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Riassunto: una storia europea dalla fine del medioevo ai giorni nostri, Sintesi del corso di Storia Moderna

Riassunto dettagliato dei capitoli 1-2-4, per poter sostenere l'esame di storia moderna

Tipologia: Sintesi del corso

2020/2021

In vendita dal 10/04/2021

Francesca9737
Francesca9737 🇮🇹

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Scarica Riassunto: una storia europea dalla fine del medioevo ai giorni nostri e più Sintesi del corso in PDF di Storia Moderna solo su Docsity! UNA STORIA EUROPEA – Dalla fine del Medioevo ai giorni nostri: PREMESSA: Quali sono state le ragioni storiche alla base della creazione dell’Unione Europea? Obiettivo del volume è quello di storicizzare questa realtà, narrando il valore di alcuni processi politici, culturali, sociali, che nei secoli hanno creato una comunità di uomini e donne che saprà riconoscersi come europea. L’avvio di un’opera di pacificazione segna una rottura coi secoli di guerre, di divisioni religiose e culturali, di conflitti economici e sociali che hanno fatto la realtà dell’Europa approdata oggi all’Unione. Una storia europea degli europei, che ha visto l’operare di processi di interdipendenza, di integrazione, di circolazione di uomini, ricchezze e culture da Ovest verso Est e viceversa. Anche la divisione del Cristianesimo in un cristianesimo occidentale di obbedienza romana e uno orientale che riconosceva la centralità di Costantinopoli, ha fortemente inciso non solo sulla religiosità degli uomini europei, ma anche sulla formazione di valori culturali e di modelli di comportamento politico e sociale. Nel XIX si crea un’ulteriore divergenza tra quegli stati che seppero costruire grandi imperi coloniali e gli stati che rinunciarono o non riuscirono a creare possessi coloniali. Sempre in questo contesto la cultura della nazione produsse teorie razziste, che portarono poi alle due grandi guerre del XX secolo. 1. DAGLI IMPERI AGLI STATI 1.1 Il processo di integrazione politica ed economica avviato a metà anni ’50 del XX secolo, che ha portato alla creazione dell’Unione Europea, è il risultato di una complessa vicenda storica che trova i suoi tratti iniziali tra la fine del Medioevo e la prima età moderna, nella divisione della cristianità in un cristianesimo occidentale, di obbedienza romana, e in un cristianesimo orientale che riconosceva la supremazia del patriarcato di Costantinopoli. Le differenze tra le due grandi aree dell’Europa si costruirono e si consolidarono anche su altri importanti terreni. In Occidente la feudalità, cioè l’organizzarsi di un sistema di poteri territoriali delegati dal sovrano a signori locali, rese ancor più complicato il rapporto fra giurisdizioni laiche ed ecclesiastiche, entrambe volenti il controllo delle risorse economiche. In questi stessi secoli, l’arrivo della religione islamica, segnerà fino al XV secolo le vicende dell’area mediterranea, che si differenziò fortemente per i suoi assetti politico-istituzionali. Nell’Oriente d’Europa, l’impero bizantino trovò nell’espansione dell’Islam e poi nel consolidarsi e nell’affermazione dell’Impero Ottomano la sua disfatta: nel 1453 Costantinopoli venne presa da Maometto II. 1.2 Nelle regioni dell’Europa occidentale è dalle trasformazioni dei due grandi poteri, l’Impero e il Papato, che presero avvio i processi di trasformazione politica e sociale. Il Sacro Romano Impero non voleva rinunciare alla propria supremazia, in special modo nella penisola italiana, dove era presente la Curia Romana e quindi il Papa, ma nella quale si erano affermati oltre allo Stato della Chiesa, il regno di Napoli e di Sicilia e le vivaci realtà dei Comuni nell’Italia centro- settentrionale. Fallito comunque il disegno di ciascuno dei due poteri di prevalere l’uno sull’altro, si delineò dal XIV secolo una fase di incerti equilibri. Nell’ambito della cristianità occidentale si vanno delineando spazi ecclesiastici che assumono specifiche funzioni “nazionali”: la Chiesa gallicana che si organizza nella Francia dei Valois, la Chiesa inglese guidata dall’arcivescovo di Canterbury, la Chiesa boema, le Chiese della penisola iberica, la Chiesa portoghese. Al contrario le chiese italiane, pur legate ai poteri politici dei loro territori, trovarono nella riaffermata presenza del papa a Roma (dopo lo Scisma d’Occidente) un immediato centro di riferimento. Queste trasformazioni e l’emergere di chiese protonazionali, trovano elementi di rafforzamento nei contemporanei processi di riorganizzazione dei poteri territoriali attraverso le dure esperienze di guerre che segnano la fine del XIV e gran parte del XV secolo: la guerra dei Cento anni (1337-1453) oppose la Francia e l’Inghilterra in una lunga contesa che finì con la quasi totale espulsione dell’Inghilterra dal suolo francese. Le lunghe vicende della Reconquista segnano la definizione di un dominio territoriale castigliano e aragonese, che ha nel matrimonio dei due sovrani cattolici (Isabella di Castiglia e Ferdinando di Aragona), nel 1469, un essenziale punto di riferimento politico, con il successo dei cristiani sui mori, il compattarsi di una Europa cattolica romana e il consolidarsi di un unione dinastica. Si apre, a partire dal 1494, la lunga contesa tra i re di Francia e i sovrani di Spagna per il controllo della penisola italiana. Una contesa, che dopo l’ascesa ai troni spagnoli di Carlo d’Asburgo, si allargò ulteriormente e incrociò le vicende della lotta contro la Riforma Protestante. 1.3 Nel 1453 la caduta di Costantinopoli segnava formalmente la fine di un Impero che era ormai ridotto solo a un modesto territorio, una tappa rilevante nell’inarrestabile processo di espansione dell’impero che gli ottomani, provenienti dall’Asia, avevano costituito nella penisola anatolica e che nel corso del XV secolo si estese sempre di più nell’Europa balcanica e verso l’Europa Centrale: la guerra con Venezia dava agli Ottomani il Negroponte nel 1470 e la guerra con gli albanesi assicurava loro il controllo del litorale adriatico meridionale; allo stesso tempo anche le regioni del Mar Nero passavano sotto il controllo dell’impero ottomano. Tra il 1515 e il 1520 Selim I conquistava l’Egitto, la Siria e l’Arabia. Sull’altro fronte l’espansione continuò per tutto il secondo Quattrocento, con la conquista della Valacchia, della Moldavia e larga parte dell’Ungheria. Culmine di questa espansione fu l’assedio che Solimano I pose nel 1529 a Vienna. Tutte le regioni conquistate, abitate da popolazioni cristiane, furono divise in feudi militari, attribuiti a pascià con compiti amministrativi e militari; al loro interno le popolazioni continuarono a professare la loro religione in cambio del I prodotti dei commerci portoghesi, a partire dai primi anni del Cinquecento, approdavano ad Anversa e di lì erano immessi sui mercati europei: le importazioni dall’Oriente, pagate con l’oro africano e non con l’esportazione dei manufatti portoghesi, non concorsero alla crescita delle attività produttive della madrepatria. Anche i regni spagnoli, in competizione con il Portogallo, sembrarono interessarsi verso l’esplorazione e la ricerca di una nuova via per le Indie. Alla base della scoperta dell’America (1492) c’era la volontà da parte della regina Isabella di Castiglia di espandersi economicamente verso nuove rotte atlantiche. L’esito positivo della spedizione di Colombo stimolò un’intensa attività di esplorazione: Amerigo Vespucci, in due viaggi (uno al servizio della Spagna, l’altro al servizio del Portogallo) realizzò che si trattava di un continente nuovo, dalla sua scoperta il nome America. La competizione tra Spagna e Portogallo portò a vari accordi per la spartizione del nuovo continente, fino al definitivo trattato di Tordesillas del 1494 che suddivideva l’America del Sud in due parti: la parte ad Ovest spettava agli spagnoli ( Ecuador, Colombia, Cile, Argentina, Perù, Venezuela, Bolivia) e la parte ad est rimaneva portoghese (Brasile, Paraguay, Uruguay, Suriname, Guyana). La presenza spagnola nel nuovo mondo si diresse anche verso il Messico; con la volontà di trovare l’oro, la spedizione guidata da Hernan Cortés portò alla sottomissione delle popolazioni locali: gli Aztechi appunto in Messico, gli Incas dall’Ecuador al Cile, e i Maya tra il Guatemala e la Penisola dello Yucatan. Elementi rilevanti di questi imperi erano un alto senso della sacralità del sovrano e la presenza di una casta di sacerdoti. Tutte e tre le civiltà dimostrarono un’evidente fragilità di fronte all’arrivo degli spagnoli, che grazie alla superiorità tecnologica degli armamenti, alla loro aggressiva determinazione e l’avida ricerca dell’oro, riuscirono in pochi mesi a far crollare questi popoli. Per governare questi enormi possedimenti coloniali la corona spagnola costituì due viceregni: Nuova Spagna con capitale Città del Messico e Perù con capitale Lima. Al loro interno le audiencias, i tribunali amministrativi, in mano a letrados, funzionari, costituivano l’ossatura della macchina giudiziaria ed amministrativa della monarchia. A sostenere la presenza e il dominio spagnolo contribuì la Chiesa: il clero seguì i conquistadores e si adoperò per l’evangelizzazione delle popolazioni indigene, praticando battesimi di massa. Soprattutto domenicani, francescani e gesuiti. La Chiesa ispano-americana non presentò tuttavia una fisionomia univoca: da una parte, francescani e agostiniani, utilizzando temi e toni apocalittici e profetici, dall’altra, i domenicani, più attenti a una conversione profonda delle popolazioni locali, attraverso un’opera graduale di evangelizzazione, ma allo stesso tempo aperti alla difesa delle popolazioni da ogni prevaricazione degli spagnoli conquistatori. Solo con le Nuove Leggi del 1542 di Carlo V, si cercò di porre dei limiti agli encomendores e di tutelare la libertà degli indios, contro la concezione che li identificava come schiavi “naturali”. Le presenze missionarie diedero luogo a una religiosità che ebbe la capacità di imporsi alle preesistenti credenze, riuscendo a mantenere al proprio interno valori e culti autoctoni. Una delle più gravi conseguenze della colonizzazione spagnola dell’America Meridionale fu il genocidio delle popolazioni native: le cause sarebbero da ricercare sia nel pesante sfruttamento degli Indios, sia alle malattie prima sconosciute, diffuse dai nuovi arrivati (vaiolo, tifo, influenza). Nella seconda metà del ‘700, alla conclusione della guerra dei Sette anni la monarchia spagnola dovette cedere la Florida all’Inghilterra. Nella seconda metà del Cinquecento, anche la Francia e l’Inghilterra patrocinarono alcune spedizioni lungo le coste settentrionali dell’America, alla ricerca di un passaggio a nord-ovest del nuovo continente verso le Indie. Bisognerà però attendere i primi anni del Seicento per avere insediamenti stabili: un gruppo di coloni guidati da Samuel de Champlain, si stabilì in Acadia, l’attuale Nuova Scozia, nucleo iniziale della Nuova Francia. Nel 1608 veniva fondata Québec. Sempre negli anni venti del Seicento si rafforzò la presenza francese nelle Antille (canna da zucchero). Il consolidarsi della presenza francese nell’area caraibica si intreccia con la guerra dei Trent’anni (1618- 1648). Negli ultimi anni del Seicento si colloca una ripresa dell’attenzione della monarchia francese per i possessi coloniali: l’esploratore La Salle intitolò a Luigi XIV i territori compresi tra le sorgenti e la foce del Mississippi, tra cui la Louisiana, in America centrale la Francia strappò alla Spagna il possesso di Haiti 1697. Ma la rivalità anglo-francese portò alla cessione dell’Acadia, l’attuale Nuova Scozia, dalla Francia all’Inghilterra e con la pace di Parigi (1763), a conclusione della guerra dei Sette anni, la Francia perdeva il Canada e la Louisiana. Anche le vicende del colonialismo inglese sembrano seguire le linee dell’espansione coloniale francese: nel 1585 sir Walter Raleigh fondò sulla costa settentrionale dell’America la colonia della Virginia; si vennero poi costituendo due compagnie commerciali, una di Plymouth e l’altra di Londra. Intorno agli anni venti del Seicento altri fattori concorsero alla crescita dell’interesse e della presenza inglesi nel Nuovo Mondo: tra questi l’emigrazione di dissidenti religiosi, coloro che non si piegavano al riconoscimento della supremazia della Chiesa Anglicana. Un primo gruppo detto dei “Padri Pellegrini”, sbarcò nel New England, dando vita alla città di New Plymouth (1620). In questi stessi anni gruppi di dissidenti calvinisti si stabilirono più a nord, nell’attuale Massachusetts, dove nel 1630 fu fondata Boston. A sostenere questo primo sviluppo coloniale concorse l’occupazione dei territori posti lungo i principali assi fluviali, dando vita a piantagioni di tabacco, e la disponibilità di una manodopera che veniva dall’Inghilterra, coloni bianchi che provenivano dalle file dei contadini poveri. Ma nelle colonie si stabilirono anche contadini agiati ed esponenti della media e grande nobiltà. La crescita della produzione e del consumo di tabacco condusse all’impiego, nelle piantagioni, di manodopera schiava africana, primo passo del commercio triangolare. La Virginia assunse rapidamente un profilo aristocratico, ma una parte dei suoi coloni aveva finito per costituire un territorio autonomo, il Maryland, che si convertì al cattolicesimo. Sempre negli anni trenta del Seicento, gruppi di dissidenti delle Chiese congregazionaliste (chiese indipendenti e autonome) avevano fondato il Rhode Island e il New Hampshire, staccandosi dal Massachusetts, percorso da forti tensioni religiose. Il Connecticut si trasformò in Bible Commonwealth (erano puritani e le loro leggi basate sulla Bibbia). Tra queste due zone inglesi, Nuova Inghilterra e Virginia, si era consolidata una forte presenza olandese organizzata intorno al Porto di New Amsterdam, centro della compagnia olandese delle Indie Occidentali. Nel 1664, nel corso della guerra Anglo-Olandese, gli inglesi conquistarono l’intero territorio olandese e la città di New Amsterdam divenne nel 1674 New York. Se nella prima metà del Seicento il formarsi di colonie inglesi era stato legato a fenomeni di emigrazioni per motivi religiosi, negli anni della restaurazione degli Stuart, molte colonie ebbero origine da atti di concessione regia, come il New Jersey e la Pennsylvania (protestanti). Nei primi decenni del Settecento passarono sotto il dominio inglese il Delaware, la Carolina del Sud e la Carolina del Nord. Ultima a formarsi nel 1732 la Georgia. L’espansione del dominio inglese non si realizzò senza una forte opposizione da parte delle popolazioni indigene dei territori vicini: la guerra indiana combattuta tra il 1675-1676 vide la vittoria delle colonie inglesi. La pace di Utrecht (1713) e poi quella di Parigi (1763) segnarono, nel XVIII secolo, il riconoscimento della supremazia inglese nel Mediterraneo e in Europa, e il consolidarsi dell’impero coloniale britannico in America e in Asia. La prima espansione coloniale Olandese sembrò effetto della più generale crescita dell’economia olandese nel Seicento, grazie alla disponibilità di una flotta mercantile. La creazione nel 1602 della Compagnia olandese delle Indie Orientali, dette un forte impulso all’organizzazione del “sistema” coloniale olandese, con la fondazione di colonie nell’isola di Giava, nel 1619, col controllo del Golfo Persico e del Capo di Buona Speranza. La loro innovazione consisteva nell’esercitare un controllo diretto, non tanto delle rotte commerciali, quando della stessa produzione di spezie, provvedendo, in caso di sovrapproduzione, a distruggere parte dei prodotti, per mantenere sempre alto il livello dei prezzi. Solo dagli anni trenta del Seicento cominciò l’espansione olandese in America: fondando il porto di New Amsterdam poi ceduto agli inglesi (1674), in cambio della Guyana, rimasta in mano olandese fino al 1975. Per quanto riguarda le Indie, dopo scontri cruenti con l’Inghilterra, si era giunti ad una sorta di spartizione: gli olandesi mantenevano i loro insediamenti in Indonesia, mentre gli Inglesi controllavano l’India ad esclusione di Ceylon che restava olandese. Le vicende e la realtà dell’Oltre Europa hanno contribuito a mutare gli orizzonti e la realtà stessa del continente europeo. Il problema di fondo fu quello del riconoscimento “dell’umanità” stessa delle popolazioni del Nuovo Continente: nel 1530 fu necessaria una bolla di papa di politica interna ed economica introdotte durante il regno di Gustavo II Adolfo, che introdusse nuove armi da fuoco e ampliò l’esercito, non di mercenari, ma di sudditi svedesi. SPAGNA: Le vicende della Spagna, e del suo vasto impero, tra Cinquecento e Seicento, sono analizzate alla luce di una generale decadenza. Le guerre avevano scandito il lento declino della monarchia e insieme della stessa dinastia degli Asburgo di Spagna (Austrias). Vari fattori avrebbero determinato tale processo: l’eccessiva potenza della Chiesa e dell’Inquisizione; gli estesi privilegi di una feudalità numerosa, il fasto dell’aristocrazia, uno stile di governo inefficiente, e anche la facile disponibilità dei metalli preziosi delle colonie americane e gli effetti negativi che questi ebbero sull’economia spagnola. La scelta controriformista di Filippo II fece assumere alla monarchia spagnola il ruolo di guida politica del cattolicesimo, e con la promozione all’interno di una rigida repressione, oltre che dell’eresia, anche delle minoranze ebraiche e islamiche. In tutto ciò, la Chiesa svolse un ruolo fondamentale per il mantenimento degli equilibri politici e sociali: a capo dei ricchi vescovadi della Spagna e delle colonie americane, furono posti vescovi provenienti dalle grandi famiglie dell’aristocrazia o legati appunto ai grandi ordini religiosi. I metalli preziosi provenienti dai domini del Nuovo Mondo non ebbero effetti positivi sull’economia spagnola, rappresentarono un fattore di crisi e di destabilizzazione economica: la troppa disponibilità comportò un aumento dei prezzi che investì larga parte delle economie europee. E’ però altrettanto vero che, a partire dai primi anni di regno di Filippo II, monarchia spagnola attraversò una grossa crisi finanziaria, testimoniata dalle bancarotte, vere e proprie dichiarazioni di fallimento; rappresentarono lo strumento di alleggerimento del debito pubblico e di regolazione dei rapporti con i più importanti gruppi di finanzieri; in coincidenza con la fine delle guerre di religione in Francia e del conflitto con l’Inghilterra (1596), la tregua con i Paesi Bassi (1607), la guerra dei Trent’anni (1627), la fine delle rivolte di Catalogna e Portogallo che dal 1580 era legato in unione dinastica alla Spagna. La definitiva accettazione (1648) dell’indipendenza delle Province Unite e la pace dei Pirenei (1659), che chiudeva la guerra della Spagna con la Francia, quasi avevano segnato la conclusione di un processo di ridimensionamento della forza della monarchia. ASBURGO D’AUSTRIA: Cerniera tra le due aree dell’Europa, quella orientale e quella centro- occidentale, i territori della monarchia asburgica: Austria, Tirolo, Carinzia, Stiria, Carniola e dal 1526 Ungheria. Le paci di Vestfalia segnarono un’importante definizione degli assetti politici dell’Impero. Si riconosceva una sostanziale divisione della Germania in due campi: uno cattolico e vicino agli Asburgo; l’altro luterano e calvinista vicino alla politica della Francia e della Svezia. La Dieta Imperiale, che riuniva i rappresentanti degli stati e delle città del Sacro romano impero, acquistava con le paci di Vestfalia un ruolo centrale in questo nuovo contesto politico. La casa d’Austria riusciva, all’interno dei domini ereditari, nei quali era compresa adesso anche il regno di Boemia, a realizzare una sostanziale uniformità religiosa e un forte controllo politico. Elemento caratterizzante di questa “tenuta” degli Asburgo, fu la volontà di stringere forti legami di solidarietà con le principali famiglie delle aristocrazie dei diversi territori asburgici. Nobili dei ducati austriaci e boemi, tutti uniti da una comune appartenenza alla Chiesa cattolica, trovarono nella dinastia una garanzia reale dei loro privilegi sociali e politici. Anche Leopoldo I d’Asburgo seguì questa linea politica, riuscendo a rovesciare il fronte con i turchi, a contrastare la politica espansionistica di Luigi XIV, a stringere nuovi e importanti rapporti di alleanza con l’Inghilterra delle regine Maria e Anna e ad avviare l’espansione verso i Balcani e il Mediterraneo, che avrebbe fatto della monarchia asburgica una grande potenza sulla scena politica settecentesca. IMPERO RUSSO: All’inizio del Cinquecento, l’Impero Russo non era ancora ben definito nelle sue dimensioni territoriali e nei suoi assetti politici e istituzionali. Un ruolo importante nella formazione dell’impero russo ebbe, nel XVI secolo, il lungo regno di Ivan IV il Terribile (1533-1584), che realizzò un’importante politica espansionistica. Diventato zar delle Russie nel 1547, suo principale obiettivo fu una drastica riduzione del potere dei boiardi, cioè dei grandi nobili proprietari, che avevano nell’assemblea della Duma l’organo principale della difesa dei loro privilegi. Contro i boiardi Ivan IV promosse nel 1550 la costituzione di una nuova assemblea, il reclutamento di un corpo militare e una riforma dell’amministrazione dello Stato che riservava allo zar il governo delle regioni della Russia centrale, lasciando il governo delle altre alla Duma. Una nobiltà legittimata dall’esercizio di funzioni politico-amministrative svolte in nome del sovrano. Accanto a tali misure lo zar, a favore dei boiardi, appesantì la servitù della gleba; questi ceti ripresero forza dopo la morte di Ivan IV, consentendo, nei primi decenni del Seicento, che i re di Polonia occupassero Mosca e si facessero incoronare zar. Fu così bloccata l’espansione russa verso occidente, e ogni loro spinta espansionistica venne indirizzata verso oriente, dove i russi, tra gli ultimi decenni del Cinquecento e la metà del Seicento, acquisirono il controllo della Siberia. La crisi seguita alla morte di Ivan IV, trovò uno sbocco nell’ascesa al trono di Michele Romanov (1613-1645), capostipite della dinastia destinata a regnare sulla Russia fino al 1917. Il nuovo zar riprese l’espansione russa verso occidente con la conquista dell’Ucraina. Dalla metà del Seicento, con gli zar Michele, Alessio e Pietro I il Grande, la Russia rappresentava la grande potenza dell’Europa orientale, in opposizione alla Svezia e alla monarchia polacco-lituana. REGNO POLACCO-LITUANO: Qui, nel corso del Cinquecento, il potere dell’aristocrazia terriera conobbe un ulteriore rafforzamento: i sovrani cedettero al Sejm, l’assemblea dei nobili, il potere legislativo e alla scomparsa dell’ultimo sovrano della dinastia Jagellone (1572), il Sejm elesse il nuovo sovrano: Enrico di Valois (poi Enrico III, re di Francia), che approvò un decreto che riconosceva alla nobiltà autonomia politica, il diritto di eleggere il sovrano e libertà di culto per i non cattolici. Il regno di Sigismondo III Vasa (re di Polonia e re di Svezia), segnò un’inversione di rotta e una decisa opera di ricattolicizzazione della Polonia e della sua nobiltà sotto il segno della Controriforma. La Polonia del Seicento sarà allora il nuovo baluardo della cattolicità, non solo contro i tradizionali nemici, i turchi e i paesi protestanti, ma anche contro una Chiesa ortodossa sempre più legata al potere degli zar. SETTE PROVINCE UNITE (OLANDA): Nata dalla rivolta contro la monarchia di Filippo II, la Repubblica delle Sette Province unite trovò le sue ragioni di forza sulla scena dei commerci extraeuropei del Seicento conquistando una posizione di netta supremazia nel contesto degli stati europei. Dopo le paci di Vestfalia a guidare l’Olanda fu il Gran Pensionario Jan de Witt, interprete dei grandi interessi della grande borghesia cittadina, una borghesia “pacifista” e incline più alla ricerca di accordi commerciali che a scontri militari. Le ricorrenti minacce francesi determinarono, contro la politica “pacifista” di de Witt, il successo di un partito “militarista”, più deciso nella difesa degli interessi olandesi, che si organizzò intorno alla figura di Guglielmo III d’Orange, capitano generale della repubblica. Ottenuti i pieni poteri nel 1672, Guglielmo III dette un indirizzo apertamente antifrancese alla politica olandese, stringendo nuovi rapporti con l’Inghilterra. Sposata Maria II d’Inghilterra, figlia ed erede di Giacomo II, Guglielmo d’Orange si inserì nel contrasto inglese tra monarchia anglicana, garante del ruolo del Parlamento e chi come Giacomo II perseguiva una politica di restaurazione cattolica e di rafforzamento del potere sovrano. La vittoria del parlamento inglese su Giacomo II, nella cosiddetta “gloriosa rivoluzione” (1688-89), comportò il passaggio dell’Orange sul trono inglese (monarchia parlamentare). Negli ultimi decenni del Seicento l’Olanda rappresentò un’alternativa politica al modello assolutistico, espressione di una matura civiltà “borghese”, tollerante e colta. INGHILTERRA: Alla morte di Elisabetta I Tudor (1603), l’ascesa al trono di Giacomo I Stuart, della famiglia reale scozzese, sanzionò l’unione personale dei due regni, che solo nel 1707, sotto la regina Anna, si unificarono in quello che sarà il Regno Unito. Alla metà del secolo i Borbone di Francia, ora divisi in un ramo francese e in uno spagnolo, regnavano sulla Spagna, su Napoli, sulla Sicilia e sui ducati farnesiani, la dinastia degli Asburgo-Lorena, titolare della corona imperiale, controllava, oltre i domini ereditari di casa d’Austria, i ducati di Mantova e di Milano, il Granducato di Toscana e poi le realtà statali della Germania: Prussia, Baviera e Sassonia. Nel 1763 si arrivava alla firma della pace di Parigi tra Borbone e Inghilterra (la Francia recuperava la Martinica, ma cedeva all’Inghilterra i territori in America settentrionale, mentre la Spagna cedeva all’Inghilterra la Florida) e della pace di Huberstburg tra Federico II (Prussia) e Maria Teresa, che riconosceva a Federico II il possesso della Slesia. La fine della guerra dei Sette anni disegnava una gerarchia internazionale, al cui vertice erano la potenza inglese e, sul continente, la Prussia. Gli Asburgo e i Borbone promossero una lunga serie di incroci matrimoniali che avrebbero dovuto assicurare la saldezza dell’alleanza e la stabilità politica dell’Europa. La carta dell’Europa centrale e orientale fu profondamente modificata per il crescere della pressione della Russia e il vuoto creato dalla crisi militare e politica dell’impero ottomano. Furono soprattutto gli Asburgo e gli zar della Russia ad approfittare dell’arretramento delle frontiere dell’impero ottomano, per assicurarsi il controllo delle regioni centro-settentrionali della penisola balcanica, mentre gli zar ottennero il controllo della Crimea e dell’Ucraina meridionale. 2. DAL CRISTIANESIMO ALLE CHIESE: 2.1 Dopo la caduta di Costantinopoli e la fine dell’Impero romano d’Oriente nel 1453, le Chiese ortodosse, non immediatamente sottoposte all’impero ottomano, cercarono appoggio e punto di riferimento nel sovrano del kanato di Mosca, e nella Chiesa russa, che nel 1448 aveva dichiarato la propria indipendenza dalla Chiesa di Roma. Nel 1589, sotto Ivan IV, fu istituito il patriarcato di Mosca, ora indicata come terza Roma. Nel 1652, con l’elezione del patriarca Nikon, venne avviata una uniformazione dei testi liturgici e dei riti, ma l’insistenza del patriarca di rivendicare la superiorità del potere della Chiesa sull’autorità sovrana spinse lo zar Alessio a rimuovere il patriarca e a confinarlo in un monastero. Nel 1718, con Pietro I, venne abolita la figura del patriarca e al suo posto venne eletto un collegio di natura burocratica che prese il titolo di Sacro Sinodo; si definirono rapporti di aperta subordinazione della Chiesa russa all'autocrazia zarista. 2.2 Già dalla fine del Quattrocento in molte aree della società cristiana occidentale si erano sviluppate varie tendenze di riforma delle istituzioni ecclesiastiche, in forte polemica con la Curia romana e i suoi esponenti di vertice, di cui si denunciava la corruzione. Il concilio V Lateranense del 1513 fu occasione per il manifestarsi di queste tensioni, che non trovarono però risposte adeguate da parte del pontefice Leone X. A dare coesione a questa nuova sensibilità, per un maggiore impegno nell’azione caritativa e di assistenza, Erasmo da Rotterdam con la sua opera, nella quale critica le pratiche tradizionali di culto e gli intrecci mondani della Chiesa e la preoccupazione di dare vita a un cristianesimo ispirato e sorretto da un profondo intento morale e da una sincera tensione alla pace. E’ in questo clima che si pone l’avvio della riforma di Martin Lutero, monaco agostiniano e professore di teologia all’università di Wittenberg: con un viaggio a Roma, poté constatare con i suoi occhi la decadenza della Curia romana e la vendita delle indulgenze, voluta dal Papa, per finanziare la costruzione della basilica di San Pietro, fecero scattare una violenta denuncia delle pratiche religiose della Curia, esposta in 95 tesi rese pubbliche nell’ottobre del 1517. Incapace di cogliere la straordinaria carica delle posizioni di Lutero, Roma si limitò a farlo condannare nel 1518 come eretico. Martin Lutero trovò così rifugio presso il sovrano di Sassonia, Federico il Saggio, pronto a sostenerlo contro la condanna pontificia e il bando dall’Impero da parte di Carlo V. Sotto la protezione dell’Elettore Federico, Lutero tradusse l’Antico e il Nuovo Testamento, dando così vita al primo capolavoro della tradizione letteraria tedesca. Lutero trovò l’appoggio anche di altri principi e città, questi alla Dieta di Spira del 1529, “protestarono” contro la decisione dell’imperatore Carlo V di proibire ogni innovazione religiosa ispirata da Lutero. Da qui il nome Protestantesimo, dato a tutte le chiese e ai movimenti che sarebbero nati dalla Riforma del 1517. Lutero precisò i suoi orientamenti teologici e disciplinari nella Dieta di Worms del 1546 e su queste basi si sviluppò quella che sarà la Chiesa luterana. Il modello della Chiesa tedesca riformata trovò rapide conferme in altre aree. In Danimarca, in Svezia e nell’Inghilterra dei Tudor l’istituzione di Chiese nazionali ispirate alla Riforma luterana e del tutto autonome da Roma fu opera dei sovrani, uniti dalla necessità di disporre di una Chiesa autonoma da Roma e capare di assicurare uniformità religiosa utile all’esercizio del potere. In altre aree, come alcune regioni della Francia e dei Paesi Bassi asburgici, l’adesione alla Riforma fu opera di singoli predicatori. Si configurò in queste aree un conflitto non solo tra cattolici e riformati, ma anche tra differenti interpretazioni e traduzioni in pratica della Riforma. A metà del Cinquecento l’Europa era divisa in due. Con la Pace di Augusta del 1555, veniva lasciata, ai principi e ai governi delle città libere, la scelta della confessione ufficiale, coloro che non avessero aderito alla confessione del proprio principe avrebbero dovuto scegliere la via dell’esilio, a prezzo della perdita dei loro beni. Questa pace però non pose fine alle contrapposizioni religiose e agli scontri, soprattutto tra cattolici e calvinisti. Il calvinismo, infatti, da Ginevra, dove si era affermata la predicazione di Calvino, si era diffuso in vaste aree della Francia, nella Germania nord-occidentale, nei Paesi Bassi, in Scozia e in Boemia. In Francia, nel 1559, nel pieno di una crisi dinastica aperta dalla morte di Enrico II, l’incapacità della corona di mediare tra la maggioranza cattolica e una forte minoranza calvinista (in Francia chiamati Ugonotti), aprì un quarantennio di guerra civile che si chiuse solo con l’avvento al trono di Enrico IV Borbone, convertitosi al cattolicesimo. Nel 1598 il nuovo re emanò l’Editto di Nantes, che consentiva uno spazio di tolleranza per gli Ugonotti. Nei Paesi Bassi la diffusione del Calvinismo dette vita a una forte resistenza alla politica di Filippo II di Spagna, con il risultato, a partire dagli anni settanta del Cinquecento, di dividere i Paesi Bassi in due aree: quella meridionale cattolica e filospagnola e quella a nord calvinista e impegnata a dare vita a uno stato indipendente, la Repubblica delle Sette Provincie Unite, che sosterrà una dura lotta contro la Spagna, ottenendo l’indipendenza nel 1648, nel contesto delle Paci di Vestfalia, a conclusione della Guerra dei Trent’anni. In Inghilterra, nel 1534, voluto da Enrico VIII, prese vita la Chiesa anglicana, sotto il diretto controllo del sovrano e con il riconoscimento dell’autorità dell’arcivescovo di Canterbury. Una Chiesa che soppresse gli ordini religiosi. La presenza della Chiesa anglicana si consolidò sotto Elisabetta I, dal 1558 al 1603. La repressione che questa e i suoi successori Stuart condussero contro i cattolici si tradusse nel tempo in un antipapismo. In Inghilterra, i puritani, una corrente interna alla Chiesa anglicana, furono i protagonisti della prima rivoluzione (1640-1649), dell’abolizione della monarchia Stuart e della proclamazione del Commonwealth d’Inghilterra, sotto la guida del puritano Oliver Cromwell. La restaurazione Stuart del 1660 e poi l’avvio della monarchia parlamentare di Maria e Guglielmo d’Orange, nel 1689, ristabilirono la preminenza della Chiesa anglicana. Anche la Chiesa romana si impegnò, nei decenni successivi alla Riforma protestante, in una poderosa opera di ridefinizione dottrinale, sui temi della grazia, sulla libera lettura personale dei testi sacri, sui sacramenti. La scelta della Curia romana nasceva da una decisa volontà di chiusura nei confronti della Riforma e dalle necessità di cementare la cattolicità fedele a Roma. Nel 1545 a Trento si aprì il concilio che, con fasi alterne, si concluse nel 1563: convocato per reagire alla diffusione della riforma protestante in Europa; l'opera svolta dalla Chiesa per porre argine al dilagare della diffusione della dottrina di Martin Lutero produsse la controriforma. Solo nel 1614, a mezzo secolo dalla loro emanazione, i decreti tridentini furono accolti in Francia, in Spagna e nei domini italiani. Il prezzo di questo consolidamento in Europa di stati cattolici e di stati protestanti fu pagato da quanti non intesero aderire alla confessione dominante nel proprio territorio e pertanto furono costretti o all’abiura o all’esilio. Nei paesi della Riforma, il consolidarsi delle Chiese “nazionali” provocò a sua volta i propri “eretici”: non solo i cattolici, ma anche riformati che manifestavano orientamenti differenti, e spesso più radicali, nei confronti delle Chiese istituzionali. Nel 1618 gli orientamenti rigidamente cattolici del nuovo imperatore Asburgo, Ferdinando II, provocarono la rivolta della nobiltà boema di confessione calvinista; contro gli Asburgo si mobilitò la Lega evangelica, guidata dal 4.2 Anche nella Francia degli anni successivi alla guerra dei Sette anni, il dibattito sulla crisi fiscale e sulle riforme politico-istituzionali divenne tema centrale della vita politica. “Nazione”, “Costituzione”, “Sovranità” sono le parole chiave del discorso politico francese nei mesi convulsi che precedettero la riunione degli Stati Generali, un organo di rappresentanza per ordini: clero, nobiltà, terzo stato. Il 5 maggio 1789 si aprirono gli Stati Generali a Versailles, ma restava irrisolta la questione della modalità di voto: per ordine, secondo il criterio tradizionale, o per testa, secondo la richiesta del terzo stato, che aveva ottenuto il doppio dei rappresentanti rispetto agli altri due. Nell’impossibilità di trovare un accordo, i deputati del terzo stato, insieme ad alcuni rappresentanti del clero e della nobiltà, si proclamarono il 17 giugno Assemblea Nazionale, che intendeva rappresentare l’intero corpo della nazione e varare da sola la costituzione della Francia. Il rifiuto del terzo stato di obbedire all’ordine sovrano di scioglimento, disgregò il fronte degli altri due stati, che si unirono quindi all’Assemblea Nazionale, dando vita il 9 luglio all’Assemblea Nazionale Costituente. Nelle campagne si andò ad acuire il contrasto sociale, ci furono violente sommosse in molte regioni della Francia. A Parigi, la decisione del re Luigi XVI di mobilitare le truppe diffuse il timore di un colpo di stato militare, portando il 14 luglio alla presa da parte del popolo parigino della Bastiglia, prigione simbolo dell’arbitrio del sovrano. Si apriva così la “Grande Rivoluzione”, segnata dall’attiva presenza del popolo e dalla costituzione in tutte le città di nuovi organi municipali. Il clima di sollevazioni contadine nelle campagne spinse l’Assemblea ad occuparsi della questione dei diritti feudali, decretando la distruzione del regime feudale, con la consapevolezza che operando in tal modo si distruggeva l’antico regime. La Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino, approvata il 26 agosto 1789, avrebbe poi affermato l’intangibilità dei diritti naturali, inalienabili, e sacri dell’uomo, ma anche una concezione assai forte della sovranità e della volontà generale, su una presenza attiva dei cittadini nelle lotte politiche e nella determinazione degli esiti futuri della rivoluzione. Ai nuovi assetti del potere rispondeva una realtà politica che trovava espressione in una rete estesa di associazioni, che raccoglievano i diversi orientamenti ideali e politici: il club dei giacobini, dove voce autorevole fu quella di Robespierre, il club dei cordiglieri, di ispirazione democratica con le voci di Marat e Danton. Dopo la totale abolizione degli ordini monastici, nel 1790, l’Assemblea votò una Costituzione civile del Clero che modificava la geografia delle diocesi, corrispondenti ora alla divisione amministrativa in dipartimenti, con l’elezione diretta dei parroci e dei vescovi da parte delle assemblee elettorali. Si realizzava così un modello di Chiesa nazionale, che avrebbe trovato ulteriore conferma nel giuramento di fedeltà alla Rivoluzione imposto al clero. Questo giuramento segnò una spaccatura tra un clero “costituzionale” e un clero “refrattario”, forte della condanna papale della Costituzione civile. Era comunque la difficile situazione economica e sociale a suscitare opposizioni e contrasti. Il tentativo della famiglia reale di fuggire da Parigi, approfondì le divisioni all’interno dell’Assemblea, aprendo di fatto la discussione sulla monarchia. Pur in questa difficile situazione l’Assemblea approvò il 4 settembre 1791 la prima costituzione francese, che affermava decisamente il principio della rappresentanza e il ruolo fondamentale di un’Assemblea legislativa. Al sovrano spettava il potere esecutivo, il comando dell’esercito, la nomina dei ministri, la politica estera. Il sovrano non emanava leggi, restava all’Assemblea il diritto di eludere il veto regio, appellandosi al popolo. La guida dell’Assemblea fu presa dal gruppo della sinistra di Brissot. Il sovrano sembrò spingere l’incerto ministero verso una rottura con gli altri stati europei, nella speranza di una sconfitta della Francia e del ristabilimento della situazione precedente la rivoluzione. Brissot si dichiarava favorevole all’azione militare, mentre i giacobini temevano la guerra dichiarata contro gli Asburgo e il regno di Prussia. I primi insuccessi militari determinarono una forte mobilitazione popolare. Il sentimento della “patria in pericolo” divenne un elemento essenziale. La mobilitazione popolare e l’afflusso a Parigi di volontari in armi costrinsero il re e la sua famiglia al centro di aperte accuse di tradimento a rifugiarsi presso l’Assemblea. Fu allora proclamata la “sospensione” del sovrano, dando vita ad un consiglio esecutivo provvisorio. La giornata del 10 agosto cancellò di fatto la monarchia francese, aprendo una nuova fase della rivoluzione. Si affermarono il suffragio universale maschile e l’esercizio diretto della sovranità popolare. In queste stesse settimane la notizia dell’assedio di Verdun da parte delle truppe austro-prussiane scatenò una dura reazione della folla parigina, che invase le carceri, massacrando un gran numero di prigionieri, accusati di essere controrivoluzionari. La vittoria morale e politica, più che militare, riportata il 20 settembre a Valmy dalle truppe francesi valse a dare fiducia alla nazione. Lo stesso giorno di Valmy si apriva la Convenzione. Suo primo atto, il 21 settembre 1792, fu la proclamazione della Repubblica francese, “una e indivisibile”. Luigi XVI venne processato e condannato a morte il 21 gennaio 1793. La Dichiarazione dei diritti che precedeva il nuovo testo costituzionale, approvata il 24 giugno 1793, accanto alle libertà individuali affermava il diritto al lavoro, all’assistenza e all’istruzione e il diritto-dovere all’insurrezione. Venne approvata a larghissima maggioranza. Nell’estate del 1793 la tensione politica sembrò raggiungere una nuova soglia critica: furono il Comitato di salute pubblica e il Comitato di sicurezza generale ad imporre una severa politica di epurazione di tutti gli organi di governo e dell’amministrazione. Ciò costituì l’avvio di quel regime del Terrore che portò all’approvazione della legge dei “sospetti”, che consentì, con la sua formulazione assai generica, di colpire tutti coloro che fossero accusati di essere nemici della rivoluzione. Della radicalizzazione della lotta politica fece parte quel movimento cosiddetto di scristianizzazione che dette luogo a un’intensa campagna contro le riforme religiose e di culto cattolico tradizionali, con l’intento di proporre una religiosità e un culto rivoluzionari. Elementi importanti l’abolizione del calendario gregoriano-romano e l’adozione di un calendario “decadario”, che divideva l’anno in dodici mesi di trenta giorni, ogni mesi in tre decadi, completati da cinque o sei giorni complementari, detti “sanculotti”. In questa situazione, il Comitato di salute pubblica concentrò su di sé tutto il potere e al suo interno si rafforzarono le posizioni di Robespierre e di Saint- Just. Il decreto del 10 giugno 1794 diede avvio al cosiddetto Grande Terrore: la pena di morte comminata agli avversari della rivoluzione. L’opposizione politica a Robespierre e al Terrore sembrò ritrovare una guida in alcune figure moderate della Convenzione. La decisione di Robespierre di non cercare alcun accordo portò alla messa in stato di accusa e all’arresto dello stesso Robespierre, di Saint Just e di Couthon, ghigliottinati senza processo il giorno successivo. Si chiudeva così drammaticamente una fase della rivoluzione e se ne apriva una nuova, che ha preso il nome di “Termidoro”. I termidoriani non rappresentavano un gruppo politicamente omogeneo e dai programmi definiti. Loro principale preoccupazione era quella di abbattere il regime del Terrore, stabilizzando il regime repubblicano. Tutte le istituzioni del Terrore giacobino vennero soppresse. Al clero costituzionale fu concessa la riapertura di molte chiese e si varavano l’amnistia e altre facilitazioni agli insorti vandeani, ai capi realisti e al clero refrattario. Avviati i lavori per una nuova costituzione, fu approvata il 22 agosto 1795. Alla Dichiarazione dei diritti fu aggiunta una dichiarazione dei doveri in cui veniva sanzionato l’abbandono di alcuni punti che avevano caratterizzato le vecchie costituzioni, tra i quali il diritto-dovere all’insurrezione e ribadito il valore della proprietà. Il potere esecutivo era affidato ad un Direttorio di cinque membri che avevano la responsabilità della sicurezza interna ed esterna, della politica militare e della nomina dei ministri. Si consolidava una forte amministrazione dipartimentale e municipale e una presenza attiva di “commissari” eletti dal Direttorio. La costituzione fu approvata da un plebiscito popolare, a suffragio universale maschile. Contro di essa i realisti, nell’ottobre del 1795, insorsero, assediando la Convenzione. Ma una commissione straordinaria riuscì a reprimere l’insurrezione con l’aiuto di alcuni generali, tra i quali si distinse Napoleone Bonaparte. I risultati delle elezioni, portarono all’affermazione delle forze monarchiche e moderate. Le elezioni del 1797 segnarono però una crescita della destra realista. Il Direttorio si rivolse allora ai capi militari di sicura fede repubblicana: a Bonaparte che si prestò a fornire prove documentarie del tradimento dei generali realisti; e a Hoche, che mise a disposizione le truppe per occupare Parigi. Dopo il colpo di stato, il Direttorio procedette alla chiusura della stampa d’opposizione e alla rimessa in vigore dei decreti contro i preti “refrattari” e gli emigrati. Ma il risultato finale fu quello di consegnare le sorti della rivoluzione ai militari, e in primo luogo a Bonaparte. 4.3 La figura di Napoleone esemplificava bene l’evolversi dei rapporti tra i generali e le autorità politiche e testimonia la difficoltà di dare una stabilizzazione al processo rivoluzionario.
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