territori dell’Impero Bizantino. La Repubblica di Venezia poteva costituire l’unica forza in grado di contrapporsi agli Ottomani. Essa infatti disponeva di una flotta e di una rete di fortificazioni disseminate dal Zara al Mar Egeo. Tuttavia, la politica estera del Doge Francesco Foscari per imporre il predominio veneziano sulla terraferma contro le pretese del Duca di Milano Filippo Maria Visconti, produssero sperpero di capitali e uomini e ridusse la capacità di reazione e di radicamento della Repubblica nell’Oriente Bizantino. Nel 1444, l’esercito di Murad II mise in fuga, nella battaglia di Varna, un’armata di Serbi, Ungheresi e Polacchi. Nello scontro perì anche il re di Polonia Ladislao III. Nel 1453 il sultano turco Maometto II assediò per terra e per mare la capitale Costantinopoli. Il 29 maggio del 1453 Costantinopoli capitolò. Costantino XI, ultimo imperatore bizantino, non poté contrapporre un esercito Cristoforo Colombo Grazie alla supremazia nei mari consolidata dagli Europei nel XV e XVI secolo, ottenuta attraverso l’affidamento della cantieristica navale che realizzò un’imbarcazione tecnologicamente avanzata, come la Caravella, e grazie ai progressi delle tecniche di navigazione, si alimentò un clima di attrazione verso l’ignoto e di curiosità nei confronti delle civiltà sconosciute. Queste condizioni importanti però si inserirono in un panorama influenzato da condizioni politico-economiche ben precise. La relazione delle grandi monarchie nazionali e la costituzione di eserciti di massa, la formazione di una amministrazione complessa e articolata e la pressione militare degli Ottomani, misero gli europei nella condizione di congegnare un sistema di prelievo fiscale e di individuare le risorse e le ricchezze necessarie per la salvaguardia di un’organizzazione statale e di eserciti efficienti. Attraverso una politica di potenza, gli Stati Europei avrebbero potuto assicurarsi i proventi delle miniere d’oro e d’argento e dei traffici marittimi. Per i contemporanei di Colombo il termine scoperta significava entrare in contatto con terre sconosciute, convertire al Cristianesimo popoli pagani, cercare tesori ed avere possibilità di immettere sul mercato nuovi prodotti e nuove merci. Complesso era anche il significato di conquista: non si conosceva altra forma di rapporto con civiltà sconosciute, civiltà che fuoriuscivano dai confini di una comunità di valori, mentalità, linguaggi e forme di comunicazione simili, e che soprattutto professava un’unica religione, quella Cristiana. In questo clima maturò la scelta di Cristoforo Colombo di raggiungere l’Oriente navigando verso Occidente. Egli riprese un progetto presentato al re portoghese da uno studioso fiorentino, Paolo dal Pozzo Toscanelli, il quale sosteneva che per raggiungere l’Oriente la rotta più breve fosse quella di navigare in direzione Ovest lungo il parallelo di Lisbona. Il viaggio avrebbe dovuto stabilire i contatti commerciali con le Indie attraverso il mare. Se non si fosse sottoscritto il trattato di Alcasovas, i sovrani spagnoli non avrebbero mai finanziato il progetto di Cristoforo Colombo. Alla base del progetto però c’era un errore: la sottovalutazione della dimensione del raggio terrestre finì per tracciare un’ampiezza delle distanze tra le due coste (Europea ed Asiatica) minore di quella effettiva. Il viaggio di Colombo avrebbe dovuto stabilire i contatti con le Indie, ma l’impresa non si sarebbe potuta realizzare se tra le due sponde non ci fosse stato un altro continente. In un suo libro del 1828, La vita dei viaggi di Cristoforo Colombo, Washington Irving affermò la falsa immagine di un Colombo come unico sostenitore della teoria di una Terra rotonda contro l’ideologia medievale che la voleva piatta. In realtà i forti contrasti che Colombo trovò derivavano dal fatto che la rotta veniva considerata troppo ampia per essere fattibile. Infatti, nonostante la convinzione che Colombo fosse l’unico ad asserire la sfericità della Terra, questa nozione era invece diffusa negli ambienti colti del Basso Medioevo, come San Tommaso d’Aquino e Dante Alighieri. Nell’antichità, infatti, gli studi del settore astronomico-matematico ellenistico asserivano già che la Terra fosse rotonda, ed Eratostene da Cirene ne aveva accuratamente misurato il raggio. Queste ricerche, con uno sbaglio di appena il 5% rispetto al reale, erano state riprese e perfezionate dagli scienziati musulmani che avevano prima tradotto e poi approfondito quei testi. La valutazione delle distanze effettuate da Colombo erano errate, mentre quelle dei suoi oppositori erano corrette. Colombo valutava di appena 4400 km la distanza tra Isole Canarie e Costa Asiatiche, un calcolo cinque volte più piccolo di quello reale. Colombo presentò dunque il piano a Giovanni II in Portogallo, ma le perplessità sulla fondatezza del progetto e la difficoltà di investire energie al di fuori della strategia africana lo indussero a scartarlo. Ottenne però il sostegno della regina Isabella di Castiglia che, con la Capitolazione di Santa Fé, firmata il 17 aprile del 1492, insignì Colombo con il titolo di ammiraglio, viceré e governatore delle terre eventualmente scoperte. L’esplorazione, finanziata anche da alcuni banchieri fiorentini, prese il largo con tre caravelle: Santa Maria di 200 tonnellate comandata da Colombo, la Pinta di 140 tonnellate comandata da Martìn Alonso Pinzon e la Nina di 100 tonnellate comandata dal fratello di Martìn, Yanez Pinzòn. Il primo viaggio di Colombo iniziò il 3 agosto del 1492, partendo da Saltes, nei pressi di Palos, situata su Rio Tinto. Gli uomini di Colombo avvistarono terra il 12 ottobre del 1492. Non si trattava né di Catai (China), né di Chipango (Giappone), come immaginava il navigatore genovese. Verosimilmente si trattava dell’isola di Watling, nelle Bahamas, chiamata Guanahani dagli indigeni. Nel medioevo, il libro di Marco Polo, che aveva dettato il suo soggiorno in China, ne aveva descritto con dovizia i particolari dell’impero, ed il racconto ebbe successo, tanto da suscitare interesse per quelle terre. Il viaggio di Colombo costituisce un evento importante, un’impresa rilevante, ed al suo ritorno il 15 marzo del 1493 fu ricevuto con rispetto, riconoscenze etc. Il secondo viaggio fu intrapreso da Calice il 23 settembre 1493, con 17 navi ed un grande equipaggio, in cui vi era il figlio Diego ed il fratello Giacomo. Fece ritorno l’11 giugno 1496 con un solo piccolo carico di schiavi, impresa che deluse le aspettative. Il terzo viaggio iniziò il 30 maggio 1498 e rientrò in Spagna nel settembre del 1500 con un cospicuo bottino e la scoperta di altre terre. Intanto la gestione della conquista si fa difficile ed a Santo Domingo, base più importante del nuovo mondo, sorgono disordini, epidemie e violenze. Colombo, in una situazione di precaria amministrazione, viene accusato di corruzione e di conseguenza incarcerato per ordine della Corte, nel 1500 viene inviato in catene in Spagna. Isabella intervenne e lo liberò, gli affidò una terza spedizione che ebbe inizio l’11 maggio del 1502 e si concluse il 7 novembre del 1504. Cristoforo Colombo creò il presupposto per avviare una colonizzazione di un nuovo continente che successivamente fu chiamato America, di cui non si conosceva ancora l’esistenza. Recentemente però alcuni indizi fecero pensare che già i vichinghi erano sbarcati sulle coste americane. Già dopo la prima spedizione di Cristoforo Colombo, però, sorsero i primi problemi. La separazione delle zone di influenza tra Spagna e Portogallo, a suo tempo sottoscritta dal trattato di Alcasovas, non era congruente con la nuova situazione politica consolidata sui nuovi territori. Ne 1493 queste incertezze indussero la Spagna a far pressioni sul papa Alessandro VI per assicurarsi il controllo politico su tutte le terre d’Occidente. Il riconoscimento di tali diritti avvenne con l’emanazione nello stesso anno delle Bolle Inter Caetera. Il Portogallo le contestò, affermando che con l’applicazione dei principi contenuti gli si precludevano tutti i diritti sulle terre d’Oriente. Si aprì, tra i due Stati iberici, una nuova stagione di negoziazione e di iniziative che condussero alla sottoscrizione, il 7 giugno 1494, del trattato di Tordesillas che disciplinava le reciproche sfere di espansione: l’Oceano Atlantico fu diviso da un meridiano, chiamato La Raya e distante 370 leghe dalle isole di Capoverde, mentre nelle Bolle Inter Caetera avevano fissato una distanza di sole 100 leghe; la Spagna poteva esercitare i suoi diritti su tutte le terre ad Occidente del meridiano, mentre il Portogallo ad Oriente. Il fatto che questo meridiano fosse stato spostato più ad Ovest ha fatto pensare che ben prima dell’ufficializzazione della loro scoperta i portoghesi conoscessero l’esistenza di quelle terre che furono chiamate Brasile, e che in virtù del trattato, una volta scoperte, ricaddero sotto la sfera d’influenza portoghese. La colonizzazione spinse i due Stati a formare due imperi diversi: il regno Castigliano-Aragonese organizzò un impero territoriale nell’America Meridionale, sebbene il progetto dei due sovrani fosse quello di creare un impero Euro-Africano; il Portogallo costituì un impero che molti storici chiamarono “impero anomalo”, formato da una serie di punti d’appoggio per controllare il commercio delle spezie d’Oriente. Controllavano così in Africa della Sierra Leone i territori del Congo, dove intrattennero soprattutto il commercio degli schiavi, crearono colonie nelle Azzorre, a Madera ed a Capoverde e successivamente costruirono un sistema coloniale simile a quello Castigliano-Aragonese nel Brasile. Sistema Imperiale Portoghese La politica coloniale portoghese, dunque, non realizzò l’annessione di immensi territori che non avrebbe potuto dominare, ma organizzò un grande sistema di fortezze ed approdi navali per raggiungere l’Oriente. Era un’imponente via di comunicazione che partiva da Lisbona e arrivava fino al Giappone, passando da Africa, India, Siria, Kantò e Macao. Questo enorme complesso commerciale aveva il suo centro in una città indiana, Goa, posta lungo le rive del mar Arabico. Dopo l’avventura di Colombo ed il trattato di Tordelillas vanno disegnandosi le prime due direttrici portoghesi: le vie delle Indie Orientali e la scoperta e conquista del Brasile. Tra 1497 e 1519 il Portogallo prosegue con le spedizioni ed all’inizio del Cinquecento il suo impero comprende tre nuclei: una vasta area dell’Africa dalla Sierra Leone al Congo, le colonie agricole Azzorre, Madera e Capo Verde, e l’Estado da India. La sua risorsa più importante è il commercio delle spezie. Attraverso la Casa da India la colonia Portoghese ne possiede il monopolio, ma non è in grado di gestire la distribuzione dei prodotti. Lisbona rappresenta una stazione di transito, ma il vero centro del commercio è Anversa. Impegnati nel conseguimento dell’egemonia su rotte marittime dell’Oceano Indiano, i portoghesi si scontrarono con gli egiziani nel 1509 nella battaglia navale di Diu. Gli egiziani erano appoggiati dai veneziani; navi genovesi e veneziane sbarcavano a Diu per caricare spezie, che arrivavano attraverso vie carovaniere interne che partivano dall’India, attraversavano i territori a dorso di Mulo, per un breve tratto percorrevano il Mar Arabico e giungevano nei porti orientali del Mediterraneo. Veneziani e genovesi, dunque, si approvvigionavano di spezie. I portoghesi invece partivano da Lisbona, doppiavano il Capo di Buona Speranza, sbarcavano a Goa e da lì si rifornivano di spezie. I due traffici potevano convivere, se non fosse stato per la politica aggressiva dei portoghesi nel controllare gli snodi commerciali che si svilupparono nell’Oceano Indiano. Davanti a questo atteggiamento portoghese, gli egiziani reagirono con una battaglia in cui furono sconfitti. Anche il Portogallo, come la Spagna, per lo sfruttamento delle colonie applicò il sistema del monopolio sotto la direzione dello Stato. Le compagnie commerciali che controllavano i traffici con l’Asia e l’Africa si chiamavano Casa de India, Casa de Guinea, Casa de Nina, mentre il commercio controllato in America veniva regolato dalla Casa della Contrattacion della Spagna. Le scoperte aprirono l’Europa al mondo ed il mondo conobbe l’Europa nei suoi molteplici aspetti. Fu la civiltà europea a liberarsi dai confini ristretti in un Mediterraneo Oceano per conquistare gli Oceani ormai pronti a condizionare ed a determinare una decadenza dei traffici più ristretti del Mediterraneo. Si possono dunque individuare due epoche che contraddistinguono l’età delle scoperte geografiche: • 1492-1519, periodo caratterizzato dall’età dell’esplorazione; • 1519-1540, età della conquista. Età della conquista Nel 1519 sbarcò in Messico un gruppo di soldati comandati da Hernàn Cortés, composto da 400 militari. Cortés era un uomo astuto, privo di scrupoli che seppe sfruttare i contrasti interni all’Impero Azteco per rafforzare le sue truppe, reclutando i guerrieri delle popolazioni sottomesse agli Aztechi. Attraversò allora l’interno del paese e conquistò la capitale Tenochtitlàn, oggi Città del Messico, catturando l’Imperatore Montezuma e giustiziandolo. Fu così astuto che, per paura che davanti alle prime difficoltà gli uomini potessero destituirlo ed accordarsi per tornare indietro, bruciò le navi che li aveva accompagnati. La crudeltà ed il duro atteggiamento verso ogni tentativo di rivolta e la superiorità tecnologica degli armamenti convinsero gli indigeni che gli spagnoli non potevano essere sconfitti. Nel 1522 Cortéz fu nominato dal re di Spagna Carlo V imperatore della nuova Spagna. Altri due spagnoli, Diego de Almagro e Francisco Pizzaro, nello stesso 1522 intrapresero una spedizione contro l’Impero degli Incas, in Perù. L’invasione produsse stragi, devastazioni, crudeltà, le popolazioni sconfitte furono ridotte in schiavitù, i conquistatori catturarono l‘imperatore Atahualpa e pretesero la sua liberazione dietro la corresponsione di una gigantesca quantità d’oro, ottenuto il quale, giustiziarono ugualmente l’imperatore. Nel 1533 fu assoggettata la capitale inca Cuzco. Le armi dei conquistatori erano tecnologicamente più avanzate, si trattava di armi da fuoco leggere e pesanti, spade d’acciaio, balestre, cani feroci addestrati alla guerra e cavalli. Nonostante tutto, la superiorità militare non poteva costituire da sola una motivazione sufficiente al successo. A favore degli invasori agirono anche alcune circostanze politiche: le popolazioni assoggettate dagli aztechi e dai maya si ribellarono e stabilirono alleanze con i nuovi e più potenti padroni. Queste circostanze però non si verificarono nel corso della conquista del Cile Meridionale, dell’Argentina e del Messico Settentrionale. In queste regioni la popolazione indigena era compatta e solidale, ed organizzò una resistenza efficace allo straniero ed una difesa che durò fino ai primi decenni del nostro secolo. Tuttavia, Octavio Paz scrive che per le popolazioni indigene del continente americano la ragione della loro sconfitta va cercata non tanto nella loro inferiorità tecnica, quanto nella loro solitudine storica. Strumenti della colonizzazione spagnola L’occupazione operata dagli Europei provocò nelle Americhe la diffusione di virus e malattie sconosciute, contro le quali gli indigeni non avevano cure: si trattava di vaiolo, peste, influenze, morbilli etc. Queste patologie determinarono traumi biologici, uno shock microbico che produsse terribili flagelli. Lo sfruttamento e le incerte condizioni di vita degli indigeni determinarono un calo demografico mai verificato nella storia: tra 1492 e 1620 gli abitanti del Messico scesero da 25milioni circa ad appena 2milioni. Questi territori entrarono a far parte di complessi imperiali costituiti da regni europei e vennero controllati attraverso quelle istituzioni modellate secondo i caratteri propri del regime feudale. Il problema della colonizzazione fu l’organizzazione della conquista, il rapporto fra pubblico e privato. I tre principi fondamentali che avrebbero dovuto condurre alla costruzione dell’impero, ed a cui dunque doveva rispondere la colonizzazione, erano: • Affermare la sovranità in quegli spazi; • Stabilire il contributo finanziario che le popolazioni di quegli spazi dovevano apportare; • Programma di evangelizzazione che doveva essere intrapreso. nuovi territori. Lo sconvolgimento anche della coscienza europea rappresentò l’occasione per una trasformazione profonda delle strutture e degli equilibri fino ad allora consolidati. Il trattato di Nimega rivelò l’esaurimento delle ideologie solenni degli imperi continentali; tuttavia indicò la possibilità di nuovi percorsi segnati da un pragmatismo corrispondente alla dinamicità delle grandi potenze commerciali, più propense ad avvantaggiarsi della circolarità dei rapporti socio-economici e culturali in uno spazio composito e articolato. L’Europa dunque si dispose alla implicazione di un sistema economico internazionale capace di rimodellare le organizzazioni sociali esistenti. Il percorso ancora inedito risultò vantaggioso laddove si affermò una cultura maggiormente permeabile allo scambio, alla tolleranza, alla inclusione. I diversi assetti che richiesero il rafforzamento dei poteri dello Stato si erano affermati in Inghilterra con Carlo I, in Francia con Richelieu, in Spagna con Olivares, ma ciò non significa che nuovi impulsi poterono fornire risposte vincenti rispetto alle sfide che i nuovi scenari socioeconomici proiettavano in un contesto internazionale. Nessuno dei protagonisti di quel tempo affermò realmente la sfida principale. La vecchia Europa si era strutturata attraverso un sistema economico caratterizzato da una decisa segmentazione dei mercati. È ciò che avviene nel corso delle esplorazioni geografiche. In seguito, grazie all’apertura ed all’intensificazione degli scambi lungo nuove rotte commerciali, fu necessario individuare le giuste modalità atte a favorire il percorso di integrazione di quei mercati. Le guerre poterono solo rimandare il problema. Si dovette attendere l’implosione dell’Impero spagnolo, il ripiegamento delle velleità assolutistiche degli Stuart (I rivoluzione inglese) e l’esplosione rivoluzionaria della Francia, per individuare percorsi alternativi in grado di condurre alla risoluzione delle problematiche che si ripresentarono sino alla fine del XIX secolo. Si potrebbe sostenere che, se in Spagna l’Olivares non poté portare a termine il suo disegno assolutistico e di accentramento del potere, l’impresa invece riuscì a Napoleone: proprio la Francia, con la formazione dello Stato amministrativo, consegnò il più fulgido esempio di accentramento dei poteri, ma il nodo essenziale rimase insoluto, ed il risultato fu sempre il medesimo, ovvero la crisi di un regime politico. La modernità dunque si gioca sulla capacità di integrare questi mercati e nessuno ci riesce. Vi è dunque un contrasto tra l’implementare una protettiva politica imperiale e terrigena o riuscire ad integrare questi mercati segmentati; il problema insoluto sta proprio nel governo del processo di globalizzazione che le scoperte geografiche avviarono. Lo Stato Moderno I cambiamenti dei rapporti della vita associativa sono intrisi di significati politici, perché l’azione dell’uomo ha una valenza essenzialmente politica. I mutamenti della struttura politica fanno dello Stato la nuova forma di organizzazione politica interna e internazionale. Il sistema europeo degli Stati è il nuovo ordine che si impone nel nuovo sistema dei rapporti con l’Occidente. I mutamenti dell’economia e della società sono tali che la rivoluzione dei prezzi non può essere considerata un fenomeno puramente monetario. A partire dalla prima metà del 500 già si rendono evidenti le diverse velocità delle economie europee e la formazione di economie centrali e di economie fortemente dipendenti. Potere, onore, denaro, vecchi e nuovi valori costituiscono il cemento di vecchie e nuove stratificazioni che contribuiscono a creare una società fortemente gerarchizzata. Analizzato in tutti questi aspetti, il periodo Rinascimentale, nella sua fase matura, può essere considerato un’unità storica in cui sono riconoscibili alcune tendenze generali fondamentali delle società europee e in cui le differenti forme dello svolgimento storico trovano un momento di chiarificazione proprio nel senso fornito dalla nozione “Rinascimento”. Quasi tutti gli Stati Europei, dai più piccoli Stati regionali ai più grandi come l’Impero Spagnolo, che si estende oltre l’Oceano, hanno un’organizzazione politica simile: al vertice il sovrano, unico titolare del potere che proviene direttamente da Dio, giudice supremo e legislatore; viene assistito nella sua attività di governo da un Consiglio del Re, il cui nome varia a seconda dei regni ma l’impianto è sostanzialmente lo stesso; un insieme di organismi, invece, amministra i diversi settori dello Stato e da essi dipendono anche le istituzioni periferiche. Si conservano dunque gli organi rappresentativi dei diversi ceti: nobiltà, clero, città. In alcuni Stati però il clero non ha rappresentanza autonoma. Inoltre, si costituiscono rappresentanze diplomatiche stabili negli Stati esteri. Questo tipo di Stato è definito Moderno, perché presenta elementi nuovi rispetto alle organizzazioni politiche militari: tasse imposte in modo più o meno uniforme in tutto il territorio statale, un esercito professionale, una burocrazia più o meno permanente ed un sistema di leggi valido sull’intero territorio. Ma l’elemento più importante, la novità è la divisione tra la titolarità del potere spettante al sovrano ed il suo esercizio affidato all’amministrazione. Questi caratteri si formano in un lungo periodo storico: dal 400 alla seconda metà del 600. Sono la risposta politica ed organizzativa degli Stati ai problemi più importanti che essi devono affrontare in questo periodo, quali guerre, esigenze finanziarie, ordine pubblico, controllo di territori più o meno grandi che non può essere affidato alle forze limitate dei sovrani. Si tratta di una forma molto differente rispetto a quella affermatasi due o tre secoli dopo: i poteri legislativo, esecutivo e giurisdizionale non sono ancora distinti; c’è confusione tra le competenze dei diversi uffici e gli ufficiali, i pubblici funzionali, non svolgono la professione a tempo pieno, sono stipendiati dallo Stato ma sono servitori del re, e dunque sono legati ad un vincolo personale con il sovrano e non solo assunti attraverso regolari concorsi pubblici. I confini tra pubblico e privato, dunque, sono ancora confusi, e non è ancora affermata nel senso comune la nozione di “Stato impersonale”; inoltre, non esiste solo la pubblica amministrazione che esercita la giustizia, riscuote le tasse e governa il territorio, ma è uno Stato in cui esistono molti privilegi e molte realtà, come la Chiesa e la nobiltà feudale, che hanno tribunali, separati da quelli dello Stato, che impongono tasse. La formula di “Stato rinascimentale” contiene, secondo lo storico Chabod, “il distacco della sovranità da vecchie basi popolari e territoriali, una crescente invadenza del potere centralizzato nella vita civile tramite il fiso ed il diritto, una molteplicità di giurisdizioni.” Lo Stato moderno centralizzato va considerato non come un regime realizzato, ma come una tendenza, una fase di passaggio da vecchi a nuovi equilibri politici. Le funzioni ed i caratteri indicati sono comuni a tutta l’Europa, ma i tempi ed i modi di sviluppo dello Stato moderno variano da Stato a Stato e dipendono da fattori come le lotte dinastiche, il rapporto tra principi e ceti, il grado e la qualità del coinvolgimento dei gruppi sociali e l’esercizio del potere statale. Stato francese L’unificazione geopolitica della Francia è un processo che, attuatosi in gran parte a spese di una potenza feudale come quella borgognona, esemplifica anche i termini dello scontro internazionale e la superiorità di un sistema di potere non più fondato su antichi rapporti cavallereschi, ma sui più moderni principi di sovranità monarchica, vera garante dell’unità dei territori. Il re in Francia è una figura al vertice del sistema politico, ma questo potere ha ancora alcune caratteristiche feudali: come capo di una gerarchia di vassalli, conserva l’idea di un legame personale e contrattuale con la nazione. Le province di Francia hanno un sistema di rappresentanza autonomo ma le prerogative del re tendono verso l’affermazione assoluta: tutti i decreti legislativi sono redatti in nome del re. Tuttavia, le province di Normandia, Borgogna, Provenza, Delfinato e Linguadoca mantengono istituzioni proprie, mentre il territorio dell’antica lingua d’oil è sotto la giurisdizione del Parlamento di Parigi. Per quanto riguarda il sistema di governo, vi è al vertice il Consiglio del Re, formato dai grandi dignitari, dagli ufficiali della Corona, un consiglio di impronta medievale. Sotto Francesco I lo strumento reale di governo sarà il Consiglio degli Affari, un consiglio segreto, ristretto, formato da pochi consiglieri intimi del re. Le province erano divise in distretti amministrativi, i baillages, su cui i funzionari itineranti esercitavano poteri tanto ampi da rappresentare un’incarnazione della stessa regalità. Con il tempo i poteri subirono una progressiva specializzazione: si formava così un corpo di funzionari che avrebbero costituito la spina dorsale dell’amministrazione centrale francese moderna. I maitres des requetes sono poi utilizzati al re come suoi fedelissimi commissari destinati a percorrere ed ispezionare le province. Al progetto francese di massima centralizzazione corrisponde la tendenza dei ceti a sviluppare un grado assai elevato di rappresentanza e resistenza. Si formano così gli Stati Generali¸ un’assemblea dei rappresentanti dell’intera comunità francese, la cui attribuzione principale è il voto delle imposte, ma esercitano anche una forte opposizione politica. Come contraltare si convocano le Assemblee dei Notabili, membri individualmente chiamati dal re. Sono comunque i Parlamenti ad esercitare la maggior rappresentanza e resistenza, e sono le maggiori istituzioni giudiziarie che registrano le ordinanze reali, e dunque possono bloccarle se giudicate imperfette. Da ciò emerge la natura del conflitto tra re e Parlamenti. La Corona dunque darà sempre il suo sostegno ai ceti emergenti e ne solleciterà lo sviluppo attraverso l’espansione dell’apparato burocratico. Monarchia inglese La monarchia inglese aveva consolidato il suo potere a seguito della guerra delle Due Rose. Grazie ad Enrico VII Tudor (1485-1509) la monarchia comprende anche Galles e parte dell’Irlanda, mentre la Scozia è uno Stato indipendente. Riesce così ad affermare la sua autorità su un complesso statale unitario. Enrico VII combattè con successo i residui dei poteri feudali residui ed istituì la Camera Stellata, un tribunale straordinario per le cause contro le famiglie feudali ribelli. Lo stesso sovrano favorisce la partecipazione di elementi sociali non nobili alle cariche politiche e giudiziarie. Soprattutto con Enrico VIII poi, tra 1530 e 1542, il centro dell’amministrazione è assunto dal Primo Segretario e dal Consiglio Privato, si afferma la supremazia dell’Ufficio dello Scacchiere e sono represse ineguaglianze costituzionali e speciali privilegi. Artefice della rivoluzione amministrativa fu Thomas Cromwell. Il sistema politico inglese dunque si fonda su un equilibrio tra esigenze della monarchia ed una confederazione di interessi. La struttura e le funzioni del Parlamento si differenziano dagli altri Paesi; la Camera dei Lord, ereditaria, e la Camera dei Comuni, elettiva, rappresentano le componenti della società inglese: la prima la grande nobiltà, la seconda la gentry, i ceti non nobili ed i coltivatori diretti. La funzione legislativa è riconosciuta al Parlamento ed i parlamentari fanno riferimento ad una legge comune, indipendente dallo stesso sovrano. L’autogoverno delle contee è poi affidato a sceriffi, nobili e giudici di pace, personaggi quasi sempre non nobili ma legati agli interessi locali del territorio. Lo Stato Iberico Nel 1469 Ferdinando, re di Sicilia ed erede al trono d’Aragona, e Isabella, erede al trono di Castiglia, si univano in matrimonio. Con la loro unione ed in qualità di “re cattolici” crearono le premesse per la formazione dello Stato iberico. Figlio di Giovanni II d’Aragona, lo succede al trono nel 1479 e Castiglia, Aragona, Portogallo, Navarra e Granada vengono a loro tempo unificate sotto il profilo dinastico. Anche in Spagna nel corso del XVI secolo si compie un processo di restaurazione amministrativa fondato sulla polisinodia, e dunque sulla molteplicità di Consigli. La forza della dinastia era un potentissimo fattore di legittimazione del potere. Dove erano assenti o deboli il potere sovrano ed il legittimismo dinastico, erano assenti o deboli gli Stati. Danimarca Il punto debole della monarchia in Danimarca era la mancanza di un diritto di successione costante. Cristiani II salì al trono nel 1513 e cercò di imporre una politica antinobiliare ma fu deposto da una rivolta aristocratica dieci anni dopo. Il successore Cristiano III avviò una politica espansionistica annettendo nel 1536 la Norvegia ed imponendovi il Luteranesimo. Il modello della monarchia feudale elettiva però, con centro del potere nella Dieta dei nobili e del clero, non consentì la realizzazone della trasformazione dei ceti privilegiati da potenze a poteri, fattore indispensabile per la realizzazione dello Stato moderno. Solo nel 1665, dopo la sconfitta nella guerra contro la Svezia e la pace di Roskilde, si instaurò la monarchia ereditaria. Polonia In Polonia lo Stato moderno è opera della dinastia degli Jagelloni. Esauritasi nel 1572 però, con la monarchia elettiva e la ripresa del potere dall’aristocrazia, il centro statale si indebolisce. Il sovrano infatti dispone di poteri militari solo nei suoi domini, e non può realizzare un’unità morale del territorio. Inoltre, il Gran Consiglio, composto da vescovi e magnati, limiteranno i poteri statali. D’altra parte la Polonia, geopoliticamente, si trovava tra il nascente Stato russo e l’impero ottomano, che nel 1526 si impadronì di gran parte dell’Ingheria. Svezia La Svezia di Gustavo Vasa grazie alle risorse finanziarie procurate dalla confisca dei beni ecclesiastici poté garantirsi autonomia economica senza ricorrere a pressioni fiscali. Nel 1544 Gustavo Vasa impose all’assemblea degli stati, il Riksdag, il principio della monarchia ereditaria. Grazie all’alleanza con l’assemblea e ad una buona burocrazia centrale, il sovrano accelerò l’affermazione dello Stato moderno. Russia Ivan III (1464-1505) fu artefice dell’unità della Russia “liberata” dai mongoli dell’Orda d’oro. La tendenza al controllo ed alla centralizzazione statale realizzò una monarchia di principi autonomi e di boiari, un’unificazione religiosa del Cristianesimo ortodosso ed una concezione assoluta del potere che negava l’esistenza di leggi al di sopra del sovrano. L’ideale di Ivan era un’autocrazia patriarcale che doveva però far fronte alle opposizioni dell’antica nobiltà feudale ed all’enorme estensione del territorio. Dalla metà del XVI secolo cominciò ad agire un nuovo organismo rappresentativo: gli zemskie sobory, formati da rappresentanti del clero, dei boiari, della piccola nobiltà e dei ceti mercantili ed artigiani. Lo zar cominciò a creare organismi rappresentativi locali, ad affidare alla piccola nobiltà provinciale alcune funzioni di amministrazione della giustizia e di polizia, ed a favorire in tutte le province la creazione di autorità elette fra i cittadini ed i piccoli proprietari. Anche lo zar ha dunque bisogno di una rete di alleanze sociali. Ivan III e poi Ivan IV distribuirono infatti la terra alla piccola nobiltà al seguito dello zar, la pomest’e, e soprattutto Ivan IV concesse a questi nobili di servizio un’ampia zona equivalente alla metà dell’intero territorio, l’opricnina, formando con loro una forza militare Quasi tutti gli Stati europei, nel corso del XI secolo, mostrano caratteri simili: una tendenziale concentrazione del potere; la divisione tra la titolarità spettante al sovrano e l’esercizio del potere affidato all’amministrazione pubblica; tendenziale unificazione del territorio e definizione dei suoi confini; protezione del territorio da parte del sovrano; una tendenziale unificazione legislativa, giudiziaria e fiscale del paese. Il principio che distingue lo Stato moderno dalle forme politiche medievali è l’unicità della funzione sovrana: deve considerarsi in intera autonomia, deve essere indivisa e deve poter contare su una forza e su una base di legittimità indipendente. L’unicità della sovranità ha costituito un obiettivo che configura lo Stato moderno non come un regime definito una volta per tutte, ma come un faticoso, e a volte sanguinoso, processo, come succede in tutte le fasi di passaggio da vecchi e nuovi equilibri politici. È proprio la qualità, il grado delle diverse combinazioni, ad aver fatto parlare di vie differenti dello Stato moderno: rapporto tra organizzazione politica e società, conflitti e contese politico- religiose, la minore o maggiore omogeneità etnica e geografica del territorio. I principali fattori che indicano le differenti vie dello Stato moderno in Europa sono: il principio della legittimazione dinastica (Francia, Spagna ed Inghilterra); il sistema di governo del territorio; equilibrio tra monarchia centralizzata e parlamento (Inghilterra); capacità della monarchia di trasformare i ceti privilegiati da potenze antagoniste della sovranità a potenze ad essa sottomesse e cointeressate alle sue sorti. Il Cinquecento ha conosciuto altri modelli di Stato: l’autocrazia ed il dispotismo. L’autocrazia rappresenta la centralizzazione statale Russa, il dispotismo l’Impero Ottomano. Sono due approssimazioni alla realtà storica, spesso più complessa. La prima formulazione della moderna idea di Europa risale a Machiavelli: “Voi sapete come gli uomini eccellenti in guerra ne sono stati nominati assai in Europa, pochi in Africa e meno in Asia. Questo nasce perché queste due ultime parti del mondo hanno avuto uno principato e due e poche repubbliche, ma l’Europa ha avuto solo qualche regno e infine repubbliche. E ancora, il mondo è stato più virtuoso dove sono stati più Stati che abbiano favorita la virtù o per necessità o per altra umana passione.” L’Europa dunque appariva a Machiavelli come la terra dove gli uomini vivevano una realtà complessa e articolata, diversamente dagli altri territori del mondo, dove le forme del governo assumevano un carattere più dispotico. E scrive ancora: “I principati dei quali si ha memoria, si trovano governati in dua modi diversi: o per uno principe e per tutti gli altri servi, i quali come ministri per grazia concessione sua aiutano a governare quello regno; o per uno principe e per baroni, i quali non per grazia del Signore, ma per attiguità di sangue tengano quel grado. Gli esempli di queste dua diversità di governo nei nostri tempi è il Turco e il Re di Francia. Tutta la monarchia del Turco è governata da uno signore, gli altri sono sua servi; il re di Francia è posto in mezzo di una moltitudine antiquata di signori in quello Stato, riconosciuti da loro sudditi, amanti da quelli, hanno loro preminenzie, non lo può il re porre solo sanza suo peculio.” I modi dell’organizzazione politica, dunque, qualificano la realtà europea e ne fanno un’unica terra al mondo, mentre i sovrani hanno un potere limitato e regnano su masse passive di sudditi. In Europa proliferano repubbliche, gli Stati cittadini, dove la competizione tra i gruppi politici fa emergere virtù individuali. Lo stesso potere monarchico in Europa è vincolato da consuetudini e leggi e da una stratificazione di poteri che preclude la strada del dispotismo. L’Asia è la terra dove gli uomini sono servi, l’Europa è la terra dove emergono le virtù dell’individuo. “In Europa appare per la prima volta con una sua caratteristica morale, non fisica, nella storia moderna.” (Chabod) Questa idea di sovranità, dunque, nel Medioevo ancora non c’è: nel Medioevo il sovrano è il primus inter pares, mentre in età moderna si va delineando la differenza tra pubblico e privato, in un processo di affermazione della sovranità che attraversa tutta la modernità. In questo processo vive il vecchio e il nuovo: l’idea che il re non debba avere poteri concorrenti è già tracciata, ma non ancora applicata, perché la feudalità continuerà ad esistere nonostante il re ne eroda le sue funzioni. Anche gli ecclesiastici sono autorità competenti al sovrano. Sostenne Piero Giannone che non ci dovessero essere più i vari tribunali che giudicano gli ecclesiastici separati da quelli che giudicano il popolo, ma un unico tribunale che amministra la giustizia: quello del re. Economia e società politica nel corso del Cinquecento Crescita demografica Con le scoperte geografiche, la società europea si trasformò, e tali mutamenti modificarono il quadro politico, i modi di pensare, la fede religiosa e la vita materiale. La crescita demografica fu il fattore più importante tra i cambiamenti, anche se il materiale d’archivio consultabile è lacunoso e impreciso. Cominciava ad affermarsi tra i governi l’uso di registri, all’interno dei quali si teneva una sorta di contabilità della popolazione. I governatori delle signorie e dei feudi utilizzavano i censimenti per pianificare il prelievo fiscale e determinare con accortezza la dimensione del reclutamento militare. Queste rilevazioni non si approntavano però con regolarità, ma venivano effettuate saltuariamente, e raramente si procedeva ad aggiornamenti. Anche le Chiese, che conservavano registri parrocchiali per esercitare sulla comunità un controllo della cura d’anime, non conservano quei registri con ordine e precisione. È possibile, tuttavia, effettuare stime di tendenza sufficientemente attendibili sull’ammontare delle popolazioni europee. Dai dati disponibili si ricavano i seguenti incrementi demografici nel XVI secolo: • Nel Regno di Napoli, dove gli scontri bellici furono meno frequenti, la popolazione registrò degli incrementi tra 1545 e 1595 del 26%; • In Norvegia, tra 1520 e 1590, l’incremento è del 46%; • In Francia gli abitanti passarono da 12 a 18milioni, in Spagna da 5 a 8milioni e nella penisola italiana da 9 a circa 13milioni e 500; • In Inghilterra da 3 a 4milioni, nei Paesi Bassi da 2 a 3milioni. Si stima dunque che la popolazione del continente europeo si aggirasse attorno ai 55,60milioni di abitanti nel 1450, per attestarsi sui 100/105milioni di abitanti all’inizio del XVI secolo. L’aumento della popolazione fu più rapido e intenso nelle città, alterando gli equilibri da lungo tempo consolidati tra centri urbani e campagna. I centri cominciarono infatti ad essere oggetto di flussi migratori di gente proveniente dalle campagne circostanti, e talvolta anche da più lontano. In alcuni casi questi nuclei raddoppiarono o triplicarono i loro abitanti. La popolazione di Venezia si accrebbe di oltre il 60% tra 1509 e 1563; Napoli divenne una delle più grandi capitali dell’Occidente ampliando da popolazione dai 150mila ai 275mila abitanti nel 1599. La popolazione di Palermo passò dai 55mila abitanti nel 1501 ai 105mila nel 1606; Roma, pur soggetta ad un saccheggio nel 1527, registrò un incremento che in un secolo vide gli abitanti raggiungere, da 20mila, i 100mila. Lo sviluppo della popolazione di Londra fu travolgente: dai 40mila nel 1500 ai 224mila nel 1605. In Francia, alla fine del Cinquecento, Parigi contava circa 220mila abitanti. Il prorompente aumento delle popolazioni urbane fu dovuto ai risultati congiunti della crescita demografica ed alle emigrazioni dalle campagne. Tali risultati modificarono il quadro demografico, senza raggiungere lo sconvolgimento del rapporto tra città e campagna. Se nelle società industrializzate la parte più cospicua della popolazione vive nelle città, nel 500 il rapporto era rovesciato: circa l’80% degli abitanti risiedeva in campagna. Questi valori scendevano di poco in zone con un più antico e consolidato tasso di urbanizzazione, come nell’Italia Settentrionale, dove nelle comunità rurali risiedeva il 65% della popolazione. Intorno al 1600 le regioni più densamente popolate erano l’Olanda con 50 abitanti per km2, Italia Settentrionale con 40 abitati per km2, la Francia con 34 abitanti, la Germania Centrale con 20, Castiglia con 18. Le condizioni sociali e l’organizzazione economica delle società di antico regime non consentivano di sopportare un così alto tasso di urbanizzazione. Si diffuse un sentimento di paura verso uno stato di sovraffollamento. Un ambasciatore del 1561 scriveva nelle sue relazioni “La Francia è piena di persone, ogni luogo è saturo.” Un nobile attorno al 1538 affermava “In Inghilterra non c’è più spazio disponibile per gli abitanti.” Nel 1550 in una cronaca della Svezia si legge che “non c’era un angolo anche nei boschi più selvaggi e sulle montagne più alte che non fosse occupato”. Non è facile stabilire i motivi di questi incrementi; secondo alcuni fu determinato dall’aumento della natalità. Infatti, la durata della vita media riscontrò lievi miglioramenti e rimase stabile rispetto all’età medievale, mentre apparivano elevate le percentuali della mortalità infantile, come in qualsiasi società di antico regime. In Spagna e Francia il 50% dei bambini moriva prima dei 7 anni. Le famiglie aristocratiche inglesi, tra 1575 e 1674, evidenziavano una speranza di vita media tra i 32 anni per i maschi ed i 35 anni per le femmine; analoghi risultati sono riscontrabili in uno studio condotto sulle più prestigiose famiglie borghesi di Ginevra. Queste famiglie appartenevano ad una ristretta élite di persone che sperimentavano un regime di vita al di sopra della media, vivendo in ambienti salubri ed alimentandosi con abbondanze di cibi. La durata della vita media si attestava attorno ai 23 anni. Le società dell’antico regime, dunque, erano caratterizzate dalla presenza di persone giovani che disponevano di una prospettiva di vita breve e da famiglie numerose. Nel XVI secolo l’Europa era popolata soprattutto da giovani e bambini. Rivoluzione dei prezzi L’aumento della popolazione nel XVI secolo produsse un aumento del costo della vita. Nella documentazione superstite di cronache e registri, ancora oggi si rintracciano notizie su un fenomeno che coinvolse l’Europa nel Cinquecento ed ebbe effetti nel secolo successivo: l’aumento dei prezzi delle derrate e delle merci di largo consumo. L’inflazione che ne seguì interessò soprattutto la Spagna ed andava evolvendosi via via che si procedeva verso l’Oriente. Non si abbatté equamente su tutti i beni di prima necessità, ma produsse effetti che modificarono la struttura sociale della società cinquecentesca. Il fenomeno sortì conseguenze così dirompenti che gli storici definiscono il fenomeno “rivoluzione dei prezzi”. Si trattò di un fenomeno di larghe proporzioni che all’inizio non trovò facili spiegazioni. Un intellettuale, Jean Bodin, attribuì l’innalzamento dei prezzi all’imponente afflusso di metalli preziosi arrivati dalle Americhe. Secondo lui, l’ampia offerta di metalli avrebbe provocato l’aumento dei prezzi dei beni di prima necessità. In realtà è stato dimostrato che i prezzi cominciarono a crescere almeno un decennio prima dei metalli preziosi. La storiografia è concorde nell’imputare l’aumento alla crescita demografica, mentre l’afflusso dei metalli preziosi esercitò un influsso solo successivamente, come un fattore che acutizzò una tendenza già in atto. In Europa la tendenza fu più marcata nella II metà del 500. Essa trova spiegazione anche nell’aumento generalizzato della domanda conseguente all’aumento demografico ed alle necessità di ricostruzione cui si doveva dare avvio dopo le distruzioni causate dal lungo periodo di guerre. Cambiò soprattutto il rapporto domanda-offerta di beni e servizi. L’aumento delle bocche da sfamare spinse non solo ad allargare e aree coltivabili, ma anche ad applicare maggiori capitali nell’economia agricola. L’80-90% della popolazione infatti viveva fuori dai centri urbani e dai borghi del contado. Una parte della popolazione però cominciò a muoversi e ridistribuirsi, dando origine a nuove città con nuove funzioni urbane, centri di traffici e centri industriali. L’inurbamento è dunque già riconducibile all’espansione delle attività manifatturiere, di quelle terziarie ed alla capacità della città di garantire migliori servizi rispetto alla campagna. La prima voce dei consumi di questi abitanti sono proprio i cereali. Questo aumento produsse un incremento dei valori seguendo una scansione costante e brusca che alterò il potere di acquisto degli abitanti. I rialzi dei prezzi interessarono dapprima la Spagna e successivamente Francia, Italia, Paesi Bassi etc. Il rapporto tra aumento di prezzi e quello della popolazione emerge nella sua compiutezza dai documenti che registrano le variazioni dei prezzi dei generi alimentari: le impennate più acute si verificarono negli andamenti dei valori dell’alimento base, i cereali; il grano contava maggiore elasticità della domanda e reagiva con immediatezza alle richieste di una popolazione in continua crescita. Il valore del grano, dell’orzo, della segale crebbe anche 15 volte nel giro di pochi decenni. Tali sollecitazioni determinarono un processo di riconversione delle colture e l’agricoltura europea si avviò verso la cerealizzazione delle terre coltivate. Le produzioni cerealicole, non potendo arginare la crescita della popolazione, determinarono un aumento dei prezzi: seguendo i lineamenti Malthusiani si può affermare che nell’Europa cinquecentesca la popolazione crebbe più velocemente delle risorse produttive necessarie al suo sostentamento. Le rese agricole rimasero stabili a partire dal XIV secolo alla metà del 700 in Inghilterra ed alla metà dell’800 nel resto dell’Europa, con qualche spostamento regionale che non inficia la tendenza generale. Mediamente in Europa i cereali venivano prodotti secondo uno standard con una resa di 1 a 4, pari dunque a 4 volte la quantità seminata; le produzioni vennero aumentate essenzialmente attraverso l’estensione degli spazi coltivati. Queste superfici fondiarie erano quelle già coltivate prima del XIV secolo, durante il movimento di espansione dell’economia tardo-medievale e successivamente abbandonate durante la crisi che sconvolse l’Europa durante la metà del 300, la quale culminò nel contagio dovuto alla peste nera diffusasi tra 1347 e 1351. La ripresa Cinquecentesca consentì di continuare il percorso interrotto qualche secolo prima: si avviò una coltivazione dei terreni marginali abbandonati. In molti casi si intrapresero coltivazioni di pascoli, si diffuse la pratica del debbio nelle foreste, si bonificarono gli acquitrini, si dissodarono le sterpaglie. In alcune zone si modificarono gli antichi sistemi di rotazione triennale; in questo modo si riducevano al minimo le superfici a riposo, usando cicli di rotazione pluriennali e facendo ricorso anche alla concimazione organica, utilizzando le derivazioni degli animali allevati. Anche se la riduzione degli spazi destinati al maggese dimostrò una tendenza generale all’affidamento delle tecniche agricole, essa incise marginalmente nella conduzione dei poderi e per un periodo limitato. Le bonifiche avviate nel XVI secolo in Italia ed Europa ebbero riscontri positivi, in altre zone fallirono. Tra l’atro si diffuse l’uso dell’irrigazione e furono perfezionate costruzioni idrauliche e canali che resero possibili la coltivazione di nuovi campi. Le regioni ad Est dell’Elba, inoltre, in particolare la Polonia, divennero i granai di molti paesi dell’Europa occidentale. In Inghilterra si manifestò il fenomeno delle recintazioni, per cui molte terre comuni vennero abolite e si affermò la proprietà individuale della terra. Un fenomeno analogo si ebbe in Italia, Germania e Francia Cambiò anche il paesaggio agrario, furono introdotte nuove colture, con uno sviluppo della vite e l’impiego del mais e del riso per la rotazione delle colture. Accanto ai prodotti agricoli aumentò anche la domanda dei prodotti industriali, soprattutto grazie alla nascita del nuovo Stato. Nella prima metà del XVI secolo l’Europa tipografica si allarga ad altri centri europei ed in particolare Parigi raddoppia la sua produzione libraria, mentre nell’Europa settentrionale i luoghi di diffusione e produzione del libro coincidono spesso con sedi nevralgiche della Riforma protestante. Si tratta soprattutto di scritti di religione, letteratura, diritto e politica, ed il loro protagonista è l’uomo, oggetto di nuova attenzione come individuo ed artefice di relazioni, di rapporti, soggetto ed oggetto di comportamenti. Nascono anche opere d’arte come la Gioconda, Adamo ed Eva, il David e comincia, attorno al 1500, ad affermarsi nella pratica musicale nuovi concetti. Si va formando la nuova disciplina della storia dell’arte ed i trattati di architettura, ed infine un nuovo statuto: la nuova identità intellettuale. Tutti gli artisti rivendicano autonomia e pari dignità, firmano le loro opere, vivono condizioni di parità con principi mecenati che finanziano le loro attività e vivono una condizione cosmopolita. Questi intellettuali viaggiano e circolano nei principali centri della cultura. Le guerre d’Italia L’Italia, in questa fase di guerre per l’affermazione del predominio, è un vero e proprio laboratorio. Si tratta della fase dell’Umanesimo e del Rinascimento, in cui i poteri cominciano a conformarsi in maniera differente rispetto ai caratteri che i sistemi di poteri hanno assunto nel Medioevo: si impone sempre più un’idea che il potere debba uscire dall’ottica della gestione del potere feudale e che bisogna affermare una preminenza da parte del sovrano. Comincia ad articolarsi una lenta, ma non definitiva, separazione tra sfera pubblica e sfera privata, in cui lo Stato, il governo, il regno, il sovrano non è più il primus inter pares, ma tende ad erodere poteri che sino ad allora hanno esercitare i feudatari. Nasce la necessità dell’organizzazione di uno Stato con una sua burocrazia, dei suoi funzionari, e questo genera un conflitto tra feudalità ed amministratori che fanno capo al governo centrale. L’Italia anticipò questa idea di Stato moderno: quasi tutti i piccoli Stati italiani avevano le caratteristiche dello Stato regionale. Tuttavia, questo Stato regionale non diventò mai uno Stato nazionale, come avvenne invece, dopo le guerre civili, in Francia (dopo la Guerra dei Trent’anni) ed in Inghilterra (dopo la Guerra delle Due Rose). La formazione geopolitica in Italia rimane quella degli Stati regionali. Nel 1454 con la firma della pace di Lodi si pone fine alle rivalità sorte nel 1452 fra Duca di Milano Francesco Sforza, alleato con Firenze, Genova, Mantova e Carlo VII di Francia, ed una coalizione composta da Venezia, Savoia, Monferrato ed Aragonesi di Napoli. Con la pace, le principali potenze dell’Italia Centro-Settentrionale pongono fine ad un periodo di guerre ed inaugurano una fase di relativo equilibrio nella penisola italiana. Fu possibile stabilire un’identità dell’Italia politica. Due vie rimanevano precluse: la prevalenza di uno Stato regionale su tutti gli altri ed una confederazione repubblicana che unisse Venezia, Firenze, Genova e Milano. La politica dell’equilibrio promossa da Lorenzo de Medici, detto il Magnifico, rispondeva ad una finalità di conservazione del quadro politico italiano rispetto alle relazioni internazionali ed alla stabilità interna dei singoli Stati. Nel primo articolo del trattato che istituì la lega italica, gli Stati che sottoscrissero l’accordo si impegnarono a sostenere un reciproco intervento anche nel caso che “dai loro sudditi venisse offesa”. Fu una politica di conservazione che proteggeva e tutelava i servizi del potere dei principi e delle oligarchie cittadine nei piccoli Stati italiani. Queste unità territoriali frazionate furono caratterizzate dal conformismo sociale e da una dialettica che languiva. La compressione dei fenomeni politici incentivò l’attività cospirativa che rifluì in reazioni che assunsero la forma della congiura. Alla fine del XIV secolo il confronto politico italiano fu contraddistinto dal crescente ricorso verso forme che assumevano il carattere della congiura. La storiografia ha contraddistinto gli ultimi decenni del Quattrocento con il nome di età delle congiure. La stabilità politica non provocò alterazioni negli equilibri di potere e non produsse mutamenti sociali, ma tutto ciò non si tradusse comunque in un’azione di pace. La politica di equilibrio, dunque non implicava una politica di pace. Le rivalità tra gli Stati italiani indussero alla formazione di blocchi di alleanze che venivano continuamente riformulate per non determinare la supremazia di uno Stato rispetto agli altri. Quando uno Stato ne aggrediva uno più debole, infatti, gli altri Stati si alleavano con il più debole per ristabilire le forze in equilibrio e non determinare un mutamento del quadro geopolitico. I Medici Nel 1469 a Firenze si formò una Signoria il cui potere veniva esercitato da Lorenzo il Magnifico, nipote di Cosimo de’ Medici. Il malcontento che serpeggiava nella classe dirigente provocò un evento drammatico. Nel 1478 una cospirazione guidata dalla famiglia Pazzi, antagonista dei Medici e protetta da Sisto IV della Rovere, che voleva insidiare ed assumere la direzione del potere cittadino, si tradusse in un attentato nella Chiesa di S. Maria del Fiore: morì il fratello di Lorenzo de’ Medici, Giuliano. Lorenzo riportò solo leggere ferite e riuscì a mettersi in salvo nella sagrestia della Chiesa. Alla base della congiura dei Pazzi stava il progetto di sobillare il popolo contro il tiranno che lo dominava. Tuttavia, l’appello alla libertà era solo un pretesto per far valere altri interessi di parte. Il popolo si schierò dalla parte dei Medici ed insorse contro i congiurati: Jacopo Pazzi fu linciato dal popolo, il fratello Francesco ed il Vescovo di Pisa, cardinale Salviati, entrambi partecipi alla congiura, furono impiccati presso la finestra del palazzo della Signoria. L’episodio fece scatenare una guerra tra Firenze alleata con Venezia e Milano da un lato ed il Pontefice, la Repubblica di Siena ed il Regno di Napoli dall’altro. Lorenzo il Magnifico indusse ai Consigli il re di Napoli Ferdinando d’Aragona, detto Ferrante: dapprima lo costrinse a spostare gli eserciti napoletani in Puglia dove nel frattempo i Turchi avevano invaso Otranto; successivamente, con l’attività diplomatica che lo contraddistingueva, si recò a Napoli e convinse Ferrante che il rafforzamento di Sisto IV, personalità ambiziosa, nepotista ed assetata di potere, sarebbe stato letale per tutti. Ferrante, convinto da Lorenzo, ruppe l’alleanza con il Pontefice e si schierò dalla parte fiorentina, costringendo così Sisto V a stipulare la pace nel 1480. La reazione del Papa non si fece attendere: per guadagnare i favori della Repubblica Veneta le cedette il Ducato di Ferrara, già feudo dello Stato Pontificio, ma per contrastare l’iniziativa si formò una lega formata di Firenze, Milano, Napoli, Bologna e Mantova. La contesa del Ducato di Ferrara si chiuse con la pace di Bagnolo, un accordo in cui si contemplava l’indipendenza di Ferrara e si cedeva a Venezia il Polesine. Intanto si apriva nel 1485 un altro conflitto, con la congiura dei Baroni del Regno di Napoli che provocò l’insurrezione della città dell’Aquila. Gli insorti potevano contare sull’alleanza con il nuovo Pontefice Innocenzo VIII, il quale mandò una milizia in loro aiuto. Lorenzo il Magnifico convinse il Pontefice a ritirare le sue truppe e Ferrante ebbe il campo libero per organizzare una repressione dei ribelli. Nel 1492 morì Lorenzo de Medici e gli successe Piero; nello stesso anno motiva papa Innocenzo VIII e gli succedeva Alessandro VI della famiglia Borgia. Il Ducato di Milano era uno dei punti deboli del sistema degli Stati italiani. Nel 1476 una congiura di nobili determinò l’uccisione del Duca Galeazzo Maria Sforza. Gli successe il figlio Gian Galeazzo II, il quale, nel governo del Ducato, fu emarginato. L’amministrazione del Ducato ed il potere venne infatti gestito dallo zio Ludovico il Moro, che si liberò presto del nipote, facendolo assassinare nel 1494 e si proclamò duca. Il quadro chiarisce la non legittimità del potere di Ludovico e dunque le tensioni che ne seguirono, nonché le mire degli Aragonesi sul Ducato e la necessità per il Moro di alleanze con potenze straniere. Gian Galeazzo aveva sposato la nipote del re di Napoli Ferrante. Quest’ultimo si lamentò per lo stato di soggezione in cui era tenuto il Duca e la sua famiglia. Per osteggiare le rivendicazioni e le ambizioni degli Aragonesi, Ludovico il Moro chiamò in suo aiuto il re di Francia Carlo VIII, istigandolo e chiedendo di rivendicare le pretese Angioine sul Regno di Napoli. Gli Angioini, infatti, erano stati mandati via nel 1442, il partito filofrancese era tenuto in vita in quel Regno dagli esponenti dell’aristocrazia napoletana, ed alcuni Baroni che si erano posti a capo della congiura del 1485 avevano ottenuto rifugio in Francia. L’alleanza tra Ludovico il Moro ed il re di Francia determinò l’intromissione delle potenti monarchie europee negli affari politici italiani e sortì degli effetti nefasti per le piccole Signorie e per gli Stati regionali della penisola. Francesi in Italia Il re di Francia, intanto, dopo la morte di Carlo il Temerario, avvenuta nel 1483, aveva annesso parte dei territori situati tra Borgogna e Paesi Bassi, ed il suo programma fu contrastato da Massimiliano d’Asburgo (al trono nel 1493 alla morte del padre), figlio dell’imperatore Federico III e marito di Maria di Borgogna, figlia di Carlo il Temerario. Ne scaturì una guerra che terminò nel 1493 con la sottoscrizione del trattato di Senlis, in cui Carlo VIII cedeva all’impero la Contea delle Fiandre, l’Artois e parte delle finanze, e conservava a Borgogna, che nel 1497 entrò a far parte definitivamente dei territori francesi. Carlo VIII consolidò la monarchia francese e creò le premesse territoriali per la formazione di uno stato compatto. Nel 1480 incorpora il Ducato d’Angiò, formato dall’Angiò e dalla Provenza, e nel 1491 sposa Anna, ultima erede del Duca di Bretagna. In realtà Massimiliano d’Asburgo, dopo la morte della moglie Maria di Borgogna, era prossimo a sposare Anna di Britannia, ma quando i progetti giunsero a Carlo VIII, questi armò un esercito, invase la Britannia e costrinse Anna a sposarlo. Risolti i problemi interni, Carlo VIII poteva rivolgere le sue ambizioni verso un’avventura in Italia. Con un esercito di 30mila uomini ed una superiorità tecnologica dell’artiglieria, nel 1494 fece una rapida incursione in Italia, con l’appoggio di Ludovico il Moro. Al suo passaggio non trovò opposizioni, entrò trionfalmente a Milano, si diresse a Firenze, dove Piero de Medici lo ricevette con soggezione, ed il suo atteggiamento servile produsse una ribellione che causò l’abolizione della Signoria e la proclamazione della Repubblica di Savonarola. Nel mese di febbraio del 1495 occupò Napoli con l’appoggio dei Baroni, e non trovò resistenza. Ferdinando II, successore e nipote di Ferrante d’Aragona, si rifugiò con la coorte nell’isola di Ischia. Per fronteggiare l’avanzata francese si compose una lega composta da Venezia, dal Duca di Milano Ludovico il Moro, dal Papa Alessandro VI, da Massimiliano d’Asburgo e dai re spagnoli Ferdinando II d’Aragona ed Isabella di Castiglia. Ludovico il Moro, infatti, che aveva chiamato in aiuto il re di Francia, si rese conto che con la sua discesa gli equilibri tra gli Stati erano stati compromessi, e perciò Carlo VIII poteva diventare un pericoloso nemico, più che un alleato. L’alleanza mise in campo uno spiegamento di forze tali da indurre il re francese ad organizzare la ritirata dei suoi soldati in patria. L’esercito della lega agganciò le milizie sulle vie di ritorno dell’esercito francese, in un luogo chiamato Fornovo del Taro. Era il mese di luglio del 1495, e fu una battaglia dura in cui l’esercito francese tenne, ma ad un certo punto dovette mollare. Carlo VIII riuscì a rientrare in Francia, dove morì nel 1498. Ferdinando II poté rientrare a Napoli, dove morì nell’ottobre dello stesso anno, mentre Venezia occupava i più importanti scali portuali della Puglia, perché, entrata a far parte della lega, aveva aiutato gli Aragonesi a ritornare ad essere la guida del proprio Regno. Nel 1497 dunque ci fu una tregua tra Spagna, Francia e Stati italiani. Luigi XII, il Ducato di Milano ed il Mezzogiorno d’Italia Il nuovo re francese Luigi XII vantava dei legami parentali con la dinastia dei Visconti e rivendicò la successione al titolo di Duca di Milano perché questa doveva spettare alla figlia legittima di Gian Galeazzo Visconti, Valentina, che aveva sposato Luigi d’Orleans, nonno di Luigi XII. Rivendicò dunque il possesso della Lombardia, ma prima di organizzare un’invasione, stabilì accordi con cui concedeva a Venezia Cremona e Ghiara d’Adda, agli svizzeri la regione di Canton Ticino, a Cesare Borgia, figlio illegittimo di Alessandro VI, la Romagna. Nel 1499 Luigi XII conquistò Milano e nel 1500 sconfisse Ludovico il Moro, lo imprigionò e lo spedì in Francia dove morì nel 1518. Nello stesso 1500 stipulò anche, con Ferdinando il Cattolico, re di Castiglia e d’Aragona, il trattato di Granada, in base al quale i sovrani decisero di dividere il Regno di Napoli: alla Francia sarebbero toccate Campania ed Abruzzo, alla Spagna Calabria e Puglia. Intanto Federico III, re di Napoli, abdicò in favore di Luigi XII ed in cambio ottenne il Ducato d’Angiò. Ciò fece saltare gli accordi tra i due sovrani, ed in mancanza di un accordo tra le due grandi potenze si avviò una guerra sul suolo del regno di Napoli nel 1501. Nel luglio dello stesso anno Capua fu saccheggiata dai francesi e fu spartito il territorio tra Luigi XII, cui spettava la metà settentrionale del Napoletano, e Ferdinando il Cattolico, che annetteva Puglia e Calabria. L’equilibrio era però precario ed era impossibile una convivenza tra Spagna e Francia nel Mezzogiorno d’Italia. Il Regno di Napoli poi era molto importante per Ferdinando il Cattolico, il quale aveva utilizzato tutti i suoi strumenti per la conquista: l’unione tra la sorella Giovanna e Ferrante d’Aragona, l’alleanza con il pontefice, la guerra contro i francesi, etc. Le ostilità dunque ripresero e le truppe spagnole sconfissero i francesi nel 1503 nella battaglia di Cerignola, costringendoli a firmare nel 1504 il trattato di Lione. La pace prevedeva che ai francesi spettasse il controllo del Ducato di Milano, mentre gli spagnoli assumevano la reggenza del trono napoletano. Il Mezzogiorno in queste guerre diventava un laboratorio in cui si sperimentava la superiorità militare spagnola. A Spagna, forte di resistenza, rapidità e versatilità tattica, si rivelò adatta alle caratteristiche delle campagne d’Italia. Cerignola metteva in luce le superiorità della fanteria sulla cavalleria ed il protagonista della macchina bellica diventava una compagnia di fanteria, il tercio spagnolo. Le truppe italo-spagnole contro il nemico lo coglievano di sorpresa e utilizzavano le forme dell’azione manovrata. Era l’inizio della guerra moderna e di una lunga dominazione straniera nel Mezzogiorno, che durerà fino al 1707. Girolamo Savonarola e Cesare Borgia La Repubblica Fiorentina, nata in seguito alla cacciata di Piero de Medici, fu governata da un gruppo di persone capeggiate da Gerolamo Savonarola, un frate domenicano spinto da una fede profonda nel teorizzare una radicale renovatio cristiana ed a combattere contro la politica temporale dei papi governanti immorali e corrotti. Egli aveva attaccato il nepotismo e la corruzione della coorte papale e medicea con una tirannide poliziesca volta a realizzare una riforma dei costumi. I valori per cui combatteva trovarono terreno favorevole nella società fiorentina del tempo, e perciò aveva trasferito i valori cristiani della fratellanza e dell’uguaglianza anche al campo delle riforme politiche. Con un indirizzi legislativi, e quindi fonti del diritto. Il sovrano assoluto doveva costruire una pubblica amministrazione ed acquisire il controllo del prelievo fiscale, della giustizia e dell’esercito: doveva rappresentare il monopolio della forza legittima. Per conseguire questi risultati però occorrevano alleanze con alcuni soggetti sociali: per alcuni, il processo di accentramento è avvenuto con il contributo della coorte, dei filosofi, dei giuristi e degli uomini di lettere; per altri fu la borghesia ad aiutare il sovrano ad inquadrare e reprimere i tentativi degli aristocratici di riappropriarsi degli antichi privilegi. Conflitto tra borghesi e nobili Lo Stato moderno appare come il prodotto di una crescente attività di gruppi e ceti non facilmente ascrivibili e decifrabili ricorrendo ai concetti delle classi sociali. Le società di antico regime sono un complesso magmatico in cui lo status è ascritto in funzione dell’onore, della rispettabilità e della considerazione, mentre le classi sociali si distinguono per il rapporto che esercitano nella produzione di beni e materiali per la consistenza del patrimonio e dei consumi di beni e servizi. Mounier ha ricostruito il sistema di ceti e le precedenze da rispettare nel dare il passo o sedersi, una sorta di galateo del XVII secol oche comprendeva ecclesiastici al primo ordine, i nobili ed infine il terzo stadio. L’ordine veniva designato in base alla consuetudine, non alle leggi di mercato: un povero magistrato o un aristocratico in rovina potevano essere tenuti in maggior considerazione di un ricco mercante. I gradi più alti del terzo stadio, attraverso l’esercizio militare, l’acquisto delle cariche pubbliche e di fedi, incominciarono ad insidiare i nobili. Negli Stati generali del 1614 e 15 nacque un conflitto tra borghesi e nobili che non volevano riconoscere ai Robbins, gli arricchiti del III stato, la condizione di nobili per dignità, per funzione o de robe. Per i nobili gli arricchiti non erano altro se non borghesi. Da questo scontro uscì rafforzato il potere del re che rimase arbitro del conflitto: mentre i nobili chiedevano che fosse abolito il meccanismo della surrivance che permetteva al possessore di cariche pubbliche di designare il successore attraverso il pagamento di 1/16 delle rendite, i Robbins lamentavano l’invadenza dei nobili nell’esercizio delle attività commerciali. Di fatto, gli ordini più ricchi del III stato non hanno mai rivendicato la trasformazione degli ordini in società e delle classi, ma al contrario gli stati generali del 1614-15 e nella Fronda parlamentare di Parigi hanno chiesto che venisse modificata la gerarchia degli ordini: al primo posto i magistrati, per sancire la supremazia dei funzionari al servizio dello Stato rispetto a coloro che esercitavano il mestiere delle armi. Gli storici dell’800 hanno dato una lettura del quadro istituzionale maturato nell’età moderna come un prototipo di quello contemporaneo: in realtà, un simile approcciò non può che dar luogo a confusioni e ambiguità. I processi storici che hanno determinato la costruzione di un potere assoluto provvisto di burocrazia ed esercito, abolendo corpi intermedi, si articolano in tre fasi: a prima comprende il periodo dalla crisi degli ordinamenti medievali alla Rivoluzione Francese. In questo arco temporale, il potere assume tonalità laiche sempre più svincolate dai condizionamenti della Chiesa, e lo Stato assume dei tratti tipici di un organismo che persegue una politica di potenza sia nei confronti delle autonomie interne, sia nei rapporti con gli Stati vicini. Le guerre promosse nel XVI secolo, secondo alcuni, spingono verso il rafforzamento di una monarchi assoluta: il principe è sollecitato a concentrare il potere nelle sue mani per poter prendere delle rapidi decisioni sulle guerre e sulle iniziative diplomatiche. Sul piano Europeo però alcuni paesi sono impegnati in uno sforzo militare continuo: Spagna e Francia. Esse costruiscono strutture amministrative, giudiziarie e militari dello Stato assoluto da quei paesi che, come l’Inghilterra, corrono il rischio di essere aggrediti e conservano le tradizionali costituzioni mantenendo inalterate alcune competenze del parlamento rispetto al monarca. Enderson, nei suoi studi, ritiene corretta l’interpretazione della rinascita dello Stato assoluto in base ai compiti di difesa militare che garantiva: ha però individuato un ulteriore elemento, quale la rinuncia della nobiltà all’esercizio di alcuni privilegi in cambio della protezione del sovrano che elevava strutture repressive nei confronti delle rivolte contadine, in particolare in quelle del XVII secolo sul continente europeo. Secondo Tilly, il consolidamento delle strutture statali sono il sottoprodotto delle iniziative militari rivolte alla guerra: se l’economia segna l’area dello sfruttamento, il potere indica quella del dominio. Per il raggiungimento dello scopo occorre finanziare gli eserciti e quindi organizzare un0efficiente struttura amministrativa per adattare il prelievo alle esigenze belliche. In questo sforzo si individuano le sfasature tra i desideri dei sovrani e le condizioni economiche dei paesi interessati nel corso dell’età moderna: i principi non hanno potuto seguire un modello di organizzazione politica ed amministrativa perché la nascita di alcune istituzioni non è stata programmata, ma è stata casuale, per conseguire risultati e fini immediati. Si identifica, tra XVI e XVII secolo, la persistenza di alcune forme provenienti dalle antiche autorità medievali: giurisdizioni signorili laiche o ecclesiastiche; comunità contadine; privilegi ai corpi o ai titolari di giurisdizione. In questo stato di cose operavano istituzioni tradizionali all’interno del corpo monarchico. Si elabora dunque un concetto di monarchia composita, un apparato monarchico in cui coesistevano giurisdizioni differenti per grandezza e grado sociale, legittimate ad operare o in virtù di un riconoscimento regio, o grazie alla forza della tradizione. (Elliot) Lo Stato moderno, dunque, nasce in funzione di conflitti. D’altra parte, i cambiamenti delle tecniche belliche sono riflessi dei i cambiamenti nella società. Lo stato feudale è permeato sul concetto di fedeltà al re: tutti devono fedeltà al re. Il rapporto che lega il sovrano e la nobiltà è legato a vincoli di carattere morale, non giuridico. I prelievi che il sovrano esercita o impone sono saltuari, perché si poggia a questo vincolo in caso di guerra, rivolgendosi ai feudatari, i quali hanno l’obbligo di assolvere al servizio militare in base al loro vincolo di fedeltà. Con le scoperte geografiche, l’avanzamento tecnologico e l’affermazione di un’economia di mercato, si verificano alcuni cambiamenti: lo sviluppo tecnologico impone costi più esosi per costruzioni di cannoni ed artiglierie, e dunque una fiscalità periodica, ed il sovrano necessita così di una burocrazia per queste esazioni fiscali. Di conseguenza la fiscalità diventa un terreno dove si concentra lo scontro politico, soprattutto in momenti in cui gli equilibri entrano in crisi, ed emergono le forze che esercitano funzioni di preminenza assimilabile a quel concetto medievale che richiama la summa potestas, imperium e maestas, che ancora non è un potere unico e monopolistico. Si tratta infatti di un dominio che ancora si pone come elemento di raccordo tra feudalità e diversi ceti, espressione delle rappresentanze proprie dei governi cittadini, ed assume i caratteri di una sovranità inespressa, ma che prende le sembianze di un potere dormiente capace di imprimere una svolta ed avviare un nuovo assetto civile che definisce un rinnovato sistema di regole. Questo è il processo di enucleazione dello Stato moderno, lento e che per tutta l’età moderna rimanda ad un’idea di costituzione mista, in cui non esiste un potere assoluto, ma convivono ancora poteri originari autonomi a quello del re. Il re deve condividere alcuni tratti dei poteri originari con la feudalità e l’aristocrazia. I feudatari, tra i tanti poteri e le tante prerogative, possono giudicare i propri sudditi. Per tutta l’età moderna, dunque, coesistono tribunali del re e tribunali feudali. Per essere una monarchia assoluta, però, il sovrano non deve condividere il potere giurisdizionale con alcun altro. Il potere di giudicare al feudatario è stato dato per un riconoscimento regio o per tradizione, e perciò il feudatario lo esercita. Più che monarchia assoluta, dunque, si tratta di una monarchia composita. La Rivoluzione Francese segna il passaggio più importante nel processo di affermazione dello Stato amministrativo, che con Napoleone diventerà più evidente: vengono infatti aboliti i poteri feudali perché se c’è feudalità, non c’è piena sovranità del monarca. Il sovrano non è pienamente sovrano finché c’è feudalità. La Riforma Protestante La Riforma Protestante è ascrivibile in quei fenomeni che hanno determinato la crisi religiosa del Cinquecento. È un fenomeno che riprende e riporta l’espressione dell’idea di esaltazione di nazione tedesca. Fu un movimento europeo che coinvolse, in modi diversi ed in misura assai variabile, un po’ tutti i continenti, anche paesi di forte e consolidata tradizione cattolica, come Francia, Spagna ed Italia. Nel Cinquecento in Europa si andava diffondendo un approccio religioso sensibile alle istanze mosse dall’interiorità individuale del credente e trovava riscontro nella letteratura dei libri di devozione. Queste forme di osservanza, che si rifacevano all’esigenza di una devotio moderna, furono promosse da ambienti ecclesiastici e laici, provenienti soprattutto dalla regione fiamminga e renana, ed assunsero nell’area spagnola i caratteri che rimarcavano il travaglio interiore come forma di catarsi religiosa. Si tratta soprattutto di un’idea molto diffusa nel movimento degli Aluprandos. Fu sostanzialmente un moto di reazione alla corruzione del clero, agli abusi ecclesiastici, alla sostanza del potere temporale dei papi, al commercio delle indulgenze, al sistema dei benefici ecclesiastici in cui ogni funzione era dotata di una proprietà e di una rendita. Mancava chiarezza teologica e vi era una confusione delle opinioni in materia sia di dogmi della fede, sia di morale; inoltre, si attribuiva grande peso alla dottrina delle indulgenze e questioni teologiche come la redenzione attraverso il sacrificio di Gesù, i sacramenti, erano affrontate con superficialità e disinteresse. Si avvertiva sempre più il bisogno di una lettura autentica delle Sacre Scritture e di una reformatio, di una renovatio che risolvesse la crisi d’identità religiosa e conducesse ad una riforma morale. Ciò che acuì maggiormente la situazione fu l’intreccio che si andò a creare tra religione e politica: in particolare tra movimento luterano e principati tedeschi, tra Zwigli o Calvino e le città svizzere e tra Riforma ed interesse degli Stati a secolarizzare i beni ecclesiastici. Questo intreccio spiega inoltre il lento processo che portò alla formazione delle diverse confessioni religiose. Si avvertiva l’esigenza di avviare una riforma volta a promuovere l’osservanza delle regole originarie del cristianesimo ed a perseguire un tipo di vita meno mondana, più austera e più improntata ad uno spirito di sobrietà e frugalità. Tali programmi furono raccolti da importanti settori della gerarchia ecclesiastica, e soprattutto incontrarono il favore degli ordini religiosi come i Benedettini e gli Ordini Mendicanti. Aderirono anche personalità ed esponenti che assolvevano incarichi di rilievo all’interno della Chiesa, come il patriarca di Venezia Lorenzo Giustiniani ed il padre generale degli Agostiniani Egidio da Viterbo. Nel pensiero di Egidio da Viterbo riaffioravano spinte millenaristiche scaturite da una libera interpretazione dei Testi Sacri. Tra la fine del XIV e l’inizio del XV secolo, le aspettative di una riforma religiosa che esaltasse i movimenti dell’anima e disciplinasse i comportamenti del clero e dei credenti erano diffusi in larga parte della Chiesa e della cultura religiosa. In occasione del V Concilio Lateranense tenutosi a Roma nel 1513, due monaci Camaldolesi, provenienti da famiglie del Patriziato Veneziano, Paolo Giustiniano e Vincenzo Querini, avanzarono delle proposte di riforma contenuti nel libellus ad Leone decimun: tali istanze furono ignorate. Questo atteggiamento alimentò l’impressione di una Curia Romana simile ad una Babilonia: fu un errore perché l’immagine della Chiesa corrotta e mondana fu uno dei motivi su cui insistette il proselitismo Luterano, il quale, con successo, riuscirà a costruire e ad ampliare i toni di una Chiesa avvezza al mal costume ed alla corruzione. Eppure, il tema della riforma era uno degli argomenti più avvertiti dalla cattolicità e dai suoi vertici; un esempio di tale sensibilità fu il trasferimento da Genova a Roma della confraternita del Divino Amore che promuoveva un programma di impegno personale nella costruzione della nuova religiosità e soprattutto nel potenziamento dell’attività caritativo-assistenziale. L’opera e l’impegno che Erasmo da Rotterdam seppe svolgere si rivelò come il più importante contributo di compiutezza e coerenza intellettuale verso tutte quelle sollecitazioni ed aspirazioni di riforma religiosa che si agitavano. Egli seppe contrastare ed avanzare critiche stringenti verso i culti propri di una religiosità tradizionale e verso atteggiamenti mondani della Chiesa, e nello stesso tempo seppe promuovere la visione di un cristianesimo che si uniformava agli insegnamenti evangelici ispirati da princìpi di pace e di concordia universale. Nel 1524 Erasmo pubblica De libero arbitrio, nel quale difendeva la libertà dell’individuo nell’opera di discernimento di un percorso di salvezza dell’anima. Questo atteggiamento lo allontanava da una visione catastrofica e costrittiva del destino dell’uomo propugnato da Lutero, il quale l’anno successivo pubblicava il De servo arbitrio. L’Umanesimo Erasmiano ed il Cosmopolitismo Cristiano, tra l’ideale dell’humanitas e la morale cristiana, si saldavano per delineare i caratteri di un ideale segnato da un Universalismo religioso, depurato da tutti i formalismi teologici, dalle pratiche superstiziose, e nel quale si riconosceva all’uomo una dignità ed una dimensione di costante epifania tra l’individuo ed il divino. Erasmo esalta una religione naturale in cui vi è tolleranza religiosa, dubbio come metodo intellettuale, volontà e capacità dell’uomo di scegliere la salvezza o il peccato, la semplicità dello spirito. Lutero esaltava la religione soprannaturale, fondata sulla certezza delle Sacre Scritture, sulla certezza della salvezza attraverso la fede, sull’impotenza della volontà umana e sulla divergenza tra fede e religione. Tra i due si era stabilita, prima del conflitto del 1525, un compromesso, nonostante l’antipatia da parte di Lutero per l’umanista, contraria alla simpatia di Erasmo nei suoi confronti; erano però ormai lontani gli anni in cui Erasmo guardava con interesse i propositi dei riformatori protestanti, nonché quelli dell’intervento del 1519 a favore di Lutero e dell’opposizione del 1520 alla Bolla Exsurge domine. L’opera Erasmiana seppe dare dignità sul piano teologico e culturale alle istanze avvertite dalla sensibilità che maturava nel modo comune di vivere la religiosità cinquecentesca: in Europa infatti si diffondeva una crescente conversione verso le attività proposte dalla Curia Romana. Erano queste le idee che lievitavano a coorte e nei circoli dell’aristocrazia nei quali si discuteva di cultura e di politica, mentre in Inghilterra la politica antiromana si radicava anche per l’eccessivo peso del fiscalismo pontificio e della conseguente necessità di difendere le ricchezze nazionali. In Germania il bisogno di una religione che marcava l’identità nazionale si saldava con l’esigenza di difesa dai gravami imposti dalla Curia Romana. L’attività di un umanista francese come Lefèvre D’Etàples legava le aspirazioni di riforma ad una ripresa degli ideali propri dell’evangelismo, un richiamo al cristianesimo evangelico proposto da Erasmo. L’espressione più alta dei propositi erasmiani può essere colta nell’opera di Thomas Moore, Utopia, nel quale preconizzava un’isola felice dove venivano applicati i princìpi propri di un modello di Stato che dava piena applicazione nelle aspirazioni di Il 7 ottobre del 1518 Lutero, protetto da un salvacondotto, ebbe un colloquio con il cardinale Caietano. L’incontro ebbe luogo nella casa di Jacopo Fugger, ed anche se Lutero accettò la discussione, egli non ritrattò il suo pensiero, anzi, di fronte ad una decisa richiesta di abiura, spedì a Caietano una Memoria scritta, nella quale affermò di riconoscere soltanto il potere del Concilio, rimarcò la potenza della fede e sostenne l’indiscutibilità della verità contenuta nelle Scritture. Rinnegò dunque le indulgenze che, come scriveva, “non hanno niente a che vedere con Cristo”. All’inizio del 1519 intraprese una disputa teologica con Johann Eck sulla questione del primato del Papa: per diritto divino secondo Eck, per generica autorità nelle asserzioni di Lutero. Successivamente ribadì ed esaminò l’asserzione che il Papa ed il Concilio possano essere sbagliate, essendo la verità contenuta soltanto nelle Scritture. Il 15 aprile del 1520 il Pontefice emette la Bolla papale exsurge domine et iudica nella quale minacciava Lutero di scomunica nel caso non avesse operato una ritrattazione in 41 punti delle sue opere nel termine di 60 giorni. Nel mese di agosto dello stesso anno Lutero pubblicò lo scritto intitolato Alla nobiltà cristiana della nazione tedesca: il movimento prende una connotazione nazionale. Nell’opera criticò l’autorità della Chiesa, l’infallibilità del Papa ed il primato che questa aveva nella vita civile; riconobbe l’autorità temporale, avversò l’autorità papale biasimando con asprezza anche la politica affaristica della Chiesa romana, quali monachesimo, celibato, usura e prestito ad interesse, la corruzione ed il lusso. Intanto nello stesso anno pubblicò il Trattato della libertà del cristiano, nel quale elaborava una teologia politica: il cristiano, il fedele è libero da costrizioni e non è sottomesso a nessuno, ed al tempo stesso è servo e fedele, e servo di tutte le cose e di tutti. Con questo paradosso si operava una distinzione tra libertà interiore e libertà esteriore, libertà spirituale e corporale, in quanto la fede in Dio innalza l’uomo interiore a Signore e Sacerdote. L’opportunità di ricercare il bene nel prossimo rende l’uomo servo e fedele di tutte le cose e di tutti. Il 28 novembre del 1520 Carlo V ingiunse all’elettore di Sassonia che Lutero si presentasse al cospetto della dieta di Worms. Le opere di Lutero vennero censurate e poste sul fuoco dal legato pontificio Aleandro a Magonza. Il 10 dicembre del 1520, alla scadenza dei 60 giorni previsti dalla bolla di condanna, Lutero bruciò pubblicamente i testi di diritto canonico, la bolla papale e alcuni scritti dei suoi avversari. Nel mese di gennaio del 1521 giunse la definitiva condanna in cui Lutero veniva condannato eretico nello bolla Decet Romanum Ponteficem. Intanto la dottrina luterana si diffonde in vaste aree della Germania: il suo messaggio soddisfa i bisogni e le domande di soggetti tra loro assai diversi. Inoltre, Lutero chiarisce senza equivoci gli obiettivi della Riforma, religiosi e non politici, e la riprovazione per ogni ribellione sociale. Nel mese di ottobre del 1414 un professore universitario ed esperto predicatore andava a Costanza per raggiungere il Concilio, tutelato da un salvacondotto imperiale, dove avrebbe dovuto esprimere le sue idee sulla Chiesa. Tuttavia, giunto a Costanza, Jan Hus, venne imprigionato e successivamente processato e giustiziato come eretico senza aver potuto illustrare le sue idee di riforma. Un secolo dopo, nel marzo del 1521, un altro professore universitario e predicatore, Lutero, intraprese un viaggio tutelato per raggiungere la Dieta imperiale di Worms dove avrebbe dovuto discutere le sue idee di riforma sulla Chiesa. Martin Lutero aveva già conosciuto la sorte che era spettata ad Hus, ma a lui fu concesso di difendersi dalle accuse. La diversa condotta riservata ad Hus rispetto a Lutero sta nella maggiore capacità di diffondere le proprie opere. Il ruolo che ebbe la stampa nella veicolazione delle idee di Lutero non si attivò, perché mancavano gli strumenti, per le idee di riforma di Hus. Il movimento Hussista rimase circoscritto alla Boemia, quello di Lutero poté diffondersi. Lutero si trovò in una congiuntura favorevole ed anche in un clima culturale favorevole. I movimenti di contestazione verso la coorte papale nel corso della storia sono numerosi, a cominciare da quello di S. Francesco. Tutti i movimenti, anche quello hussista più attento alle condizioni dei contadini, accusavano sostanzialmente il malcostume che gli ecclesiastici continuavano a praticare. Nel marzo del 1521 un editto contemplava il sequestro dei libri di Lutero. Nello stesso anno la Dieta di Worms si riuniva alla presenza dell’imperatore Carlo V, dell’inquisitore della Germania Alberto di Magonza e dei nunzi pontifici. Gli esiti non giunsero. Il 16 aprile Lutero, con un salvacondotto imperiale, giunse a Worms e nell’assemblea del 18 rifiutò di abiurare. Carlo V lo condannò dichiarandolo eretico, salvaguardando le prerogative della Chiesa cattolica. Il 26 aprile, dopo aver abbandonato Worms, Lutero si diresse a Wittenberg ma venne fatto rapire da Federico il Saggio per sottrarlo al pericolo di un’eventuale cattura. Lo fece trasportare nel castello di Wartburg ad Eisenach dove vi rimase per 10 mesi in incognito, sotto la protezione del principe di Sassonia. Durante questo esilio forzato intraprese la traduzione in tedesco del Nuovo Testamento. La Bibbia rientrava tra i testi che non potevano essere letti, se non dai sacerdoti, che potevano leggerla, veicolarla e interpretarla. Per questo motivo Lutero ebbe successo quando formulò la teoria del sacerdozio universale: sostenendo che la verità poteva essere attinta solo dai Testi Sacri, si impegno per renderli fruibili anche al grande pubblico. Le rivolte In questi anni Lutero perfezionò le sue idee riguardanti la giustificazione della fede, l’autorità della Scrittura sulla comunità cristiana e la rilevanza di due soli Sacramenti: battesimo ed eucarestia. In alcuni libri si parla di due sacramenti, in altri di tre. Lutero sostenne la teoria del sacerdozio universale e la libertà del credente di interpretare, in quanto tutti come veri cristiani potevano ritenersi sacerdoti. L’assenza di Lutero da Wittenberg produsse confusioni e disordini. La predicazione luterana investì come un ciclone tutti gli strati sociali, generando una serie di conflitti diversi, il cui punto in comune è il forte intreccio tra rinnovamento dello spirito religioso ed il programma di riforma politica. Nel 1523 la bassa nobiltà ancorata a degli ideali feudali e militari, che si vedeva estromessa dalla politica, vide nel messaggio luterano un mezzo per perseguire il proprio riscatto sociale. La grande nobiltà germanica infatti aveva accresciuto poteri e giurisdizioni ed aveva emarginato la piccola nobiltà dei cavalieri. Influenzati dalle idee luterane, i leader dei cavalieri, Ulrich von Hutter e Franz von Sickingen, accentuarono la rivolta contro la Chiesa di Roma, contro i beni del clero, e sognarono la formazione di una Germania imperiale, libera dal potere del papa, fondata sul primato della forza politica dei cavalieri e sulla fine del potere feudale ed ecclesiastico. I cavalieri si coalizzarono in un’unione fraterna contro l’arcivescovo di Treviri, traditore del messaggio evangelico e dell’impero germanico, e contro i vescovati di Wabern e Wulfsburg. I principi protestanti d’Assia e del Palatinato però si schierarono con l’arcivescovo e sconfissero i cavalieri. La grande feudalità ed i principati territoriali ne uscirono vittoriosi, ed il fallimento della rivolta dei cavalieri segnò la fine della fase eroica della riforma, mentre cominciava la riforma dei principi. Intanto, nella giornata di Natale del 1521, Carlostadio, già professore di teologia e collega di Lutero, officiò la messa in volgare apportando modifiche alla liturgia, omettendo l’elevazione dell’ostia sacra e non usando i paramenti sacri. Ad alimentare il clima di incertezze contribuì l’arrivo a Wittenberg di tre tessitori: Nicolaus Storck, Thomas Dreschel e Mark Thomas Stübner provenienti da Zwickau, i quali, ispirati da Dio, si proclamavano annunciatori di profezie apocalittiche e ribattezzavano gli adulti. In quegli stessi anni, a Zwickau, il capo spirituale era Thomas Muntzer, il quale inizialmente sostenne il programma dei riformatori, allontanandosi solo successivamente. Sostenne la necessità del battesimo negli adulti ed avanzò un programma di fede settario: fu il principale propugnatore dell’esigenza di radicali mutamenti sociali e successivamente, dopo aver interrotto i rapporti con i riformatori di Wittenberg ed aver viaggiato da una città all’altra della Boemia e della Germania, divenne il leader spirituale dei contadini. Carlostadio e Muntzer dunque favorivano il ritorno ad un ideale evangelico dell’organizzazione comunitaria dei fedeli, ad un modello di povertà ecclesiale e l’abolizione delle disuguaglianze sociali e del privilegio. Questi ideali si diffusero soprattutto tra operai e minatori, che si sollevarono in rivolta. La rivolta dei contadini esplose tra 1524 e 1525. Alle origini vi era la situazione sociale nelle campagne tedesche, sulle quali governavano il potere signorile, il dominio personale della feudalità, la limitazione dei diritti dei vassalli e i rapporti di servitù, gli abusi e l’estensione del dominio feudale nelle terre comuni. Il loro obiettivo era quello di abolire la struttura per ceti e favorire una federazione di leghe ispirate al Vangelo, al bene comune. L’influenza di Lutero era evidente, ed il suo primo intervento fu quello di mediare fra contadini, affinché non abusassero del nome dei cristiani nella ribellione, e signori, affinché non abusassero dei loro poteri giurisdizionali. A seguito dell’effetto delle violenze e degli orrori della guerra, però, Lutero, paradossalmente, condannò la rivolta. In questo modo egli poté salvare il programma religioso di riforma che rischiava di essere affossato da una sollevazione sociale perdente. Lutero, infatti esortò addirittura i principi a scagliarsi “contro le bande brigantesche ed assassine dei contadini” e inoltre sostenne “che chiunque sia un sedizioso, sia messo al bando da Dio e dall’imperatore, così che chi per primo voglia ucciderlo, agisce molto rettamente, giacché contro chiunque sia sedizioso in modo manifesto, ogni uomo deve essere ad un tempo giudice e carnefice. Per la qual cosa, chiunque lo può, deve colpire, scannare, massacrare in pubblico o in segreto ponendo mente che nulla può esistere di più velenoso, nocivo e diabolico di un sedizioso” (ci. Lutero, nello scritto Contro le masnade rapaci e assassine dei contadini). Le sollevazioni si svilupparono nella Selva Nera e si propagarono con rapidità in Renania, Svezia, Turingia, Franconia, Alsazia, Tirolo, Corinzia e Sassonia. Si ipotizza che nel 1525 ben ¾ della Germania fosse insorta: i contadini avanzavano richieste relative a restituzioni di terre e la rivendicazione dei diritti comuni delle comunità di villaggio, diritti che erano riconducibili a diritti di caccia, pesca, del taglio della legna nei boschi etc. Avanzavano anche richieste relative alla soppressione dei diritti signorili, delle decime ecclesiastiche, alla diminuzione dei canoni d’affitto, al ristabilimento della consuetudine delle comunità. Nel 1525 a Memmingen pubblicarono il loro programma in 12 articoli: il primo recitava “umilmente noi chiediamo, secondo la volontà e l’intendimento di noi tutti, che in futuro tutta la comunità goda dell’autorità piena di eleggersi e scegliersi il pastore e che nostro sia anche il potere di deporlo, qualora egli dovesse mostrarsi indegno. Lo stesso pastore eletto deve predicarci il Santo Vangelo con purezza e chiarezza, senza l’aggiunta di insegnamenti e comandamenti umani”. Il langravio Filippo d’Assia, vicino alle idee di Lutero, ed il Duca Giorgio di Sassonia, cattolico, si coalizzarono e lanciarono un’offensiva, sconfiggendo prima le bande contadine il 12 maggio del 1525 a Bobingen; successivamente sconfissero l’esercito guidato da Thomas Munzer nella battaglia di Frankenhausen il 15 maggio dello stesso anno. Il 17 maggio, dopo la firma di una tregua, il Duca Antonio di Loreno massacrò i contadini alsaziani a Saverne. Il potere, di fatto, era nei principi tedeschi: la scelta di Lutero fu opportunistica, ma salvò l’impianto della riforma; mettendosi contro i principi, infatti, i contadini non avevano strumenti per contrastare i principi. Carlo V ed il protestantesimo della Germania Con il contributo di Filippo Melantone nel 1530 Lutero stese un elenco di articoli di fede, chiamato La confessione di Augusta. Nello stesso periodo Zwingli estese una propria confessione, e Martin Bucer ne estese un’altra che fu sottoscritta dai protestanti di Strasburgo, Costanza, Moninger e Lindau. La questione protestante accompagnò Carlo V per tutta la durata del suo impero. Due anni dopo la pubblicazione delle 95 tesi, nel 1519 Carlo V giurò la Costituzione imperiale, in base alla quale nessuno poteva essere messo al bando dall’Impero senza un processo. Il primo sviluppo del luteranesimo in Germania vide Carlo V impegnato da un lato a non radicalizzare il conflitto con i principi territoriali, dall’altro a difendere la pax christiana, l’unità della Chiesa, dalle eresie. Con l’editto di Worms Lutero è dichiarato eretico, ma la definnitiva risoluzione è rinviata alla convocazione del concilio. Carlo V era in preda a preoccupazioni di natura politica, ma sperava anche di poter restaurare l’Impero con l’aiuto del protestantesimo, così da realizzare una sintesi tra riforma religiosa e riforma politica dell’Impero. Alla conclusione della rivolta contadina, nel 1525 i principi cattolici della Germania strinsero un’alleanza contro i principi luterani. Questi, a loro volta, nel 1526 stabilirono un’analoga intesa. Le due Diete Imperiali tenutesi nel 1526 e nel 1529 a Spira i cattolici filoimperiali riuscirono ad imporre le decisioni prese a Worms nel 1521 e vennero vietate le requisizioni dei beni appartenenti alla Chiesa Cattolica. La situazione si congelò e fu proibita ogni innovazione in materia di fede prima del concilio. I principi di Sassonia, di Brandeburgo, d’Assia e 12 città libere si opposero al provvedimento, formarono una nuova alleanza ed in seguito alla protesta vennero chiamati protestanti. Intanto le dispute teologiche indebolivano il fronte protestante. Zwingli e Bucer negarono il valore della transustanziazione ed attribuirono all’eucarestia un rilievo commemorativo. Lutero sostenne la teologia eucaristica della consustanziazione. Per i cattolici, durante l’eucarestia il sacerdote operava il miracolo della trasformazione del pane e del vino in corpo e sangue di cristo; Lutero sosteneva che durante il rito dell’eucarestia la comunità operava attraverso la fede la presenza del corpo e del sangue di Cristo. A figura centrale del rito, nella cattolicità, è il sacerdote, il quale, attraverso delle azioni, compie la trasformazione del pane e del vino in corpo e sangue di cristo: è la transustanziazione. Lutero sostiene però che non è il sacerdote che realizza la presenza del corpo e del sangue in una particola, ma è la comunità dei fedeli che, grazie alla fede realizza la presenza di Cristo nel pane e nel vino. Il focus, dunque, si sposta dal sacerdote alla comunità dei fedeli. La Germania era spaccata in due fronti, mentre Carlo V era impegnato sia sul piano militare che su quello diplomatico a ridefinire gli assetti politici italiani. Nel 1529 la pace di Cambrai apre una nuova congiuntura nel rapporto tra i protestanti e l’imperatore. Un nuovo tentativo di pacificazione si ebbe nel 1530 con la Dieta di Augusta: si discusse del problema delle città imperiali che si opponevano alla restaurazione della giurisdizione vescovile, connessa alla restituzione dei patrimoni ecclesiastici. Le deliberazioni della Dieta, in assenza dei principi protestanti, previdero: divieto di introdurre innovazioni ed ostacolare la nuova fede fino alla convocazione del Concilio ecumenico; convocazione, entro un anno, di questo concilio per una Riforma cristiana; restituzione di chiese e conventi; attribuzione al Tribunale della Camera residente e del Duca di Savoia. La città di Givevra, aderendo allo spirito di riforma religiosa, intendeva emancipare il governo cittadino dall’influsso del potere vescovile. La ribellione fu sostenuta dal vicino cantone di Berna che diede un appoggio militare, ed attraverso Farel, nel 1533, vollero impiantare a Ginevra una Chiesa cittadina che aderiva ai principi della riforma zwingliana. Farel persuase Calvino a stabilirsi a Ginevra come predicatore ed insegnante, per aiutarlo nell’allestimento di una nuova Chiesa cittadina. I due predisposero un nuovo ordinamento ecclesiastico ideato da Calvino che concedeva al Clero il potere legale di emanare scomuniche dei peccatori. I magistrati della città erano favorevoli all’adozione del sistema bernese, che aveva un’impronta zwingliana e che affidava le titolarità delle scomuniche nelle mani del Clero. Ne 1538 bandirono, in quanto perturbatori, Farel e Calvino. Ormai esiliato, Calvino si traferì a Strasburgo, città che in cui operava Martin Bucer e che accoglieva la comunità dei rifugiati religiosi. Ambientatosi nella comunità di Strasburgo, Calvino accettò con perplessità di tornare a Ginevra. Rientrato nella città Svizzera, compilò dei nuovi progetti ecclesiastici che i magistrati ginevrini accettarono, apportando lievi emendamenti. Si trattava di un modello di riforma caratterizzato da una forte compenetrazione fra religione, politica ed istituzioni locali. Durante i successivi 14 anni Calvino costituì un modello di amministrazione civile e religiosa di ispirazione teocratica, e dovette affrontare una serie di conflitti intestini tra le fazioni cittadine. Il panorama sociale di Ginevra mutava con rapidità: stampatori, nobili, mercanti espulsi dalla Francia portarono grandi vantaggi all’economia ed al dibattito culturale, polarizzando la vita cittadina. Nel 1555 il predominio posto in estero dai francesi determinò la sconfitta dei più importanti oppositori di Calvino, i quali non furono rieletti ad assolvere le mansioni di governo. Calvino, vittorioso, acquisì la cittadinanza ginevrina nel 1559 e diresse la Chiesa fino alla morte che avvenne nel 1564. La riforma di Calvino asseriva che i princìpi della Scrittura assumevano dei valori superiori a quelli posti in essere dalle tradizioni, che la Vera Chiesa fosse composta dalla comunità spirituale dei Santi scelti da Dio ed opposta alla corruzione che regnava nella Chiesa, ma anche una comunità di fedeli. Come Lutero, aboliva la mediazione del clero, ma accentua la dipendenza assoluta dell’uomo da Dio attraverso la predestinazione e l’importanza delle opere per l’elezione divina. Tutta l’attività dell’uomo è impregnata di spirito religioso: città, lavoro e professione, è il trinomio esaltato nella concezione calvinista. Inoltre, rifiutava la transustanziazione cattolica quanto la transustanziazione luterana, asserendo che la presenza spirituale nel corso del rito eucaristico assumeva un ruolo del tutto simbolico e spirituale. Per Lutero credo ergo sum, per cui l’identità del cristiano è nella fede. Per Calvino ago ergo credo, identità del cristiano nelle opere. Con questi connotati il Calvinismo si irradia da Ginevra verso la Germania, i Paesi Bassi, la Scozia, la Polonia, l’Ungheria e la Transilvania e trova successo nei gruppi sociali urbani, come artigiani, uomini d’affari e contadini. Nel 1553 la condanna a morte, emessa dai calvinisti, nei confronti del medico spagnolo Michele Serveto, che mise in discussione il dogma trinitario e la natura divina di Cristo, alimentò un ampio dibattito negli ambienti colti dell’Europa. Diffusione della Riforma L’area luterana era assai compatta e comprendeva territori della Germania centrosettentrionale, del Nord- Europa, dell’Europa orientale e le coste baltiche. In Germania in particolare si deve la sua diffusione alle popolazioni urbane, alla nobiltà, che aspirava ad allargare diritti e privilegi. Il Protestantesimo è poi all’origine della Prussia moderna: dopo la seconda pace di Thorn (1466), la Prussia era stata smembrata. La parte Occidentale appartenente all’Ordine Teutonico era infatti stata annessa alla Polonia. Il Gran Maestro Alberto di Bandeburgo, a cui era rimasta la parte orientale, trasformò il territorio in un ducato laico ed eraditario e vi stabilì saldamente la Riforma. In Danimarca e Svezia prese piede la Riforma dei sovrani che deposero vescovi ed incamerarono i beni ecclesiastici. In Austria la nobiltà restava fedele al cattolicesimo, mentre nei Paesi baltici e nell’Europa orientale non furono insensibili al Protestantesimo, ma le numerose confessioni religiose resero più semplice la restaurazione cattolica. Polonia e Lituania furono invece interessati al Calvinismo, ma il frazionamento nobiliare favorirono a Controriforma. Quanto all’Ungheria, la penetrazione degli scritti di Lutero generò una pluralità di confessioni, per le quali si tornò alla Chiesa cattolica. L’area calvinista si presentava più frastagliata, con punti di forza le città svizzere, l’Olanda, il Palatinato ed il Basso Reno e la Scozia. Calvino consentiva il diritto di opposizione e resistenza all’autorità sovrana, e ciò spiega la sua fortuna nei Paesi Bassi, dove divenne professione di fede nella ribellione contro gli spagnoli. In Francia la Riforma ottenne approvazione sin dagli anni Venti del Cinquecento. La sorella di Francesco I, Margherita di Navarra, si convertì al Luteranesimo. Nel 1535 era pubblicata la traduzione in francese della Bibbia ma un anno prima il re aveva promosso una repressione contro i cenacoli protestanti comminando le condanne al rogo. Solo con l’alleanza di Francesco I con i luterani tedeschi contro l’imperatore ne permisero la diffusione. Il movimento religioso calvinista si avviava a diventare partito politico e ad alimentare la guerra civile nella Francia della seconda metà del Cinquecento. La Scozia aderì al calvinismo grazie a John Knox, mentre l’Irlanda riempì di forti connotati cattolici la lotta nazionale contro l’Inghilterra. La riforma religiosa in Inghilterra La Riforma religiosa in Inghilterra fu un momento chiave nella formazione dello Stato moderno inglese. Re Enrico VIII difese i sette sacramenti contro il riformatore tedesco ed ottenne il titolo onorifico di difensore della fede dal papa, ma vi furono successivamente profondi motivi di rottura con la Chiesa di Roma, come il desiderio di un erede maschio (che non ebbe dalla moglie Caterina d’Aragona) e la passione per Anna Bolena. Enrico VIII chiese infatti l’annullamento dal suo matrimonio, ma egli non avrebbe potuto sposare Caterina perché era stata sposa del fratello maggiore Arturo, perciò vi fu un processo assai complesso. Alla sua apertura nel 1529 la regina si appellò al papa Clemente VII ed intervennero pressioni di vario genere. Carlo V, nipote di Caterina, convinse il papa, riavvicinatosi all’imperatore, a spostare il processo a Roma. Clemente VII infatti non si decideva ad emettere una sentenza e si avvicinava uno scisma. L’arcivescovo di Canterbury, Thomas Cranmer, dichiarò nullo il matrimonio di Enrico VIII, già segretamente sposato con Anna Bolena, e perciò la scomunica di Clemente VII non servì a nulla. Con l’Atto di supremazia del 1534 Enrico ottenne il titolo di unico e supremo capo della Chiesa anglicana. La giurisdizione papale era così abolita ed il re era unica fonte di giurisdizione temporale e spirituale. La Corona era libera dalla dipendenza da Roma dal punto di vista spirituale. Chiunque si rifiutò di giurare fedeltà al nuovo assetto costituzionale, sancito dal Parlamento, venne mandato a morte, così come il vescovo di Rochester, John Fisher e Tommaso Moro, ex cancelliere. Il Primo Ministro Thomas Cromwell promosse importanti riforme economiche, quali la confisca dei beni ecclesiastici e l’incameramento del re di tutte le decime pontificie. Enrico VIII aveva così promosso, più che una riforma religiosa, una riforma politico-costituzionale: lo scisma da Roma rivoluzionò il governo del Paese. La vera riforma in materia teologica fu invece intrapresa da Edoardo VI, che con il Libro della preghiera comune riconosceva due soli sacramenti: il Battesimo e l’Eucarestia, sopprimeva il carattere sacrificale della messa ed aboliva il celibato ecclesiastico. Il Protestantesimo si avviava così ad adottare in Inghilterra il modello calvinista. Anabattisti e spiritualisti La Riforma vide nel suo seno la formazione di gruppi e movimenti tendenti a radicalizzare alcuni principi sostenuti dai padri fondatori del Protestantesimo. Gli stessi leader del movimento protestante, però, presero le distanze dalle frange estremiste, fino a condannarle recisamente. Così fece Lutero nei confronti di Muntzer e dei contadini in rivolta o Zwingli contro gli anabattisti e gli spiritualisti. Gli anabattisti, sconfitti nella guerra dei contadini, accentuarono il loro carattere volontario di professione di fede attraverso il Battesimo degli adulti, gli ideali di uguaglianza predicati nelle Sacre Scritture e la concezione della Chiesa come una libera comunità di fedeli. Ottennero fortuna presso i ceti artigiani delle città, colpiti dal fiscalismo, ed i ceti rurali, colpiti dalla pressione feudale. A Munser, nel 1534, gli anabattisti tentarono di realizzare i loro ideali proclamando la città un Regno di Dio, cacciando cattolici e luterani e proclamando re un artigiano. Furono massacrati da Filippo d’Assia che restaurò il potere del vescovo sulla città, ma l’Anabattismo, pur perdendo i connotati più violenti, si diffuse in Europa e nel Nuovo Mondo. Gli spiritualisti predicavano la netta opposizione tra spirito e corpo e si opponevano alla Riforma come istituzione. Fra i leader, Sebastian Franck promuoveva una tolleranza religiosa. Si vennero producendo però anche gruppi e movimenti di opposizione ad ogni forma di istituzione ecclesiastica: gli eretici, coloro che interpretavano liberamente l’esperienza religiosa e si ribellavano alle diverse Chiese, ponendo le basi per la nuova concezione della religione come libera scelta individuale del rapporto con Dio, tollerante e rispettosa, antidogmatica. Echi della Riforma in Italia Anche in Italia si assunse una concezione religiosa che aderiva alle influenze della cultura erasmiana. Furono idee ed atteggiamenti che si radicarono tra il Clero colto ed in ambiti ristretti dell’aristocrazia, soprattutto tra uomini di cultura. A Napoli, tra 1530 e 1545, operò un importante umanista spagnolo, Juan de Valdés, che accoglieva una visione della riforma ispirata ai principi ed alle idee di Erasmo ma che al tempo stesso appoggiava la giustificazione per fede ed una declinazione della vita religiosa in senso spirituale ed intimo e più aderente al modello proposto dal Vangelo. Nella casa di Valdes si formò un cenacolo di riformisti e di seguaci della religione valdese, tra i quali nobili ed aristocratici, ma anche alti dignitari ecclesiastici, sacerdoti e monaci, e molti uomini di cultura. le idee di Valdes ebbero importanza nella formazione intellettuale di figure importanti, soprattutto del cardinale inglese Reginald Pole. Gruppi affini si formarono anche in altre città italiane, soprattutto in Stati in cui minore era la pressione della Spagna e più solide erano le relazioni con i transalpini; tra queste città si annoverano Lucca, lo Stato Estense e la Repubblica di Venezia. A Lucca si propagano idee riformatrici attraverso il teologo fiorentino Piermartire Vermigli e l’umanista del Piemonte Celio II Curione; nelle più importanti famiglie legate a Francia e Fiandre si affermano invece le idee della riforma svizzero-strasburghese. A Ferrara, la duchessa Renata di Francia, figlia di Luigi XVII e moglie di Ercole II Deste, ospita nella sua coorte e difende i fautori della riforma sia italiani che francesi. A Modena si raccolse un’associazione letteraria di ispirazione erasmiana, alla cui colloqui parteciparono importanti prelati come il cardinale Sadovedo e letterati come Ludovico Castelvetro e Francesco Molza. I rapporti con le città tedesche e svizzere determinarono l’insinuazione del protestantesimo anche nel Veneto, dove si svilupparono le idee anabattiste, soprattutto tra i ceti umili della città. Dallo Stato Veneto emigrava dall’Italia, approdando al protestantesimo, il vescovo di Capodissea Pierpaolo Vergerio, già nunzio pontificio è più tardi feroce polemista anticattolico. A Venezia il fiorentino Antonio Brucioli stampò nel 1532 una traduzione italiana della Bibbia che trovò vasta diffusione. Esisteva già una vulgata, la vulgata di S. Girolamo, ma la Bibbia era un libro proibito. Alla riforma svizzero-strasburghese aderirono i superstiti valdesi in Piemonte, in Francia e nell’Italia Meridionale. Questa espansione delle idee erasmiane e protestanti, però, non portò alla costituzione di una Chiesa dissidente: il movimento dei riformatori italiani rimase confinato nei ristretti ambiti di cenacoli o gruppi di intellettuali, i quali si dissolsero in presenza dell’azione repressiva dell’inquisizione, mentre i loro promotori e rappresentanti più importanti dovettero cercare rifugio all’estero o finirono alla fine sul rogo. La costituzione di una Chiesa, dunque, non fu possibile perché, mentre la situazione tedesca era particolare e la classe dirigente si sfilacciò, la Chiesa in Italia riuscì ad essere ancora il punto di raccordo di tutti i signori degli Stati italiani. Anche la Repubblica Veneta, quella meno condizionata sia dalla Spagna, con cui mai andava d’accordo, sia dalla Chiesa, da cui si manteneva le distanze e su cui si stampavano libri di opposizione, non manifestò mai in maniera evidente una preferenza verso le posizioni dei protestanti. La Repubblica Veneta fu infatti la stessa che consegnò Giordano Bruno allo Stato Pontificio. Europa Cristiana Il continuo distacco tra una Chiesa trionfante ed una militante è uno dei motivi centrali che ancora oggi rappresentano una costante della cattolicità. Oggi si parla di un possibile scisma, ed anche in passato, negli anni ’70, ci fu un vero e proprio scisma in Francia con i sacerdoti cattolici che si facevano a Le Ferre. Agli inizi degli anni ’60 il Concilio Vaticano II rappresentava la grande frattura che strisciò tra coloro che appoggiavano Giovanni XXIII e coloro che appoggiavano il cardinale Ottaviani. Il contrasto tra Chiesa trionfante e militante è una costante che parte dai tempi dell’ordine francescano, e ancor prima con Ildebrando di Soana ed i vescovi Conti. All’interno della Chiesa ci sono sempre stati momenti in cui essa si mondanizza ed una richiesta sempre più forte di moralizzazione. Il Concilio di Trento non fu dunque una novità: all’interno della storia del cattolicesimo ci sono sempre state spinte moralizzatrici che alla fine emergono in alcuni momenti della storia determinando cambiamenti. Jeidn sostenne che fosse troppo semplice dire che la risposta alla riforma protestante potesse essere solo una risposta controriformista. Prima di Lutero, molti ecclesiastici che appartenevano alla devotio moderna si resero già conto che la Chiesa si era mondanizzata. Il conflitto tra Bonifacio VIII ed il re di Francia Filippo IV mise a nudo la fragilità del potere politico esercitato dalla Chiesa. Inoltre, l’oltraggio perpetrato ai danni del Papa da Guglielmo di Nogaret e da Sciarra Colonna il 7 settembre del 1303 segnava il declino della supremazia pontificia. Con la morte di Benedetto XI, nel luglio del 1304, il nuovo Conclave si aprì all’insegna di profondi conflitti nello stato pontificio tra le famiglie Orsini Colonna e Caetani. L’elezione di un papa francese, come Bertrand de Got, già vescovo di Bordeaux, fornì a Filippo IV il Bello l’opportunità di spostare la sede episcopale ad Avignone. Si svilupparono ricerche su come operava lo spirito riformista che animava la cattolicità, si indagarono le attività caritativo-assistenziali delle congregazioni, delle confraternite e degli ordini religiosi che restituirono alla storia un interessante processo di trasformazione e di rinnovamento del mondo cattolico. Un altro orientamento nella scola anglosassone è stato messo a punto per studiare le trasformazioni religiose e culturali e per individuare meglio i caratteri della modernità: si sono studiati i cambiamenti affiorati nei riti, nella cultura e nelle istituzioni religiose utilizzando i termini di riforma e controriforma in maniera neutra, non calcando dunque sul ruolo cattolico ed oscurantista, ma senza connotazioni ideologiche o morali. Altri studi si sono incentrati sulle differenze tra un’area riformista priva di un’autorità sacerdotale ed un’altra in cui l’esistenza del magistero ecclesiastico ha impulso una spinta spirituale ed un fervore religioso che ha operato un innalzamento verso la santità di uomini e nonne, traducendosi in sviluppo di missioni per l’evangelizzazione dei popoli europei ed in attività artistiche e culturali. Rheiner propose una interpretazione della controriforma come forma di modernizzazione. Individua nel processo di riforma e controriforma due fasi parallele: quella del risveglio spirituale ed evangelico e quella della confessionalizzazione, la quale assunse tratti del disciplinamento di grandi masse di popolazioni per ridurle all’obbedienza e rimuovere quei tratti di resistenza interiorizzati. Gli studi di Paolo Prodi infine, superando i problemi legati ai caratteri della modernità della controriforma, individuano nel Concilio l’attuazione di un programma che rappresenta la prima forma moderna per disciplinare i comportamenti collettivi attraverso l’obbedienza, le politiche confessionali, i rituali, l’insegnamento, le buone maniere ed i comportamenti famigliari. Tutta la lettura storiografica sulla riforma da parte dei cattolici risentì delle interpretazioni che in diversi momenti storici si sono succedute. Ogni storia, infatti, ogni interpretazione, ogni studio del passato è sempre contemporaneo, risente del clima in cui lo studioso cerca di trarne considerazioni. Il concetto di Controriforma sottolinea il carattere repressivo, il consolidamento dei dogmi e delle strutture ecclesiastiche e la riorganizzazione interna della Chiesa cattolica. Con l’uso del concetto di Riforma cattolica invece non si sottolinea la reazione al Protestantesimo, ma il rinnovamento religioso che investe la Chiesa del Tardo Quattrocento fino al XVII secolo. La sua ispirazione era quella di agire sugli uomini, sui fedeli, prima che sulle strutture. La storiografia attuale ha ormai superato l’antonimia e la contrapposizione tra i concetti di Riforma cattolica e Controriforma: ne sottolinea piuttosto la connessione, l’interdipendenza. Riforma Cattolica e Controriforma sono due tendenze del cattolicesimo convergenti verso una sua più decisa affermazione. Oggi per Controriforma si intende più il processo di cristallizzazione delle confessioni religiose, il nuovo sistema giuridico della Chiesa cattolica, la prassi pastorale tendente alla conquista delle masse e la teologia tridentina. Ma non mancano i riferimenti agli abusi, agli eccessi, all’oscurantismo, all’intolleranza dei nuovi apparati controriformistici della Chiesa. Il Concilio di Trento Si tratta di quel Concilio che traccia il programma di reazione o risposta alle istanze poste dai protestanti. La restaurazione del potere papale divenne il dato più importante e significativo dell’azione dei pontefici rinascimentali. Si ristabilisce il potere attraverso una pratica concordataria con i sovrani. I pontefici perseguirono una politica tesa a ridimensionare le ispirazioni di riforma in senso conciliarista, ed anzi, con la bolla execrabilis del 1460 emanata da Pio II, rivendicarono la superiorità del potere del Papa rispetto al Concilio. Questo indirizzo fu rafforzato durante il V Concilio Laterano con un decreto pastor aeternus, ispirato da Leone X, nel quale il Papa si attribuiva il diritto di convocare i concili, di spostarli in altra sede e di scioglierli. Il potere episcopale andava dunque sempre più assumendo una dimensione propria del modello monarchico, con un capo assoluto nella persona del sovrano-pontefice. La Chiesa era continuamente posta al centro di pretese mondane e degli equilibri politici europei ed italiani. Dopo il Concilio di Costanza, Martino V sottoscrisse vari concordati temporanei con Francia, Germania, Spagna ed Inghilterra, alle quali concesse un cospicuo numero di privilegi che riguardavano il governo ecclesiastico. Altri privilegi furono concessi con il Concordato di Credons del 1441 sottoscritto da Papa Eugenio IV ed il Duca di Bretagna, con quello tra Eugenio IV ed i principi tedeschi nel 1447, con il Concordato di Vienna del 1448 tra Niccolò V e Federico III d’Asburgo e con quello tra la Santa Sede e la Francia nel 1472. Nella Scandinavia, nei Paesi Bassi, nella Polonia e nell’Ungheria, intanto, l’aristocrazia locale sfruttava i legami famigliari con alcuni membri delle gerarchie ecclesiastiche per arginare le pretese regie. La Chiesa, dunque, diventava uno strumento del potere centrale e talvolta lo scudo dietro il quale si nascondevano le pretese del particolarismo locale. Nella penisola italiana questo duplice ruolo era ancor più evidente che altrove. Le guerre d’Italia indussero i pontefici a prestare una maggiore attenzione agli eventi bellici ed alle congiure che animarono la vita politica della penisola, rispetto ai fermenti religiosi ed alle tensioni spirituali avvertite dalle popolazioni. Intanto, con il rafforzamento dei ceti borghesi, si affermava una nuova religiosità che privilegiava gli aspetti pastorali e dava sempre meno spazio ai contenuti apocalittici e penitenziari. Questa dimensione mondana della Chiesa non incise sul prestigio che i pontefici seppero ritagliarsi alla fine del XV secolo: nel 1493 infatti Spagna e Portogallo affidarono all’autorità del Papa l’arbitraggio relativo alla questione degli immensi territori scoperti da Colombo e dagli altri esploratori dei mari che seguirono il suo esempio. Successivamente, questi vicari di Cristo, come Sisto IV che cospirò per uccidere Lorenzo il Magnifico, come Giulio II che da Papa-guerriero pianificava l’assedio della fortezza di Mirandola, con questi atteggiamenti contribuirono ad inasprire i contrasti tra le più potenti dinastie cattoliche, soprattutto tra gli Asburgo ed i Valois, in un periodo in cui la creazione di un fronte comune avrebbe potuto annientare le forze protestanti. Il risoluto intervento del papato nelle guerre d’Italia minò l’autorità spirituale e compromise l’azione di un possibile intervento diplomatico in un momento critico; inoltre, l’attività del pontefice contrastata con tenacia ed assunse sempre più una valenza politica. Ogni determinazione in merito alla riforma interna ed ogni risposta alle accuse provenienti dall’estero rispecchiavano interessi di parte. La figura del pontefice non poteva più essere una figura super partes, ma aveva una connotazione di parte. Quando Adriano di Utrecht, diventato Papa con il nome di Adriano VI, fu pronto a comprendere quali fossero le colpe della Chiesa ed a recepire l’esigenza di una riforma, non così attento si rivelò il suo successore Clemente VII. Quest’ultimo era più interessato a tutelare gli interessi dei Medici a Firenze ed a coltivare i suoi rapporti con la Francia nel solco di una politica tesa a ristabilire la libertà d’Italia, la libertà degli antichi Stati italiani, dai condizionamenti stranieri. La congiuntura politica non offriva margini per un’azione politica così ampia. La posta in gioco era troppo alta ed il controllo del Regno di Napoli e del Ducato di Milano avrebbe segnato un’egemonia sull’intero territorio italiano. La Lega di Cognac sottoscritta nel 1526 dal Pontefice, dalla Repubblica Veneta e dal Re di Francia spinse nel 1527 l’imperatore Carlo V d’Asburgo ad intraprendere un’attività militare che si concluse con il saccheggio di Roma. Le continue intromissioni del Papato nei problemi politici italiani resero impossibile ed inibirono un suo intervento nei contrasti religiosi che infiammavano la Germania dopo la protesta avanzata da Martin Lutero. Nel secondo decennio del 500 si elevava la critica di Erasmo da Rotterdam contro la politica del papato impegnata nei progetti di espansione territoriale e meno attenta alle esigenze spirituali del suo gregge. Egli si opponeva ad una Chiesa influenzata dagli interessi temporali, ad una religione officiata da frati corrotti e con una scarsa preparazione teologica; si opponeva soprattutto alle istanze che venivano emanate da un clero secolare caratterizzato dalla cupidigia ed a tutte quelle farneticanti teorie che venivano elaborate da teologi astuti e religiosi. Gli scritti di Erasmo concorsero a divulgare in tutta l’Europa un sentimento comune a dotti, umanisti ed al popolo; egli denunciava il clero per aver rinnegato il messaggio contenuto nei Vangeli e di aver trasformato la fede in una somma di attività superstiziose, preghiere esteriori e preghiere oscure. Nel 1513 due monaci camaldolesi, Paolo Giustiniani e Pietro Querini, recependo le attese emerse nel Concilio Lateranense da una vasta parte dell’impero ecclesiastico, composero il libellus ad Leonem decimum, dove ripresero i temi e l’idea di un progetto che doveva condurre ad una vasta operazione di ammodernamento e mutamento interno alla Chiesa. Il progetto non fu mai attuato. L’elezione al pontefice di Paolo III Farnese riaccese le speranze di una Riforma cattolica presenti soprattutto nei circoli dei riformatori. Il nuovo papa, mentre Carlo V rinviava di continuo la definizione ultima delle questioni di fede e di religione, egli convocava di continuo il concilio: nel 1536, nei due anni successivi e nel 1542, ma ad ognuna di queste convocazioni corrispondeva una congiuntura critica nel rapporto con i protestanti. Nel 1536, ad un gruppo di esperti diretti da Gasparo Contarini (rappresentante del Papa che partecipò e fu artefice degli accordi di Ratisbona del ’47) fu affidato il compito di individuare i presupposti per una riforma universale che doveva essere vagliata dal Concilio. Queste personalità che fecero parte della commissione avrebbero rappresentato il gruppo dirigente della Chiesa cattolica, e coloro che non erano ancora membri del collegio cardinalizio vi sarebbero entrati successivamente. La commissione era composta da: Carafa, Pole, Cortese, il grecista Girolamo Aleandro (cardinale nel 1538, 2 anni dopo dell’attivazione del gruppo), Jacopo Sadoleto (cardinale nel 36 e già segretario nella Segreteria dei Brevi nel pontificato di Leone X), il domenicano Tommaso Badia (cardinale nel 1542), il nobile genovese Federico Fregoso (cardinale nel 39), Gianmatteo Giberti (datario apostolico sotto Clemente VII). I risultati della commissione furono comunicati nel 1537 a Paolo III con una Memoria dal titolo Consilium ad emendanda ecclesia “Parere sulla riforma della Chiesa”. Le riflessioni esaminate nel Consilium riprendevano alcuni problemi inerenti alla vigilanza dei libri, alla predicazione, all’insegnamento universitario, agli eccessi del clero regolare e secolare, ed alla riforma degli uffici della burocrazia romana. I problemi trattati erano talmente ampi, vasti e consistenti che determinarono un congelamento delle proposte di riforma. Inoltre, nel concilio dello stesso anno ed in quello dell’anno successivo i riformatori non parteciparono all’assise ecumenica. Coloro che avevano partecipato ai lavori del Consilium, negli anni a seguire si divisero in due componenti rispetto al problema della politica da intraprendere per arginare il proselitismo religioso dei riformatori protestanti: da una parte i sostenitori di un atteggiamento volto al dialogo ed al confronto con il mondo protestante ed erano gli uomini che si riconoscevano nelle idee del cardinale Gasparo Contarini; dall’altra le posizioni più rigide ed intransigenti espresse dal cardinale Pietro Carafa e Girolamo Aleandro. Nel collegio cardinalizio, negli anni 40, si svilupparono aspri contrasti tra i due schieramenti che portarono all’affermazione dei sostenitori di coloro che volevano adottare una politica religiosa più intransigente. Nei lavori della Dieta di Ratisbona del 1541 l’imperatore Carlo V ed i principi tedeschi riaprirono le trattative tra protestanti e cattolici: da una parte il legato papale Contarini e dall’altra Filippo Melantone, Martin Bucer e Pietro Pistorio. Fu l’ultimo tentativo avviato per ricomporre la frattura. In un primo momento si discusse del principio della giustificazione e si pervenne ad un compromesso dottrinale che poteva soddisfare le attese dei teologi protestanti e del legato papale: la doppia giustificazione. Il legato del Papa, infatti, era segretamente convinto che il fondamento dei luterani fosse verissimo. La rottura però si rivelò irreparabile sulle questioni inerenti ai caratteri sacramentali della Chiesa ed alla natura della sua gerarchia. Nel 1542, alla Dieta di Spira, i principi della Lega di Samalcalda chiedevano all’imperatore il riconoscimento ufficiale della loro scelta religiosa. Nello stesso anno, 21 luglio del 1542, con la bolla licet ab initio Paolo III Farnese decretò la costituzione del Supremo Tribunale del Santo Uffizio Romano, al quale vennero affidate le mansioni di indirizzo e coordinamento delle inquisizioni locali e poteri di intervento per attivare i processi nei confronti di laici ed ecclesiastici, superando il limite posto dai privilegi e dalle immunità. A sei cardinali inquisitori veniva affidata la piena giurisdizione. L’attività inquisitoriale del Santo Uffizio si rivelò un potente strumento repressivo soprattutto nelle mani di Paolo IV Carafa, da cui fu utilizzato per reprimere qualsiasi forma di dissenso interno ed esterno, secondo gli indirizzi tracciati dieci anni prima dal cardinale quando sostenne che “gli eretici si vogliono trattar da eretici” (Carafa). Paolo IV fece perseguire anche personalità ecclesiastiche accusate di Luteranismo e complicità per la troppa negligenza nella punizione agli eretici. Intervenne poi con un controllo sociale e culturale dell’ortodossia cattolica, istituendo l’Indice dei libri proibiti nel 1559, che distribuiva gli autori in tre classi: quelli totalmente condannati, quello condannati per una sola opera e gli anonimi. Caddero gli stampatori ed in Italia ebbero inizio i roghi dei libri proibiti. Tra gli autori venne incriminato anche Erasmo. I primi che compresero la portata e gli effetti dell’iniziativa furono Bernardino Chino e Pier Martire Vermigli. Il primo era il generale dell’ordine dei cappuccini, noto come un abile predicatore, il quale mantenne rapporti di amicizia con Reginal Pole e Vittoria Colonna; per altro, nel 1539, gli si voleva affidare il cappello cardinalizio. Il secondo era un canonico regolare e Priore del Monastero lucchese di S. Frediano, che intratteneva proficui rapporti con Valdesi. Entrambi, per sottrarsi all’indagine avviata dal Tribunale dell’Inquisizione, furono costretti ad abbandonare l’Italia: Chino si rifugiò nella Ginevra calvinista, Vermigli insegnò presso le cattedre delle università di Oxford, Strasburgo e Zurigo diventando uno dei più autorevoli maestri del calvinismo europeo. Il 22 maggio del 1542 veniva promulgata la bolla Initio nostri huius Pontificati che sanciva la convocazione del Concilio di Trento, successivamente sospeso a causa della guerra tra Francia e Spagna. Si profilava un indirizzo che privilegiava un progetto di accentramento della politica religiosa romana. In questo periodo prendeva forma un modello di assolutismo pontificio che si attivava in una duplice azione indirizzata alla convocazione conciliare ed alla riorganizzazione dell’attività inquisitoriale. Delio Cantimori era convinto che in quell’anno maturasse il fallimento del programma religioso formulato dal Contarini e da quella folta schiera di curiali ed importanti uomini di Chiesa, favorevoli ad un dialogo con i protestanti e ad una ripresa delle discussioni teologiche delle nuove dottrine. In realtà, proprio in quegli anni, era attiva in Italia l’azione dei riformatori cattolici, che ancora godevano di una protezione della Santa Sede; si poteva ancora intervenire durante il pontificato farnesiano per contrastare l’orientamento politico e religioso che privilegiava un indirizzo dei curiali verso posizioni più intransigenti. A Reginal Pole e Giovanni Moroni fu affidato il compito di presiedere l’assemblea conciliare che poi naufragò: i legati pontifici che raggiunsero Trento nel mese di novembre si accorsero che solo due vescovi, compreso quello di Trento, avevano risposto alla convocazione. Anche la composizione del Collegio Cardinalizio poteva alimentare attese ed auspici per la ripresa del dialogo, cui erano stati cooptati importanti figure come il Bembo, il Sadoleto, il Cortese, pervenuti alla porpora attraverso l’impegno religioso e gli studi umanistici. studi di filosofia retorica, letteratura, teologia etc, e solo una ristretta élite accedeva ai vertici della Compagnia. Sant’Ignazio assunse il compito di rinnovare una Chiesa contestata nei suoi fondamenti dal Protestantesimo. La teologia medievale di San Tommaso divenne il fondamento filosofico della Controriforma, e così il metodo umanistico dell’analisi, dello studio e della ricostruzione dei testi come gli scritti dei Padri della Chiesa, delle Sacre Scritture e delle delibere dei primi Concili. L’ideale pedagogico dei Gesuiti era quello di procurare una più copiosa istruzione spirituale, fine della salvezza delle anime. Così i Collegi dei Gesuiti divennero progressivamente vere e proprie scuole. Dal 1561 alle scuole superiori dei Gesuiti fu riconosciuta la facoltà di addottorare in teologia e filosofia. Gesuiti intuirono che la cultura era un potente fattore di status, di distinzione e prestigio sociale. Introdussero perciò altre discipline, come il teatro e la musica, il cui apprendimento era ritenuto utile ed importante per il perfetto gentiluomo cattolico. Importante fu poi l’iniziativa missionaria a vastissimo raggio, non solo nell’Europa cattolico-romana, ma anche nelle terre d’Oltremare. Alla confessione, alla predicazione ed all’istruzione del clero, strumenti della Chiesa cattolica, i Gesuiti aggiunsero l’istituzione di missioni, campagne di evangelizzazione condotte da famosi predicatori. L’obiettivo principale era quello di ridurre le distanze tra religioni dei semplici e religioni dei dotti. Idea di Impero nel Cinquecento Il successo politico che la casata degli Asburgo riuscì a conseguire fu in parte dovuto alla politica matrimoniale che questi seppero pianificare. I discendenti degli Asburgo, grazie alle successioni di vasti possedimenti territoriali pervenuti per via ereditaria dai regnanti con i quali essi erano imparentati, riuscirono a comporre un sistema politico che si andava fondando sul modello della successione dinastica della monarchia asburgica. Gli arciduca d’Asburgo, alla fine degli anni 30 del 400, riuscirono a superare una difficile congiuntura politica che si protrasse fino agli inizi degli anni 90. I possedimenti austriaci furono sottoposti alla duplice pressione nel 1471 delle incursioni turche e delle successive aggressioni ungheresi che, sotto la guida del re Mattia Corvino, occuparono l’Austria Inferiore, la Carinzia, l’Assiria e Vienna nel 1485. Nello stesso periodo, mentre deteneva la corona imperiale Federico III, il prestigio degli Asburgo fu messo in discussione e sperimentò l’ostilità della Dieta e degli Stati dell’Impero. In questi difficili momenti, l’imperatore seppe rilanciare i destini della dinastia: riuscì a stipulare con Mattia Corvino nel 1463 un primo accordo, secondo cui l’imperatore si assicurava il diritto di successione di un Asburgo al regno ungherese. I termini dell’accordo furono poi ratificati nel 1491 e nel 1515. Nel 1526, in seguito allo scontro di Mohacs, fu nominato re d’Ungheria l’arciduca Ferdinando, fratello di Carlo V. Nel 1477, la scomparsa di Carlo il Temerario, morto in una battaglia contro il re di Francia, la cui figlia Maria di Borgogna aveva sposato Massimiliano, erede di Federico III, assicurò agli Asburgo una parte consistente della successione borgognona. Massimiliano, dopo aver tentato invano di riconquistare per via matrimoniale la Bretagna alla morte di Maria Borgogna, fece sposare nel 1496 il figlio arciduca Filippo il Bello con l’infanta di Spagna Giovanna, erede dei re cattolici e delle corone di Castiglia ed Aragona. Grazie a queste iniziative e ad un’abile politica matrimoniale, l’imperatore Massimiliano intraprese una politica di ristrutturazione dei predomini ereditari degli Asburgo che conservarono il carattere di possessi controllati attraverso una consorteria famigliare ed amministrati dai vari rami della dinastia. Soltanto nel 1713 la prammatica sanzione di Carlo VI istituirà il principio che rendeva indivisibili i territori ereditati dagli Asburgo. L’imperatore seppe sfruttare il prestigio politico che la dinastia degli Asburgo seppe guadagnarsi e riuscì ad interpretare le tensioni sociali e gli ideali che animavano la compagine imperiale. Massimiliano attivò una serie di riforme che riuscirono ad esprimere la volontà di perseguire una nuova posizione ed un carattere che valorizzasse una dimensione germanica. Nel 1474 i Diplomi imperiali produssero per la prima volta la formula “Sacro Romano Impero della Nazione Tedesca”, determinando la fine dell’idea universale di Impero. Durante la Dieta di Worms del 1495 fu costituito un Tribunale Camerale dell’Impero, massimo organo giudiziario che verrà dislocato a Spira; inoltre fu elevata un’imposta imperiale per ripianare le spese di guerra. All’interno dell’Impero dunque si va ad innervare l’esigenza di sottolineare l’identità tedesca e si cerca di condurre ad un governo centrale dei poteri, che dovevano essere ricondotti nella creazione di una figura centralizzata. Nel 1512 la Dieta di Colonia organizzò la divisione amministrativa dell’Impero in dieci circoscrizioni del territorio, chiamati anche circoli e guidati da due principi che dovevano salvaguardare la pace, garantire l’esazione delle imposte ed il reclutamento delle truppe per l’esercito imperiale. Questa evoluzione che riprendeva i caratteri di un modello di accentramento dei poteri segnò nello stesso tempo un consolidamento del ruolo della Dieta ed una più intensa presenza degli Asburgo nelle questioni dell’area germanica e della politica occidentale. Si costituirono i presupposti dell’egemonia degli Asburgo nel corso del XVI secolo, che fu la storia di Carlo V, e da questi presupposti, nel Seicento, la dinastia asburgica riuscirà a ridisegnare una nuova politica di espansione nelle aree orientali di Europa. Nel periodo in cui Martin Lutero andava elaborando il suo programma di riforma, si aprì una stagione ed una ripresa dell’ultimo e più importante tentativo per affermare l’egemonia imperiale in Europa. L’ascesa di Carlo d’Asburgo alla dignità imperiale, con il nome di Carlo V, avvenne nel 1519, quando morì il nonno Massimiliano, mentre il padre Filippo il Bello morì prima dello stesso nonno. Carlo infatti nel 1506, alla morte del padre ed a causa della malattia della madre, diventa erede dei loro possedimenti. Aveva poi assunto il titolo di re di Spagna nel 1516, con il nome id Carlo I, alla morte di Ferdinando il Cattolico. Nel 1519 era nominato imperatore ad Aquisgrana. Carlo V era il primogenito di Giovanna La Pazza e di Filippo il Bello: la madre era l’erede dei regni di Castiglia e d’Aragona, figlia di Ferdinando d’Aragona ed Isabella di Castiglia, mentre il padre era nato dall’unione matrimoniale tra l’imperatore Massimiliano e Maria di Borgogna. Il giovane imperatore, dunque, si trovò ad esercitare la sovranità sulla Spagna, con i Regni annessi di Napoli, Sicilia e Sardegna, sui territori degli arciduca d’Asburgo, che comprendevano Austria, Boemia, Fiandre e Paesi Bassi, e sui principati, sui vescovati, sui ceti e sulle città parte dell’Impero. Carlo V avanzava anche pretese di successione sul Regno di Borgogna, che i francesi avevano sottratto agli Asburgo con il trattato di Arras del 1482 e con la pace sottoscritta a Senli il 23 maggio del 1493. Dopo la caduta dell’Impero Romano d’Occidente del 476 con la deposizione di Romolo Augusto, l’Europa Occidentale rimase per tutto il Medioevo senza una guida imperiale. Il mito dell’Impero rinacque quando Carlo Magno si fece incoronare Imperatore nel Natale dell’800, riprendendo nel solco della continuità l’idea di un rinnovamento dell’Impero Romano, secondo la teoria della translatio imperii. I princìpi di Agostino, contenuti nel De civitate deii, aveva ispirato l’azione politica di Carlo Magno, il quale, proprio attraverso la contrapposizione tra civitas deii e civitas terrena, aveva individuato una missione ed un percorso che l’Impero doveva compiere per avvicinare la dimensione divina ed universale alla realtà terrena. Come sostenne Alquino, l’Imperatore avrebbe formato un’entità che riproduceva il regno della pace eterna del mondo. Questi temi si posero su un piano politico e pratico: alcuni teorici, infatti, sostennero che il Papa aveva bisogno dell’imperatore per essere difeso. Si affermò il mito dell’imperatore che, attraverso i valori cavallereschi avrebbe imposto la pace e la giustizia in un mondo feudale. Questa era la visione romantica, ma intanto si affermava una visione più concreta dell’Impero. I motivi di un’ulteriore rielaborazione dell’Impero sono: da una parte l’azione politica condotta da alcuni Imperatori della casa degli Hohenstaufen, i quali restituirono un’effettiva concretezza al fantasma del titolo imperiale; dall’altra la nascita a Bologna degli studi sul diritto romano, i quali fornirono agli imperatori un fondamento legale e ragionato per derivare il concetto di sovranità dl titolo imperiale. Uguggione da Pisa sosteneva che “molte possono essere le provincie dell’Impero romano e molti i loro re, ma uno solo è l’Imperatore loro sovrano”. Si profilava un’interpretazione del concetto di Signoria secondo i princìpi propri del diritto romano. Fu l’imperatore Filippo II a decretare la rinascita del diritto romano e l’affermazione di un’età della Legge. Con i suoi proclami egli poneva alle attenzioni degli europei l’idea del dominus mundi. Il legislatore di Federico II perseguiva un programma teso a riaffermare il governo imperiale. Carlo V Il mito dell’Impero che apparteneva all’orizzonte culturale di Carlo d’Asburgo aveva spinto il sovrano ad avanzare la sua candidatura alla successione imperiale. In virtù della Bolla d’Oro promulgata da Carlo IV nel 1356, che determinò la laicizzazione dell’impero e la sanzione giuridica per la sua scomposizione politica, l’Imperatore doveva essere eletto dal voto di 7 principi elettori, i quali erano gli arcivescovi di Colonia, Magonza e Treviri, e tra i laici il re di Boemia, il Conte Palatino, il Duca di Sassonia ed il margravio del Brandeburgo. Un impero così vasto non si vedeva in Europa sin dai tempi di Carlo Magno; inoltre Carlo V regnava sui territori Americani, colonizzati dagli spagnoli. Egli poteva sostenere a giusto titolo che nel suo Regno non tramontava mai il sole. Per essere eletto imperatore Carlo V dovette affrontare una dura lotta con un altro pretendente, il re di Francia Francesco I, il quale si impose sia come alternativa unica su Enrico VIII d’Inghilterra, sia sull’elettore di Sassonia Federico il Saggio. I principi elettori non avevano manifestato particolari simpatie per entrambi i candidati, entrambi stranieri (Carlo era nato a Gand, nelle Fiandre, mentre Francesco a Cognac in Francia), e se il re di Spagna poteva vantare la discendenza da Massimiliano, il re di Francia riscuoteva invece le simpatie e l’appoggio del Papa Leone X dei Medici, nato da Lorenzo il Magnifico. Leone era infatti preoccupato che il re spagnolo acquisisse il controllo dell’intera penisola italiana, ma la vicenda si risolse con il contributo di un potente alleato di Carlo: il denaro. Il sovrano spagnolo, infatti, attraverso la corruzione dei sette principi imperiali per assicurarsi i voti, riuscì a farsi nominare “re dei romani”. Quando un candidato viene eletto come re dei romani, con la cerimonia dell’imposizione della corona da parte del Papa viene poi eletto imperatore. Il successo fu dunque garantito dal sostegno finanziario di importanti banchieri tedeschi come i Welser ed i Fugger: sarà proprio Jacopo Fugger a ricordare l’episodio all’imperatore, dicendogli “è cosa ben nota a tutti e chiara come il giorno che senza di me Vostra Maestà Imperiale non avrebbe potuto ottenere la corona romana”. La competizione tra Francesco I e Carlo V per il trono imperiale fu solo l’anteprima di un acceso scontro destinato a persistere nel decennio successivo ed a procurare profonde lacerazioni nell’Europa. Politica di Carlo V Con Carlo V riprese forza la vecchia idea di impero, che nell’Europa degli Stati nazionali sembrava superata. Gli imperatori ed i suoi ispiratori profusero un grande impegno nel propagarla e divulgarla, si sforzarono di trasformarla in un’idea viva e creativa, molta gente aderì al progetto di un’entità imperiale sovrana del mondo e capace di essere la guida di una cristianità compatta e rinnovata. Questo era il programma del cancelliere di Carlo V, Mercurino Arborio da Gattinara. Quest’ultimo si riappropriò dell’idea di Impero, antico sogno manifestato da Dante Alighieri nel De monarchia, opera in cui sosteneva che la prosperità dell’umanità poteva essere raggiunta soltanto attraverso il dominio di un unico monarca capace di organizzare una politica di pace e tranquillità universale. La consacrazione avvenuta il 24 febbraio del 1530 a Bologna nella Chiesa di S. Petronio, con l’imposizione dalle mani del pontefice della corona imperiale, ispirò Ludovico Ariosto che, nel canto XV dell’Orlando Furioso, restituì alla letteratura la figura di Carlo V come erede degli imperatori romani, restauratore della pacificazione del mondo, terra dalla quale Astrea (dea della giustizia) era scappata a causa della crudeltà umana. Questi erano i movimenti culturali che aleggiavano in quel periodo ed il consolidamento del mito imperiale nel XVI secolo si spiega con un’esigenza di armonia, un bisogno di equilibrio e di ordine. La riforma protestante aveva scosso l’edificio della cattolicità, e sotto la spinta dell’individualismo borghese il sistema feudale aveva perduto il carattere originario nei suoi antichi valori di fedeltà e di solidarietà. La società cinquecentesca era alla ricerca di un’autorità forte e unificante che avrebbe governato il mondo. Il fantasma dell’Impero risorgeva ai bisogni psicologici degli uomini. Anche se saldamente inserito nella coscienza dei contemporanei come aspirazione e modello, sotto un profilo politico l’Impero era tuttavia un’ideale ormai superato. Carlo V era stato costretto dalla stessa struttura di un così vasto complesso territoriale ad operare secondo una molteplicità di linee politiche, tenute insieme da un fattore unitario: la forza materiale e morale della dinastia degli Asburgo e della sua figura giuridica di imperatore. Già agli inizi del suo impero, però, Carlo dovette far fronte alla rivolta dei comuneros, un movimento di Castiglia ostile alla dipendenza dagli Asburgo, alla pressione fiscale, all’accentramento dei poteri nelle mani del principe ed al drastico ridimensionamento dei fueros, i privilegi di alcune città. La rivolta riuscì a coagulare piccola nobiltà, artigiani ed esponenti del ceto civile (avvocati, magistrati..), ma presto il movimento divenne una protesta antinobiliare e grazie alle ostilità che suscitò tra gli aristocratici, Carlo V pose fine alla rivolta nel 1521. Tra 1520 e 1530 Carlo V elaborò una linea politica per la parte spagnola dell’impero che provvedesse a due esigenze: affermare l’autorità della monarchia e cercare alleanze nei ceti sociali dei singoli regni. Importante era cercare i mezzi adatti per neutralizzare il potere politico dell’aristocrazia feudale, ma al tempo stesso allargare la sua sfera di giurisdizione, sociale ed economica. Un tale modello si affermò in Castiglia e nel Regno di Napoli. Per quanto riguarda poi i poli del Mediterraneo e dell’Atlantico, nel primo caso la politica di Carlo V si muoveva in continuità con quella di Ferdinando il Cattolico e contemplava la partecipazione alla contesa per l’Italia ed il predominio europeo, nonché il contenimento del pericolo turco. Su questo fronte furono importanti la presa di Tripoli nel 1510 e quella di Tunisi sei 1535, che garantirono la sicurezza del Regno di Napoli. Carlo V vs Francesco I di Francia La terza fase delle guerre d’Italia ha inizio con l’ascesa di Carlo V. Le guerre d’Italia entrarono in un intreccio di eventi e processi che arricchirono il quadro: riforma protestante, colonizzazione del Nuovo Mondo, formazione di imperi commerciali. delle Due Dame ( o pace di Cambrai) si regolò l’accordo tra Francia e Spagna: Carlo V avrebbe restituito al Papa tutti i territori che gli erano stati sottratti e si impegnava a restaurare il governo dei Medici a Firenze, i quali poterono rientrare a Firenze, dopo un lungo assedio, nel 1530; in cambio Carlo V ottenne l’approvazione dei suoi possessi in Italia e l’incoronazione dalle mani del Papa, che avrebbe legittimato in maniera definitiva il suo carisma. Iniziò nella penisola italiana una fase opaca caratterizzata da un progressivo asservimento al volere dell’autorità spagnola imperiale. Nell’agosto dello stesso 1529 si concluse la pace di Cambrai, nella quale il sovrano spagnolo e quello francese si spartirono le aree di influenza. L’imperatore ritirava le sue pretese dalla Borgogna ed il re di Francia accettava che il possesso di Milano passasse agli spagnoli dopo la morte di Francesco Sforza. Dunque Carlo V manteneva Milano, Napoli ed Asti e Francesco I il Piemonte, ad eccezione di Genova, nell’orbita spagnola. La pace fu chiamata Pace delle Due Dame perché fu conclusa grazie alle trattative diplomatiche intraprese da due dame, quali Margherita d’Austria, zia di Carlo V, e Luisa di Savoia, madre di Francesco I. Nel 1530 Carlo V è incoronato re d’Italia e imperatore del Sacro Romano Impero, e tutti gli Stati minori riconobbero il predominio spagnolo nella penisola. Il dominio di Carlo V pareva saldissimo, si profilava un’indiscutibile supremazia sia sul piano diplomatico che su quello militare. L’Impero però costituiva un complesso politico variegato al suo interno, e nonostante l’apparente solidarietà, in effetti, quest’Impero nascondeva grandi debolezze. Nonostante gli sforzi compiuti nel Basso Medioevo, l’idea di accentramento dei poteri non si era consolidata ed i singoli principati mantenevano grandi autonomie. Per altro, all’interno di questi poteri che non si riusciva ad accentrare scoppiò la riforma protestante che avviò ulteriori divisioni tra principi filocattolici e principi filoprotestanti all’interno di un impero già suddiviso in poteri cittadini, poteri dei principi ed altre sfumature. I propositi di rivincita di Francesco I, inoltre, costituivano ancora una spina nel fianco per l’imperatore e la diffusione del protestantesimo un ulteriore problema, così come l’inimicizia creatasi tra principi protestanti e principi cattolici. Costituì la ciliegina sulla torta fu la politica d’espansione degli Ottomani nell’Occidente Europeo, i quali con l’impero e la Francia costituirono la più importante potenza mediterranea. Impero Ottomano Nei primi dieci anni del Cinquecento si verificò un’imponente espansione dei tre più potenti Stati musulmani dell’età moderna: l’Impero Ottomano, che comprendeva Tunisia, Egitto, Siria, Grecia e parte della penisola balcanica; l’Impero dei Safavidi nella Persia e l’Impero Moghul nell’India. Nell’Asia centrale emergeva in quegli anni una quarta potenza islamica formata dalle popolazioni degli Uzbechi. Attorno alla metà del XVI secolo, queste popolazioni occuparono la maggior parte del territorio del mondo abitato. Tutti questi regni si erano originati da dinastie musulmane di provenienza turca. L’Impero dei Safavidi, proveniente dall’Iran, praticava la confessione Sciita, mentre gli altri professavano la confessione ortodossa. Tra questi due gruppi si accese una rivalità che spesso confinava in guerre. Dopo importanti annessioni dell’Impero Ottomano conseguite nel 1453, che culminarono con la presa di Costantinopoli, i turchi rivolsero le loro attenzioni, cercando di allargare i territori sotto il loro dominio, verso l’Asia Minore, per fronteggiare il rafforzamento della potenza persiana. All’inizio del 1500 gli Ottomani erano pronti a riordinare i piani di guerra che dovevano condurre ad un’invasione dell’Occidente Europeo. Durante il regno di Selim I invasero Egitto, Siria ed Arabia, e con l’avvento di Solimano il Magnifico si spinsero verso i confini dell’Europa. Nel 1521 occuparono Belgrado e nel 1526 inflissero una dura sconfitta al re d’Ungheria e di Boemia Luigi II Jagellone, che fu ucciso nella battaglia di Mohàcs; nel 1529 cinsero d’assedio Vienna. Nel corso del 1532 compirono dei saccheggi sul territorio austriaco. In quegli anni i regni di Boemia ed Ungheria, dopo l’uccisione di Luigi II, entrarono a far parte dei possessi degli Asburgo, ma del territorio ungherese, soltanto una piccola parte restò sotto il controllo dei cristiani. L’Impero Ottomano raggiunse il culmine della sua potenza all’epoca di Solimano: la sua grandezza poteva essere paragonata a quella dell’Impero Cinese o di quello Asburgico. I popoli sotto la guida di Solimano erano circa 14milioni, mentre il Regno di Spagna ne aveva solo 5milioni. L’antica Costantinopoli, rinominata Istanbul, con i suoi 400mila abitanti, era una delle più importanti città del mondo, e lo sfarzo dei suoi edifici, delle moschee e delle dimore private sorprendeva e stupiva i visitatori. Intanto, una flotta di pirati algerini, soprannominati barbareschi, sotto il comando di Khayr al-Din Barbarossa, si erano insediati nel 1529 nel Porto di Algeri e nel 1534 conquistarono Tunisi. Dalle coste settentrionali dell’Africa effettuavano continui assalti di navi e scorrerie, e spesso aggredivano le coste italiane e spagnole. Le importanti imprese di questo pirata, il Barbarossa, indussero Solimano a conferirgli il titolo di Ammiraglio della flotta ottomana e capo dei pirati barbareschi. Ottomani nei conflitti tra le due potenze Carlo V organizzò una controffensiva che aveva i caratteri dello spirito della crociata e nel corso del 1535 conquistò Tunisi. Tre anni dopo Barbarossa ottenne una rivincita, sconfiggendo una squadra di navi cristiane allestita dal Papa, all’imperatore e da Venezia. La geopolitica maturata nel Mediterraneo nel XVI secolo proponeva situazioni ed alleanze singolari ed inedite: non si era mai verificato che un re cattolico si coalizzasse con un sultano degli infedeli contro un altro sovrano cattolico. Ciò accadde quando Francesco I, per rifarsi della sconfitta subita a Pavia, strinse un’alleanza con gli eserciti di Solimano il Magnifico, per contrastare gli eserciti di Carlo V. L’azione dei due più importanti sovrani europei era rivolta a stabilire alleanze su scala mondiale, approfittando delle divisioni religiose nel mondo islamico. Mentre il Sultano Ottomano stringeva accordi con Francesco I, il suo antagonista, il Sultano della Persia, avviava intese con Carlo V. Se nel Medioevo l’idea di cristianità rappresentava anche i popoli cattolici in opposizione agli infedeli islamici, nel corso del XVI secolo i credenti si riconoscono sempre più nell’idea di Europa come concetto non solo geografico, ma anche storico e politico che trascende le contrapposizioni religiose. La morte di Francesco Sforza, Duca di Milano, nel 1535, indusse Carlo V ad occupare lo Stato milanese, seguendo gli accordi convenuti nel trattato. Questa circostanza fece riesplodere un conflitto tra le due maggiori potenze europee. I francesi ripresero le armi ed invasero Savoia, mentre le truppe spagnole si spinsero in Provenza. Solo grazie alla mediazione del Papa Paolo III della famiglia Farnese, il quale intendeva perseguire una politica di pace tra i sovrani cattolici per organizzare un’adeguata difesa agli attacchi ottomani ed intraprendere una riforma, si arrivò a sottoscrivere nel 1538 la tregua di Nizza: essa stabiliva la dominazione imperiale sul Ducato di Milano e quella francese su Savoia. Nel 1542, Francesco I riaprì il conflitto, approfittando di una dura sconfitta subita da Carlo V nelle acque di Algieri per mano dei Turchi. Il re di Francia fu travolto da una serie di sconfitte, perché il re d’Inghilterra Enrico VIII aveva stabilito un’intesa con l’imperatore ed aveva mosso le sue forze armate per occupare ed impossessarsi della fortezza di Boulogne sulla Manica. Nel frattempo, Carlo V fece invadere la Francia minacciando Parigi. Il re di Francia fu costretto ad intraprendere trattative, che condussero alla firma della pace di Crépy nel 1544: le condizioni seguivano o riprendevano grossomodo quelle contenute nella tregua di Nizza. Nel 1547 Francesco I passava a miglior vita, mentre intraprendeva nuovi progetti contro il suo rivale. Il suo successore, Enrico II, approfittò dei contrasti tra imperatore e protestanti per spostare il conflitto dall’Italia al territorio tedesco. Egli si pose in continuità con la politica diplomatica e militare del padre, offrendo ai principi luterani un aiuto militare in cambio di tre città situate in Lorena, Toul, Metz e Verdun. Questi centri urbani erano posti sotto il controllo dell’Impero, ma i loro cittadini erano di fatto francesi. La situazione politica italiana si aggravava per gli spagnoli: infatti, la Corsica, sorretta da navi turche e francesi, insorse contro la Repubblica di Genova; Siena cacciava una guarnigione spagnola in seguito ad una rivolta guidata da Piero Strozzi, figlio del banchiere Filippo che era stato esiliato da Firenze. Quest’ultima sollevazione fu repressa nel 1557 da Cosimo I de Medici, Duca di Firenze, il quale, in cambio dei suoi servigi, ottenne da Carlo V il possesso di Siena. Il Regno Castigliano-Aragonese dovette elaborare un nuovo sistema difensivo nell’Alto Tirreno, costituito da vari presidi, il cosiddetto Stato dei Presidi, composto da una serie di fortezze dislocate lungo la costa e nell’isola d’Elba, con la fortezza di Porto Longone. Verso la metà del XVI secolo Carlo V prese coscienza di un arretramento dell’iniziativa politica dell’Impero. Nonostante la vittoria riportata dai protestanti a Muhlberg nel 1547, egli giunse alla determinazione che l’azione militare non avrebbe sortito risultati migliori. Sostenuto da questa idea, avviò trattative diplomatiche con i principi che avevano aderito alla Lega protestante di Smalcalda, firmando nel 1555 la pace di Augusta, nella quale fu sostenuto il principio della territorialità religiosa, il cuius regio, eius religio, secondo cui la religione corrispondeva a quella di chi possedeva il territorio. Fu inoltre regolato il problema dei beni sottratti alla chiesa cattolica dai protestanti e si decise di regolarizzare tutte le confische effettuate fino al 1552; quelle successive dovevano essere restituite agli ordini religiosi. Con la pace di Augusta, l’Imperatore abbandonò l’idea di affermare l’egemonia in campo religioso, avviando una politica di equilibri e compromessi. Stanco, nel 1556 abdicò in favore del figlio e del fratello, dividendo il suo grande Impero: al fratello Ferdinando I lasciò la Corona Imperiale, le terre ereditarie degli Asburgo ed i Regni di Boemia ed Ungheria; al figlio Filippo II lasciò il Regno di Spagna, il Ducato di Milano, i Regni di Napoli, Sicilia, Sardegna, Paesi Bassi e tutte le colonie americane. Dopo la rinuncia all’esercizio dei poteri sovrani, Carlo V si ritirò in un monastero, dove lo colse la morte nel 1558. Con la rinuncia, Carlo decreta la sconfitta di una politica impegnata all’affermazione di un Impero Universale. Il conflitto tra Francia ed Impero proseguì con la guerra tra re di Francia Enrico II e re di Spagna Filippo II, alleato d’Inghilterra. Nel 1557 le truppe spagnole, sotto il comando del Duca di Savoia Emanuele Filiberto, riportarono una importante vittoria sui soldati francesi nella battaglia di S. Quittino, nella regione dell’Artois. I Francesi si resero pericolosi anche in un’altra battaglia, nella quale strapparono agli inglesi il Porto di Calais. Le due forze in lotta da diversi decenni erano ormai stanche, le finanze erano esaurite, il morale dei soldati era indebolito. Così, nel 1559 fu conclusa e sottoscritta la pace di Cateaux-Cambresis, una pace molto importante: essa regolò gli equilibri politici europei per mezzo secolo, lasciando alla Spagna il dominio dell’Italia ed alla Francia Calaiz, Metz, Toul e Verdu, oltre ad altre città piemontesi fra cui Torino ed il Marchesato di Saluzzo. La Savoia fu restituita ad Emanuele Filiberto e furono concordati due matrimoni dinastici: tra Filippo II e la figlia di Enrico II, Elisabetta, e tra Emanuele Filiberto e la sorella di Enrico II, Margherita. Di fatto Carlo V comprese che il Mediterraneo fosse un mare insicuro, e che per renderlo sicuro fosse necessario cacciare i berberi insediati nella costa africana; Carlo V insistette su questo progetto, tanto che il Regno di Sicilia divenne un trampolino di lancio per l’attacco. Tuttavia, non riuscì ad espugnare Algeri, e la Sicilia, da avamposto, divenne una fortezza assediata dove organizzare un sistema difensivo. Con gli Ottomani comprese che non poteva competere sul fronte orientale, a causa dei problemi politici e religiosi interni all’Impero, il quale non riuscì a rendere una compagine universale ed unita. Infine, Carlo V comprese anche che un Impero come lo si era teorizzato, un Impero come era stato aspirato da Carlo Magno, era un esito che non si poteva ottenere. Lo stesso Filippo II non riuscirà laddove fallì il padre: Carlo era imperatore, lui solo un sovrano dei suoi lasciti; inoltre comprenderà di non poter realizzare l’idea del padre. Nell’Impero convivono popoli di lingua, cultura, attitudini e religioni diverse, e l’unico collante di questo impero variegato è la figura dell’Imperatore. Filippo II, come Carlo V, capirà che l’idea di questo Impero dall’identità cristiana non potrà essere realizzato. Perseguirà dunque una politica di compromessi, manifestata dalla pace di Cateaux-Cambreris, la quale non è il prodotto di ciò che avrebbe voluto Carlo V. Carlo V è il frutto di una contingenza singolare: da una parte è un uomo del Medioevo che vuole sfidare il suo rivale in un duello (da cui emerge il retroterra culturale del cavaliere, colui che si rifà alle regole della cavalleria); dall’altro però non sarebbe mai diventato imperatore se non ci fosse stato il processo di modernizzazione che si affermò sul continente europeo nel 500. Carlo V, se non ci fosse stata la rivoluzione dei prezzi, non sarebbe mai diventato imperatore: se non ci fosse stato il processo di affermazione ed enucleazione dei mercanti, dei finanzieri, degli imprenditori, come i Welser, i Fugger ed i Medici, egli non sarebbe mai diventato imperatore, perché grazie a loro poté comprare l’Impero. Filippo II Dopo la pace di Augusta del 1555, Carlo V divise i patrimoni territoriali in due parti: i territori degli Asburgo, e dunque Austria, regni di Boemia, e Ungheria, furono affidati al fratello Ferdinando d’Asburgo; la parte più consistente dell’Impero al figlio Filippo II, e comprendeva Spagna, Paesi Bassi, Fiandre, Ducato di Milano, Regno di Napoli, di Sicilia e di Sardegna e tutti i territori del Nuovo Mondo. Nel 1556 Carlo V abdicò e l’anno successivo si ritirava a vita privata. Mentre il fratello si candidò e diventò imperatore del Sacro Romano Impero, il figlio Filippo II diventò effettivamente il re di tutti questi regni. Anche Filippo II però non unificò tutti i regni in un’unica compagine; tuttavia, cercò di creare una forma di governo che, pur rispettando le peculiarità di ciascun regno, armonizzi il sistema di governo di tutti questi. Elliot parla di un sistema di governo polisinodiale e Galasso di sistema imperiale spagnolo, un sistema al cui centro sta il regno di Castiglia ed attorno i governi periferici vicereali. Il fautore di questo tipo di raccordo tra i vari regni, i quali mantengono le proprie autonomie e peculiarità istituzionali, fu Filippo II. La sua azione si può definire con una formula di Parker, storico inglese che scrisse una biografia di Filippo II, intitolandola “Un solo re, un solo Impero”. Filippo II infatti rappresentò il modello del re della controriforma ed il suo regno durò dal 1556 al 1598. I giudizi del suo operato sono contraddittori, ma ognuno di questi esprime con efficacia i contrasti e le tensioni che animavano un clima politico complesso e contraddittorio. Coloro che avevano aderito ai princìpi della riforma luterana videro in Filippo II il “demone del mezzogiorno”, mentre alcuni storici di parte protestante hanno messo in rilievo l’azione oscurantista della sua politica rivolta a reprimere e perseguire ogni forma di dissenso religioso. Alcuni storici di parte cattolica però lo descrivono come un sovrano che possedeva una profonda coscienza ed una forte tensione morale nell’espletamento dei compiti che gli derivavano dall’esercizio dell’autorità regia. Era un re dotato di una forte disciplina, ma anche di un animo tormentato e rigido. Filippo II, come tutti i personaggi che hanno rappresentato i valori e le passioni di un’epoca, appare come un regnante che ha suscitato congiuntura: i settori manufatturiero e commerciale non erano sviluppati e non furono presi i necessari provvedimenti per renderli più efficienti. Il settore agricolo, inoltre, non riusciva a provvedere al fabbisogno alimentare delle popolazioni iberiche, e per sopperire alla mancanza dei mezzi di sussistenza era necessario ricorrere alle massicce importazioni provenienti dall’estero. Al contrario di quanto era avvenuto in Italia ed in Inghilterra, dove gli aristocratici esercitavano la pratica della mercatura e quindi venivano coinvolti in attività economiche ed assumevano un comportamento più disinvolto ed aperto, i grandi di Spagna avevano un atteggiamento che rivelava i forti pregiudizi verso le attività imprenditoriali e si rifacevano ancora ad aspirazioni ed a modelli propri della cavalleria. In tal modo si alimentava l’idea di uno stile di vita votato allo sfarzo ed allo spreco. I risultati sul piano economico di questa politica furono disastrosi. Perciò, i grandi hombres de negocias, i mercanti-banchieri che controllavano il flusso di metalli ed il commercio, erano stranieri (genovesi, fiamminghi, tedeschi). La finanza privata, che praticava prestiti ad alto tasso di interesse, imponeva alla finanza pubblica spagnola uno stretto rapporto di dipendenza da compagnie e società economiche straniere. Le riserve auree, provenienti dalle Indie, permisero alla Spagna di assumere, sul piano internazionale, il comportamento della più importante potenza mondiale, un ruolo che recitò dagli inizi del 500 fino ai primi anni del 600. Si trattava di un atteggiamento che impose alla Spagna il ricorso ad un continuo intervento militare su tutti i fronti di guerra che si aprivano in Europa e nel Mediterraneo. Questa politica rivolta alla guerra produsse gravi scompensi nel settore economico e finanziario. Si determinò una situazione paradossale: uno sviluppo della domanda di merci, sollecitato dalle disponibilità di metalli preziosi, non riusciva a stimolare la crescita delle offerte che il sistema produttivo spagnolo non era in grado di garantire. I prezzi, dunque, crebbero indebolendo i poteri d’acquisto dei ceti meno agiati. Successivamente, l’aumento della domanda spagnola stimolò l’offerta e le produzioni dei mercati esteri determinando l’arricchimento dei mercati francesi, italiani, inglesi ed olandesi. L’aristocrazia spagnola si gloriava di poter effettuare le esportazioni di merci straniere; per loro questo fenomeno non era un segno di debolezza, ma di forza e motivo di orgoglio. Un nobile spagnolo diceva “lasciamo a Londra produrre quei panni così cari al cuore, all’Olanda produrre le sue stoffe, a Firenze i suoi drappi, a Miano i suoi broccati, all’Italia ed alle Fiandre le loro tele di lino; noi siamo in grado di comperare questi prodotti, il che prova che tutte le nazioni lavorano per Madrid e che Madrid è la grande regina, perché tutto il mondo serve Madrid, mentre Madrid non serve nessuno.” Si tratta di considerazioni di un’aristocrazia esaltata che non ha cognizione di cosa sia il cambiamento e la modernità. Alla fine del XVI secolo le coortes di Spagna ed i parlamenti, dove erano rappresentati i ceti della nobiltà, del clero e delle città, annotarono con inquietudine che “mentre i nostri regni potrebbero essere i più ricchi del mondo per l’abbondanza dell’oro e dell’argento che vi sono entrati e continuano ad entrare dalle Indie, essi finiscono con l’essere i più poveri, perché servono da ponte per far passare oro e argento in altri nostri regni nemici.” Il regno era dunque perennemente indebitato, e per fronteggiare gli impegni finanziari assunti da Filippo II, questo re si trovò nelle condizioni di dover dichiarare la bancarotta per ben tre volte. I divieti commerciali imposti dalla Spagna alle colonie, l’adozione di un sistema di relazioni e di scambio di beni imposto dal monopolio regio e l’inefficienza del sistema produttivo spagnolo favorirono l’affermazione del fenomeno del contrabbando. I coloni erano costretti ad approvvigionarsi altrove per soddisfare i bisogni quotidiani e ad infrangere i divieti ed i controlli che li obbligava a stabilire rapporti soltanto con la madrepatria attraverso il porto di Siviglia. Gli Arbitristas, economisti spagnoli, si resero conto della situazione e denunziarono le manchevolezze finanziarie dovute al fatto che l’oro, così come entrava, usciva ed andava ad arricchire altri paesi attraverso l’acquisto e l’esportazione di merci straniere. Puntualmente, ciò che previdero si verificò. La situazione durò fino alla fine del 600 ed il regno spagnolo si sfaldò con Carlo II attorno agli anni ’80 del 600. Più oro affluiva in Spagna, più moneta si poteva produrre, in quanto un tempo la moneta era rappresentata dalla quantità di metallo prezioso che essa conteneva. Quando la domanda è troppo bassa, generalmente, si stimola l’offerta: si stampa moneta quando il sistema economico è in grado di rispondere alle attese di una maggiore produzione. Laddove però il sistema economico non è in grado di produrre per quella moneta scatta l’inflazione. In Spagna, dunque, la massa monetaria aumentava, ma il sistema produttivo non era in grado di attendere a quegli stimoli: si verificò un processo inflazionistico terribile. Gli spagnoli contribuirono al problema cacciando quei borghesi che potevano produrre di più e stimolare il sistema economico spagnolo. La Controriforma operata da Filippo II, infatti, attraverso l’istituzione dell’Inquisizione e la rigorosa censura su opere ed espressioni della cultura, non fu solo motivata da esigenze di controllo religioso, ma anche dal bisogno di controllo politico e sociale. La lotta contro i turchi animò lo spirito di crociata, che non si era mai spento nelle fila della nobiltà cavalleresca, e fu un sentimento che ebbe largo seguito tra la popolazione, accendendone le passioni. Nella penisola iberica questi ardori sconfinarono nelle violente persecuzioni dei moriscos nel Seicento, musulmani battezzati e discendenti degli arabi che un tempo avevano conquistato la Spagna. I moriscos erano impegnati nelle attività agricole, come contadini, nell’artigianato e nel commercio: sebbene fossero discriminati, costituivano l’unico segmento sociale dinamico sotto il profilo economico. La Spagna sperimentava una composizione sociale in cui mancava la borghesia produttiva, e dunque coloro che stimolavano l’offerta: l’oro che giungeva dalle miniere, anziché attivare un circuito virtuoso in grado di spingere la Spagna a produrre di più, né indebolì piuttosto il tessuto economico e sociale. La crescente quantità d’oro stimolò piuttosto l’offerta delle altre nazioni in grado di produrre, come Inghilterra ed Italia. La cacciata dei moriscos contribuì in questo senso a deprimere la composizione della struttura sociale del paese: produsse contraccolpi nell’economia spagnola, privandola di un importante ceto artigianale e commerciale, e cioè gli operatori inseriti nei settori più attivi e strategici dell’economia. Difficoltà di gestione dell’impero Filippo II ereditava dal padre un immenso impero costituito da territori posti in varie parti d’Europa. Questi regni non costituivano un corpo compatto, anzi, dovevano essere messi in condizione di stabilire rapporti regolari e periodici con il governo centrale, per attendere all’ordinaria amministrazione ed alle esigenze della politica estera. Nel 500 i sistemi di comunicazione erano molto lenti: i dispacci, le lettere, gli ordini che si riversavano nella periferia dell’impero non circolavano rapidamente. Poteva succedere che alcuni regni rimanessero isolati per interi mesi dagli organi centrali di governo. Il 24 febbraio del 1575 il governatore dei Paesi Bassi, lamentandosi dell’incresciosa situazione, scrisse “non so nulla del re per ciò che concerne gli affari dei Paesi Bassi dal 20 novembre scorso. Il servizio di Sua Maestà ne soffre spaventosamente.” I trasporti più veloci avvenivano attraverso il mare ed i tempi di percorrenza del Mediterraneo da Nord a Sud duravano da una a due settimane, mentre quelli da Est ad Ovest da uno a due mesi. Gli spostamenti non erano condizionati solo dalle distanze, ma anche dalla mutevolezza del clima: un temporale o una burrasca potevano rallentare i trasporti da un luogo all’altro. Il movimento degli uomini e delle informazioni era non solo lento ed imprevedibile, ma anche estremamente costoso. Un ambasciatore spagnolo nel 1560, per trasmettere una comunicazione alla coorte francese spese 358 ducati, per inviare un messo da Chart a Toledo. Il problema della circolazione delle notizie che dovevano far funzionare l’amministrazione periferica era ancor più grave rispetto alla condizione degli altri regni. L’estensione e la dislocazione dei possedimenti diventava causa di profonde ed ineliminabili disfunzioni: la tecnica non riusciva a supportare quel sistema di governo. L’impero era talmente vasto e, anziché delegare alcune decisioni alle periferie, queste decisioni le si accentrava; il sistema di trasporti era lento e perciò accentrando le decisioni si nuoceva all’interno dell’Impero. Quando si poneva un problema di governo nella periferia dell’Impero, si chiedeva direttive al centro, ma l’operazione richiedeva tempi di trasporto e nel frattempo le condizioni mutavano, e perciò i provvedimenti giungevano quando quel problema si era ormai risolto. Le decisioni non potevano essere prese in tempo reale. La politica di accentramento del sovrano spagnolo, l’estensione e la dispersione dei territori sotto il suo dominio e la decisione di stabilire a Madrid la sede dell’Impero diventarono tutti fattori che mal si conciliavano con un sistema di trasporto tecnologicamente inadeguato per controllare territori così vasti. A tutti questi problemi, si aggiunse poi la lentezza e la cura maniacale nel prendere decisioni da parte di Filippo II: tutto ciò provocò un lento processo di decadenza dell’Impero Spagnolo. Al contrario, la Russia, pur essendo un vasto impero, era costituita da territori concentrati e compatti e rappresentava la terraferma. La centralizzazione era perciò facilmente gestibile, e dal punto di vista culturale vi era una sorta di omogeneità. Nell’Impero spagnolo invece si trattava di gestire regni che erano lontani e dislocati tra loro. Si trattava non solo dei domini ereditari, ma anche di Paesi conquistati militarmente, formazioni storiche autonome e terre selvagge del nuovo mondo. Ivan il Terribile fece fuori tutta una classe di aristocrazia che gli si opponeva, riuscendo a creare una sorta di governo accentrato; Filippo II però si scontrava con un Impero che non era omogeneo in tutti i territori e rimase il re che poteva raccordare un governo polisinodiale, un re di vari regni, regni che mantenevano una propria autonomia. Non mancavano poi differenze interne alla Spagna stessa: rischi connessi alla collocazione geopolitica dei Paesi Bassi, degli Stati germanici protestanti e dell’Inghilterra. Le coorti del Regno di Napoli erano chiamate Sacro Regio Consiglio e le funzioni aderivano ai caratteri dello stesso Regno; a Milano si trova un’istituzione simile che attende a simili funzioni con ordinamenti diversi. Il parlamento siciliano e quello napoletano non funzionavano ugualmente o come le coortes spagnole. Filippo II rimase dunque il re di ogni regno, che però mantenevano funzionamenti ed istituzioni proprie; egli cercava di raccordare con un sistema di consigli il funzionamento di tutte queste istituzioni che costituivano il cardine dello Stato moderno in ciascun regno. Gli Arbitristas La pirateria Nella seconda metà del XVI secolo si fronteggiavano nel Mediterraneo due grandi potenze imperiali: quella spagnola e quella ottomana. I due Imperi erano sorretti da un sistema di governo assoluto il cui potere veniva esercitato dal sovrano. I territori sotto il controllo dell’Impero Ottomano si estendevano dalla penisola balcanica, all’Anatolia, all’Arabia, all’Egitto. Queste due potenze imperiali potevano contare su un’organizzazione militare che dal punto di vista quantitativo e qualitativo si equivalevano. I contrasti e gli scontri tra ottomani e spagnoli non si erano mai sopiti. Circa un secolo dopo la conquista di Costantinopoli (1453), l’Impero Ottomano si estendeva dal Mar Rosso e dalle coste meridionali del Mediterraneo fino alle porte di Vienna. I regni del Nordafrica insidiavano i Paesi iberici e mettevano a repentaglio la vita del Mediterraneo. A guardia di quest’ultimo restava solo la flotta spagnola, perché dopo la pace di Cateaux-Cambresis la Francia era stata sguarnita. Tutti i viceré e governatori spagnoli però denunciavano la pericolosità dell’avanzata e Filippo decise di intervenire. Nel 1560 i Turchi inflissero un duro colpo, nei pressi di Seuta, alla marina spagnola ma nel 1565, dopo una ricostruzione navale, le flotte spagnole bloccarono l’assedio turco dell’isola di Malta. Furono dei combattimenti navali occasionali, anche se lo scontro assunse i connotati duna guerra strisciante e continua di atti predatori tipici di una strategia fondata su azioni di pirateria. Era una tattica militare antica ed una manifestazione di difficile comprensione e sfuggente. I pirati che assaltavano i convogli navali potevano essere di origine barbaresca, ma molto spesso anche di provenienza cristiana. La pirateria musulmana terrorizzava tutte le coste occidentali dell’Europa Mediterranea, ed era organizzata in grosse unità navali adatte a contrastare qualsiasi circostanza e ad intraprendere azioni militari. Esistono numerose segnalazioni relative alla presenza ed all’esercizio di attività di pirateria: nel 1559 14 imbarcazioni di pirati navigavano lungo le coste dell’Andalusia; nel 1561 17 galere turchesche costeggiavano le rive del Portogallo; un gruppo di navi barbaresche con 35 imbarcazioni assediò nel 1563 il Porto di Napoli. La loro presenza viene segnalata anche lungo le coste della Sicilia, della Calabria, e fanno la comparsa addirittura a Gaeta, Genova, Savona ed in Corsina. Nel 1563 una squadra navale di 45 navi viene avvistata nei pressi dell’isola d’Elba. L’attività dei pirati ottomani cresceva di anno in anno: in una sola stagione depredarono 50 navi nello Stretto di Gibilterra e rapirono 4mila persone lungo le coste di Granada. Dalle informative che i funzionari spagnoli inviavano a coorte, i Mediterraneo Occidentale era percorso da circa 200 imbarcazioni di pirati musulmani. I pirati barbareschi si muovevano rapidamente come lupi, sempre a caccia di una preda, e fiutavano i ricchi bottini lungo le tradizionali correnti di traffico. La loro presenza veniva segnalata nell’Adriatico, alla ricerca di galere veneziane, ma erano attive anche oltre Gibilterra, nell’Oceano Atlantico, dove, nei primi del 600, venivano segnalate scorrerie lungo le coste della Francia, dell’Inghilterra, dell’Islanda e del Baltico. La più importante base d’appoggio di questi pirati era Algeri, una città nuova in rapida espansione, soprattutto grazie all’immensa concentrazione di ricchezze che affluivano attraverso le azioni di pirateria. Algeri fu un rinomato centro di distribuzione delle merci e dei traffici leciti e illeciti che vi fluivano. Nella città giungevano mercanti dall’interno del territorio africano e spesso anche dal mondo cristiano. È possibile che tra quest’ultimi vi fossero mercanti che provenissero da paesi che erano stati appena depredati. Algeri dunque era un grande emporio dove si vendeva qualsiasi prodotto, dalle vettovaglie ai tessuti, alle gioie, alle pietre preziose, alle spezie, agli schiavi, tutti beni razziati dai pirati e portati nella città di Algeri come bottino. Da questo centro, migliaia di uomini imprigionati, cristiani o musulmani, mandavano messaggi alle famiglie di provenienza per chiedere il pagamento del riscatto ed invocavano la loro libertà. Algeri in quei tempi era una metropoli di carattere cosmopolita, gremita di schiavi, rinnegati, ex prigionieri che rinunciavano alla loro fede e si dedicavano alla nuova vita. La città inoltre sapeva adattarsi ai cambiamenti ed agli equilibri tra le varie fazioni piratesche e veniva influenzata da vari gruppi etnici che, con la loro presenza, si imponevano ed esercitavano un’autorità; più questi gruppi etnici facevano massa, più egemonizzavano la gestione del potere. Al nucleo urbano plasmato dal Barbarossa tra il 1560 ed il 1587, subentrò la Algeri Italiana, dominata da eudiali, pseudonimo arabo di un calabrese, Ucciali, che inizialmente era un povero pescatore, prima di diventare un pirata e successivamente di assumere il controllo Le caratteristiche comuni agli Stati provinciali erano i due corpi di rappresentanza, nobiltà e città, che componevano l’assemblea. Alla base, i Consigli delle Città avevano poteri locali che riguardavano l’elezione di magistrati, decisioni politiche, economiche e commerciali. Al vertice del sistema, lo statolder comandava l’esercito e stava a capo della federazione, mentre il gran pensionario era a capo di ogni provincia, responsabile della politica interna ed esterna. La carica di statolder fu per quasi un secolo monopolio della famiglia d’Orange. Quella di gran pensionario era una carica federale che conquistò la supremazia sull’intero territorio. I poteri erano dunque in mano a poche famiglie aristocratiche, ma la vivacità del tessuto sociale, le borghesie urbane e l’intensa partecipazione politica limitavano il potere dello statolder e fecero fallire un tentativo de d’Orange di trasformare la repubblica in principato. In nessun altro paese come in Olanda si manifestò la pratica delle petizioni, mezzo di comunicazione per chiunque volesse avanzare richieste ad un corpo amministrativo. Ciò incrementò il fenomeno del repubblicanesimo in Olanda. L’Olanda, a causa della scarsa produttività del suolo, fu condannata al commercio. Alla fine del XVI secolo gli Olandesi possedevano una flotta di 11mila navi. Avrebbe scalzato il monopolio finanziario e commerciale genovese ed avrebbe controllato il mercato internazionale dei beni e del denaro. Inoltre, l’Olanda poté giovarsi di una cultura, di una sensibilità, dello spirito religioso calvinista, e presto divenne l’isola della tolleranza. Crisi dinastica del Portogallo Il re del Portogallo, Sebastiano di Braganza, nel 1578 si impegnò in una spedizione contro il sultano del Marocco, spinto dai mercanti di Lisbona. Nell’impresa emerse la fragilità della potenza militare portoghese, poiché Sebastiano fu sconfitto nella battaglia di Alcazarquivir nell’agosto dello stesso anno. Sebastiano non aveva inoltre successori. Filippo II, figlio di Elisabetta di Portogallo, aveva sposato Maria Emanuela e rivendicò i titoli per la successione. L’integrazione all’impero spagnolo non era malvista ma vi era un partito che si batteva per la successione di un sovrano locale. Alla morte del principe Enrico, al trono per poco più di un anno, le truppe di Filippo, comandate dal duca d’Alba, occuparono il Portogallo e vi incontrarono una debole resistenza, subito repressa. Nel 1580 il Portogallo venne annesso all’impero e ciò significava l’acquisizione di un vasto impero coloniale. Il Portogallo fu un importante osservatorio sull’oceano Atlantico e lo scopo di Filippo II era quello di rafforzare uno dei fianchi del suo impero atlantico. Tuttavia non ci fu integrazione politica ed economica ed ai portoghesi fu concessa autonomia istituzionale. Anche i domini coloniali di Spagna e Portogallo restarono separati. L’annessione del Portogallo era stata resa possibile dalla crisi dinastica e dalla scarsa efficacia delle resistenze interne all’area lusitana. Ben altro avversario si rivelò però l’Inghilterra. Inghilterra L’Inghilterra, a partire dall’età di Filippo II, grazie alla grande sovrana Elisabetta I, cominciò a gettare le basi per dare avvio ad un grande progetto politico di potenza, e dunque alla creazione di un Impero, un Impero non più costruito sulla terra, come quello spagnolo dalla scarsa propensione mercantile, ma una potenza commerciale. In 150 anni l’Inghilterra subì trasformazioni profonde. Enrico VIII Enrico VIII è famoso per esser stato il campione della cattolicità. Sposò Caterina d’Aragona, zia di Carlo V, che però non gli diede eredi maschi. Enrico VIII chiese al Papa di poter sciogliere il matrimonio, ma egli, davanti alle pressioni della potenza spagnola e per il fatto che si fosse già schierato contro Carlo V, non glielo permise. Enrico VIII avviò una separazione tra la cattolicità, creando una nuova religione: l’anglicanesimo. Alla morte di Enrico VIII gli successe Enrico VI, la cui prematura morte aprì nuovamente le ostilità religiose in Inghilterra. Sul trono del giovanissimo sovrano successe Maria Tudor. Maria la Cattolica Maria Tudor era detta anche Maria la Cattolica o ricordata dagli inglesi come Maria la Sanguinaria. Era nata dall’unione tra Enrico VIII e Caterina d’Aragona, prima moglie spagnola che il re d’Inghilterra aveva ripudiato per contrarre matrimonio con una damigella di coorte, Anna Bolena. La politica imperiale approfittò dell’evento per attrarre il regno inglese nell’orbita del sistema ispano-asburgico. Nel 1554 venne celebrato il matrimonio tra Filippo II, futuro re di Spagna, e la nuova regina d’Inghilterra, Maria la Cattolica. La Francia, tradizionale rivale della Spagna, rispose facendo contrarre matrimonio nel 1558 ad Francesco II il Delfino, figlio di Enrico II, con la principessa ereditaria della Scozia Maria Stuarda. All’intesa dinastica ispano- inglese si contrappose quella franco-scozzese. Maria la Cattolica impose in Inghilterra il ripristino della religione cattolica, bloccando il processo che aveva avanzato il padre Enrico VIII con l’organizzazione della Chiesa anglicana e che dal fratello era stata perseguita istituendo il libro delle preghiere e riformando i riti. Questa regina effettuò il ripristino attraverso una cruenta azione repressiva fondata sull’uso dei Tribunali e del rogo, dove furono condannati a morte molti protestanti. Il libro delle preghiere concepito da Edoardo VI fu vietato e nel 1558, dopo soli 4 anni di regno, la regina passò a miglior vita. Il paese accolse con sollievo la morte di Maria Tudor, in quanto l’azione repressiva aveva esasperato la maggior parte del popolo inglese. In virtù di questa politica repressiva intrapresa da Maria Tudor, il futuro di un ritorno al cattolicesimo venne meno. La popolazione subì tali atrocità che nella memoria collettiva il periodo venne ricordato come il regno di Maria la Sanguinaria. La religione cattolica veniva ormai associata alle persecuzioni ed alla dominazione straniera. Elisabetta I Nello stesso 1558 fu eletta regina Elisabetta I, nata dal matrimonio tra Enrico VIII ed Anna Bolena. I cattolici avrebbero potuto confutare la legittimità di tale successione, in quanto figlia di genitori colpiti da una scomunica e di un’unione che il pontefice aveva giudicato sacrilega. Lo stesso Filippo II avrebbe potuto contestare la legittimità della successione, ma si guardò bene dal farlo: il re di Spagna sapeva che dopo Elisabetta il trono sarebbe spettato a Maria Stuard, prossima regina di Scozia e moglie del re di Francia Francesco II. Il re spagnolo non poteva permettere al suo più diretto rivale di governare sulle sponde della Manica. Elisabetta, sapendo di non poter avere figli, riuscì a sottrarsi alle pressanti richieste di matrimonio che le venivano avanzate da Filippo II e da altri principi di Francia, Svezia e Germania, i quali rimasero per anni in attesa di una sua scelta. L’attività diplomatica di Elisabetta non aveva limiti: era una grande conversatrice, sapeva come tenere in scacco l’interlocutore, era astuta ma intuitiva, faceva di una certa civetteria femminile, della vanità e del capriccio strumenti di scherno che rendevano imprevedibili le sue rapide decisioni quasi sempre lucide. Per gli inglesi Elisabetta divenne un mito. Sotto il suo lunghissimo regno, per quasi mezzo secolo, l’Inghilterra si trasformò in una potenza di prima grandezza, gettò le premesse al suo gigantesco impero coloniale ed attraversò un periodo di floridezza economica e di rigoglio culturale. Elisabetta intuì che il popolo inglese sentiva il bisogno di un periodo di pace: cercò di attenuare i contrasti religiosi. Istruita ai valori morali dell’umanesimo sostenne la promozione delle Arti e delle Scienze: ella aveva in grande antipatia i sostenitori di una religione fondata sul fanatismo religioso. Pur non essendo di formazione protestante fervente, aderì ai principi di questa religione per motivi di opportunità politica. Le motivazioni che la indussero a dare una svolta religiosa protestante possono essere individuate nella sua origine famigliare, nella competizione con i regnanti cattolici di Scozia, nell’esigenza che avvertiva di liberare il paese dagli interessi spagnoli e soprattutto dal papato. L sua politica fu attenta a non riesumare i vecchi rancori ed i rigurgiti di violenza. Elisabetta era sicura che il cattolicesimo, sprovvisto di mezzi finanziari e sostegni politici, si sarebbe progressivamente spento. Nel 1563, attraverso l’Atto di Supremazia, si fece eleggere Suprema Reggente delle cose Sacre e Profane, imponendo l’autorità della regina sul clero. Con l’Atto di Uniformità del 1559, ristabilì il Book of common prayer di Edoardo VI. I 39 articoli di fede introdotti nel 1561 misero in rilievo una svolta calvinista della Chiesa anglicana, che però mantenne una organizzazione episcopale. Per avviare una sua riforma religiosa, la regina contrastò con decisione le posizioni più estreme del calvinismo: i puritani furono trattati con rigore, dal momento che essi chiedevano un’adesione piena, pura ed integrale ai valori del protestantesimo e reclamavano l’adesione verso un tipo di organizzazione presbiteriana, in opposizione con quella episcopale. Se non si fosse posto un freno al fanatismo dei puritani, la loro azione avrebbe condotto alla guerra civile. I rapporti tra la Corona Inglese ed il Regno di Scozia non furono dei migliori. In Scozia nel 1561 regnava Maria Stuart, una regina con una vita costellata di errori ed avversità. Nel 1560, a soli 17 anni morì il re di Francia Francesco II, marito della regina scozzese. Giunta al trono, Maria Stuart dovette affrontare i problemi di un regno composto in maggioranza da una popolazione calvinista, ma di un calvinismo composto da gente intransigente. Durante il suo regno riuscì a rilanciare la religione cattolica ed a consolidare i rapporti con il Papa e con Filippo II. Con il passare del tempo Maria Stuart apparve come l’antagonista naturale di Elisabetta I, perché poteva vantare delle pretese per la discendenza al regno inglese. La morte del marito di Maria Stuart, Lord Darnley, fece scoppiare uno scandalo: si sospettò che la regina fosse implicata nell’uccisione del consorte. Il matrimonio tra Maria ed il Conte di Bothwell, sul quale ricadevano i sospetti di aver ucciso Lord Darnley, fece precipitare la situazione politica del regno scozzese. Nel 1566 Maria Stuart dovette affrontare la rivolta del popolo e dei Lord protestanti. Ella abdicò a favore del figlio Giacomo e si rifugiò in Inghilterra, dove attivò tutte le sue relazioni per cospirare contro la cugina. Mentre Elisabetta accresceva le potenzialità economiche di questo regno, i cattolici si impegnavano ad organizzare congiure per rovesciare la regina e favorire in favore di Maria Stuart, la quale, benché prigioniera, aveva assunto il ruolo di leader della Chiesa cattolica. Il re di Spagna, che aveva cambiato atteggiamento una volta morto il Delfino, poteva vedere Maria Stuart come una potenziale regnante cattolica che succedesse all’anglicana Elisabetta I. Il pontefice ed il re di Spagna mandarono missionari gesuiti sul territorio inglese per condurre alla fede cattolica le popolazioni che ormai avevano aderito al protestantesimo. Alcuni agenti segreti di parte cattolica avevano ricevuto l’incarico di promuovere sommosse, erano stati assoldati sicari per uccidere la regina ed il Pontefice aveva promesso una cospicua somma di denaro a chiunque avesse assassinato Elisabetta. Questi complotti erano guidati da Maria Stuart, la quale coltivava una segreta ambizione di stabilirsi sul trono inglese. L’Irlanda divenne il luogo preferito per mettere in difficoltà la regina: nel 1579, fino al 1581, esplose una cruenta rivolta che venne repressa duramente dalle armi inglesi, con asprezza spaventosa. Le sorti di Maria erano ormai compromesse e dal popolo inglese veniva vista come “il serpente scozzese che era impegnato a destabilizzare il regno inglese”. Il fallimento di un’altra congiura determinò l’avvio di un processo e la sua condanna a morte. La condanna di Maria Stuart mise in difficoltà Elisabetta che, difronte ad una risoluzione dei suoi Tribunali, indugiò parecchio, prima di far eseguire la pena, ma sotto la pressione dei suoi ministri fu costretta a piegarsi alla volontà della coorte inglese. Maria Stuart salì sul patibolo il 7 febbraio del 1587. L’anno successivo Elisabetta celebrava il successo sulla flotta spagnola. Le cospirazioni nei confronti di Elisabetta furono puntualmente scoperte e prevenute grazie all’abilità di un grande ministro di Elisabetta: Lord Francis Walsingham, uomo di un’intelligenza unica. Egli fu uno dei primi a concepire l’Organizzazione dei Servizi Segreti. Le condizioni in cui versava il regno inglese prima dell’avvento di Elisabetta non erano delle migliori. Rispetto alla Spagna ed alla Francia, la Corona inglese non si era dotata di una struttura burocratica che le avrebbero consentito di effettuare un prelievo fiscale in tutto il regno e sufficiente per poter sostenere un esercito ed una flotta navale. Elisabetta, oltre a Walsingham, trovò un altro grande consigliere economico, Thomas Gresham, il quale avviò una politica di modernizzazione ed innovazione del sistema produttivo del regno: la teoria di Gresham, secondo cui la “moneta cattiva” caccia quella “buona”. Si verificava infatti la tosatura delle monete, tecnica secondo cui l’oro contenuto nella moneta veniva diminuito, lasciandola intatta e riproducendola con le stesse fattezze, ma con un minor contenuto di oro. La moneta, pur essendo la stessa, conteneva meno oro: era una vera e propria frode. Gresham rispondeva che la moneta cattiva, dunque quella tosata, sarebbe stata cacciata da quella buona, e dunque autentica. Parlamento e Camere Quello di Elisabetta non fu un regno dispotico. La regina, nei momenti cruciali del suo regno, si atteneva alle regole di un gioco politico in base al quale se il re voleva che un provvedimento avesse forza di legge, doveva sottoporlo ad entrambe le Camere del Parlamento, quella dei Pari, rappresentanti i Lord, e quella dei Comuni, rappresentanti le nobiltà delle contee. Il Parlamento formulava il provvedimento sottoforma di Statuto, con l’approvazione delle due Camere. La riforma dell’amministrazione voluta poi da Enrico VIII e realizzata da Thomas Cromwell dotò l’Inghilterra di organismi centrali con funzioni di natura finanziaria (Scacchiere) di Cancelleria e di strutture esecutive come il Consiglio privato ed il primo segretario. Non si formò mai una burocrazia centrale e periferica dello Stato, ma il governo periferico e locale era sotto il controllo della gentry, la nobiltà di contea. Dunque, l’intreccio tra corte, Parlamento e poteri locali determinava la lotta politica inglese. Sviluppo economico Nel 400 l’Inghilterra era un paese povero ed arretrato, rispetto ad alcune nazioni europee come Italia, Paesi Bassi, Francia e Germania Meridionale, paesi che seppero sviluppare importanti progressi nel campo economico e tecnologico. La lana costituiva la principale risorsa dell’Inghilterra: veniva esportata allo stato grezzo sul continente, dove veniva sottoposta a processi di filatura, tessitura e poi trasformata. Nel corso del 1300 si svilupparono nell’sola delle forme protoindustriali per la lavorazione dei semilavorati, mediante i quali riuscirono a Maria la Sanguinaria. Il consigliere di Maria la Cattolica era stato Reginald Pole, cugino di Enrico VIII. Reginald Pole fu infatti mandato in Italia da quest’ultimo per perorare la sua causa per l’annullamento di matrimonio con Caterina d’Aragona. Non ottenendo buon esito, Reginald Pole restò in Italia, non accettando la politica di anglicizzazione del cugino. Il Papa, quasi di spregio, lo rese cardinale di Viterbo, ed egli fu il leader dei riformatori alla morte di Gasparo Contarini, quando gli spirituali si allontanarono da Valdes. Reginald Pole, inoltre, per un solo voto non fu eletto al conclave al posto di Carafa, che prese il nome di Paolo IV. Fu costretto poi a fuggire dall’Italia dopo processi di eresia e, tornato in Inghilterra, divenne consigliere di Maria la Cattolica, sua cugina, in una delle politiche più disastrose che porteranno l’Inghilterra ancora più lontano dal tentativo di ricattolicizzazione. Quello che in Italia fu un leader degli spirituali, e che dunque prestava il fianco a delle aperture alle istanze protestanti, dunque, in Inghilterra fu colui che consigliò alla cugina di intraprendere una politica religiosa ruvida, una delle principali cause per cui le popolazioni inglesi si porranno nel solco del protestantesimo, comprometteranno il tentativo di ritorno al cattolicesimo. Si trattava dunque di una politica incentrata sull’accumulo di potere come autoritaria e pura ostentazione, un potere territoriale come possedimento, un potere che si poteva espletare su un territorio composto da uomini. Era un potere che significava controllo, non ricchezze; controllo ed espletamento di condizione autoritaria. Francia e successioni, 1559-1610 Nel 1559 muore a soli 40 anni Enrico II, nato a Saint-Germain-en-Laye nel 1519. Durante un torneo indetto per festeggiare il matrimonio tra la figlia Elisabetta e Filippo II fu colpito da una scheggia di lancia che gli trafisse un occhio. Alcuni libri parlano invece di un torneo indetto per festeggiare la fine del conflitto franco-spagnolo e la pace di Cateaux-Cambresis. Alla sua morte divenne re di Francia il figlio Francesco II, di soli 15 anni. Nel 1558 aveva sposato la futura regina di Scozia Maria Stuarda. Non avendo raggiunto la maggiore età, il sovrano venne affiancato da un Consiglio di reggenza, formato dal Duca di Guisa e dal cardinale di Lorena. Dopo un anno, Francesco II morì. Gli successe, nello stesso 1560, il fratello Carlo IX, anch’egli un bambino di soli 10 anni. La reggenza fu affidata allora alla madre Caterina de Medici, figlia di Lorenzo Duca di Urbino e di Maddalena de La Tour d'Auvergne, la quale apparteneva alla più alta nobiltà francese. Alla morte di Enrico II, dunque, il trono francese fu occupato da una serie di re bambini: Francesco II, Carlo IX e successivamente Enrico III. La situazione politica che Caterina de Medici dovette affrontare non era tra le più facili, perché alle dispute religiose si aggiunsero problemi finanziari di un regno che per oltre mezzo secolo aveva dovuto impegnare gran parte delle sue risorse per organizzare gli eserciti e fronteggiare le pretese egemoniche spagnole. Conflitti religiosi Intorno al 1560, nonostante le azioni repressive intraprese da Enrico II, gli ugonotti intrapresero un intenso programma volto ad incrementare le proprie fila ed al proselitismo. Ottennero successi: circa 1milione di persone si convertirono alla fede calvinista. Questi conflitti religiosi si riflettevano anche negli schieramenti nobiliari della coorte francese: al partito cattolico guidato dalla famiglia dei Guisa si opponeva un partito protestante diretto da Antonio di Borbone re di Navarra, nelle cui fila militavano nobili dei territori meridionali, quali i Borbone, i Montgomery ed i Coligny. Il peso politico di queste autorevoli famiglie aumentava anche a causa della continua ascesa al trono di re bambini e dell’insicura personalità di Caterina de Medici. La reggente decise di avviare una politica di pacificazione religiosa e di mediazione, concedendo alcune libertà per la celebrazione dei culti calvinisti, ma il programma fallì a causa del fanatismo e dell’odio che si produsse tra i due schieramenti. Il cancelliere della regina, Michel de L'Hôspital, scrisse che la divisione linguistica non divide i regni, ma quella religiosa e giuridica sì, e fa di un regno due regni; da qui il vecchio detto “una fede, una legge, un re”. Gli ugonotti erano sostenuti dall’Inghilterra e dai protestanti dei Paesi Bassi, mentre i cattolici dalla Spagna. Gli ugonotti, benché di gran lunga inferiori rispetto ai cattolici, avevano predisposto un’efficiente organizzazione. Nelle regioni e nei centri urbani sotto il loro controllo monopolizzavano tutte le cariche di governo e non facevano concessioni agli avversari. Nelle zone in cui erano in inferiorità numerica cercavano di infiltrare i loro uomini nell’attività di comando, creando una rete di amministratori ugonotti che agivano di comune accordo, tanto che un ambasciatore veneziano scrisse di loro “così essi potevano un giorno, a un’ora precisa e in tutta segretezza, far scoppiare un’insurrezione in qualsiasi parte del regno”. La politica di equilibrio tra i due schieramenti produsse nel 1562 la sottoscrizione dell’editto di Saint-Germain, nel quale si riconosceva la libertà dell’esercizio dei culti ugonotti, ma li si obbligava a risiedere fuori dalle mura dei centri urbani. Nello stesso anno i Guisa, dopo aver impedito un colpo di stato di parte ugonotta, scatenarono una reazione di parte cattolica che passò alla storia con il nome di Massacro di Vassy. Il massacro portò la Francia sull’orlo di una guerra civile e produsse quasi uno scontro estremamente duro tra i due schieramenti. Caterina de Medici profuse tutto il suo impegno per effettuare una mediazione tra le due parti e per imporre una pacificazione dei due schieramenti: l’accordo fu raggiunto nel 1563 ad Amboise. Con questo trattato vennero effettuate alcune tiepide concessioni agli ugonotti, nonché la pratica del protestantesimo nelle proprie terre ai nobili, ma ne limitò il culto nelle città. Nel 1570 Caterina fu obbligata, dalle insistenze del partito ugonotto che nel frattempo si era ampliato, a proclamare il secondo editto di Siant-Germain, più vantaggioso per gli ugonotti. Nell’editto si concedeva la piena libertà di culto della loro religione, l’uso di varie piazzeforti, la possibilità di erigere alcune fortificazioni e soprattutto si concesse loro, tra queste fortificazioni e piazze militari a disposizione degli ugonotti, il Porto de La Rochelle. I referenti esterni del partito cattolico erano venuti meno, poiché la Spagna era occupata nei Paesi Bassi e contro i turchi, mentre Maria Stuart era controllata da Elisabetta. La fazione ugonotta acquistava potere e si andò formando una nuova cultura politica nell’amministrazione e nella coorte, i cui elementi confluirono nel nuovo movimento intellettuale dei politiques: la loro formazione culturale si ispirava alle idee di Erasmo e vi facevano parte nobili, mercanti, uomini di legge, funzionari, che avversavano il fanatismo ed invocavano la pacificazione religiosa. La situazione però non era ancora matura per ipotizzare una situazione di pace e di accordo. Dopo la vittoria cristiana a Lepanto però a Spagna riprese prestigio e Filippo II ed il Papa appoggiarono con più forza il duca di Guisa ed il suo partito, ricorrendo alle vie più violente. Il 23 e 24 agosto del 1572 successe un putiferio nella capitale. Quella notte passò alla storia come la Notte di S. Bartolomeo. Il popolo parigino, incoraggiato dall’autorità e dal Duca d’Angiò, futuro Enrico III, sobillò una feroce caccia all’uomo. Furono uccisi molti ugonotti giunti nella capitale per festeggiare il matrimonio tra Enrico di Borbone e Margherita di Valoise. Enrico di Borbone era il figlio di Antonio di Borbone, rappresentante della fazione ugonotta a cui successe Enrico, anche se il comando della fazione, data la giovane età del principe, spettò di fatto all’ammiraglio di Coligny. I furori dell’eccidio non risparmiarono la vita allo stesso ammiraglio, ed il massacro determinò una riflessione politica negli strati dell’intellettualità francese. La guerra dei tre Enrichi La morte di Carlo IX e l’assegnazione al trono del fratello Enrico III, Duca d’Angiò, aggravò la situazione e produsse una guerra: la Guerra dei Tre Enrichi. I protestanti, infatti, si raccolsero sotto il comando di Enrico di Borbone, raggiungendo successi militari; i cattolici costituirono una Lega Santa diretta da Enrico di Guisa, ma l’insuccesso nel 1588 dell’armata condusse Enrico III a schierarsi con gli Ugonotti ed a commissionare l’uccisione di Enrico di Guisa e di Luigi di Lorena. Un domenicano, Jacques Clemente, il 10 settembre del 1589 reagì ed uccise il re di Francia, il quale, prima di morire, designò come suo successore il cognato Enrico di Borbone. Il trono francese fu così occupato da un membro della famiglia Borbone, il quale assunse il nome di Enrico IV. Il re di Spagna, preoccupato che la situazione degenerasse e che il trono di quello che veniva chiamato “il re cristianissimo” potesse cadere nelle mani di un protestante, decise di organizzare un intervento militare, mentre il Papa Sisto V proclamava l’annullamento della successione al trono francese. Le truppe spagnole al comando di Alessandro Farnese si spostarono nei Paesi Bassi, si riunirono con le milizie cattoliche della Lega Santa ed occuparono con una guarnigione le città francesi, tra le quali Parigi. L’opposizione popolare, verso l’invasione straniera e la paura che il regno potesse cadere nelle mani degli spagnoli, e soprattutto l’astuzia di Enrico IV riuscirono a turbare la compattezza della coalizione cattolica. Nel 1593 Enrico IV, nella Cattedrale di Saint Denis, espose con un solenne discorso l’abiura della religione calvinista e si proclamò cattolico, sebbene già prima abiurò, quando cadde ostaggio della famiglia reale nella notte di S. Bartolomeo. Il pontefice Clemente VII fu indotto a ritirare l’annullamento della successione e riconobbe i diritti del re di Francia. Con la Pace di Vervins, stipulata nel 1598, gli spagnoli ritirarono le loro truppe dal suolo francese, rinunciarono alle pretese territoriali e venne sottoscritta la pace tra il regno di Francia e quello spagnolo. Enrico IV fu un re lungimirante, poiché si impegnò in una politica di pacificazione, e nello stesso 1598 ratificò con gli ugonotti un accordo, promulgando l’editto di Nantes, con cui si riconoscevano agli ugonotti gli stessi diritti politici concessi ai cattolici, si concedeva la piena libertà di culto, si stabiliva che agli ugonotti sarebbe stato consentito l’accesso alle cariche pubbliche e che ne sarebbe stata garantita la presenza negli organismi che dovevano garantire l’applicazione dell’editto. Vennero dunque assegnate agli ugonotti 100 piazzeforti della Francia. In questo clima, nonostante la tolleranza di Enrico IV, il re francese venne ucciso da un fanatico cattolico, Francois Ravaillac, il 14 maggio del 1610. La differenza tra l’editto di Nantes e la pace di Augusta è che in quest’ultima non viene rispettato il principio della tolleranza, in quanto i sudditi non possono decidere da sé la religione da praticare, ma sono obbligati a seguire quella del loro principe; l’editto di Nantes è invece il primo editto che sancisce l’effettivo principio della tolleranza religiosa, e lo stesso re tollera e difende le prerogative delle minoranze religiose. Si tratta dunque del primo vero articolo che sostiene il principio della tolleranza. Inoltre, nella pace di Augusta, vi è il principio della riserva ecclesiastica, secondo cui tutti i beni confiscati agli enti religiosi prima del 1552 potevano restare nelle mani dei protestanti, mentre le confische successive al 1542 dovevano ritornare agli enti religiosi. Ciò darà origine alla guerra dei Trent’anni perché, mentre i prìncipi protestanti e luterani erano protetti da questo principio, i prìncipi calvinisti no. Italia alla fine del Cinquecento L’estate di San Martino nell’economia italiana Tra 1550 e 1600 l’Italia passa da 10 a 13 milioni di abitanti. Le grandi realtà urbane crescono notevolmente e la stessa Napoli nel corso del XVI secolo raddoppia il numero dei suoi abitanti. Anche l’indice dei prezzi cerealicoli è in ascesa, e superato il primo Cinquecento gli investimenti in attività economiche crescono, sale il costo del denaro ed aumentano i prezzi di beni e servizi: muta il gioco della domanda e dell’offerta. La crescita di popolazione significò aumento del fabbisogno alimentare e la cerealizzazione dell’agricoltura italiana fu ottenuta attraverso la messa a cultura di nuove terre, le bonifiche e le irrigazioni. Il valore della terra aumentò e l’investimento fondiario attirò gran parte dei possessori di capitali. Bonifiche, migliorie, concentrazione di proprietà recarono slancio alla vita agricola dell’Italia settentrionale, ma non migliorarono le condizioni economiche e umane del mondo contadino italiano, sottoposto a durissima relazione di dipendenza dal signore feudale o dal grande proprietario terriero. L’aumentata domanda interna e internazionale nel settore tessile favoriva le tradizionali aree produttive di lana e seta in Italia, ma la tendenza ai prodotti di lusso favoriva soprattutto la lana. La macchina militare e tutto il suo indotto produssero un aumento del volume di manufatti per l’apparato bellico, ma i settori in cui maggiormente si avvertì la presenza italiana furono quelli del commercio e del credito, in cui entrarono nuove città come Livorno. L’aumento dei traffici favorì Genova, Venezia e Ancora, e grandi capitalisti genovesi crearono un impero dai vasti interessi: una massa enorme di denaro affluì in Italia grazie ad essi. Guadagni sulle operazioni di cambio e sui prestiti che concedevano soprattutto alla Corona spagnola, sulle speculazioni sul debito pubblico e sugli investimenti nel settore commerciale e manifatturiero, consentirono abbondanti rimesse in denaro nelle città italiane. La favorevole congiuntura internazionale ebbe influenza positiva anche nel Mezzogiorno, dove si ebbero ripresa ed espansione dell’agricoltura, favorite dai massari, un ceto di mediatori tra feudali e contadini che organizzava la produzione e la grande azienda cerealicola. L’economia qui era però dipendente dai mercanti e dagli operatori d’affari stranieri, in quanto controllo del traffico commerciale e del mercato del denaro era nelle mani dei grandi finanzieri toscani, genovesi e fiamminghi. Quella del Mezzogiorno era una economia soggetta alle oscillazioni della congiuntura, e non solo la vicenda dei raccolti era imprevedibile, o era esposto a carestie, epidemie ed altre catastrofi naturali, ma si aggiungeva anche la subordinazione alle scelte degli operatori economici stranieri. Questi infatti potevano scegliere il centro da preferire per le loro operazioni e potevano scaricare parte delle perdite e dei rischi sui Paesi di approvvigionamento, e dunque sul Mezzogiorno. Il Mezzogiorno era così dipendente ed era un Paese che esportava materie prime ed importava quasi tutti i manufatti, che non riusciva a produrre un’autosufficiente dinamica di sviluppo e che dipendeva dal capitale straniero. La politica spagnola sotto Filippo II inoltre chiamò il regno di Napoli a più gravosi impegni finanziari che contribuirono all’incremento del getto fiscale. Le diverse formazioni politiche In Italia convivevano diverse forme di sovranità e di governo: da un lato principati e repubbliche, con un allargamento alla dimensione regionale e dalle esperienze decisive dei Comuni, dall’altro le monarchie dinastiche che potevano contare sullo stesso titolo di legittimità del potere. Il ducato di Savoia era dotato di una dinastia indigena che gli diede forza e contribuì al suo prestigio italiano. Lo Stato Pontificio era invece governato da una figura che rappresentava insieme il potere temporale e quello La pratica del timar, concessione di terra da parte del sultano, non era ereditario e le sue dimensioni erano calcolate, inoltre il suo assegnatario era controllato dai governatori statali e non esercitava giurisdizioni signorili sui contadini del timar. I vertici dell’apparato burocratico e militare erano reclutati tra gli schiavi di origine cristiana. Questo sistema di reclutamento ed istituzione era chiamato devshirme ed ogni anno un certo numero di bambini maschi veniva strappato alle famiglie cristiane ed inviato a Costantinopoli, dove i bambini erano educati alla fede musulmana e nelle discipline dell’amministrazione civile e militare. Questo corpo di schiavi forniva i ranghi superiori della burocrazia, dal gran vizir alle cariche proovinciali, e l’esercito permanente era composto da cavalleria speciale e giannizzeri, corpi scelti di fanteria ed artiglieria. Vi era poi il ceto militare a cui erano concessi i timar in cambio del controllo territoriale delle province. Essi erano i cavalieri che dovevano difendere le frontiere con la Cristianità e l’entroterra turco a ridosso di esse. Lo scopo centrale dello Stato Ottomano era lo sfruttamento fiscale dei possedimenti imperiali. all’autorità sovrana bastava riscuotere dai ragah, dai contadini che coltivavano le terre dei timar, censi, canoni e decime. Ai censuari era concessa la sicurezza del possesso, ai contadini la protezione dagli abusi dei proprietari. Per questo motivo nel regno di Napoli molti fuggivano dalla pressione delle famigerate gabelle per vivere sotto il dominio dei turchi infedeli. Nel Mediterraneo dopo Lepanto e sul continente dopo la guerra dei Tredici anni con l’Austria venne bloccata l’espansione ottomana e se ne decise il destino. Nel XVII secolo, con l’avvento di nuovi protagonisti nel controllo del traffico orientale, quali Olanda, Inghilterra e Francia, venne segnata la crisi turca. Inoltre, la lunga guerra con la Persia significò il consolidamento della dinastia dei Safivid in Persia e la perdita del Caucaso per i turchi. Non mancarono poi motivi di ordine interno, e dunque la debolezza del sultano quando i giannizzeri si rivoltarono presero a disfare sultani e gran vizir, o la fragilità delle strutture economiche e l’ostilità per città e industrie; infine, la debolezza finanziaria e monetaria. Gli sciiti I turchi sunniti avevano capacità di penetrazione dovuta ad un basso tasso di integralismo religioso e alla duttile organizzazione dell’impero. Diverso fu per gli sciiti che riconoscevano come soli eredi di Maometto il califfo Alì e la sua discendenza maschile. La loro culla, che fu la Persia, e la loro formazione politica sono inscindibili dallo sciismo, che è insieme credo religioso e modo di sentire e definire un’originalità del quadro dell’Islam. Gli sciiti erano legati alla purezza del messaggio religioso rivelato dal profeta Maometto e da ciò il suo integralismo religioso assoluto che non ammetteva deroghe. Da qui anche il carattere teocratico dell’organizzazione politica in Persia e del rapporto con gli infedeli fondato sulla conflittualità e la guerra santa. Al principio del XVI secolo Ismail riunì i seguaci sciiti ed i membri di tribù nomadi ed iniziò un’epopea di guerra contro Asia centrale e gli ottomani. Sotto Abbas I il Grande (1587-16291) la Persia era stabilizzata quasi entro i confini attuali. Si affermò la sua grande potenza e Abbas creò un’autocrazia di stile orientale, in cui Stato, governo e ricchezze erano beni del sovrano. Stabilì inoltre il fondamento religioso sul dogma i cui unici depositari erano gli imam ed eliminò particolarismi tribali, etnici e provinciali per un’amministrazione centralizzata. Il terzo nucleo islamico Esso comprendeva coste occidentali dell’Oceano Indiano ed i confini del Pacifico, Indonesia, Africa orientale, Marocco ed Africa nera. Sturmenti di espansione dell’islamismo furono i mercanti musulmani che provocarono il declino del vecchio impero indiano del Majapit. Non mancarono poi opere missionarie. Sulle isole e sulle coste dell’Africa orientale, Mombasa tentò di opporsi all’invasione portoghese e questi non riuscirono a rompere il legame tra quest’area ed il resto dell’Islam. Quando la dominazione portoghese in Africa orientale entrò in crisi, l’area settentrionale del Mozambico divenne parte del sultanato arabo di Oman. Il continente africano mutò il volto della sua geografia politica: la presenza europea fu marginale e limitata alle coste. Scomparvero tutte le formazioni politiche che caratterizzarono l’Africa meridionale ed il Marocco, insieme ad altri paesi del Maghreb ed ai sultani arabi, crearono sfere di influenza consistenti. Il Marocco fu espressione dell’Islamismo militante, gli Arabi crearono un impero commerciale nell’Africa orientale. Grazie a questi due nuclei i rapporti tra Islam e Cristianità si moltiplicarono con trattati di commercio, salvacondotti e privilegi mercantili. La crisi del Seicento Con la fine delle guerre religiose in Francia, la morte di Filippo II in Spagna e la morte di Elisabetta in Inghilterra, si chiude un’epoca segnata da un secolo, che è il 500. La prima metà del 500 fu segnata da una ripresa, anche dal punto di vista demografico, a seguito degli anni della peste nera che decimarono la popolazione, ed economico, che culminò nella rivoluzione dei prezzi e nell’ascesa degli imprenditori. La seconda metà del 500 invece e l’inizio del 600, invece, sono caratterizzati da quella che è stata definita “crisi del Seicento”. La grande espansione europea che inizia nella seconda metà del 400 si infrange nei primi due secoli del 600, dando origine ad un declino economico, sociale e demografico che alcuni storici, come Hobsbawm ed Hill, hanno definito “Crisi del 600”. Si tratta di crisi di strutture agrarie, contrazione demografica, crisi manifatturiera, industriale e commerciale, effetti nefasti della guerra, declino delle vecchie e consolidamento delle nuove gerarchie sociali, ricolte e rivoluzioni. La crisi non colpì però tutti i Paesi allo stesso modo, negli stessi tempi, negli stessi settori e nelle stesse attività economiche. Nella bassa Provenza francese, tra 1600 e 1690 furono messe a coltura nuove terre, fu valorizzato il territorio, aumentarono i raccolti ed i rendimenti, nonché la popolazione attiva, e si arricchirono i ceti emergenti. Dal 1690 al 1730 però si verificò la contrazione dello sviluppo. In Inghilterra, tra 1620 e 1640 la produzione di piombo, ferro e stagno entrò in crisi ma l’agricoltura si espanse. Il Seicento del Mezzogiorno fu invece segnato da una contrazione generale di popolazione, produzione e reddito. In sostanza, alcuni paesi ne uscirono più deboli, altri più forti, come Inghilterra e Olanda che stabilirono la loro egemonia sul continente. Il concetto di crisi appare così legato a quello di trasformazione. Il logoramento delle monarchie assolute, provocato dalla Guerra dei Trent’anni, che si protrasse tra il 1618 ed il 1648, determinò una crisi finanziaria e la crescita di fermenti che alimentarono il dissenso dei contadini, dei ceti emergenti e dei nuovi ricchi. Intanto, gli Stati assoluti dell’Europa Continentale dovevano arginare, attraverso i loro apparati repressivi, le rivolte scoppiate in Portogallo, Catalogna, Paesi Bassi e Francia, mentre in Inghilterra la borghesia promuoveva, con il trionfo degli esiti riproduzionali, un periodo di prosperità e di riassetto politico. Questa trasformazione delle strutture produttive doveva innescare nell’Inghilterra del XVIII secolo quell’importante fenomeno che fu la rivoluzione industriale. L’evoluzione demografica sul continente manifestò un andamento diversificato tra Europa settentrionale e centro-meridionale, visibile già nel Cinquecento ed i cui effetti si manifestarono con maggiore evidenza nel Seicento. La crescita di popolazione non è favorevole a quei paesi che non sono in grado di garantire occupazione, produzione e redditi. Ciò che conta è dunque il rapporto tra popolazione e risorse, la capacità di domanda effettiva. Così, nell’Europa del Nord (Francia, Inghilterra e Paesi Bassi) si assiste ad una crescita continua della popolazione e dell’agricoltura fronteggiata con maggior efficienza: l’aumento della popolazione fu in grado di alimentare la crescente domanda in ragione della distribuzione del reddito e di un lineare andamento dei prezzi. Inoltre qui, ai primi segni di declino degli scambi di beni si provvide con una riconversione dei processi di produzione e distribuzione dei prodotti. Questo sviluppo delle attività commerciali determinò nel XVII secolo la diffusione delle innovazioni tecnologiche che confluirono nel processo di Rivoluzione Industriale. Tuttavia in Europa il XVII secolo mostrò una debole crescita demografica a causa delle guerre, in particolare quella dei Trent’anni, e delle epidemie, i cui effetti furono più gravi su quelle popolazioni biologicamente indebolite da un’alimentazione insufficiente e condizioni igieniche deteriori. Il regno di Napoli infatti subì gli effetti della peste del 1656; diversamente in Inghilterra e Olanda gli effetti furono più contenuti grazie allo sviluppo tecnologico. L’agricoltura è dunque il punto di forza delle società pre-industriali ma nel XVII secolo la sua espansione si interrompe: i prezzi dei cereali ristagnano o diminuiscono, così come le rese, e si passa all’allevamento. Nel 1590 inoltre si raffredda il clima europeo, che determina cattive stagioni, crisi alimentari ed epidemie, aumento del costo del lavoro, diminuzione di rese e profitti. La capacità di domanda si contrasse, anche per la più accentuata pressione economica e sociale della nobiltà feudale, che allargò la sua giurisdizione, la sfera degli abusi ed il suo potere sulle terre e sugli uomini. Nell’Europa Mediterranea, soprattutto in Italia e Spagna, si verificò una terrierizzazione della ricchezza da parte di quei ceti borghesi, i banchieri-mercanti e i commercianti, i quali, anziché incrementare le attività riproduttive di mercatura e commercio, si ritirarono nell’amministrazione dei terreni, investendo nell’acquisto di cariche pubbliche, di terreni o di feudi. Si avviò una sorta di aristocraticizzazione di questi feudi, un fenomeno che fu chiamato rifeudalizzazione o tradimento della borghesia e ritorno alla terra. Ciò significò un inasprimento degli obblighi feudali e delle condizioni di vita dei contadini. Tale irrigidimento dei rapporti di produzione inibì la crescita di un artigianato rurale e lo sviluppo della piccola proprietà. Il clima di insicurezza economica e sociale, dunque, provocò un indebolimento dell’attività commerciale, e si tradusse in un declino di molti centri urbani, come Venezia. Nell’Europa Orientale, il rafforzamento dell’azienda signorile, rivolta alla produzione di grani che dovevano servire ad alimentare il circuito di scambi commerciali sviluppati sul mercato internazionale, determinò il radicamento della servitù della gleba. Soprattutto in Russia, sotto Ivan il Terribile, il rafforzamento dell’autorità centrale fu ottenuto dallo zar, erede degli imperatori bizantini, attraverso l’indebolimento dell’aristocrazia russa dei boiari. Concesse inoltre terre a coloro che servirono il sovrano nelle campagne militari contro i tartari e nella conquista del Caucaso, dell’Asia centrale e della Siberia, creando una piccola nobiltà di servizio. Fondò la prima fanteria permanente composta da moschettieri ed ammodernò il sistema amministrativo e fiscale. Tuttavia, nel passaggio dai boiari alla piccola nobiltà di servizio non fece che peggiorare l’agricoltura, fondata sullo sfruttamento della servitù della gleba, attraverso lo spopolamento delle campagne, la crisi della forza-lavoro contadina e l’inflazione dei prezzi. Molti contadini si asservirono per non morire di fame. Il suo successore, Boris Godunuv, tra 1592 e 93 decretò la proibizione di tutti gli spostamenti dei contadini. Nel Seicento la Russia precipitava nell’anarchia, in rivolte sociali, nell’usurpazione fra rivali, in conflitti tra boiari. La Polonia era invece nelle mani dell’aristocrazia¸ e perciò divenne nel Seicento una monarchia nobiliare dopo la fine della dinastia Jagellone. La monarchia divenne così elettiva e non più ereditaria, e si affermò il principio del liberum veto, secondo cui l’opposizione di un solo aristocratico era in grado di bloccare qualsiasi decisione del sovrano. L’aristocrazia aveva inoltre diritto di vita e di morte sulla servitù della gleba. Commercio, industria e manifatture furono così anch’essi investiti dalla crisi. La tecnologia era ancora ad uno stadio poco evoluto: l’industria estrattiva usava primitive pompe idrauliche, nella siderurgica si diffusero il taglio meccanico, il laminatoio e la cesoiatrice e nella manifattura tessile i mulini meccanici da filanda. Tuttavia il fattore tecnologico determinò nella seconda metà del Seicento il primato delle grandi potenze d’Inghilterra e Olanda. La loro superiorità economica sta nella capacità di rispondere alla domanda di beni praticando prezzi più accessibili attraverso il basso costo del lavoro, ma tra 1650 e 1660 l’industria tessile europea entra in crisi anche nelle aree produttive più forti. Quanto al commercio internazionale, si era spostato dal Mediterraneo all’Atlantico, con rotte America, Africa ed Indie orientali. Dopo la ribellione dei Paesi Bassi, Amsterdam diventò il centro in cui le élite internazionali controllavano l’economia mondiale. Nel XVII il centro del capitalismo europeo sarà situato ad Amsterdam, Parigi e Londra. Si determinarono nuove gerarchie anche nel credito e nella finanza: L’importanza del denaro crebbe e l’afflusso di metalli dal Nuovo Mondo accrebbe il fabbisogno monetario. Tuttavia il numerario, la massa monetaria circolante, era scarso, ed il sistema monetario era soggetto a continui sbandamenti. Molte miniere si esaurirono e la manodopera indigena entrò in crisi. Il valore dell’oro crebbe e si ricorse alla tosatura per il recupero di metallo. In questo secolo, la grande finanza anglo-olandese sostituì gli antichi protagonisti tedeschi e genovesi. Inghilterra La fase espansiva del 500 dunque non si saldò con la rivoluzione industriale, ma produsse rotture rivoluzionarie, e dunque il rinascimento, come fase di grande sviluppo culturale e tecnologico, non si saldò con la fase di rivoluzioni industriali, ma produsse tra i due periodi un periodo di crisi che determinò un blocco dello sviluppo che partì dal 400. Hobsbawm sostenne che in Inghilterra il sistema produttivo era ancora condizionato dai vincoli feudali che potevano essere rimossi soltanto da una guerra civile e da una rivoluzione. L’Inghilterra, dunque, nei primi anni del 600, era una nazione sostanzialmente rurale e con un’economia che promuoveva una distribuzione dei prodotti su mercati locali e su vaste reti di autoconsumo. Il carattere rurale legava i contadini alla terra ed impediva la mobilità della forza-lavoro e la formazione delle manifatture. L’artigianato inglese operava in ambiti troppo ristretti ed in condizioni non idonee per trasformarsi in manifatture. Nel 600 la borghesia operò un mutamento sociale per dar corso ad un aumento dell’accumulazione del capitale, determinando un processo di divisione del lavoro e favorendo la proletarizzazione dei contadini. Trevor Roper si oppose a questa rilettura della crisi del 600 e sottolineava la necessità di dover rintracciare un rapporto tra Stato e società, per ritrovare i caratteri e le motivazioni che portarono ad una crisi. Sosteneva infatti che la politica accentratrice ed assolutista, di Giacomo I Stuart e del suo successore Carlo I, portò all’ampliamento l’offensiva nobiliare. I nobili che volevano conservare i livelli di ricchezza raggiunti ed il prestigio acquisito avviarono un programma di rifeudalizzazione che interessò la Spagna ed il Viceregno di Napoli. Questo grande complesso imperiale poggiava essenzialmente sulle spalle dei ceti meno abbienti. La Spagna doveva infatti mantenere dei grossi eserciti per consolidare la leadership sul continente europeo e gli eserciti costavano. I contadini furono allora sottoposti ad un pesante carico fiscale ed all’esborso dei diritti proibitivi, diritti che i feudatari mantenevano nelle loro mani, come il diritto di panificazione, di produzione di bevande, di olio, esercizi proibiti ai vassalli di un determinato feudo. Inoltre, i contadini furono sottoposti a pesi fiscali come le decime ed a prestazioni come le corvée, diritto di un feudatario nei confronti dei vassalli che dovevano prestare gratuite giornate di lavoro nel demanio feudale e sui beni che costituivano il patrimonio del feudatario. Alle corvée ed alle decime, si aggiungevano i diritti giurisdizionali del feudatario. Tutti questi provvedimenti bloccarono i processi di promozione e di ascesa sociale dei ceti borghesi. La reazione non si fece attendere ed il disordine sociale si diffuse nelle campagne, dove si radicò il fenomeno del banditismo. Per arginare le tensioni sociali, il nuovo re che successe a Filippo III, e dunque Filippo IV (1621-1665), avviò una politica estera più aggressiva servendosi del primo ministro Conte-Duca d’Olivares impose un programma politico che prevedeva il restringimento delle autonomie locali sui territori spagnoli e dell’Italia meridionale, al fine di incrementare e rafforzare le risorse economiche e le imposte che dovevano affluire nelle casse della Corona. Si trattava di un nuovo imperialismo internazionale ed un maggiore coinvolgimento delle province nella vita economica, politica e militare della Spagna. Seguendo dunque le linee del primo ministro francese Richelieu e di quello inglese Strafford, venne potenziata l’organizzazione militare della Spagna, ma le oppressioni fiscali con il passare del tempo fecero esplodere le rivendicazioni indipendentistiche e rivoluzionarie in molte province del regno, in particolare in Portogallo, Catalogna e nell’Italia Meridionale. Olivares e invasione della Valtellina In virtù della politica di Olivares, allo scadere della tregua dei 12 anni con l’Olanda, e dunque con la fine della pax hispanica, l’accordo con le province unite non sarebbe stato rinnovato. Olivares, dopo che la Spagna ebbe sobillato i cattolici della Boemia alla reazione verso le provocazioni protestanti, e dunque servendosi di un sistema di alleanze antiolandese, nel 1620 invase la Valtellina, situata nel cantone svizzero dei Grigioni, dove perpetrarono altre stragi che culminarono nel “sacro macello”. Il territorio della Valtellina era di posizione strategica, un corridoio tra Lombardia spagnola ed Austria; il territorio avrebbe permesso gli spagnoli di chiudere in una manovra avvolgente i Paesi Bassi. L’occupazione della Valtellina dunque determinò la reazione di Francia, Ducato di Savoia e Repubblica Veneta. Lo scontro bellico, dopo la conquista della Valtellina nel 1625, si concluse nel 1626 con il trattato di Monzon, che determinò l’affermazione del protettorato spagnolo su quei territori. La congiuntura favorevole coincide però con la rivolta degli ugonotti in Francia. Successione del Monferrato Mentre la Francia era impegnata con gli ugonotti, l’Inghilterra tentava un attacco contro il porto di Candice, facilmente rintuzzato dagli spagnoli, ma oramai si riaprivano le ostilità anglo-spagnole. Nel 1627 moriva il duca di Mantova Vincenzo II. Il candidato francese Carlo I di Gonzaga-Nevers aveva maggiori titoli alla successione e l’appoggio francese, soprattutto per merito di Richelieu, ma Mantova sotto il controllo francese era un pericolo per l’Italia spagnola. Ferrante II Gonzaga di Guastalla era invece sostenuto dalla Spagna e dal Duca di Savoia. Il governatore di Milano Gonzalo de Cordova allora nel marzo del 1628 penetrò con le sue truppe nel Monferrato ed Olivares inviò altre forze. Con la guerra di Mantova (1628-1631) il Nerves non fu cacciato e gli stessi francesi accorsero in suo aiuto. La Spagna ne uscì sconfitta e l’evento diede i presupposti per il conflitto franco-spagnolo che scoppierà nel 1653 e che conclude la guerra dei Trent’anni. Rivolta in Catalogna e secessione del Portogallo Con l’Uniòn de las armas, messa a punto da Olivares, tutte le province spagnole dovevano contribuire con uomini e mezzi alla formazione della forza militare dell’impero, e si trattava di un progetto volto, secondo il primo ministro, ad una partecipazione più diretta dei sudditi. Tuttavia trovò opposizioni nell’aristocrazia castigliana e nelle stesse province. Fu questa una delle cause della rivolta catalana. Ai conflitti con l’Olanda, con la Francia e la Germania si aggiunsero crisi interne che scoppiarono nel 1640: la rivolta in Catalogna e la secessione del Portogallo. La guerra con la Francia nel 1635 aveva accresciuto l’importanza strategica della Catalogna, ma si erano ormai deteriorati i suoi rapporti tra Madrid e Barcellona. Contribuirono a ciò gli abusi delle truppe acquartierate e la pressione fiscale di Olivares. Esplosero violenti tumulti e la Catalogna nel 1641 si affidò alla Francia. Intanto il Portogallo dichiarava la sua indipendenza. L’unità del sistema politico veniva meno. Dopo la sconfitta inferta dai francesi nel 1643, Olivares depose la sua carica di primo ministro, morendo due anni dopo. Rivolta dei regni di Sicilia e di Napoli Nel 1647 si sollevavano in rivolta anche il regno di Napoli e quello di Sicilia, i quali avevano dovuto accollarsi il peso dei massicci impegni finanziari e militari della Corona spagnola per la difesa interna, per la difesa di Milano e per i soccorsi militari nelle Fiandre, in Catalogna e nel Portogallo. La pressione tributaria era aumentata nel Mezzogiorno continentale ed insulare, in particolare a Napoli, dove interessò prodotti come olio, vino, seta, ma anche diritti commerciali e dogane. In quegli stessi anni Napoli era colpito anche dalla crisi agraria. La rivolta ebbe inizio il 7 luglio del 1647 e durò fino al 6 aprile del 1648 e non ebbe solo motivi fiscali. In origine la rivota fu dominata dal capopopolo Tommaso Aniello d’Amalfi, detto Masaniello, pescivendolo legato al sottoproletariato ed ai ceti artigiani. Giulio Genoino però seppe poi interpretare sia i motivi della protesta antifiscale, sia i motivi della lotta politica dei ceti popolari contro la nobiltà rappresentata da 5 di 6 eletti che governavano la capitale. Si rivendicava così la parità del peso politico nell’amministrazione di Napoli tra popolo e nobiltà. Masaniello venne però ucciso sotto ordine del duca d’Arcòs e di alcuni esponenti dell’aristocrazia e Giulio Genoino venne esiliato. Intanto la rivolta si radicalizzava nelle campagne, dove assumeva un carattere antifeudale. Nell’ottobre del 1647 i leader della fazione popolare dichiaravano la Real Republica Napoletana chiedendo la protezione del re di Francia. L’esperienza però fallì, il cardinale Mazzarino fu cauto nell’accogliere l’appello, ma il francese Enrico di Lorena duca di Guisa lo accolse subito e fu nominato doge della Repubblica, senza il sostegno della Francia; inoltre, i leader non godevano di consenso del ceto civile e dei magistrati napoletani. Quest’ultimi cercarono allora di venire a patti con la Spagna, ma invano, ed il baronaggio feudale, che all’inizio era fuggito, riprese il possesso dei feudi ed appoggiò le truppe spagnole. Nel gennaio del 1648 la Spagna firmava la pace separata con gli olandesi e poté così impegnarsi maggiormente nella crisi napoletana: il 6 aprile del 1648 la Spagna ne usciva vittoriosa. Intanto il Portogallo era ormai perso, gli eserciti erano impegnati contro la rivolta della Catalogna ed in Germania e nei Paesi Bassi. La crisi catalana si risolveva positivamente: la società era troppo frammentata per unirsi in un’insurrezione nazionale. I francesi intanto si tiravano indietro e la carestia e le malattie fecero il resto. Il Sacro Romano Impero Il Sacro Romano Impero si presentava, all’inizio del XVII secolo, come una formazione politica divisa: la pace di Augusta del 1555 aveva aggravato il problema. Ad una frammentazione politica si aggiunse una frammentazione religiosa. La costituzione politica della Germania vedeva il vertice, ovvero l’imperatore, assai debole sia per la dipendenza dai principi elettori, sia per la forza della Dieta imperiale, sia per l’assenza di organismi politico-amministrativi unificati. La forza dell’imperatore derivava ormai soltanto dall’essere ereditariamente un Asburgo. Il sistema del potere era dunque fondato sul rapporto tra principi e ceti territoriali rappresentati dalla Dieta. Con l’attribuzione ai principi tedeschi del diritto di affermare il proprio credo nei rispettivi Stati, i conflitti si acuirono. Con la pace di Augusta infatti si raggiunse un accordo tra cattolici e luterani ed emerse subito il problema della riserva ecclesiastica, ovvero di tutti i beni sequestrati dai principi calvinisti in una data posteriore al 1552, considerati, secondo il rispetto della clausola, come beni usurpati. Gli imperatori Ferdinando I e Massimiliano II non presero parte alle controversie religiose, mentre si affermava un atteggiamento aggressivo tra i principi cattolici. Alla morte di Massimiliano II nel 1576 gli successe Rodolfo II d’Asburgo, a favore degli interessi cattolici. Si formava un’Unione evangelica capeggiata dall’elettore del Palatinato, di fazione protestante, e la Lega cattolica, il cui leader fu il Duca di Baviera che, sostenuto dalla Compagnia di Gesù, avviò, insieme agli altri principi cattolici tedeschi, un progetto di riconquista delle regioni luterane. La Dieta boema, dopo aver costretto Rodolfo II ad abdicare, designò re di Boemia il fratello Mattia, che spostò il centro degli affari boemi a Vienna, alimentando nella Dieta il sospetto di una totale annessione dell’Austria. Ma il timore peggiore fu il fatto che il suo erede imperiale, Ferdinando di Stiria, fosse di una rigida formazione gesuitica e ciò avrebbe compromesso la tolleranza che vigeva in Boemia. Nel 1617 la Lega cattolica riuscì a far eleggere Ferdinando di Stiria come successore di Mattia e la Dieta nel 1618 costituì un governo di emergenza. Nello schieramento protestante si consolidò il calvinismo, religione ufficiale del Palatino. Nei territori tedeschi, come in quelli italiani, le divisioni politiche alimentarono una crisi economica ed impedirono che si formasse una politica commerciale efficiente per fronteggiare la concorrenza olandese, inglese e tedesca. Se dunque da una parte la Spagna non riuscì a consolidare ed a favorire la promozione dei ceti borghesi, ponendosi in una condizione di non attendere sufficientemente ai processi di modernizzazione, con il tentativo del Conte Olivare di rafforzare la politica imperiale, la Spagna anziché risolvere i problemi li acuisce. D’altra parte, il Sacro Romano Impero è sempre più diviso al suo interno e non riuscirà ad arginare le pretese dei principi calvinisti. Queste divisioni interne porteranno l’Impero sul precipizio di una crisi economica, che viene acuita dalla concorrenza olandese, inglese e svedese. Intanto le condizioni economiche in Germania erano in crisi ed indici sensibili ne sono le bancarotte dei Fugger. A fine Cinquecento l’apertura di nuovi mercati rappresentò una boccata d’ossigeno ma tornò un crollo con le guerre dei Trent’anni nel sud. Quanto all’Ungheria, la crisi colpiva soprattutto l’industria estrattiva, così come in Boemia e nel Tirolo, mentre il mondo rurale mostrava una maggiore articolazione produttiva che solo dopo le guerre dei Trent’anni entrò in declino. La guerra dei Trent’anni Nell’ambito della crisi del 600 si manifesta la “seconda guerra mondiale del Seicento”. La Seconda Guerra Mondiale, a metà del 900, è un momento periodizzante della contemporaneità, e così la guerra dei Trent’anni è un evento periodizzante della civiltà seicentesca. La Guerra dei Trent’anni fu un conflitto che coinvolse due differenti civiltà, due modelli di cultura e due credi religiosi: Boemia dalla tolleranza religiosa, appoggiata dagli Stati germanici dell’Unione evangelica da una parte, Lega cattolica con gli Asburgo e le forze imperiali dall’altra. Il conflitto inoltre è caratterizzato da una internazionalizzazione, da un’evoluzione immediata dalla dimensione locale a quella generale e dai conflitti religiosi a quelli per l’egemonia sul continente. Fu inoltre uno dei primi modelli di guerra che produsse come risultato il mutamento degli equilibri politici sul continente europeo, con Olanda e Francia come nuovi protagonisti al posto della Spagna. Entrano inoltre in scena nuovi protagonisti politici, la Danimarca e la Svezia. Fu una guerra di massa che produsse oltre 100milioni di morti. Fase Boemo-Palatina (1618-1625) Mentre nel cuore dell’Europa i due regni di Spagna e Francia si fronteggiavano ed alla fine del XVII l’Impero di Carlo V veniva diviso, nell’Est europeo si intravede una nuova compagine imperiale che comincia a coltivare ambizioni di giungere a Roma. Nel 1526 l’Impero Ottomano sconfiggeva gli eserciti guidati da Luigi II Jagellone nella battaglia di Mohacs. In seguito alla battaglia i regni di Boemia ed Ungheria del Nord passavano sotto il controllo degli Asburgo, mentre l’Ungheria del Sud rimaneva autonomo sotto il protettorato ottomano. La situazione politica dei due nuovi regni non era delle migliori: gli Asburgo dovettero fronteggiare le spinte indipendentistiche: in Boemia si era affermato il movimento hussista e nell’Ungheria si radicavano sempre più le comunità protestanti. Sotto il regno dell’imperatore Rodolfo si risvegliarono le divisioni religiose. Nel 1606 i calvinisti ungheresi insorsero contro le prevaricazioni cattoliche e stabilirono la libertà di culto. Nel 1608 il Palatinato istituì una coalizione di principi protestanti chiamata Unione Evangelica. Quest’unione era sostenuta da Enrico IV, e ad essa si associarono gli hussisti della Boemia. Il Duca di Baviera nel 1609 diede vita alla Lega Cattolica appoggiata dalla Spagna e dall’imperatore. Rodolfo II impresse una svolta politica di compromesso e con le lettere di maestà concesse la libertà di culto ai boemi, con l’obiettivo di creare delle divisioni tra gli aderenti dell’Unione Evangelica. La situazione, anziché migliorare, peggiorò con l’ascesa al trono dell’imperatore Mattia e la successiva designazione nel 1617 di Ferdinando di Stiria alla funzione di re di Boemia la situazione andò a degenerare. Morto Rodolfo infatti, che non aveva figli, gli successe il fratello Mattia, il quale, anch’egli non avendo figli, per favorire l’ascesa di un ramo cadetto nel 1617 promosse la successione del cugino Ferdinando di Stiria al regno di Boemia e di Ungheria. Il re di Boemia era infatti uno dei sette principi elettori e Ferdinando, oltre che ad essere cugino dell’imperatore e suo successore era un re molto cattolico, formato dai gesuiti e da un’educazione aderente agli ideali della controriforma. Ferdinando di Stiria era fermamente convinto che si dovesse promuovere una stretta integrazione tra Impero e cattolicesimo. Supportato da questi princìpi ed idee, egli abolì le lettere di maestà. Inoltre, come re di Boemia, seguire la religione della famiglia da almeno 25 anni, altrimenti poteva lasciare il Paese conservando il patrimonio. Dal punto di vista politico-territoriale invece la Francia incorporava Vetz, Toul e Verdun, l’Alsazia, il Pinerolo ed il Casale Monferrato in Italia, ed i Borbone diventavano arbitri del trattato. La Svezia otteneva Brema e Verden in territorio germanico, entrando nella Dieta, estendeva la sua influenza sulla Pomerania occidentale otteneva il riconoscimento del primato nel Baltico e nel Mare del Nord. Veniva poi riconosciuta all’Olanda l’indipendenza. INGHILTERRA DEL SEICENTO E LE DUE RIVOLUZIONI Giacomo I Stuart Mentre il Sacro Romano Impero sarà travolto da una condizione di instabilità politica che sfocerà nella guerra, la situazione non era certamente migliore in Inghilterra. Con la morte di Elisabetta I si estinse la dinastia dei Tudor ed il trono fu assunto da Giacomo I Stuart. Elisabetta non aveva infatti figli ed il trono passò ad uno dei figli della cugina che la stessa Elisabetta aveva mandato a morte, Maria Stuart. Alla fine del regno di Elisabetta, sul piano finanziario la Corona poteva contare su un’autonomia scarsa, in quanto non esistevano monopoli pubblici che garantissero entrate fisse, una ridotta burocrazia centrale che riduceva la venalità degli uffici e una modesta capacità impositiva. I tribunali regi convivevano con quelli del diritto consuetudinario ed era assente una burocrazia locale. Con la Riforma si stabilì un tacito accordo: la gentry della Camera dei Comuni accettava scelte politiche del re in cambio del governo su campagne e città. In questo modo la gentry aumentava potere e ricchezze e conquistò il controllo dei seggi della Camera. Dal punto di vista religioso la Chiesa ufficiale era priva di solide basi e si diffusero sette estremistiche protestanti e cattoliche. La forza dello Stato inglese stava nell’equilibrio fra re e Parlamento e nella sua capacità di favorire mutamenti sociali. Ciò avvenne con l’aristocrazia, di cui se ne modificarono le funzioni e la Camera dei Comuni assunse maggior peso di quella dei Lord. Con le recinzioni, infatti, la gentry era cresciuta di numero e di forza e si verificò un processo di distribuzione della ricchezza che moltiplicò le stratificazioni interne a questo ceto. Gli esquires comprendevano ormai i gentiluomini di campagna, i principali possidenti dei villaggi e delle circoscrizioni, ma alla gentry appartenevano anche i knights (cavalieri) e i baronetti. Alla morte di Elisabetta I, Giacomo I Stuart, figlio di Maria Stuart, divenne re di Inghilterra e di Scozia ed impresse subito al paese una svolta per la creazione di un potere accentrato sotto la guida del re e rafforzò il prestigio e la funzione della Chiesa anglicana. Questa azione politica voleva ricondurre tra le prerogative regie la facoltà di effettuare una tassazione sulle risorse del paese, emarginando o accantonando le tradizionali istituzioni come la Camera dei Comuni. Alla Chiesa Anglicana si opponeva il movimento puritano, che non teorizzava solo i ripristino del Calvinismo e l’abolizione di ogni residuo cattolico, ma si ispirava anche ad un modello di società fondata sul primato dell’individuo , della sua religiosità, delle sue scelte e sul ruolo della comunità dei pastori e dei fedeli. Era dunque in conflitto con le esigenze della monarchia, tendente ad affermare il potere assoluto anche attraverso la religione di Stato. Sul piano giudiziario il sovrano inglese voleva stabilire la superiorità dei Tribunali Regi che dovevano esse composti da giudici incaricati dal re, ai quali veniva concessa una discrezionalità di intervento a dispetto delle garanzie accordate ai cittadini sin dalla Magna charta. Giacomo I sin da subito non seppe enucleare una solida organizzazione burocratica e militare che gli garantisse una base di consenso. I cattolici rimasero delusi dal suo operato e si impegnarono in attività cospirative per uccidere il re e per far saltare in aria il parlamento con la congiura delle Polveri nel 1605. Inoltre, l’attività del re si attirò le ostilità degli imprenditori che operavano nel settore dei commerci, delle attività manifatturiere ed agricole, una realtà sociale non formata soltanto da un consistente ceto borghese, ma anche da un importante settore della piccola e media nobiltà, la cosiddetta gentry. Si trattava dunque di una forza sociale composita che da un lato si vedeva oppressa dal fiscalismo, ma soprattutto risentiva della mancanza di una politica estera del re. Questi ceti trovarono espressione del loro malcontento nei rappresentanti del Parlamento. Con la mancanza di un’aristocrazia, dissolta nel XV secolo con la guerra delle due rose, il contrasto con la monarchia si concentrò nel Parlamento, che divenne sede di una forte opposizione religiosa e che non approvava le imposte fondiarie volute dal re. Giacomo I si trovò più volte in conflitto con il Parlamento, soprattutto quando vennero avanzate richieste per elevare nuove imposte fiscali. Il conflitto fu anche alimentato dalla corruzione e dal clientelismo dell’apparato di governo, il cui centro era costituito da un favorito del re, Villiers duca di Beckingham. A quest’ultimo ed al suo entourage facevano capo le privative e privilegi economici, la vendita di uffici e titoli nobiliari, l’accesso all’apparato regio. In alcune circostanze il re si rifiutò anche di convocare l’assemblea ed arrestò i rappresentanti più attivi. Carlo I Stuart Con la morte di Giacomo I, il trono fu assunto dal figlio Carlo I Stuart che sciolse il Parlamento nel 1625 e nel 1626, lo convocò nel 1628 per chiedere l’approvazione di un tributo per costituire un esercito ed una flotta che soccorressero gli ugonotti bloccati nel porto della Rochelle. Il re, per ottenere l’assenso del Parlamento, dovette firmare la Petition of right, la petizione dei diritti, che censuava il fiscalismo monarchico, le repressioni religiose della Chiesa anglicana e l’uso invalso di tenere in carcere i cittadini senza il permesso dei giudici. La petizione, tuttavia, non riuscì a raggiungere quegli obiettivi e nel 1629 Carlo I Stuart sciolse un’altra volta il Parlamento e diede vita ad un governo personale: furono istituiti due Tribunali che lavorarono a pieno ritmo, la Camera Stellata per giudicare i reati politici e la Coorte di Alta Commissione per arginare il dissenso religioso. Il controllo del potere fu affidato a Thomas Wenworth, conte di Strafford e governatore d’Irlanda dal 1633 al 1639. Nel 1633 fu nominato arcivescovo di Canterbury William Laud e fu ripristinato il prestigio dei vescovi che ricomparver nel Privy Council e nelle magistrature. Con le dure persecuzioni e repressioni di Laud ai puritani molti oppositori religiosi emigrarono nel Massachusetts, formando le prime comunità inglesi nordamericane. Dal punto di vista economico e sociale, poi, la vendita dei titoli nobiliari con Carlo I fu più accentuata che con Giacomo e si andava a rafforzare il rapporto tra re e Lord, l’alta aristocrazia feudale. La politica del sovrano determinò una profonda divisione tra monarchia e gentry provinciale insieme alla borghesia delle città. Il re divenne dunque un nemico dei ceti economicamente più dinamici e più reattivi alle influenze del puritanesimo. Intanto fu imposta l’esazione dello ship money a Londra ed alle altre città del regno, una tassa versata in precedenza solo dalle città portuali per mantenere la flotta navale. La pressione fiscale raggiunse livelli che non erano mai stati raggiunti in passato: furono istituiti dazi doganali non approvati dal Parlamento, mentre i diversi monopoli di importazione furono venduti con sfrontatezza ad aristocratici e grandi mercanti. La vendita delle cariche pubbliche e lo sviluppo di una burocrazia parassitaria subì un’accelerazione per cui si sviluppò una presenza eccessiva di pubblici ufficiali, magistrati, appaltatori di funzioni pubbliche. Il rilancio dell’autorità della Chiesa anglicana passò attraverso il progetto di trasformare in senso episcopale la struttura del clero, al quale il re concesse il potere di elevare ulteriori imposte per il sostegno dell’intero episcopato anglicano. L’arcivescovo di Canterbury, William Laud, fu protagonista di questa svolta e nel 1639 pose mano ad un programma che prevedeva la normalizzazione dei comportamenti religiosi in Scozia. In questo paese, sin dal 1560, si era impiantata la Chiesa Nazionale Presbiteriana che si rifaceva ai principi del calvinismo ortodosso. Fu avanzata una richiesta di restituzione alla Chiesa anglicana di tutti i beni confiscati agli ordini religiosi cattolici. L’imposizione di innovazioni per la celebrazione di riti religiosi e la richiesta di un adeguamento in senso episcopale del clero presbiteriano scozzese indusse quelle popolazioni a riunirsi nell’assemblea nazionale scozzese ed a pronunciare un giuramento o un patto per difendere il calvinismo ortodosso contro le interferenze degli inglesi. La guerra che seguì determinò la sconfitta dell’esercito regio: gli scozzesi invasero il suolo inglese ed occuparono alcune città. Per sostenere le spese militari Carlo I dovette riunire il Parlamento ed ottenere le necessarie deliberazioni per imporre nuovi tributi. I rappresentanti della Camera dei Comuni solidarizzarono con i rivoltosi e chiesero l’abolizione della ship money, e dunque l’approvazione della Petition of Rights. Il sovrano sciolse subito l’assemblea, che fu chiamata “il corto Parlamento” perché si riunì il 13 aprile del 1640 e durò un mese. Fu convocata a novembre una nuova assemblea, questa volta definita “il lungo Parlamento” perché rimase in carica fino al 1653. Intanto, tra la convocaazione del primo e del secondo Parlamento, le truppe inglesi venivano sconfitte da quelle scozzesi che occuparono Newcastle e dettarono le condizioni per la tregua. Nella nuova assemblea prevalse una componente che isolò ulteriormente il re ed i suoi alleati. L’opposizione fu guidata da John Pym John Hampden, e fu talmente aggressiva che il sovrano inglese inflisse una condanna a morte ai due eletti. Carlo I, sprovvisto di un apparato repressivo efficiente e privato del sostegno di una salda amministrazione di pubblici funzionari, era circondato da una coorte che non riscuoteva grandi consensi popolari. Il Parlamento ottenne la promulgazione di una serie di provvedimenti che eliminarono i tributi speciali e proibirono l’elevazione di nuove tasse senza consenso del Parlamento e la carcerazione dei sudditi senza presso; inoltre posero termine alle persecuzioni religiose. Nel 1641 il Primo Ministro Conte di Stafford fu condannato a morte e nello stesso anno in Irlanda una insurrezione di cattolici determinò lo sterminio di migliaia di protestanti inglesi e scozzesi dell’Ulster. Il re fu accusato di aver incoraggiato la rivolta per formare un esercito che avrebbe dovuto spostare l’Inghilterra per reprimere il Parlamento. I tentativi del sovrano nell’accattivarsi le simpatie degli scozzesi indussero i parlamentari a diffidare della politica di Carlo I; in questo clima di incertezza i Parlamentari presentarono al re la grande rimostranza che considerava nemici dell’ordine sociale e politico inglese gli appartenenti alle sette religiose cattoliche, i vescovi e il clero corrotto, nonché i cortigiani che si erano arricchiti sotto Carlo I. I Rivoluzione Inglese (1642-1651) Tra la petizione dei diritti e la grande rimostranza l’azione politica del re si indebolì. Soprattutto la grande rimostranza segna la fine della leadership reale del re: il Parlamento infatti imbalsamò il re in questo modo. Con il documento, il Parlamento rivendicava un controllo sia nel reclutamento militare che nella nomina dei ministri, e poté mettere in atto i nuovi poteri attraverso il comando della repressione di una insurrezione di massa in Irlanda, da parte dei contadini anglo-cattolici contro i coloni protestanti inglesi. Il 4 gennaio del 1642 il re organizzò un colpo di Stato per arrestare i parlamentari più attivi, ma il tentativo fallì. I parlamentari che guidavano l’opposizione ed il re fuggirono mentre la popolazione di Londra insorse: iniziò la guerra civile. Con la guerra civile tutto viene messo nelle mani dei militari, degni eserciti militari non ancora ben organizzati. Con il re si schierarono i cavalieri, che erano nella maggior parte dei rappresentanti dell’aristocrazia, della gentry e dell’altissima borghesia che si opponevano ad una trasformazione della proposta politica parlamentare in direzione di istanze radicali. Erano delle motivazioni che non esprimevano un completo appoggio della causa monarchica. Nello schieramento dell’opposizione parlamentare militavano gli esquires della gentry, mercanti, artigiani e ceti delle aree limitrofe di Londra. Le regioni controllate dal sovrano nel 1642 erano quelle settentrionali ed occidentali, con un basso livello di urbanizzazione ed una vita economica meno progredita. La guerra civile si trascinò con esiti incerti tra il 1642 ed il 1643; l’esercito parlamentare, detto Teste rotonde per la capigliatura corta, conseguì vittorie grazie soprattutto al sostegno finanziario della City (élite finanziaria), all’alleanza con la Scozia ed alla disciplina militare. Dopo la morte di Hampden e Pym il controllo delle operazioni militari dell’esercito parlamentare fu assunto da un ufficiale puritano, Oliver Cromwell. Quest’ultimo era l’artefice di una tattica che si fondava sull’utilizzo degli ironsides, i “fianchi di ferro”, un corpo di cavalleria corazzata che fu determinante al successo di molte battaglie, con le veementi cariche a ranghi serrati. Cromwell riordinò l’esercito parlamentare organizzando quella che venne chiamata la New model army, un capolavoro di ingegneria politica e di scienza bellica. I militari, volontari e non mercenari, e scrupolosamente addestrati, potevano in questo modo eleggere i propri ufficiali, ed erano inoltre motivati da un programma di acculturazione politica e religiosa di derivazione puritana, che li stimolava alla lotta militare. Carlo I fu vinto in due scontri militari: a Langport nel luglio del 1644, ed a Naseby, nel giugno del 1645. Anziché arrendersi al Parlamento, preferì consegnarsi nelle mani degli scozzesi, ai quali propose un accordo separato. Questi però nel 1647 lo riportarono in Inghilterra e lo consegnarono al Parlamento. Il re adottò un comportamento ambiguo, in questo periodo: da una parte lusingava il Parlamento e dall’altra complottava con l’esercito e cercava il sostegno degli scozzesi. Emergevano intanto nuove divisioni nello schieramento del re: i presbiteriani, forza conservatrice e tendente a sostituire la Chiesa Anglicana episcopalista con una Chiesa calvinista fondata su un sistema di consigli e su una nuova identità di Chiesa-Stato; gli indipendenti, gruppo egemonico della New Model Army, nonché nobili di campagna e mercanti che si opponevano a qualsiasi Chiesa di Stato, a favore della tolleranza di tutti i credi religiosi e del libero mercato, della proprietà, dell’iniziativa privata; i levellers, che predicavano l’assoluta libertà religiosa, la democratizzazione della società, l’abolizione della proprietà privata ed il consumismo dei beni. Cromwell ed Ireton, che guidò la battaglia contro il leader dei levellers, videro il radicalismo di quest’ultimi diffondersi nella New Model Army, e da un lato cercarono di sostenerla, dall’altro si opponevano alle spinte estremistiche. I levellers infatti propugnavano il suffragio universale, la separazione tra Chiesa e Stato e la Costituzione repubblicana per l’uguaglianza dei cittadini. Cromwell ed Ireton invece legavano la rappresentanza alla proprietà e perciò l’accesso al potere politico era riservato a percettori di reddito non inferiore a 40 scellini annui, dunque ai ricchi artigiani, ai mercanti ed ai proprietari terrieri. Il rischio dell’anarchia sociale e politica era alle porte: i presbiteriani controllavano ancora il Parlamento e nel 1647 il re si rifugiò in Scozia; l’esercito era in pieno fermento e non si riusciva più a controllare le spinte radicali Nel 1602 venne fondata la Compagnia delle Indie Orientali, fondata sul libero acquisto di azioni da parte dei cittadini e su una tendenza alla concentrazione di capitali. Alla Compagnia venne riconosciuto il monopolio dei commerci olandesi sul mare. Nel 1652 diede vita ad una fortificazione intorno al Capo di Buona Speranza ed iniziò la colonizzazione del Sudafrica. La Compagnia delle Indie Occidentali fu più breve, poiché in diretta concorrenza con la Spagna. La vera forza dell’Olanda era l’industria, e perciò importava materie prime e semilavorati ma esportava manufatti. Nell’agricoltura furono promossi investimenti nell’ammodernamento delle tecnologie. La pace con la Spagna nel 1648 significò conquiste territoriali e riconoscimento dell’indipendenza. Nel 1650 le Province Unite possedevano un vasto impero commerciale e l’Inghilterra si apprestava a fargli concorrenza. La Compagnia delle Indie Orientali ottenne il monopolio del commercio delle spezie, del Giappone ed altre conquiste. Quella delle Indie Occidentali invece fondò sull’isola di Manhattan New Amsterdam, futura New York alla conquista degli inglesi nel 1664. Dal 1636 al 1645 gli olandesi controllavano il commercio degli schiavi neri, ma in America non riuscirono a conservare posizioni quando lo zucchero incominciò a subire crolli nelle quotazioni della Borsa di Amsterdam; inoltre, la fonte degli schiavi cominciava ad esaurirsi. Tra 1652 e 1672 il regime repubblicano si consolida e viene sperimentata una nuova forma di governo senza statolder. Fu il gran pensionario Jan de Witt a governare, eliminando l’influenza degli Orange. Il ventennio in cui si svolge il conflitto anglo-olandese è caratterizzato da alcuni mutamenti nell’equilibrio internazionale delle forze. La prima guerra anglo-olandese (1652-54) si combatté sull’idea inglese della supremazia marittima e su quella olandese della libertà dei mari. Per contenere anche l’espansionismo svedese, l’Olanda stipula un’alleanza con la Danimarca. Intanto, la Pace dei Pirenei (1659) sanciva l’inferiorità della Spagna rispetto alla Francia, e l’anno successivo avveniva la restaurazione monarchica in Inghilterra. Venne così siglata un’alleanza tra Olanda e Francia in funzione antinglese. Le trattative di pace della seconda guerra anglo-olandese segnano un rovesciamento di alleanze: Olanda, Inghilterra e Svezia in funzione antifrancese. Nel 1670 a Dover viene firmato un accordo segreto tra Inghilterra e Spagna per un attacco congiunto contro l’Olanda e la sua spartizione. Nel 1672 dopo la Francia aggredisce l’Olanda, in cui quell’agosto era asceso al potere Guglielmo III d’Orange, ripristinando i poteri di famiglia. La guerra si conclude con la pace di Westminster, che riconosce i principi liberistici degli olandesi. Ma l’alleanza tra Carlo II e Luigi XIV trova opposizione nella City londinese, temendo l’ascesa di una potenza cattolica come la Francia. Si prepara un nuovo rovesciamento di alleanze, una solidarietà religiosa e culturale tra Olanda ed Inghilterra: la guerra contro i francesi non porta alcun vantaggio alle due potenze. Nel 1677 Maria, figlia del futuro re di Inghilterra Giacomo II, sposa Guglielmo III d’Orange e l’anno successivo è siglata l’alleanza anglo-olandese. Nel 1688 Guglielmo entra a Londra e corona la gloriosa rivoluzione. Nel XVIII secolo l’Inghilterra diventerà prima potenza, e intanto l’Olanda non è più un’anomalia nel continente europeo e ciò spiega il suo declino. Francia Seicentesca Enrico IV Dopo l’editto di Nantes, Enrico IV stabilì in Francia la pace religiosa e promosse una politica di consolidamento dello Stato basata sulla formazione e lo sviluppo di un ceto di funzionari pubblici. La vendita degli uffici pubblici consentì di rispondere alle esigenze finanziarie della monarchia e di attirare verso l’apparato statale gruppi sociali di origine non nobile. Con l’editto di Paulet del 1604 sanzionò l’ereditarietà degli uffici attraverso un pagamento di una tassa annuale ed in questo modo si costituì un solido legame tra re e burocrazia. Lo stesso legame consentì alla monarchia di superare le crisi politiche del secolo e contribuì a formare un corpo di funzionari fedeli ai Borbone. Gli esponenti più importanti di questo ceto divennero i titolati della nobiltà di toga, distinta dalla nobiltà di spada, e grazie ad essi i sovrani francesi tentarono di neutralizzare l’antica nobiltà. Grazie al contributo del duca di Sully, primo ministro, Enrico IV cercò di ricostruire le basi produttive del paese attraverso lo sviluppo dell’agricoltura e delle manifatture tessili. In politica estera poi promosse alleanze antisburgiche con gli olandesi, i Savoia e Venezia. Tuttavia il suo regno accentuò tensioni e conflitti interni, in particolare quelli religiosi ed i contrasti legati alle nuove dinamiche politico-sociali tra nobiltà di toga e di spada e tra parlamenti e corpo di funzionari creato dal sovrano. Nel 1610 Enrico IV veniva assassinato da un fanatico estremista. Reggenza e Richelieu Alla morte di Enrico IV gli succedeva il figlio ancora bambino, Luigi XIII, e perciò la reggenza fu affidata alla vedova Maria de Medici, la quale convocò gli Stati generali nel 1614. L’assemblea dei tre stati (clero, nobiltà e terzo stato) fu cassa di risonanza tutte le lacerazioni del regno, ma non riuscì ad imporre alcuna riforma, tra le quali quella di abolire la venalità delle cariche. In questo vuoto di potere, tra 1614 e 1624, l’aristocrazia risollevò la testa ed esplosero conflitti di natura religiosa e politica. Furono anche gli anni della formazione di Richelieu, che fu nominato nel 1616 segretario dello Stato ma alla morte del suo protettore l’anno successivo perse a carica. Nel 1624 divenne primo ministro di Luigi XIII. Fu lo stesso Richelieu ad occuparsi della questione ugonotta, e si ritirò dall’alleanza antiasburgica per avere maggior disponibilità finanziaria e politica. Nel 1628 l’esercito ugonotto fu sconfitto a La Rochelle. Il governo di Richelieu fu segnato anche dalla guerra franco-spagnola, in cui la Francia dimostrò una decisa superiorità, e lo stesso primo ministro seppe gestire tutte le modalità del conflitto internazionale: guerra, spionaggio, provocazione, strategia e diplomazia furono gli strumenti di un unico disegno complessivo teso a ridimensionare la Spagna. Dopo il fiasco spagnolo a Mantova Richelieu poté porsi al servizio di una media potenza in ascesa. Queste nuove chance derivavano anche dalla maggiore capacità della Francia di superare tensioni e conflitti sociali e di sfruttare tutte le forze operanti in direzione di una concentrazione del potere. I contadini di molte regioni francesi negli anni Trenta si rivoltarono non solo contro i nobili, ma anche contro fisco, spese militari ed alloggiamenti delle truppe. I moti non indebolirono lo Stato, che alternando una dura repressione con incentivi e premi ai traditori riuscì a sconfiggere le rivolte. Mazzarino Dopo la morte di Richelieu il 4 dicembre del 1642, il 14 maggio del 1643 muore anche Luigi XIII. Succede al sovrano francese il figlio di appena 5 anni, ma al contrario della reazione nel 500 a seguito di una serie di re bambini e di reggenti che non si mostrarono all’altezza della situazione, nel 600 non si verificarono gli stessi sconvolgimenti nella politica estera e nel programma consolidamento dello Stato moderno in Francia. La Francia risentì i contraccolpi degli avvicendamenti del sistema di governo e di potere, e sembrava ormai avviata al consolidamento del concetto di Nazione e di Regno. Non ci furono sconvolgimenti perché a sostituire la figura del Ministro che fu il cardinale Richelieu, ci fu Mazzarino, un altro cardinale che divenne Ministro e capo del Consiglio del Re. Il rilievo di questa funzione per le sorti del regno assunse una particolare importanza, proprio perché il re Luigi XIV non aveva ancora raggiunto la maggiore età. Luigi XIV era posto sotto la reggenza della madre Anna d’Austria, legata al Mazzarino da rapporti di fiducia e collaborazione. Con la pace di Westfalia il cardinale Mazzarino impose il suo progetto teso ad affermare l’egemonia francese nelle vicende della politica europea e sancì la fine delle pretese e della politica di potenza della casa d’Austria. Nel 1648 la guerra con la Spagna proseguì sul confine spagnolo, in Italia e nelle Fiandre. Nonostante i successi nei primi anni di governo di Mazzarino, l’impegno finanziario della Francia per sostenere le spese militari risultava gravoso, inoltre il periodo bellico ed il forte carisma di Mazzarino consentirono la prosecuzione di una politica autoritaria gestita da un sistema di governo accentrato. Mazzarino, dunque, contribuì a perseguire la politica di Richelieu nel tentativo di erodere il potere nobiliare feudale e di riportare alcune prerogative nell’ambito della sovranità regia. Nel 1647 la nobiltà di toga si opponeva al governo, ed anche gli stessi funzionari ed esercenti degli uffici venali, soggetti alla pressione fiscale. Nel regno si produsse, per questo tentativo, una reazione i cui risultati possono essere ricondotti alle Rivolte della Fronda, che esplosero in due periodi differenti: dal 1648 al 1649 si verificò la Fronda parlamentare, mentre dal 1650 al 1653 la Fronda dei principi. Rivolte della Fronda I Parlamenti erano le coorti giudiziarie e supreme che assolvevano al controllo della congruità e della corrispondenza del contenuto degli editti regi, corrispondenza alle leggi fondamentali del regno. Queste assemblee erano composte da magistrati che avevano comprato il titolo, trasmettibile ai discendenti. La rivolta ebbe inizio a Parigi e si diffuse nelle altre città parlamentari, quali Tolosa, Grenoble, Bordeaux, Digione etc. I Parlamenti erano i luoghi in cui si costituirono i poteri della nobiltà di toga, quella nobiltà che aveva acquistato le cariche pubbliche, in contrapposizione con la nobiltà di spada. La nobiltà di toga era stata infatti enucleata attraverso la nascita e la costituzione dello Stato moderno, il quale aveva bisogno di una sua burocrazia. La nobiltà di spada si era invece formata attorno al sovrano nelle guerre medievali, una nobiltà antica, feudale, il cui titolo poggiava sulla concessione feudale da parte del re. Si verificò una dura dialettica tra le due nobiltà, durante la formazione dello Stato moderno, in quanto alcune prerogative in capo allo Stato venivano progressivamente sottratte a questa nobiltà feudale. La Fronda fu anche il risultato di questo processo di corrosione dei poteri feudali. I contrasti cominciarono ad acuirsi quando vennero nominati gli intendenti, le cui nomine cominciarono a corrodere le rendite che i nobili percepivano nell’esercizio della carica pubblica. Si creò quindi una contrapposizione tra nobiltà feudale e nobiltà di toga e tra nobiltà di toga ed i nuovi intendenti, selezionati direttamente dal re. Ottennero dunque una serie di prerogative che appartenevano alla nobiltà di toga. Alcuni autori contestano a giusto titolo il concetto di assolutismo di Luigi XIV, perché effettivamente la sua azione fu una politica di corrosione dei poteri in testa alla nobiltà, ma di fatto egli non è ancora il re sovrano, il suo non è ancora un potere incontestabile e supremo perché ci sono ancora poteri concorrenti: la feudalità possiede ancora poteri concorrenti, come il potere di fare giustizia. Questa dimensione costituzionale che aderisce al periodo di Luigi XIV ed ai regni dell’antico regime sono ascrivibili nella costituzione mista, in cui si verificano parvenze della modernità. Si determinarono malumori nel Parlamento parigino quando Mazzarino avanzò una proposta che aveva l’obiettivo di accrescere il gettito fiscale affidando la riscossione delle imposte agli intendenti, creando dunque nuovi uffici che potevano essere in vendita. La vendita di questi uffici produsse una riduzione dei vecchi uffici e delle loro rendite e ne provocò l’aumento della tassa che ne assicurava l’eredità, la cosiddetta paulette. Il Parlamento parigino reagì annunciando la revoca degli intendenti e rivendicando il diritto di poter procedere autonomamente all’esazione delle imposte nei compiti di gestione del tesoro. Il contrasto degenerò in una aperta rivolta quando venne fatto eseguire un ordine di arresto da parte di Mazzarino ad un nuovo membro dell’assemblea parigina. Il popolo, sottoposto ad angherie ed al fiscalismo statale, insorse e presidiò la capitale. I Parlamenti periferici si associarono e sostennero l’insurrezione. Nel 1649 il re e Mazzarino lasciarono la capitale, anche se in quello stesso anno la posizione del movimento frondista si andava disgregando. Quando infatti le richieste del Parlamento furono accettate la fronda si disgregò, perché mancava un progetto politico volto a scardinare la politica regia. Nel 1650 si scatenò la fronda dei principi capeggiata ed organizzata dal principe di Condé, artefice della sconfitta della fanteria spagnola a Rocroy e nelle Fiandre, il quale resse le truppe regie contro la fronda del Parlamento. In questo caso invece guidò gli eserciti della fronda dei principi, membri dell’aristocrazia francese che potevano manifestare risentimenti personali verso lo strapotere del Mazzarino e l’insofferenza del fiscalismo regio che determinava l’impoverimento dei contadini e costituiva un ostacolo per l’esazione dei diritti feudali. Imponendo una tassazione regia, infatti, entra in concorrenza con la tassazione feudale. Il partito di Condé seppe congiungere in un unico fronte il malcontento del popolo e del sottoproletariato urbano, le spinte radicali di Bordeaux (in senso repubblicano) e gli ideali della più antica nobiltà del sangue. Ancora una volta Mazzarino e la coorte furono costretti a fuggire da Parigi ed a trasferirsi a Colonia, in Germania. Da questa città il ministro poté raccogliere le forze militari e dirigere le manovre dell’esercito rimasto fedele alla monarchia. Nel 1652 il principe di Condé fu battuto dalle truppe guidate da Turenne, ed il fronte aristocratico si sgretolò rapidamente. Dopo la repressione delle rivolte frondiste il Mazzarino poté tornare vittorioso a Parigi con Luigi XIV e dedicarsi alle iniziative diplomatiche per attuare quella che doveva essere una politica di potenza sul territorio europeo, stipulando un’alleanza con la Repubblica di Commonwealth. Da una parte, infatti, gli inglesi paralizzavano le rotte spagnole, dall’altra l’esercito francese vinse le truppe dell’esercito spagnolo nei pressi di Dunkirk nel 1658. Si andò verso la firma della pace dei Pirenei, sottoscritta nel 1659. In questa pace alla Francia fu assegnata l’Artois ed il Rossiglione, mentre l’Inghilterra acquisì il controllo della Giamaica e della base di Dunkirk. La pace determinò la decadenza della potenza spagnola ed il consolidamento di quella francese come potenza continentale. Luigi XIV Dopo le guerra della fronda vennero rinsaldati i legami tra francesi e spagnoli attraverso un matrimonio tra l’erede al trono iberico, Maria Teresa figlia di Filippo IV e Luigi XIV. Mazzarino compì un’operazione di grande raffinatezza diplomatica: nelle trattative del matrimonio, infatti, Mazzarino fece inserire una clausola nella quale commercio. Il commercio interno inoltre fu appoggiato attraverso la costruzione di infrastrutture stradali e canali, l’abolizione delle barriere doganali e la riduzione della taglia, imposta pagata dai lavoratori della terra. Ma la domanda interna oramai contratta. Il progetto di Colbert fu concepito anche per arginare i successi commerciali delle Province Unite. Si sviluppa così uno scontro di interessi tra Repubblica delle Province Unite, fondata sul governo dei ceti mercantili e che di fatto era diventata una grande potenza continentale, commerciale e coloniale, e Francia che ambiva ad affermare la supremazia sul continente e sul mare. Luigi XIV proseguì una politica di rafforzamento militare, ampliando il numero di soldati del suo esercito composto da circa 300mila soldati, di cui almeno 200mila in servizio permanente. La macchina bellica venne potenziata ed ammodernata grazie alle innovazioni introdotte dal Marchese di Louvois. Quest’ultimo adottò un sistema di reclutamento di sorteggio per i militari destinati alla difesa territoriale ed accordò l’arruolamento dei cadetti di origine borghese nei ranghi degli ufficiali. Le armi furono rinnovate e varie specialità dell’esercito, come i picchieri, furono sostituiti da fanteria dotata di fucili con baionette innestate. La nazione venne provvista ai suoi confini di un sistema di piazzeforti che dovevano difendere il paese dalle invasioni. Queste strutture furono costruite da ingegneri di grande acume militare, come il maresciallo Vauban che innovò le tattiche d’assedio, attraverso la costruzione di trincee che si muovevano sul terreno in modo da non poter essere bombardate fino ad arrivare sotto le mura ed a farle crollare. Fu una tattica rivoluzionaria che lo rese celebre e che sconvolse le tradizionali tattiche d’assedio. Guerra di devoluzione Nel 1667 Luigi XIV intraprese la guerra di devoluzione contro la Spagna. Due anni prima aveva assunto il trono spagnolo Carlo II, figlio nato dalla seconda moglie di Filippo IV. Il re francese, riprendendo una disposizione consuetudinaria del Brabante, che devolveva la successione dei beni patrimoniali ai soli figli maschi di primo letto, invase i Paesi Bassi spagnoli. Inoltre, egli rivendicava il riversamento di quella dote che non era stata mai pagata al matrimonio con Maria Teresa, e per questo si sentiva libero di dover assolvere ai patti matrimoniali. L’occupazione dei territori spagnoli nei Paesi Bassi e nella Francia Contea fu una semplice esibizione delle potenzialità belliche in possesso del sovrano francese. Non venne opposta alcuna resistenza e non vi fu alcuno scontro armato, ma condusse all’occupazione di molte città, fra cui Lille ed i territori della Franca Contea, un territorio situato ad est della Francia. Inghilterra ed Olanda interruppero intanto le ostilità fra loro e Leopoldo I cercò di bloccare il tentativo espansionistico di Luigi XIV. Nel 1668 con la pace di Aquisgrana vennero ratificate le conquiste effettuate, ma la Francia dovette comunque restituire la Franca Contea. Guerra con l’Olanda Dal 1672 al 1678 Luigi XIV entrò nel conflitto con l’Olanda. L’Olanda lo aveva costretto a firmare la pace di Aquisgrana accordandosi con l’Inghilterra. Quando Luigi XIV ebbe mano libera, dunque, aggredì nel 1672 l’Olanda e protrasse il conflitto fino al 1674. In questi anni la Francia poté contare sull’appoggio dell’Inghilterra attraverso gli accordi segreti di Dover, la cui protagonista fu la sorella di Carlo II d’Inghilterra, Errichetta, sposata con Gaston d’Orleans, fratello di Luigi XIV, che durante una visita dei territori delle Fiandre, con la scusa di far visita al fratello, promosse questi accordi che dovevano prefigurare un ristabilimento del cattolicesimo dell’Inghilterra ed un attacco per mare, da parte dell’Inghilterra, e per terra, da parte dei francesi, contro l’Olanda. L’Olanda era infatti una concorrente sul mare dell’Inghilterra, ma i disegni non andarono come previsto: il Parlamento fece saltare questi accordi. Luigi XIV pensava di non trovare opposizione come sui territori spagnoli, ma gli olandesi aprirono le dighe e provocarono l’allagamento di estese zone. Sul mare, inoltre, le navi olandesi inflissero una dura sconfitta ai vascelli anglo-francesi. Il popolo olandese, mosso da un risveglio patriottico antifrancese, si rivoltò contro il governo di questi mercanti guidati da De Witt, che avviarono trattative per una pace con Luigi XIV. Di fronte a questa rivolta, nel 1672 prese il potere Guglielmo III d’Orange, il quale assunse la carica di statolder delle Province Unite e che divenne, in quanto sposo di Maria II Stuart, futuro re d’Inghilterra. Sotto la sua guida, gli olandesi divennero più intraprendenti, riportarono qualche vittoria militare. Egli, più che un militare, si rivelò un abile politico, poiché, più che rafforzare le milizie, riuscì nel compito di formare una grande alleanza antifrancese composta dall’elettore del Brandeburgo, da altri principi tedeschi, dalla Spagna e dall’Inghilterra stessa. Nel 1674 entravano in guerra l’Impero e la Spagna contro la Francia. Le truppe brandeburghesi sconfiggevano nel 1675 quelle svedesi, alleate della Francia, e nel 1677 il matrimonio tra Guglielmo III e la figlia di Giacomo II segnava il riavvicinamento anglo-olandese. Luigi XIV, privo di alleati, fu costretto a firmare la pace di Nimega nel 1678 che stabiliva che le Province Unite conservavano inalterato il loro territorio, mentre veniva abolita la tariffa protezionistica istituita da Colbert nel 1667. Inoltre, la Francia acquisiva la regione della Franca Contea ed altre piazzeforti situate nei Paesi Bassi Spagnoli e la politica di conquista militare di Luigi XIV fu destinata a continuare negli anni successivi con altre piccole annessioni nei Paesi Bassi Spagnoli, in Lorena ed in Alsazia. Con l’occupazione della città di Strasburgo nel 1681 si pose fine alla politica di annessione e nel 1683 scoppiò una nuova guerra con la Francia, ma venne subito ratificata una tregua ventennale l’anno successivo, nel 1684. In Italia, nel 1681 era stata acquisita la fortezza di Casale in Piemonte mentre nel 1684 venne bombardata Genova per essersi accordata con la Spagna. Assolutismo in Prussia ed Austria La pace di Vestfalia rappresenta il rafforzamento del potere dei principi territoriali a svantaggio dell’Imperatore e della Dieta imperiale. Il modello in cui meglio si definisce il processo di centralizzazione è quello del Brandeburgo-Prussia di Federico Guglielmo. Con la pace di Olivia la Prussia non è più vassalla del re di Polonia e viene unita al Brandeburgo, un complesso territoriale che comprende Pomerania orientale ed i vescovadi di Magdeburgo, Halberstadt e Minden. Federico Guglielmo stipulò un compromesso con la nobiltà della Dieta: il principe conferma i privilegi ed estende i poteri giurisdizionali della feudalità, in cambio ottiene finanziamenti per un esercito permanente, base per l’autonomia finanziaria e amministrativa. Nel Brandeburgo l’assolutismo ha un fondamento nobiliare: i posti più importanti dell’amministrazione militare e civile sono conferiti ai nobili di vecchio lignaggio, gli junker, i quali perdono forza politica come ceto ma ottengono esenzioni delle tasse, privilegi ed autorità assoluta sui cittadini. Nell’Austria di Leopoldo I d’Asburgo, il suo predecessore Ferdinando II aveva unificato i ducati austriaci ed il regno di Boemia sotto un comune sentimento religioso; entrambi si posero poi l’obiettivo di rafforzare l’amministrazione pubblica e formare un esercito permanente, quest’ultimo compito affidato all’italiano Raimondo Montecuccoli. Il problema in questa realtà era l’Ungheria, corpo privilegiato della monarchia asburgica ma ostacolo per un assolutismo omogeneo e accentrato. Gli Asburgo vi governavano solo per unione personale, la nobiltà vigilava sulla costituzione, lo jus resistendi conferiva il diritto di agire al mancato rispetto monarchico dei riconosciuti privilegi ungheresi, e ciò legittimava le rivolte. La loro tenacia era anche legata ai potenti appoggi militari dei turchi, che alimentavano il ribellismo. Nel 1660 la Transilvania insorse contro il dominio turco ma gli ottomani ebbero la meglio e si diressero a Vienna, dove però vennero fermati e sconfitti dalle truppe austriache di Raimondo Montecuccoli. Leopoldo intanto annullava i privilegi politici degli ungheresi e diede vita ad una repressione delle minoranze protestanti. Gli ungheresi reagirono in una rivolta nel 1678, appoggiati dai turchi, ed il papa fece appello ai principi cristiani ma solo il re di Polonia, Giovanni Sobieski vi rispose. Nel 1683 Vienna fu assediata dai turchi ma nello stesso anno le truppe austro-polacche ebbero la meglio ed allontanarono il pericolo ottomano da Vienna. Con la pace di Carlowitz del 1699 i turchi cedevano agli austriaci l’Ungheria e la Transilvania e Leopoldo otteneva dagli Stati magiari il consenso a rendere la dinastia asburgica una monarchia ereditaria, non più elettiva. Crisi d’Italia nel Seicento Il Seicento è un periodo di grandi trasformazioni nel mondo che ridisegnano nuovi equilibri continentali. Da un lato economie dinamiche come Inghilterra, Olanda e Francia, dall’altro riverberi di una situazione complicata che si riflette nei regni della Spagna ed in Italia. Dopo la pace di Vestfalia la Spagna perse importanti blocchi, quali il Portogallo, la Franca Contea, le Fiandre e l’Artois, il Rossiglione. Al contrario, il regno di Francia allargava i suoi confini. Nonostante ciò, però, la monarchia dei Re Cattolici restava una potenza imperiale: aveva restaurato il potere in Catalogna e mantenuto i domini italiani. Era un impero che aveva però perso la capacità di proteggere i propri territori dalle aggressioni della Francia, e riuscì a supplire a ciò inserendosi con diplomazia nel sistema d’alleanze antifrancese a fianco di tradizionali nemici come Inghilterra e Olanda. La Castiglia subì durante il XVII secolo un crollo demografico, una crisi agraria, commerciale ed artigianale, ed era la regione spagnola più arretrata. Anche in Italia non mancarono gli effetti della guerra dei Trent’anni, in particolare a Nord della penisola. Nella crisi demografica italiana un ruolo importante fu giocato dalle epidemie di peste che colpirono l’area settentrionale e la Toscana nel 1630-31 e Napoli, Lazio e Genova nel 1656-57. Dopo lo spostamento dei traffici verso l’Atlantico, l’Italia si trovò tagliata fuori dalle direttrici del traffico internazionale, con nuovi protagonisti gli olandesi e gli inglesi. Si tratta di una tendenza depressiva che si affaccia sul piano soprattutto economico ed interessa i settori industriali e produttivi, nonché quelli commerciali; un ciclo economico caratterizzato da una tendenza verso la depressione. Tra i motivi di questa tendenza depressiva del tessuto economico italiano ci è soprattutto la polarizzazione della ricchezza, determinata dall’aumento degli affitti, da politiche che privilegiano la rendita fondiaria, e che determina una contrazione dei redditi popolari e si riflette sul piano demografico. Tutto ciò determina una diminuzione dei prezzi. Soprattutto nel settore tessile si assiste ad un processo di riconversione dell’economia italiana: l’Italia non è più la nazione leader della produzione di manufatti, ma diventa un paese che esporta sempre più materie prime e semilavorati verso nazioni che li trasformano in manufatti. Tale riconversione produsse una crisi delle manifatture urbane e la crescita delle industrie rurali. L’Italia, in sintesi, diveniva la nazione che riforniva di prodotti primari le industrie degli altri paesi, collocando l’attività commerciale ad un ruolo passivo e dipendente dal mercato internazionale. Nel settore commerciale l’Italia aveva sperimentato grandi progressi: attraverso i traffici di intermediazione tra Cinque e Seicento si era formato quel capitale commerciale che aveva segnato il benessere dell’economia italiana. Le grandi Repubbliche marinare come Genova e Venezia erano diventate i due esempi di repubbliche aristocratiche e leader nel settore commerciale perché lucravano nell’acquisto a basso prezzo delle merci da paesi produttori e nella rivendita delle stesse merci nei paesi consumatori. Ma Genova e Venezia persero nel Seicento quel monopolio che nei tempi passati si erano ritagliate. Entrarono dunque in crisi le attività portuali, le flotte commerciali, e soprattutto sul piano dei prodotti tessili in Italia si andava sempre più affermando la concorrenza dei manufatti e dei tessuti prodotti dalle industrie rurali inglesi. Anche il sistema produttivo che si era affermato era un sistema ormai vecchio, fondato sulle corporazioni, e determinava una produzione caratterizzata da alti costi ed evidenziava una scarsa innovatività delle produzioni stesse. Si trattava solitamente di prodotti obsoleti, perché le rigide norme imposte dalle corporazioni impedivano l’innovazione tecnologica. La crisi commerciale andava sempre più aggravandosi perché mancava un’unità politica, che si doveva tradurre in capacità di governare il paese o di provvedere alla strutturazione di governi centralizzati, i quali dovevano appoggiare una politica di potenza e soprattutto imporre una capacità di penetrazione dei mercati che sul piano internazionale era pregiudicata ai piccoli Stati italiani. La politica di potenza era dunque necessaria alla determinazione di vantaggi commerciali: essa infatti era una politica volta a controllare le vie di traffico e gli sbocchi commerciali, che dovevano essere difesi anche attraverso i cannoni. Un esempio tipico è la politica intrapresa dai portoghesi nell’Oceano Indiano, in difesa della Carrera de India, il commercio delle spezie lungo le coste africane e nell’Oceano Indiano, con base Goa. Questi, infatti, si organizzarono controllando tutti gli snodi importanti dell’Oceano, entrando in collisione con gli egiziani. Fernand Braudel afferma che certamente le città italiane furono le prime a sviluppare queste attività commerciali e ad incentivare i traffici, acquisendo nel Medioevo vantaggi nel dominio di tali traffici, in particolare con l’Oriente ed in una direzione continentale e nel Mediterraneo. Gli altri Stati invece partirono lentamente ed il loro raggio d’azione si diresse su rotte oceaniche e su un raggio più ampio, di dimensione mondiale. La crisi del Seicento ha un impatto importante sul settore commerciale e manifatturiero. Il declino di queste attività determinò un concentramento dell’impiego del capitale verso la terra. Il rinnovato prestigio e potenziamento della proprietà terriera si tradusse in un sostanziale immobilismo delle gerarchie sociali. Con il declino dell’economia urbana riprendevano vigore gli antichi valori di ranghi e gerarchie sociali immobili ed una preferenza verso sistemi di ereditarietà delle proprietà attraverso le tradizionali forme di maggiorascato e predilezione del primogenito. Questa situazione dell’economia agricola italiana determinò il processo di rifeudalizzazione, una frammentazione dei mercati, una trasformazione delle colture. Si cercava di imporre un passaggio dalla cerealicoltura, che aveva aggravato la crisi agricola, verso la pastorizia. Sul piano politico, con la pace di Cateaux-Cambésis del 1559 l’egemonia politica spagnola in Italia divenne evidente. Il regno spagnolo, infatti, controllava i regni di Sicilia, Sardegna, Napoli, il Ducato di Milano e le più importanti piazze. Se l’Italia fu marginalmente investita dalle guerre dei trent’anni, ne risenti però gli effetti: si aggravò infatti la pressione fiscale, imposta soprattutto sui territori di dominio spagnolo. In particolare, la pressione fiscale aggravò il Regno di Napoli, dove, per reperire le somme di denaro ed approntare gli eserciti che dovevano teatro come Racine, Corneille, Molière. Essi fanno sempre ricorso alla sentenza, all’aforisma, alla massima, ed il loro spazio di riflessione può essere la solitudine interiore dell’intellettuale quando il salotto, spazio mondano promosso dalla società di corte. La psicologia diventa strumento di governo, di disciplinamento della società, di conservazione del potere. Il moralista si fa pratico e suggerisce tecniche e tattiche da adottare nel rapporto di forza interpersonale. Riflessi politici L’età moderna si caratterizza con un periodo in cui si rafforza lo Stato moderno, uno stato che si struttura attraverso istituzioni ed ambisce all’emanazione di un potere assoluto. Di fatto però questa centralizzazione dei poteri è una tendenza che non si afferma subito, ma quando i poteri concorrenti del monarca saranno aboliti. Vi è dunque una dialettica tra il monarca, da Filippo II a Luigi XIV, ed i poteri concorrenti, quasi paragonati a dei poteri originari. Nel Seicento si manifestano tendenze giuridiche per porre limite al processo di accentramento del potere monarchico in nome del diritto di natura, persistente alla costituzione della società. Si comincia a ricononscere che l’esercizio della sovranità è sempre più complesso ed ha bisogno di strumenti sempre più elaborati per affermarsi e consolidarsi. Jean Bodin scrive che la res publica è lo Stato, la sovranità deve risiedere in un solo principe e deve essere invisibile ma perpetua ed ereditiera, suprema e perciò non dipendente da poteri condizionanti come il papa e i Parlamenti. Con Giovanni Botero la riflessione sullo Stato si sposta sulla concezione della ragion di Stato, e la sua individuazione è in tutti i modi, le tecniche, gli strumenti atti a migliorare la conservazione del potere politico. L’assolutismo si fonda dunque sull’identificazione degli interessi del principe con quelli dello Stato e la Francia di Luigi XIV ne è la realizzazione. Ma il Seicento è anche il secolo del giusnaturalismo. Il giusnaturalismo faceva risalire l’istituzione della società ad un patto stipulato tra uomini liberi per diritto di natura, il quale scardinò le vecchie teorie del potere per diritto divino che deriva da una concezione del potere gerarchica ed immutabile. Fu Ugo Grozio, originario della Franca Contea ma vissuto in Olanda e qui impegnato nell’attività politico-amministrativa, ad interessarsi alla regolamentazione delle relazioni internazionali, che devono dunque fondarsi sul diritto naturale o razionale, il quale trae l’autorità dalla natura dell’uomo. In uno Stato l’autorità è dunque acquisita in virtù del contratto con il quale i cittadini si sottomettono ad essa. Il giusnaturalismo poi pone le basi l’elaborazione teorica di Thomas Hobbes ed il contratto sociale, che segna il passaggio dello stato di natura allo stato sociale e politico. Il giusnaturalismo ricerca il fondamento della convivenza civile e ciò che è naturale all’uomo e che si è identificato nella ragione, le cui norme sono universalmente valide e superiori a qualunque ordinamento o altro legislatore. Ma nello stato naturale, gli uomini sono in guerra gli uni contro gli altri e bisogna però uscire da questo status naturalis per passare ad uno status civilis. L’unione degli uomini in reciproco accordo è lo Stato. Appare dunque il diritto che obbliga a rispettare gli altri e l’altrui proprietà, il cui fondamento è l’utilità. Il contratto che unisce gli uomini nello Stato civile è doppio: il contratto tra individui (pactum societatis) e quello tra associati e potere supremo (pactum subiectionis). È qui fondata la disciplina politica come scambio tra capacità di comando e disponibilità all’obbedienza. Dunque è la legge naturale, non quella divina, a fondare uno Stato e il diritto: nasce l’idea dello Stato impersonale, una persona distinta dagli individui che associa, l’insieme dei suoi rappresentanti. Il potere dello Stato non può reggersi solo sui domini, ma necessita del consenso, ed il rapporto tra governanti e governati deve essere affidato ad un patto. La titolarità del potere si identifica ancora nel monarca, ma sia il giusnaturalismo, sia le diverse teorie contrattualistiche, gettano le basi per la nascita di un liberalismo moderno. John Locke elabora una nuova teoria della sovranità, la cui unica fonte è il popolo che delega il potere del sovrano e può revocare la delega quando questi non fa osservare i diritti naturali di libertà, uguaglianza, diritto di proprietà e rispetto per le persone. Nuovi equilibri politici nel Settecento A partire dalla II metà del Seicento si sviluppano nuovi equilibri politici che modificano il quadro geopolitico europeo che si va affermando nel corso del Settecento. Prussia, Svezia e Danimarca: le guerre baltiche Nella regione baltica si andava formando intanto una grande potenza militare, quella della Prussia. Nel 1415 la marca del Brandeburgo era concessa a Federico IV di Hohenzollern, una famiglia di origine svedese. Questa marca acquisisce anche a dignità di principe elettore dell’Impero. La Prussia in origine era un possedimento dell’Ordine Teutonico ed entra a far parte, dopo la secolarizzazione dell’Ordine nel 1525, dei possedimenti degli Hohenzollern. Gli Hohenzollern avevano già possedimenti nella Germania Occidentale e nel Basso Reno, e con la pace di Westfalia avevano ottenuto anche parte della Pomerania. Nel 1640 sale al trono della Prussia Federico Guglielmo il Grande, che avviò un processo di accentramento e di uniformità delle differenti culture ed istituzioni dei possedimenti. Creò un esercito permanente, avviò un sistema fiscale in grado di garantire entrate regolari e formò una burocrazia efficiente. Gli Hohenzollern diventarono calvinisti sin dal 1613, e la Prussia di Federico Guglielmo divenne punto di approdo degli ugonotti provenienti dalla Francia, che con la loro attività artigianali fecero di Berlino un importante centro manifatturiero. Intanto con la guerra dei Trent’anni la Svezia era vincitrice, assieme alla Francia, del conflitto in terra tedesca e con la pace di Vestfalia aveva ottenuto Pomerania occidentale, Brema e controllo sui fiumi della Germania settentrionale; il traffico del Sund era controllato dalla Danimarca. Dal 1654 al 1660 scoppiò la I guerra del Nord per il controllo del Baltico; nel 1655 il re svedese Carlo X invase la Polonia. Il Duca Federico Guglielmo il Grande, elettore del Brandeburgo, si alleò con Federico III di Danimarca contro la Svezia. Nel 1658 l’esercito di Carlo X assediò Copenaghen, costringendo la Danimarca alla resa. La I guerra baltica si concluse con le paci di Olivia e Copenaghen. La Svezia ottenne il controllo dell’Ascania, e dunque dello Stretto di Sund e del commercio baltico, consistente in legname, canapa e cereali. Il Brandeburgo annetteva la Prussia a spese della Polonia. Federico Guglielmo intanto ottenne indipendenza feudale dalla Polonia. I successi della politica estera della Svezia erano stati garantiti dalla sua forza militare, derivante dall’enorme disponibilità di ferro per l’armamento e dalla composizione dell’esercito, formato da nobili e piccoli proprietari contadini. Il sistema feudale era debole, la nobiltà aveva sfruttato i periodi di guerra e di reggenza per entrare in possesso della terra, ed esisteva al contempo una popolazione contadina indipendente dotata di istituzioni e forza rappresentativa. A fronte di un basso grado di agricoltura vi era una ricchezza mineraria. Con il crollo della moneta d’argento di Castiglia, le leghe di rame della Svezia furono usate in molti paesi per coniare le monete correnti e la Corona svedese, sotto Gustavo Adolfo in particolare, impose alle miniere pesanti dazi, fissò i prezzi e scambiò le risorse minerarie con i crediti olandesi per finanziare le campagne militari. La Svezia riuscì a stabilite un controllo sul mercato internazionale degli armamenti. Carlo XI promosse poi una ridistribuzione della ricchezza agricola del Paese, equilibrando il rapporto tra beni della Corona, beni della nobiltà e beni dei contadini indipendenti. Intanto in Danimarca si ebbe nel 1665 una svolta del modello politico grazie a Federico III, che trasformò la Corona da elettiva ad ereditaria, ridimensionò i poteri dell’aristocrazia e promosse la formazione di un personae amministrativo. In materia fiscale, redasse un catasto delle proprietà fondiarie. Nel 1700 l’indipendenza feudale della Prussia consente a Federico I, figlio di Federico Guglielmo il Grande Elettore, di dichiarare i suoi territori un regno. In questo modo Federico I ottenne la dignità di re. Nel 1713 Federico rafforzò la monarchia prussiana seguendo le linee di una monarchia assoluta. Egli rafforza anche l’esercito che il padre aveva contribuito a creare. Nel 1648 e nel 1660 la Svezia aveva instaurato una sua egemonia sul baltico attraverso il controllo delle coste meridionali e settentrionali. Verso la fine del Seicento Carlo XI fece della Svezia una monarchia assoluta, riducendo il potere delle nobiltà e confiscandone le terre. La costituzione di un grande demanio statale permetteva di acquisire finanziamenti costanti e quindi la costituzione di un potente esercito. Nel 1697, il successore di Carlo XI, Carlo XII, riuscì a contrastare simultaneamente un attacco di Russia, Danimarca e Polonia. Tra 1700 e 1721 scoppia la II guerra del Nord tra Russia, Danimarca e Polonia contro la Svezia di Carlo XII. Alla fine della guerra, con la pace di Nystadt la Svezia dovette rinunciare al ruolo di potenza egemone dei territori nordici e cedere il testimone alla nascente potenza russa. Polonia La Polonia era una monarchia elettiva: la sua componente aristocratica preferì, dopo l’estinzione della dinastia Jagellone nel 1572, avere prima un re francese, Enrico III, poi uno ungherese e quindi la dinastia dei Vasa, svedese. A metà del Seicento la Polonia fu teatro di guerra per il suo controllo. Ne uscì stremata con perdite del suo territorio. Era circondata da potenze in ascesa e fallì nel tentativo di diventare una potenza marittima perché la Prussia orientale le fu sottratta dal Brandeburgo; perse poi l’Ucraina e i turchi riuscirono a sottrarre la regione della Podolia. Si aggiungeva poi una strutturale anarchia politica in cui il liberum veto, l’unanimità parlamentare, poteva paralizzare lo Stato. Il caos fu evitato dai magnati latifondisti, attorno ai quali si creò un sistema clientelare del potere, unica struttura organizzata. Negli ultimi anni del secolo il re soldato Sobieski cercò di dare al Paese un ruolo internazionale, ed in occasione della liberazione di Vienna del 1683 le forze polacche accorsero in aiuto degli Asburgo. Ma chi raccolse reali benefici fu la monarchia austriaca che poté espandersi verso i Balcani. Il progetto di monarchia ereditaria e di accentramento di Sobieski fallì e nel 1696 la nobiltà polacca respinse la successione del figlio. Ascese dunque al trono il principe Augusto II Wettin di Sassonia, appoggiato dalla Russia. L’intervento di questa potenza preparava un’altra guerra al principio del Settecento. La Russia A partire dalla metà del Seicento le dinamiche della Russia portano all’affermazione di un grande sovrano, Pietro il Grande. Con la morte dello zar Michele, fondatore della dinastia dei Romanov, nel 1645 succede sul trono russo lo zar Alessio, il quale nel 1649 promuove un nuovo codice, che stabilisce la divisione della società in tre ordini: uomini di servizio (nobiltà al servizio dello Stato), uomini di borgo (mercanti e artigiani) e uomini del distretto (contadini liberi e contadini servi). Fu il risultato di un irrigidimento della società, dove si stabilisce la configurazione di un nuovo carattere permanente della servitù. Furono eliminati infatti i limiti temporali per perseguire la servitù. In seguito a questo orientamento, si sollevarono in Russia una serie di rivolte urbane e rurali. Nel 1656 si sollevarono i mercanti contro le limitazioni imposte dalla svalutazione della moneta. Nel 1670 i cosacchi, guidati da Stenka Razin, si sollevarono in rivolta i cui obiettivi erano l’eliminazione della servitù della gleba, di reclutamenti forzosi di truppe e di imposte, ma il loro capo venne giustiziato l’anno dopo a Mosca. Nel 1652 il Patriarca di Mosca Nikon promosse una riforma, accolta nel Concilio del 1676. Tuttavia dalla Riforma nacque uno scisma. Nel 1682 Pietro il Grande diventa zar all’età di 10 anni insieme al fratellastro Ivan e sotto la reggenza di Sofia, la sorellastra. Il governo rimase nelle mani dei boiardi appartenenti alla famiglia della zarina Natalia, madre di Pietro. Nel 1697 Pietro, desideroso di apprendere la tecnica militare e navale, partì con una spedizione di viaggio nell’Europa Occidentale. L’anno dopo rientrò per sedare un complotto della guardia imperiale ed assumere direttamente il potere. Nel 1700 a Narva i russi subirono una pesante sconfitta nella II guerra baltica, ad opera degli svedesi di Carlo XII, con un esercito cinque volte superiore. Nove anni dopo i russi inflissero a Poltava una sconfitta all’esercito svedese, dopo aver opportunamente modificato il reclutamento, esteso a tutti gli ordini, ed aver migliorato l’addestramento e l’organizzazione che da territoriale divenne nazionale. Nel 1703 viene fondata San Pietroburgo, città che diventerà capitale dell’Impero nel 1715 e che sarà difesa dalla Fortezza di Kronstadt da un lato e dal mare dall’altro. Sei anni dopo Pietro annetteva nuovi territori con la pace di Nystadt. Pietro il Grande seppe smuovere lo stato di arretratezza del Paese e creare condizioni tali da assicurare indipendenza nazionale, capacità difensiva, sviluppo economico e culturale ed egemonia. Il divario tra classe dominante e massa di servi della gleba e contadini era però diventato ancora più ampio; si strinse attorno la nobiltà ed i ceti privilegiati e consolidò la base economica e sociale del potere centrare, dando avvio ad un profondo progresso di produzione industriare. Nacquero con lui molte manifatture ed egli favorì anche la piccola produzione mercantile. Favorì dunque la formazione di una nobiltà di servizio. L’organizzazione politica di Pietro si ispirò all’assolutismo svedese ed al fiscalismo francese. L’organizzazione economica della Russia fu influenzata dai principi del mercantilismo: vi fu un riordinamento amministrativo secondo i principi di funzionalità e di accentramento. Tale riordinamento venne dispiegato nel 1720. Il coordinamento amministrativo ed esecutivo fu affidato ad un Senato di nove membri, mentre la rappresentanza della Duma, costituita dai boiardi, fu abolita. La nobiltà di servizio fu potenziata e l’accesso alle cariche statali fu aperto a tutti; gli avanzamenti di carriera venivano accordati secondo la preparazione ed il merito. Nel 1722 venne istituita la Tabella dei Ranghi, che suddivise tutte le carriere: quelle militari, quelle civili e quelle di palazzo. Queste carriere vennero suddivise in 14 ranghi, e tutti dovevano partire dal rango più basso; solo all’ottavo rango si sarebbe acquisita la condizione di nobili. Nel 1722 fu abolito anche il Patriarcato e la cura delle anime venne affidata ad un Sinodo, con a capo un procuratore nominato dallo zar, il quale sovrintendeva al controllo della vita spirituale e delle proprietà ecclesiastiche. Fu favorita poi l’istituzione di una scuola militare e di una scuola di navigazione e venne promossa anche
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