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Riassunto Vittorio Alfieri , Sintesi del corso di Letteratura Italiana

Riassunto della vita e delle opere principali.

Tipologia: Sintesi del corso

2016/2017
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Caricato il 04/10/2017

Carla.Pichierri
Carla.Pichierri 🇮🇹

4.4

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18 documenti

Anteprima parziale del testo

Scarica Riassunto Vittorio Alfieri e più Sintesi del corso in PDF di Letteratura Italiana solo su Docsity! VITTORIO ALFIERI Nasce nel 1749, da una famiglia della ricca nobiltà terriera. Nella tipologia dell’intellettuale del Settecento rappresenta la figura dello scrittore che, grazie allo cospicue rendite, può dedicare tutti il suo otium alla letteratura, garantendogli l’indipendenza economica e gli consentiva di non essere subordinato a nessuno e di potersi mantenere libero e incontaminato da ogni forma di servitù. Sin dagli anni dell’infanzia si rivelò in lui una tendenza alla malinconia e alla solitudine, unità però ad una volontà forte e caparbia, che si manifestava in impeti ribelli. Nel 1758, a nove anni, fu mandato a compiere gli studi presso la Reale Accademia di Torino, che aveva radicate tradizioni militari, e ne uscì col gradi di portainsegna. Più tardi diede giudizi durissimi sulla formazione che vi aveva ricevuta, arida, ispirata a modelli culturali del tutto antiquati. Uscito dall’Accademia, seguendo un costume diffuso tra i giovani aristocratici del tempo, quello del grand tour, compì viaggi per l’Italia e l’Europa. Si inserì nello spirito cosmopolita e nell’ansia di conoscenza che erano propri dell’età dei lumi. Ma i viaggi di Alfieri non rientravano in questo spirito illuministico: il giovane non si spostava indotto dalla curiosità di vedere, di conoscere luoghi, costumi, linguaggi, mentalità, di accumulare esperienze, ma come spinto da una smania febbrile di movimento, da un’irrequietezza continua, inappagabile, che non gli consentiva di fermarsi in alcun luogo, ed era perpetuamente accompagnata da un senso di scontentezza, di noia, di vuoto, da una cupa malinconia. Questa scontentezza, questa inquietudine non avevano cause precise, definibili: era come se il giovane inseguisse qualcosa di ignoto e di inafferrabile che gli sfuggisse continuamente dinanzi. Si delinea così, già negli anni giovanili, il profilo di un animo tormentato, proteso verso qualcosa di grande che non ha ancora un volto definito. Più tardi infatti lo scrittore stesso interpreterà questa scontentezza come il bisogno di trovare un fine sublime intorno a cui ordinare tutta l’esistenza, e l’irrequietezza come percezione dolorosa del vuoto di una vita che non riesce ancora a intravedere questo fine totalizzante. Anche se lo scrittore proclama nella Vita che questi viaggi, compiuti con un simile stato d’animo, non gli avevano permesso di acquisire vere conoscenze, aveva in realtà potuto accumulare una concreta esperienza delle condizioni politiche e sociali dell’Europa contemporanea. È l’Europa dell’assolutismo, e nel giovane appassionato, inquieto e ribelle la tirannide monarchica provoca reazioni esasperatamente negative. Una reazione più positiva suscitano in lui i paesi dove sussistono libertà civili, l’Inghilterra, l’Olanda. Ma ciò che lo affascina sono soprattutto i paesaggi desolati e orridi, selvaggi e maestosi, le selve della Scandinavia. Ritornato a Torino, la sua insofferenza per ogni legame e gerarchia gli impedisce di dedicarsi alla attività politiche e militari che erano proprie della nobiltà sabauda. Conduce quindi la vita oziosa di un giovin signore, chiuso in una solitudine inerte che ingigantisce la sua scontentezza e la sua inquietudine e sollecita un oscuro bisogno di uscire da quella dissipazione opprimente. La depressione è ulteriormente accresciuta da un triste amore, una relazione con la marchesa Gabriella Turinetti di Prié. L’unica attività che gli si offre è quella letteraria, dedicandosi soprattutto agli illuministi francesi, Montesquieu, Voltaire, Rousseau, che costituiranno poi la base della sua cultura, dando fondamenti filosofici alla sua istintiva avversione antitirannica. Fonda nel 1772, con alcuni amici, una sorta di società letteraria, per cui scrive l’Schizzo del giudizio universale (1773), satira della società nobiliare ispirata ai modi di Voltaire, stesa in francese. Nel 1774 inizia, sempre in francese, un Journal (Diario, poi proseguito nel 1777 in italiano), dove si rispecchia il momento più acuto e disperato della sua crisi. Nel 1775 colloca la svolta fondamentale, la sua conversione. Ritornatogli in mano il manoscritto Antonio e Cleopatra (tragedia abbozzata), si rende conto di come proiettare i propri sentimenti nella poesia costituisca l’unico mezzo per trovare un superamento dei propri tormenti, una catarsi. La tragedia, portata a termine, viene rappresentata nel 1775 ottenendo grande successo. In questo episodio Alfieri scorge il primo manifestarsi della sua vocazione di poeta tragico. Da quel momento ritiene di aver trovato lo scopo capace di riempire la sua vita vuota e di darle un senso, placando la sua oscusa inquietudine. Si immerge nella lettura dei classici latini e italiani, si applica allo studio della lingua italiana per impadronirsi di un linguaggio adatto alle tragedie che intende scrivere. Nel 1778 per recidere ogni legame con il re di Sardegna, che esercitava un controllo oppressivo sulla nobiltà sabauda, rinuncia a tutti i suoi beni in favore della sorella, in cambio di una rendita vitalizia. Nel frattempo dalla sua fervida attività di scrittore nascono una dopo l’altra le sue tragedie. Soggiorna a Parigi dove lo scoppio della Rivoluzione eccita il suo spirito antitirannico e lo induce a salutare con un’ode la presa della Bastiglia (Parigi sbastigliato). Ma presto gli sviluppi del processo rivoluzionario suscitano in lui riprovazione e disgusto, per quella che egli ritiene una falsa libertà che maschera una nuova tirannide borghese e per l’insolenza violenta della plebe. Nel 1792 fugge da Parigi e si stabilisce a Firenze, dove vive i suoi ultimi anni, animato da un odio sempre più feroce contro i francesi, che si sono ormai impadroniti dell’Italia con le campagne napoleoniche. RAPPORTI CON L’ILLUMINISMO Le basi della formazione intellettuale di Alfieri sono ancora decisamente illuministiche, sensistiche, materialistiche. Egli non arriva a superare teoreticamente quelle posizioni, approdando ad una diversa prospettiva ideologica, anche perché non possiede una solida cultura filosofica e neppure un’attitudine ad una rigorosa riflessione in tal senso. Ma, nei confronti di quella cultura del secolo, che tutto sommato resta anche la sua cultura, prova una sorda, confusa insofferenza. Ripugna il culto della scienza; il freddo razionalismo scientifico per lui soffoca il forte sentire, quella violenza emotiva e passionale in cui egli ritiene consista la vera essenza dell’uomo, e spegne anche il fervore dell’immaginazione, da cui solo può nascere la poesia, la manifestazione più alta di quell’essenza. Alfieri invece si ribella decisamente a questo controllo razionale, a questa pacata misura, ed esalta la dismisura, la passionalità sfrenata, senza limiti, condotta all’estremo, in un culto della vita intensa e fervida di moti spontanei, che innalza l’uomo al di sopra della sua stessa natura. Alfieri è mosso da un fondamentale spirito religioso, che si manifesta in un’oscura tensione verso l’infinito, in un bisogno di assoluto. Quindi l’orgoglio illuministico per le scoperte scientifiche, viste come inizio di un radioso futuro di progresso per l’umanità gli è del tutto estraneo: egli ha piuttosto il senso dell’ignoto, del mistero che avvolge le ragioni profonde dell’essere, dinanzi a cui l’uomo non può che restare scontento e perpetuamente inquieto. Mentre l’Illuminismo è pervaso da un ottimismo fiducioso nelle sorti dell’uomo, la visione di Alfieri insiste sulla miseria e impotenza umane. Se il progresso scientifico lo lascia freddo e scettico, tanto meno lo alletta il progresso economico nel suo aristocratico rifiuto dello spirito borghese teso all’utile e all’interesse materiale, egli vede nello sviluppo economico solo l’incentivo al moltiplicarsi di una massa di gente meschina e arida, incapace di alti ideali e forti passioni. Così resta freddo all’idea della diffusione dei lumi. La trasformazione per lui può avvenire solo grazie alle passioni, all’entusiasmo. IDEE POLITICHE Anche le idee politiche (l’avversione contro la tirannide e il culto della libertà) possiedono una matrice illuministica, traggono spunto dalla lettura di Montesquieu, Voltaire e Rousseau. Ma anche in questo caso lo scrittore si stacca nettamente dalla cultura dei lumi, collocandosi su posizioni del tutto peculiari e personali. L’esasperato individualismo e l’egocentrismo lo inducono a scontrarsi con la situazione storica e politica in cui vive, producendo un’avversione e un’insofferenza. È innanzitutto l’ambiente in cui nasce e si forma a suscitare il suo radicale rifiuto: il Piemonte sabaudo, caratterizzato da un assolutismo che esercita un rigido controllo su tutte le forme di vita associata, da un’aristocrazia devota e ligia alla corona, legata alle cariche Il più significativo è il Misogallo (1793-99), un’opera dall’impianto curioso, che mescola insieme prosa e versi. Esprime un odio furibondo contro la Francia, che in realtà è odio contro la Rivoluzione, contro i principi illuministici e lo spirito borghese che essa sta diffondendo in Europa. In questo atteggiamento di ripulsa emergono posizioni che vengono addirittura a collimare con la reazione monarchica e legittimistica alla Rivoluzione: Alfieri difende i privilegi della casta nobiliare, soprattutto il diritto di proprietà, ribadisce il ruolo inevitabile subalterno del terzo stato, respinge con sdegno ogni turbamento dell’ordine sociale e dei rapporti economici e di potere, riserva solo ai nobili il pieno godimento dei diritti politici e l’esercizio del potere. Quest’odio contro la tirannide francese acuisce però, d’altra parte, il suo senso patriottico e lo porta ad auspicare che proprio l’avversione contro la Francia e il suo dominio politico e culturale possa spingere il popolo italiano ad assumere una coscienza nazionale, a difendere la propria individualità e la propria libertà. L’opera, quindi, oltre a quello polemico, assume anche un carattere profetico, e, dal punto di vista storico, l’opera è importante perché comincia a delinearsi in esso un fatto culturale nuovo, l’idea di nazione, che, antitesi al cosmopolitismo illuministico, sarà una delle componenti essenziali della visione romantica. SATIRE L’acre polemica contro la realtà contemporanea compare anche nelle satire, scritte in terzine tra il 1786 e il 1797, con l’impiego di una forma aspra, dure e bizzarra. Si manifesta la radicale opposizione di Alfieri allo spirito del secolo, ai suoi orientamenti democratici, egualitari, filantropici e progressisti. Grandi: il poeta riprende la polemica antiaristocratica, ma la indirizza solo su aspetti marginali, la frivolezza e l’ozio, e per contro ribadisce la naturale supremazia della classe nobiliare e la sua funzione di guida nella società. La plebe e La sesquipeble: sono una requisitoria durissima contro la gente nuova, la borghesia emergente, a cui Alfieri non riconosce alcun diritto se non quello di restare al proprio posto e di obbedire, e contro il principio di sovranità popolare e il sistema democratico rappresentativo. COMMEDIE Qui la delusione e la crisi degli ideali si esprime ancora più radicalmente. Si assiste al rovesciamento totale dell’antico ideale eroico, poiché vengono impietosamente messe a nudo le autentiche motivazioni dell’agire umano, ambizione, egoismo, vanità, interesse materiale, che si mascherano dietro generosi e disinteressati principi. Nascono così le quattro commedie politiche: L’uno, I pochi, I troppi, L’antidoto, che sono una satira allegorica delle varie forme di governo, rispettivamente quello monarchico, quello oligarchico e quello democratico, a cui si contrappone infine l’” antidoto”, un forma alternativa che per Alfieri deve essere un governo misto che contemperi tutte e tre le forme. Tuttavia lo scrittore esclude sempre la plebe dalla vita politica e relega ad una condizione di sudditanza, in quanto l’elaborazione delle leggi spetta esclusivamente all’aristocrazia. Le commedie sono testi mediocri, che rivelano un poeta ormai stanco, chiuso in un’amara, scontrosa cupezza. Più felice è forse Il divorzio, una satira del cicisbeismo, collocata in ambienti borghesi e nella società contemporanea, che offre qualche vivace battuta comica e sarcastica, ma presenta anch’essa gli accenti aspri delle altre commedie. LA POETICA TRAGICA A scegliere la forma tragica come espressione del suo mondo interiore il poeta è indotto da vari motivi. Poiché tradizionalmente la tragedia rappresentava figure umane eroiche ed eccezionali in forme di vertiginosa sublimità, essa appariva il genere poetico più adatto ad esprimere il titanismo alfieriano, la tensione verso una grandezza senza limiti, verso un infinito potenziamento dell’io: nel costruire i suoi eroi, figure monumentali, dall’eccezionale statura, il poeta dava sfogo alle sue aspirazioni, proiettava se medesimo. Ma lo stesso cimentarsi col genere tragico costituiva agli occhi di Alfieri un segno di grandezza. Secondo un’opinione diffusa nel mondo letterario del tempo, la tragedia non aveva ancora trovato nella cultura italiana una realizzazione soddisfacente: si riteneva che mancasse all’Italia un grande poeta tragico, degno degli antichi e all’altezza della tragedia classica francese. La tragedia era anche considerata il genere più sublime e più difficile, che esigeva eccezionale altezza e vigore di ispirazione e perfetto dominio degli strumenti espressivi. Entrambi questi motivi costituivano come una sfida per Alfieri. I principi che lo ispiravano nel lavoro di composizione delle tragedie furono enunciati da Alfieri in vari scritti: la Risposta dell’autore, le Note, il Parere dell’autore, la Vita. Nella consapevolezza della sua prepotente originalità, Alfieri si colloca in posizione polemica nei confronti della grande tragedia classica francese. Ai tragici francesi lo scrittore rimprovera le eccessive lungaggini che rallentano l’azione raffreddando l’interesse, il patetismo sentimentale, gli artificiosi espedienti romanzeschi dell’intreccio. Secondo Alfieri alla base dell’ispirazione poetica vi deve essere un veemente slancio passionale, il calore di un contenuto sentimentale ardentemente vissuto, che si manifesta nel dinamismo dell’azione, nella tensione incalzante che precipita verso la catastrofe, senza mai essere interrotta da indugi e rallentamenti. Per questo il congegno drammatico deve bandire ogni elemento superfluo, in modo da costituire un tutto unico e compatto dall’inizio alla fine; deve cioè evitare i personaggi secondati, e concentrarsi solo su un numero limitatissimo di personaggi principali, quelli tra cui si crea veramente il conflitto tragico. La rapidità incalzante della struttura si traduce anche nello stile, che deve essere egualmente rapido, essenziale, capace quindi di esprimere tutto il calore passionale del nucleo drammatico. Le battute sono in prevalenza brevi, abbondano le parole monosillabiche e porta Alfieri a compiere veri prodigi, come concentrare una serie di battute fondamentali in un unico endecasillabo. Lo stile tragico, per Alfieri, deve distinguersi nettamente da quello lirico e da quello epico: questi tendono al canto, mentre la tragedia esprime conflitti fra individualità, idee e passioni, quindi non può cantare. Per questo mira ad un stile che sa diametralmente opposto a quello melodioso della tragedia francese; il poeta punta su uno stile duro, aspro, antimusicale. Gli strumenti che impiega a tal fine sono: le continue variazioni di ritmo, per cui mai due versi successivi devono presentarsi con gli stessi accenti, la presenza continua di pause e di fratture al loro interno, inversioni ardite nella costruzione sintattica, enjambements fortemente inarcati, intesi anch’essi a spezzare il ritmo, suoni aspri, con duri scontri consonanti. Alfieri mira sempre a disciplinare quei contenuti in forme rigorosamente classiche e rispetta puntualmente le tre unità aristoteliche di tempo, di luogo e d’azione: le sue tragedie si svolgono di norma su un arco temporale che non supera le ventiquattro ore, hanno una scena fissa ed un’azione unitaria, costruita intorno ad un unico nucleo drammatico. La scelta risponde ad esigenze autentiche e sentite, nel poeta: innanzitutto quella di dar ordine e disciplina al suo mondo interiore tormentato e magmatico, che solo nelle forme classiche può trovare una sorta di catarsi; dall’altro lato l’unità rigorosa dell’azione e la brevità dell’arco temporale sono perfettamente in armonia con la necessità di una struttura tragica tesa, rapida e incalzante. La creazione è originariamente un processo spontaneo, che trae alimento dalle componenti più irrazionali, ma poi quel contenuto deve disciplinarsi in una forma rigorosa. Da un lato Alfieri è tributario di tutta una tradizione, risalente a Platone, che deve la creazione poetica come un fatto irrazionale, dall’altro fa riferimento alla tradizione aristotelica e oraziana del classicismo, che concepisce la poesia come controllo razionale dell’ispirazione attraverso rigorosi strumenti tecnici dell’espressione. Alfieri non pensa di scrivere testi destinati alla semplice lettura, ma li concepisce come autentici testi drammatici da recitarsi dinanzi ad un uditorio. Tuttavia non fece di norma recitare le sue tragedie nei teatri pubblici e le destinò solo a rappresentazioni private. Questa scelta nasceva da un rifiuto sprezzante del teatro contemporaneo, ritenuto frivolo e volgare, degli attori dell’epoca, giudicati del tutto incapaci di sostenere degnamente le parti dei suoi eroi, ed infine del pubblico comune, considerato insensibile e mediocre. D’altronde egli scriveva tragedie, il genere drammatico più sublime e arduo, anche al fine di escludere il pubblico borghese che affollava allora i teatri per assistere a commedie serie o giocose. Per lui un teatro degno di questo nome può vivere solo in un regime libero, col sostegno di un popolo parimenti libero, animato da nobili virtù civili, come erano un tempo il popolo greco e quello romano. Disdegnoso del teatro contemporaneo, espressione di una realtà invilita e indegna, Alfieri si rivolge utopisticamente ad un teatro futuro, in un’Italia rinata e divenuta nazione, in cui vi sia autentica vita sociale. Nella concezione del teatro si trasferiscono integralmente le concezioni politiche di Alfieri. Nelle prime tragedie, risalenti al 1775-77, si proietta il sogno di grandezza sovrumana, lo slancio di affermazione dell’io al di là di ogni limite e ostacolo, che connota l’orientamento spirituale del giovane Alfieri. Ma contemporaneamente, già nel primo sistema tragico, si profila lo scontro con una realtà ostile che soffoca quello slancio e si manifesta in un amaro sentimento del vivere, in una concezione pessimistica e scettica dell’uomo, che insiste sulla sua miseria, sulla sua insufficienza e impotenza e che corrode intimamente l’ideale eroico. La tensione eroica e il pessimismo desolato che la corrode costituiranno le due direttrici su cui muoverà tutta la produzione tragica alfieriana, in varie forme e combinazioni, con la prevalenza dell’una o dell’altra a seconda dei momenti. Filippo: sotto le vesti del sovrano spagnolo del Cinquecento Filippo II compare per la prima volta il mito del tiranno. Ma sotto la schematizzazione politica di questa polemica, emergono significati più profondi: nella sua volontà di imporre il suo incontrastato dominio, Filippo è la prima incarnazione tragica dell’individualismo alfieriano. Polinice: nei due fratelli rivali l’ambizione di regno diviene brama di grandezza che non tollera ostacoli dinanzi a sé, esasperata religione dell’io. Ma al tempo stesso si manifesta come legge di dolore e di oppressione, che condanna all’infelicità. Antigone: costituisce un ideale secondo momento della stessa tragedia. Viene approfondito il tema del fato come simbolo di un’assurda negatività del vivere. Antigone è la vittima predestinata e consapevole. In lei si manifesta una diversa vocazione dell’eroico, non l’individualistica affermazione di sé, ma il rifiuto sdegnoso di una realtà che contamina, il ristabilimento, attraverso la scelta della morte, della propria assoluta purezza. Agamennone: affiora in piena luce il motivo dell’umana debolezza. Centrale nella tragedia è il personaggio di Clitennestra. Con questo personaggio l’individualismo titanico di Alfieri mostra le sue prime crepe e si rivela come egli sia non solo il poeta dell’io eroico e il celebratore di superuomini, ma presenti un fondo di sfiduciato pessimismo. Virginia: la prima crisi dell’individualismo eroici è superata con quest’opera. L’ideologia eroica assume qui vesti decisamente politiche e si proietta nei personaggi di un mitizzata Roma classica. L’azione è un’appassionata celebrazione della virtù romana, delle libertà politiche e civili dell’antica repubblica. Il travagli pessimistico che corrode l’ideale eroico trova qui il superamento in una positiva fede politica: non vi sono, negli eroi, perplessità, angosce, tormenti; essi vanno dritti al loro scopo, senza deflettere un istante. La conclusione inoltre, reca un messaggio di speranza, in quanto fa intravedere la sollevazione del popolo che rovescerà il tiranno e ristabilirà la libertà repubblicana. Dopo si apre un periodo di sperimentazioni, in cui il poeta si impegna in un lavoro di scavo e di revisione dei suoi miti. queste forze latenti, sparse, frantumate e inconsapevoli, acquistano un senso, una direzione e un fine solo quando sono indirizzate alla scrittura delle tragedie. La tensione sublime ed eroica di Alfieri è sempre accompagnata da un amaro e scettico pessimismo, da una lucida consapevolezza dell’effettiva miseria e insufficienza dell’uomo. L’ansia titanica di grandezza di scontra sempre con il limite umano e reca già in sé il senso di una sconfitta inevitabile. Quest’intima conflittualità dà vita alle principali figure tragiche di Alfieri. Nella Vita la consapevolezza del limite è presente, non in chiave tragica: piuttosto lo scrittore contempla a distanza se stesso, le proprie debolezze, gli accidenti esterni che compromettono la sublimità eroica. Tra l’io narrante e l’io narrato si stabilisce un rapporto complesso: a volte, nei momenti di massima tensione, le due prospettive coincidono, e l’Alfieri che scrive si identifica pienamente con quel se stesso che è stato protagonista degli avvenimenti narrati; in altri casi invece le due prospettive si disgiungono e l’io narrante contempla il comportamento dell’io narrato con distacco e con ironia, sottolineando le sue incoerenze e le sue piccole miserie. In un’opera che vuole essere il ritratto di una vocazione eroica c’è una sottile, amara consapevolezza dell’impossibilità dell’eroico. La Vita dunque, sembra riflettere quel disinganno che caratterizza l’ultimo Alfieri e che si manifesta crudamente nelle opere più tarde. Lo stile è lontano dalle pesantezze classicheggianti di tanta prosa del tempo. È perciò uno stile conversevole, ma non appare mai piatto: il ritmo del discorso è nervoso e incalzante, il linguaggio è conciso ed essenziale ed è costantemente insaporito dall’immissione di termini inusuali. LE RIME Di carattere fortemente autobiografico, nascono infatti come sfogo legato a particolari occasioni sentimentali, a luoghi e vicende concrete, e questa loro qualità di diario è segnalata anche da fatto che ogni componimento reca di norma l’indicazione di una data e di un luogo. Si tratta prevalentemente di sonetti, scritti lungo tutto l’arco dell’esistenza del poeta. Il modello petrarchesco è evidente, nelle situazioni sentimentali come nel ricorrere di parole, formule e frasi tratte dal Canzoniere. Ma Alfieri è lontanissimo dal petrarchismo settecentesco. Trae da Petrarca soprattutto l’immagine di un io lacerato da forze contrastanti, portando il conflitto interiore ad un grado di tensione violenta. Se poi Alfieri ricava da poeta trecentesco tutta una serie di materiali verbali, li trasforma profondamente o addirittura ne capovolge la valenza, quasi in una sistematica ripresa a contrasto. Alfieri punta ad un linguaggio aspro, dominato da forti chiaroscuri che fanno spiccicare in netto rilievo parole e frasi, a un ritmo spezzato da pause, inversioni ardite, violente inarcature degli enjambements, scontri di consonanti, formule coincise e lapidarie. Dominante nella raccolta è il tema amoroso, lontano e irraggiungibile, occasione di tormento e infelicità. Il motivo amoroso va però al di là dell’espressione diretta dei sentimenti vissuti, assume un più vasto significato: esso serve da veicolo all’espressione di un animo tormentato, in perenne conflitto con la realtà che lo circonda. Ai temi amorosi si mescola la tematica politica, anch’essa molto vicino alle tragedie. Compare la polemica contro un’epoca vile e meschina, il disprezzo dell’uomo che si sente superiore contro una mediocrità che, con amarezza pessimistica, egli avverte come vittoriosa e dominante nel mondo, l’amore fremente della libertà. Alfieri delinea in questi sonetti un ritratto di sé che risponde a quell’ideale del letterato-eroe. È l’ideale di un uomo dotato più di sentimento che di ragione: Alfieri è convinto che l’intensa passionalità si segno di superiorità. Ma accanto compare anche quell’opposta tematica pessimistica che costituisce sempre il limite della tensione eroica di Alfieri. Egli stesso, in un sonetto, sottolinea come siano compresenti in lui ira e malinconia, da un lato il magnanimo sdegno dell’anima superiore verso una realtà vile, ma dall’altro un senso di disillusione, di vuoto, di oscura, tormentosa e mai placata scontentezza, di noia, di vanità. La morte diviene allora un’immagine ricorrente, tetra ed ossessiva, ed appare sia come unica possibilità di liberazione sia come l’ultima prova dinanzi a cui si deve dimostrare la saldezza magnanima dell’io. Questa disposizione d’animo cupa ed angosciata ama sfondi di un paesaggio aspri, selvaggi, tempestosi e orridi. L’io del poeta vuole intorno una natura simile a sé, in cui potersi rispecchiare.
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