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Riassunto volume "L'anglomania e l'influsso inglese in Italia nel secolo XVIII" di Graf, Sintesi del corso di Letteratura Inglese

Il file contine il riassunto dei seguenti CAPITOLI: - introduzione e biografia - congedo - capitolo III (Italiani in Inghilterra) - capitolo IV (Lingua e letteratura italiana in Inghilterra) - capitolo V (Inglesi in Italia) - capitolo VII (Parigi e Londra) - capitolo XIII (Il teatro inglese e Shakespeare) - capitolo XIV (La melanconia e i giardini inglesi)

Tipologia: Sintesi del corso

2021/2022

In vendita dal 06/06/2023

violante.19
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Scarica Riassunto volume "L'anglomania e l'influsso inglese in Italia nel secolo XVIII" di Graf e più Sintesi del corso in PDF di Letteratura Inglese solo su Docsity! INTRODUZIONE E BIOGRAFIA Pubblicato nei primi mesi del 1911 L’anglomania e l’influsso inglese in Italia nel secolo XVIII è l’ultimo lavoro di Arturo Graf. Si tratta dell’unico suo titolo a non esser mai stato ristampato, né in nuova edizione né in anastatica. Essendo un’opera insofferente ai confini e alle culture nazionali non era il libro adatto al Ventennio. Il secondo Novecento, poi, l’ha relegato sullo scaffale delle opere erudite che basta consultare in biblioteca. L’editoria accademica dell’epoca era poco orientata al saggio, era più tecnica e seriosa e uno studio impegnato e salottiero come quello di Graf non sapeva come prenderlo. All’estero venne definito anche come minor poeta del Carducci e del D’Annunzio. La misteriosa scomparsa dell’archivio di Graf presso la Biblioteca della Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università di Torino rende quasi impossibile determinare con esattezza quando l’idea dell’Anglomania abbia cominciato a prender forma. L’anglomania e l’influsso inglese in Italia nel secolo XVIII ha molte pagine dedicate anche all’italomania nell’Inghilterra del Cinquecento, o agli inglesi del Grand Tour, una ouverture su «Gallomania e gallofobia» (quindi sull’influenza inglese anche in Francia), mezzo capitolo intitolato a «Le donne inglesi», e vari excursus su scienze e filosofia, arti, industria e commercio, atteggiamenti, moda, guide di viaggio, dizionari e eserciziari per insegnar le lingue straniere, trattati di giardinaggio e libri di cucina. A occupare la scena da comprimari sono gli italiani viaggiatori oltremanica, da Magalotti a Foscolo, a Rolli, Rezzonico, Alfieri. Ma la sua simpatia va smaccata a Giuseppe Baretti. Ci prende gran gusto, Arturo Graf, a sciorinare nomi dimenticati e omonimie. E ben attento a segnalare le ironie della storia, come le contraddizioni più divertenti in cui talvolta cadono i suoi autori. Elogia le istituzioni inglesi. Tutt’altro che prive di commedia, le pagine sulla «Letteratura (e il teatro) inglese in Italia», coi molti elenchi di improbabili traduzioni e luoghi di stampa, trasmettono anche il piacere, quasi indescrivibile al profano, con cui i bibliofili sfogliano il catalogo d’una libreria antiquaria o di un’asta. L’Anglomania è lo specchio più completo dalla bibliomania di Arturo Graf. Ha tutta l’aria d’essere un libro ‘fatto in casa’, col solo ausilio della sua grande collezione. Il che spiega quell’impressione di confidenza, di consuetudine personale, come se tutti gli autori ritratti o menzionati fossero passati almeno una volta per villa Loescher. Anche la mancanza di note, e quasi completa assenza di riferimenti bibliografici, contribuisce a questo senso di familiarità, quasi per Graf si trattasse non propriamente di ‘citare’, ma di andare a prendere questo o quel libro sullo scaffale e lasciarli a parlare fra di loro. L’intenzione è conviviale, non didascalica. Quello di Graf è l’esempio di un autore che sopravvaluta le proprie opere d’invenzione rispetto a quelle storico- critiche. Nel Graf aspirarono in ogni tempo a restare uniti lo studioso, il pensatore, il poeta. Primo a riferire sull’Anglomania, ancora fresca di stampa, fu Carlo Segre, che loda la comprensività del quadro storico e letterario, ne apprezza l’orchestrazione e lo stile, che lo rendono accessibile «anche a lettori di mezzana cultura» e approva l’accento posto da Graf sull’importanza delle «istituzioni degli Inglesi». Non v’e serio studioso delle relazioni, non solo letterarie, fra Italia e Inghilterra, che non riconosca il proprio debito all’Anglomania. Arturo Graf nasce ad Atene nel 1848. Due anni più tardi la famiglia si trasferisce a Trieste dove i Graf conducono un’esistenza assai decorosa fino alla morte improvvisa del capofamiglia. La madre si trasferisce coi figli nella cittadina rumena di Braila, dove vive e lavora un fratello di lei. Arturo studia a casa con un giovane precettore, Luigi Frollo ma la passione per la lettura la scopre da solo, fra i cinquecento libri paterni in varie lingue: Robinson Crusoe, il Robinson svizzero, poi Don Chisciotte. Nel ’61, non ancora quattordicenne, esordisce con un primo volume di versi: Poesie di Filarete Franchi e l’anno dopo Le poesie di Arturo Graf. Nel 1863 Arturo torna in Italia con la madre a Napoli, nel quartiere di Santa Lucia, dove il ragazzo continua a studiare per conto proprio prendendo qualche lezione da due ecclesiastici d’opposte simpatie, padre Bilardi e l’abate Di Murro, fin troppo liberale. Nel ’67, ottenuta la licenza liceale da privatista, si iscrive alla facoltà di Giurisprudenza. Laureatosi brillantemente nel luglio del ’70, ma affatto disinteressato alla legge, dopo pochi mesi di praticantato capisce che non potrà mai fare l’avvocato. Nel maggio del ’71 torna in Romania per provarsi anche lui nel commercio con scarsa convinzione. Lì incontra Vittorio Mendl, ricco e dinamico uomo d’affari triestino d’origine ebraica che, riconoscendo subito il talento dell’amico, gli finanzia la pubblicazione di un nuovo libro di Versi. Graf torna allora in Italia, a Roma, dove pubblica un volume di Poesie e novelle. Nel ’75 ottiene la libera docenza in letteratura italiana e in letterature neolatine e nel 1876 inizia a insegnare all’università di Torino. La produzione accademica, quasi tutta pubblicata da Ermanno Loescher: Storia letteraria e comparazione, Dello spirito poetico de’ tempi nostri, Di una trattazione scientifica della storia letteraria, Studi drammatici, La leggenda del paradiso terrestre, Medusa, Roma nella memoria e nelle immaginazioni del Medio. Collabora per sette anni con il «Giornale storico» affrontando anche questioni di metodo e filosofia. Nel 1910 cessa l’insegnamento. Trascorre gli ultimi anni di vita tra la palazzina in Corso Duca di Genova e villa Loescher con la sua grande biblioteca che lascerà per testamento alla Biblioteca della Facoltà di Filosofia e Lettere dell’Università di Torino. Muore nel maggio del 1913. Ad accezione dell’Anglomania quasi tutte le opere di critica e erudizione di Arturo Graf sono state ristampate nella prima metà del Novecento dalla Giovanni Chiantore. CONGEDO I due autori hanno messo tutti in ordine alfabetico senza usare il computer. I nomi degli autori, e provenienza ed esattezza delle citazioni e dei rimandi impliciti, sono stati tutti controllati in rete. Duplice funzione: quella, diretta, di approntare uno strumento di consultazione, e quella di setacciare il testo alla ricerca sistematica di eventuali errori di composizione, refusi, citazioni approssimative, e sviste o confusioni dello stesso Graf. Tutte le pagine dei libri che hanno fatto l’Anglomania si trovano nella ‘Biblioteca di storia delle scienze Carlo Vigano’, più completa del genere in Italia. Se anche, nel corso del lavoro all’Anglomania, Graf avrà fatto affidamento quasi esclusivamente sulla sua biblioteca personale, non è difficile immaginare la curiosità, poi quasi la frenesia, con cui avrebbe scorso gli scaffali della ‘Vigano’. Dove – accanto a prime edizioni e opere complete dei suoi autori più citati (Magalotti, Mascheroni, Algarotti, Zanotti, Conti, Cocchi, Redi, Boscovich) l’occhio gli sarebbe caduto su pubblicazioni più inconsuete. Graf conservò per tutta la vita un irresistibile bisogno di spaziare con versatilità straordinaria nei campi più diversi della coltura e dell’arte, della poesia, della musica, ma altresì delle scienze come la matematica e l’astronomia. CAPITOLO III - ITALIANI IN INGHILTERRA Degl’Italiani che si recarono in Inghilterra nel secolo XV, meritano particolare ricordo alcuni umanisti. Poggio Bracciolini vi dimoro due anni, dal 1420 al 1422. Vi si recò poi Enea Silvio Piccolomini, dal quale apprendiamo che il duca di Gloucester aveva chiamati dall’Italia maestri di lettere. Più numerosi furono gl’Italiani in Inghilterra nel secolo XVI: prelati, medici, musici, scultori, ministri, un esempio è Giordano Bruno. Gli ambasciatori veneti informavano la Repubblica degli avvenimenti politici e dei costumi del paese, e alcuni viaggiatori ne informavano la rimanente Italia. Di questi due secoli ricorda il libro di Lewis Einstein, The Italian Renaissance in England, pubblicato a Londra nel 1902. Durante il secolo XVII la frequenza degli Italiani in Inghilterra diminuisce. Gian Francesco Biondi abbraccio la religione riformata, godette il favore di Giacomo I, che lo fece suo gentiluomo di camera e cavaliere. Col secolo XVIII comincia nuova affluenza d’Italiani in Inghilterra. Ed ecco abbiamo, per prima cosa, i pellegrinaggi dei cultori delle lettere e delle scienze, presi al grido di quelle civili usanze e di quella cultura. Nel nuovo forestieri hanno d’essere introdotti nelle case, molto maggiore in Londra che in Parigi; ma dice anche che lo stare in Londra gli era assai più caro che lo stare in Parigi e biasima l’ospitalità ancor minore. CAPITOLO XIII - IL TEATRO INGLESE E SHAKESPEARE Quando si pensi al plauso che nell’Italia del Settecento riscosse il teatro francese, alla invidia che vi destò, alla imitazione che se ne fece, e che il primato non gli fu conteso pressoché da nessuno si comprende che il teatro inglese, tanto men conosciuto di quello, non potesse incontrarvi egual sorte. Solo dopo che una più rigida coscienza religiosa e morale ebbe dato in Inghilterra nuovo indirizzo e nuovi spiriti alla commedia, e l’orgoglio borghese, ribellatosi a quella che noi chiamammo tragedia reale, volle una tragedia sua, fatta de’ suoi casi e vizi e virtù, solo allora la nuova drammatica prese piede, e per poco non cacciò dalle scene l’antica. Commedia lagrimosa, tenera, appassionata, interessante; tragedia urbana, cittadinesca, domestica: tali furono le denominazioni usate in Italia e venuteci, la più parte, di Francia: donde ci venne anche l’uso di chiamare dramma, senz’altro, cosi quella tragedia come quella commedia, senza che bastasse a impedirlo l’altr’uso, già invalso presso di noi, di chiamar dramma il melodramma. Anche in fatto di drammatica l’Inghilterra ci dava parecchio del suo; ma noi pure le avevam dato parecchio del nostro. Le avevamo dato, tra l’altro, pulcinella che rubava talora gli uditori ai frequentatori alle chiese. Dell’influsso esercitato dalla nostra commedia, sia regolata, sia improvvisa, e un pochino anche dalla nostra tragedia, sul teatro inglese dell’età che prende nome da Elisabetta, gl’Italiani del secolo XVIII sanno poco nulla. Il teatro italiano imitava quello francese e l’opera di Shakespeare dovette vincere avversioni e paure per penetrare nel nostro paese. Questo avvenne tardi perché il poeta aveva anche nella stessa sua patria contro di sé i classicisti. I primi Italiani ch’ebbero conoscenza del teatro dello Shakespeare, furono Italiani che in Inghilterra stessa l’attinsero: Magalotti, Conti, Rolli disse che lo Shakespeare fu tra gl’Inglesi il primo a felicemente adoperare il verso sciolto. In Francia più particolarmente imparo Luigi Riccoboni a detestare la violenza e l’atrocità che certo nelle tragedie dello Shakespeare non scarseggiano. Baretti pone i drammi del poeta inglese al disopra dei più vantati capolavori del teatro francese. Dai preconcetti e dai giudizi del Voltaire ci si andava disviluppando, ma con molta e penosa lentezza, e rinviluppamenti parecchi. Cio che v’e buono nelle tragedie dello Shakespeare pare assai buono perché in mezzo a molto cattivo. Né mancarono, come non erano mancati in Francia e in Germania, gl’imitatori: Monti, Foscolo, Verri. Il trionfo del tragico inglese sta per divenire perfetto anche in Italia quando il Manzoni si pone a scrivere tragedie. CAPITOLO XIV - LA MELANCONIA E I GIARDINI INGLESI L’Inghilterra non e la patria della melanconia che è cittadina del mondo. Ma l’Inghilterra e il paese dove la melanconia vesti le forme tipiche dello spleen. La sensibilità dispone alla melanconia, e la fa nascere, porgendone le cagioni e le occasioni; ma è anche fonte di poesia. Il paese dove più prospero la sensibilità fu la Francia: Voltaire, Rousseau. Dalla Francia si propago la sensibilità nella rimanente Europa. Circa il 1770, si penso in Germania a fondare una società segreta della sensibilità. In Italia fu subito accolta, come cosa che veniva di Francia. Dall’Inghilterra si diffuse questa melanconia per l’Europa, una melanconia sensitiva, tenera, poetica nel secolo XVIII, uno dei secoli più felici della storia. Per tutta la seconda metà del secolo la moda andò aumentando. Non tutti i poeti amanti della natura furono melanconici; ma tutti i poeti melanconici furono amanti della natura, compreso il Leopardi. La melanconia amerà il giardino inglese, poiché solo in esso potrà trovare una natura non troppo manomessa dall’arte, e altre cose di suo gusto, come una tomba, una capanna, un eremo, una rovina. Il giardino inglese e, come ognuno sa, il contrapposto del giardino francese; del giardino che fu ridotto a perfezione sotto Luigi XIV; ove tutto e regolare, assettato, assegnato, geometrico e decoroso. Il giardino inglese è un prodotto dell’individualismo e della libertà inglese. Parecchi nostri avevano potuto ammirare i giardini inglesi in Inghilterra stessa: Martinelli, Baretti. Cominciata l’infatuazione per la Cina, vi fu subito in Francia chi penso che i giardini inglesi fossero d’origine cinese, e si parlo di goût anglo-chinois. Ma il merito va riconosciuto agli inglesi che imitarono la natura. Come altrove, cosi anche in Italia il nuovo gusto e la nuova moda andarono di pari coi progressi del romanticismo.
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