Docsity
Docsity

Prepara i tuoi esami
Prepara i tuoi esami

Studia grazie alle numerose risorse presenti su Docsity


Ottieni i punti per scaricare
Ottieni i punti per scaricare

Guadagna punti aiutando altri studenti oppure acquistali con un piano Premium


Guide e consigli
Guide e consigli

Riassunto «World History. Le nuove rotte della storia» Di Fiore, Meriggi, Sintesi del corso di Storia Contemporanea

Riassunto per l'esame di Didattica della Storia (30L)

Tipologia: Sintesi del corso

2020/2021
In offerta
30 Punti
Discount

Offerta a tempo limitato


Caricato il 31/05/2021

mgmmgm100
mgmmgm100 🇮🇹

4.6

(69)

9 documenti

1 / 38

Toggle sidebar
Discount

In offerta

Spesso scaricati insieme


Documenti correlati


Anteprima parziale del testo

Scarica Riassunto «World History. Le nuove rotte della storia» Di Fiore, Meriggi e più Sintesi del corso in PDF di Storia Contemporanea solo su Docsity! RIASSUNTO “WORLD HISTORY” 1. Dalla storia universale alla «world history» L’obiettivo di scrivere una storia quanto più possibile universale è presente sin dai tempi di Erodoto, che ricostruì una cronologia degli eventi mondiali (tre continenti conosciuti) per preservare la memoria ad uso dei posteri, lontano dalla prospettiva geocentrica di Tucidide. Erodoto dedicò infatti ampio spazio a costumi e religioni dei barbari, producendo un lavoro insuperato a giudizio di alcuni sino ai primi lavori di Voltaire. La rivoluzione storiografia cristiana introdusse una nuova concezione della storia: uno svolgimento lineare, iniziato dalla reincarnazione di Dio in Cristo e con il termine stabilito nella seconda venuta di Cristo. Tale impostazione, basata su una cornice giudico-cristiana, sopravvive anche nel Medioevo attraverso le cronache, introdotte solitamente da una ripresa della storia biblica e in cui erano presenti (senza ulteriori analisi) anche accenni a civiltà extra-europee. I limiti della storiografia medievale si ritrovano anche nelle tradizioni storiografiche cinesi e islamiche. In quella cinese ad esempio le storie dinastiche riproducevano sostanzialmente una prospettiva sinocentrica, intimamente connesse alla struttura imperiale: la primazia cinese si inseriva in un modello gerarchico, in cui il paese ne ricopriva il vertice in virtù della superiorità del suo modello culturale cinese. Similmente la storiografia musulmana tendeva a riprodurre la stessa configurazione, grazie alle aspirazioni universalistiche dell’Islam (nonché all’intrinseca fiducia sulla sua superiorità) e all’estensione della comunità musulmana. Le principali storie ecumeniche di matrice musulmana sono quelle di Rashid Al-Din e Ibn Khaldun, tra XIII e XV secolo, in cui sono presenti anche discreti riferimento alle società asiatiche e africane, oltre all’Europa Occidentale. La storiografia universale in Europa durante il ‘500 deve confrontarsi con la scoperta del Nuovo Mondo, che impone l’inclusione di quelle civiltà fino ad allora sconosciute nell’ecumene. L’unità tra sacro e profano, rappresentata dalle cronache, comincia a dissolversi, assieme alla storia universale tradizione, e tra XVI e XVII secolo fanno la loro comparsa storie che cercano di prescindere dal racconto della genesi. Uno di questi esempi è l’opera di Jean Bodin, che identificò le forze unificanti della storia umana nella dimensione mondana delle relazioni commerciali tra differenti regioni del mondo (repubblica mundana e ius gentium). La storia universale tradizionale non scompare comunque del tutto: nel Discours sur l’histoire universelle del 1681 di Jacques Benigne Bossuet, vescovo di Meaux, la storia si apriva con la Creazione, raggiungeva il suo punto nodale nella nascita di Cristo e svolgendosi in sette epoche arrivava fino al Giudizio Universale. La storia di Bossuet, fortemente eurocentrica, era quindi dominata dal provvidenzialismo, divergendo da Sant’Agostino per riconoscere la sede della Città di Dio sulla terra, grazie ad un processo di spiritualizzazione. La vera svolta per quanto riguarda le storie universali si avrà nel XVIII secolo con Voltaire, che nel suo Essai sur le moeurs et l’esprit des nations, discostandosi dalla storia clericale provvidenzialistica e alla narrativa degli storici di corte allargava l’ecumene fino alla civiltà cinese, indiana e islamica. La concezione illuministica della storia, da lui rappresentata, era sostanzialmente una storia del progresso, quindi della «trasformazione di un’umanità potenzialmente razionale in un’umanità effettivamente razionale». La storia diventa quindi storia dell’emancipazione della ragione umana dall’errore, conseguendo sempre più elevati livelli di civiltà: l’incivilimento diveniva quindi in sostanza il principio unificatore dell’intera umanità. In realtà la filosofia della stria illuministica condivide l’impianto teleologico della storia sacra, regolato da leggi e dinamiche ben determinate: inoltre la creazione di una “gerarchia delle civiltà”, ergendo il razionalismo come criterio di valutazione, finiva con il postulare l’inferiorità della cultura europea, relegando quindi le diverse esperienze ad un minore grado di sviluppo. L’Illuminismo ebbe però l’effetto positivo di ispirare una nuova concezione universalistica della storia, come quella portata avanti dagli illuministi scozzesi e inglesi (Hume, Gibbons, Ferguson) e testimoniata da opere collettive come la Universal history from the earliest account of time to the present (1736-1765). La universal history Inglese fu ripresa da un gruppo di intellettuali tedeschi gravitanti attorno all’Università di Gottinga, come Johann Christoph Gatterer e August Ludwig Schlözer, promotori di un tipo di storia universale che considerasse anche gli aspetti culturali e antropologici oltre a quelli puramente militari e diplomatici. La scuola di Gottinga si differenziava dai philosophes francesi per il rifiuto dell’idea di un telos immanente al divenire storico (razionalità umana). Questo rifiuto fu sottoscritto anche dallo storicismo delle origini, rappresentato da Johann Gottfried Herder. In quest’ultimo la natura umana unica e universale era pensata come multiforme e dinamica, in cui ogni espressione aveva pari dignità e perfezione. Ogni popolo, in ogni epoca, rappresentava quindi un unicum valido, e non un semplice stadio evolutivo, refutando lo schema concentrava sulla diffusione transregionale delle malattie e sugli effetti su sistemi politici, culturali ed economici. In quegli anni si va definendo una world History parallela, animata da personaggi come Immanuel Wallerstein, in accesa polemica con le teorie della modernizzazione, queste ultime incentrate sull’idea che tutte le »società nazionali» si sviluppassero secondo un comune paradigma ma con ritmi diversi. Ancora una volta, dietro il concetto di «sviluppo» e «teoria degli stadi» veniva ripresa l’idea di un’Occidente in posizione di superiorità e di “guida” per i paesi meno sviluppati (Europa modello per i paesi ex coloniali). Il punto di partenza per la polemica con queste teorie fu la formulazione della «teoria della dipendenza» per l’America Latina: a partire dal lavoro di Raul Prebisch ed altri economisti della “Commissione Economica U.N. per l’America Latina”, che avevano introdotto l’idea del commercio internazionale in termini di scambio ineguale tra un”centro” e una “periferia”, i decostruttori delle teorie della dipendenza accusarono le politiche economiche U.N. di aver prodotto la crisi economica nel continente latino-americano. Il sottosviluppo era quindi il risultato dell’inclusione del terzo mondo nell’economia-mondo capitalistica, tradottesi in forme di sfruttamento. Andre Gunder Frank coniò relativamente a quest’ultimo punto la definizione “sviluppo del sottosviluppo”. Le teorie di Wallerstein si basavano su alcune formule ricavate dalla lezione di Braudel, tra cui quella di economia-mondo. Quella che si andò formando nel XVI secolo era appunto un’economia-mondo capitalistica: vi era una divisione internazionale del lavoro tra processi produttivi centrali e processi produttivi periferici, con una forte concorrenza degli Stati centrali per lo sfruttamento delle risorse della periferia e la mediazione di alcune aree come semi- periferie. Questo sistema-mondo moderno introdusse un nuovo paradigma per la storia del mondo: in questo veniva riconosciuto il ruolo dei cicli economici a lungo termine, abbandonando la categoria dello Stato Nazionale con appunto quella di sistema-mondo, un «ambito spaziale/temporale che taglia trasversalmente molte unità politiche e culturali, rappresentando un’area integrata di attività e istituzioni che obbediscono ad alcune regole sistemiche». I fautori della new world history hanno però preso le distanze da Wallerstein, pur riprendendone in certa parte l’impianto basato su processi di lungo periodo e sulla categoria d’analisi complessiva del sistema-mondo. Il dubbio fondamentale dei world historians americani sui lavori basati sul sistema-mondo era il focus sugli aspetti politico-economici delle relazioni storiche e alla permanenza di una prospettiva occidente-centrica. Pur lontano dall’etnocentrismo dei teorici della modernizzazione, la world-system analysis tende a negare l’agency dei popoli non-occidentali, quindi la loro capacità di essere soggetti attivi nei rapporti con gli Stati del centro. I propositi dei world historians vanno proprio nella direzione opposta, cioè nel valorizzare il ruolo di risposta, che sia di collaborazione o di resistenza, dei paesi non-occidentali e la loro capacità di creare una propria esperienza storica. Jerry Bentley è uno dei primi a formalizzare la World History come ambito storiografico autonomo. Nel 1982 viene fondata la World History Association (WHA), legata al suo nome, e nel 1990 egli lancia la relativa rivista «Journal of World History», sin da subito principale organo di discussione sulla nuova prospettiva. Dall’WHA sono germinate associazioni regionali affiliate, distinguendosi nella promozione di una serie di conferenze internazionali e di concorsi annuali per premiare il miglior lavoro di World History dell’anno precedente. La professionalizzazione negli USA della disciplina ha però dovuto fronteggiare uno a anni recenti molte resistenze sia in ambito accademico che politico: in quest’ultimo, specie da parte conservatrice, vi era il amore di una prospettiva storiografica multiculturale, capace di minare il patriottismo americano e il patrimonio storico occidentale. Nonostanet questo organi come la WHA hanno ottenuto il riconoscimento dell’American Historical Association, spegnatasi a pubblicare sin dal 1995 pamphlet su temi di storia mondiale. Sempre in ambito anglosassone, di notevole interesse è il «Journal of Global History» edito dal 2006 dalla LSE, che coordina un Global Economic History Network, focalizzato su un’analisi storiografica dei fattori economici e della vita materiale. Detto questo, l’interesse per la disciplina si è diffuso anche al di fuori dei territori angloamericani, sia in Europa che in alcuni paesi asiatici. La World History, o «storia trans-nazionale» (storia del mondo è troppo totalizzante), è una «storia delle connessioni all’interno della comunità umana globale», focalizzata quindi su quei processi di interazione di vario genere, quindi sul movimento, tra diversi gruppi regionali nel corso del divenire storico. La disciplina quindi trascende lo Stato-Nazione con una prospettiva regionale, sostituendo territori istituzionalmente delimitati con reti più ampie costruite da una pluralità di nodi. Lo spazio d’analisi non riguarda in toto il globo, ma nuove categorie spaziali trasversali alle entità politiche, riprendendo concetti come quello di “produzione dello spazio” e storicizzando appunto entità politiche tradizionalmente ben definite (gli Stati) come il prodotto dell’azione di soggetti storici. Un altro tipo di storiografia che contempla una prospettiva sovranazionale è la «Global History», differente dalla World History per concentrarsi sulla storia della globalizzazione e non delle civiltà, oltre a prendere le mosse direttamente dal presente. Su quest’ultimo punto, la Global History trae ispirazione dai processi di integrazione planetaria dalla fine degli anni ’90: essa muove quindi dal presente all’indietro, rintracciando nel passato solo quanto appare utile. Molti reputano al differenza tra World e Global History solo una sfumatura di significato, altri che la seconda sia concentri di più sull’interdipendenza dei processi storici globali o sugli aspetti economici e materiali di questa esperienza. In ogni caso World, Global e Trans-national History nascono per superare l’etnocentrismo storiografico e la categoria Din Stato-Nazione. L’obiettivo della World History è quello di superare concetti come il “miracolo europeo” o “l’eccezionalismo americano”, quindi la centralità dell’Occidente, in favore di una storia policentrica capace di registrare i singoli apporti all’ecumene globalizzata, oltre che all’appropriazione o resistenza della modernità europea al di fuori del continente. La prospettiva olistica poi è stata abbandonata in favore di un approccio meno generalizzato, privilegiando i grandi temi e processi di grande respiro in ampi quadri di riferimento (trans-regionali, continentali, etc). Uno dei principali percorsi della World History è quello degli area studies, nato in ambienti americani dall’esigenza di analizzare regioni tradizionalmente estromesse dall’accademia occidentale. L’introduzione di programmi di studio, supportati in origine dal governo americano, relativi a particolari regioni del mondo ha avuto un grosso impatto sull’accademia anglosassone, arricchendo la conoscenza su molti aspetti economici, politici e sociali di quei luoghi. Benchè il rapporto tra World History e area studies non sia ben definito, l’ultima disciplina ha apportato interessanti contributi alla prima. Ciò che lega queste discipline è più di quello che li allontana, in primo luogo l’obiettivo di scardinare le narrative eurocentrate. Il nodo principale degli studi d’area è l’assunto di una differenza radicale, in termini di istituzioni politiche e culturali, tra Asia ed Europa, tale da giustificare le differenze di sviluppo economico. Ad esempio, i lavori di Bin Wong e Kenneth Pomeranz hanno fornito un quadro della Cina del XVIII secolo diverso da quello della storiografia tradizionale: un paese protagonista di grandi riorganizzazioni dei modelli di lavoro e consumo, paragonabile all’Europa coeva relativamente al ruolo del mercato. Il progressivo divario tra Europa e Cina iniziato nel XIX secolo va quindi analizzato alla luce di questa persone e dallo scambio di conoscenze e documenti. L’«histoire connectée» dell’autore, svolta in una cornice imperiale, mette assieme connessioni tra storie a lungo tenute separate, in quanto coincidenti con determinate aree politiche e culturali, tracciando l’origine di quegli oggetti meticci nel solco di una prima globalizzazione non-europea. La cornice imperiale diventa così il luogo di studio privilegiato degli incontri inter-culturali: Tony Ballantine e Antoinette Burton, partendo dalla categoria analitica di »corpo», inteso come zona di contatto, ricostruiscono il ruolo di mediatrici culturali svolto dalle donne meticce nella Green Bay (Michigan) ottocentesca, o il valore comunicativo dei tatuaggi femminili tra le donne del Mozambico meridionale di fine Ottocento e gli europei. La prospettiva transatlantica è proprio anche della cosiddetta «nuova talassologia», teso a valorizzare alcune regioni marittime come unità di analisi autonoma: l’oceano diventa quindi spazio di transito e circolazione di persone, ben e culture. Il mondo atlantico del XVII e XVIII secolo, caratterizzato da una fase di resistenza ma anche collaborazione alla conquista, si contraddistinse per una costruzione condivisa di nuovi modelli culturali, con un ruolo particolare assegnato alle donne per via del loro ruolo biologico ma anche e soprattutto sociale. Un ruolo centrale spetta al concetto di »creolizzazione», e quindi di «creolo» come una sorta di «cultural broker», individuo poliglotta e polietnico in grado di muoversi in qualità di mediatore tra contesti culturali differenti. Si capisce quindi che la contaminazione è un concetto fondamentale in quella che è stata chiamata »entagled history», come quella propria di alcuni imperi come quello spagnolo e britannico, talmente aggrovigliati e interconnessi sotto ogni punto di vistar da quello giurisdizionale a quello culturale, da comporre un’unica comunità emisferica. Eliga Gould, portando un esempio, ha dimostrato la capacità di schiavi e nativi nel manipolare a loro vantaggi le ambiguità legate ai giochi incrociati e alla sovrapposizione tra le strutture imperiali di GB e Spagna. Ancora, relativamente alla colonizzazione del nuovo mondo da parte di queste due potenze, Jorge Canizares Esguerra ha dimostrato come le codificazioni dei rituali aztechi da parte dei missionari in Messico tra XVI e XVII secolo, che individuavano in questi il popolo eletto di Satana, furono estese all’intera popolazione nativa amerindia negli scritti del teologo John Mede. Queste tesi condizionarono poi i puritani del New England, condizionandone l’autopercezione e il modo di relazionarsi ai territori colonizzati. Nella prospettiva transazionale della World History assume inevitabilmente una posizione privilegiata l’analisi dei fenomeni migratori, quindi del movimento delle persone in una spazialità non convenzionale e l’impatto di tale movimento. Si crea così un approccio mondiale alla storia delle migrazioni, finalizzato a superare l’orizzonte ristretto che implica il focus sull’impatto della migrazione nei soli paesi di origine e di destinazione. Uno dei fondatori di questa corrente è Phlilip Curtis, a cui si deve l’introduzione della storia africana all’interno delle dinamiche mondiali: con il suo The Atlantic Slave egli rilanciò il dibattito sul numero degli africani che attraversarono in catene l’Atlantico tra il XVI e XIX secolo, analizzando nostre la funzione svolta dalla tratta degli schiavi in relazione all’integrazione del nuovo mondo oceanico. Non è un caso che il concetto analitico di spazio atlantico sia nato proprio in relazione al commercio transoceanico di schiavi, ovvero all’analisi dei movimenti e l’impatto sui diversi scenari della regione atlantica. La tratta degli schiavi fu quindi un potente fattore di integrazione della regione atlantica, per cui urgeva una prospettiva non schematica capace di rilevare le interdipendenze tra i vari attori. È il cosiddetto «black atlantic», coniato da Paul Gilroy in contrapposizione polemica con concezioni eurocentriche, sottolineando il ruolo attivo degli africani nel business intercontinentale della tratta. Ad essere indagati, a partire dalla contestazione dell’immagine degli africani come semplici vittime del sistema schiavistico, sono stati i processi concorrenti alla creazione di una comunità atlantica, sia dalla prospettiva del Nuovo Mondo sia dell’impatto sull’Africa dato dalla partecipazione al mercato internazionale, oltre ai rapporti fra le élite delle Slave Coast africana e le controparti occidentali. La schiavitù, non solo africana è in generale di grande interesse per la world history, in quanto simbolo ddi scambio (forzato) interculturale e di ibridazione. Oltre a quella atlantica abbiamo anche la rotta trans-sahariana, dove ben otto secoli prima della tratta atlantica molti africani (pari al numero di quelli della rotta atlantica) fu condotto in schiavitù attraverso il deserto fino alla Valle del Nilo e al Mar Rosso, raggiungendo per mare poi l’India. La tratta, ben più longeva e egualmente consistente, sopravvisse anche alla tratta transatlantica, e nel XIX secolo componeva 2/3 del valore dell’intero commercio carovaniero. La World History ovviamente si è interessata anche di movimenti diversi, come quelli di lavoratori, soldati e missionari. Di particolare interesse sono state le «diaspore commerciali», cioè le comunità di mercanti organizzate su varie basi (familiare, etnica, fiduciaria) per sostenere il network trans-regionale e gli scambi su lunga distanza. Tali comunità furono di certo ridotte delle grandi imprese capitalistiche, ma continuarono a svolgere la loro funzione in alcune società fino al XIX secolo: è il caso dei mercanti armeni nell’Impero Ottomano, India e Iran, degli ebrei sefarditi lungo le coste portoghesi, dei cinesi in Indonesia. Queste comunità erano in grado di muoversi agevolmente tra due culture: i maltesi, ad esempio, riuscivano muoversi tra territori asburgici e ottomani grazie alla loro comprensione della cultura cristiana e della lingua semitica. Relativamente ai soldati, trascurati dalla storia delle migrazioni, basti pensare che gran parte di loro erano allocati nelle colonie, svolgendo un ruolo centrale nei processi di insediamento e di empire building (movimento tra libertà e coercizione). La storia delle migrazioni è importante perchè riesce a connettere il livello locale con quello globale, consentendo non solo l’analisi dell’impatto sui luoghi d’origine e di arrivo, ma coglie anche le dinamiche globali messe in moto dal movimento delle persona nello spazio. Il nesso locale-globale è spesso problematico, come nel caso delle «diaspore» africana, cinese e indiana, rendendo appunto difficile riunire queste ultime, molto diverse tra di loro, nel più ampio contesto delle migrazioni. Nel caso indiano si è parlato di un popolo trans-nazionale, e non di una minoranza etnica locale, in virtù della sere di connessioni locali e globali che lo rende molto attaccato alla propria appartenenza religiosa e nazionale. La storia delle migrazioni prende solitamente in considerazione il XIX e il XX secolo, quindi il periodo delle grandi migrazioni di massa ottocentesche. Alcuni studi hanno però messo in dubbio questa periodizzazione, basata sull’assunto che solo la modernità ottocentesca abbia permesso la liberazione del movimento e l’emancipazione dal luogo di nascita, in un contesto molto industrializzato e che offriva quindi un buon livello tecnologico dei trasporti. Storici della prima età moderna come Charles Tilly hanno ricostruito un’immagine dell’Europa molto meno statica, già attraversata da una notevole mobilità geografica, dimostrando come la società europea dei secoli XVI-XVIII fosse tutt’altro che immobile.Ovviamente non solo l’Europa, ma anche il resto del mondo fu coinvolto in questo fenomeno: si pensi al commercio trans-pacifico, iniziato con la fondazione di Manila nel 157, contribuendo ad un network di contatti tra Filippine, America Spagnola ed Estremo Oriente: ciò avvenne sia grazie alla diaspora asiatica nel Nuovo Mondo, ma anche al movimento opposto di soldati e missionari verso l’Asia. La World History è per certi versi il portato della riflessione storiografica sulla globalizzazione degli anni ’90. Questo campo era prima appannaggio dei soli sistema mondo integrato nell’orbita afroeuroasiatica, continuò a percepirsi come altrettanto rilevante ed economicamente competitiva anche nei secoli XVII e XVIII. In quel periodo si va infatti costituendo una rete simil-westfaliana di Stati monarchici ad opera dei sovrani musulmani, integrato nel network di scambio europeo. Tale sistema fu poi sovvertito con l’imperialismo occidentale nel XIX secolo, che integrò violentemente i soggetti di una partnership potenziale in un sistema imperiale egemonico. Questo fenomeno di integrazione è stato poi riletto alla luce dei network esistenti tra aree extraeuropee ancor prima dell’arrivo degli europei: ad esempio la storia dei flussi migratori cinesi verso il Sud-Est Asiatico sin dal XII secolo, i contatti tra la Cina, il Giappone e il Sud-Est nella prima metà del Quattrocento e poi verso la fine del Settecento. Insomma, per la Cina in particolare è possibile ricostruire dei modelli di interconnessione premoderni, con processi per certi versi simili alla proto-globalizzazione europea. Per quanto riguarda l’integrazione africana, si ha differenziazione tra zone interne e zone costiere: le prime non riuscirono ad acquisire un ruolo dominante nel commercio globale, nonostante le esportazioni d’oro e il commercio di schiavi; le seconde invece, a partire dal XVII secolo, attraverso le proprie elites dominanti e al commercio transatlantico di schiavi da esse controllato, si resero protagoniste di una proto-globalizzazione reattiva. Questi esempi ci dimostrano perciò l’esistenza di una globalizzazione premoderna, non eurocentrica, con diversi protagonisti e diverse dinamiche, che conservò una certa autonomia anche dopo l’introduzione di modelli e pratiche occidentali. Ad esempio, nel caso islamico questa introduzione produsse sicuramente l’adozione da parte delle potenze d’area per entrare nel nuovo sistema mondiale, a cui si affiancò però un nuovo discorso musulmano globale, basato sulla validità dell’universalismo islamico anche nella nuova cornice moderna. Nel caso cinese, lo sforzo dei comunisti di assimilare le strutture istituzionali al modello dello Stato-Nazione europeo si è basato sul recupero di filosofie e religioni tradizionali per concettualizzare la nuova identità nazionale. Ancora, il tribalismo africano, visto spesso come ostacolo alla modernizzazione, può essere reinterpretato come un processo moderno, assimilabile ai nazionalismi europei: in altre parole, l’eticità tribalizzata in Africa fu un’acquisizione moderna, derivata dall’incontro con lo Stato coloniale e destinata a collidere con le forme di cittadinanza statale. Tutti questi casi rivelano modi peculiari di sussumere il nazionalismo moderno, di matrice europea, nel sostrato locale: questo processo, ben distante quindi da presunte omogeneizzazioni, costruiscono una dialettica definita come «glocalizzazione», ovvero un’intersezione tra globale e locale. La World History deve porsi quindi tra questi due estremi, tra le tentazioni totalizzanti e le frammentazioni locali, nel tentativo di cogliere gli aspetti comuni e le adeguazioni dei vari modelli: è in sostanza l’analisi di ciò che ci accomuna, ma anche di ciò che ci differenzia. Alcuni hanno definito la World History come una «nuova teleologia» nell’ambito di una modernità globale. In effetti gli studi sulla globalizzazione sono nati proprio sulla base della percezione di uno “stacco” tra la modernità e il passato, con la nascita di nuove categorie. Questa visione unitaria di modernità è stata poi messa in discussione negli ultimi decenni del ‘900, sottolineando l’esistenza di «modernità multiple», scostandosi quindi dal tracciato occidentale in una logica che tiene conto della sopravvivenza di soggettività locali nel processo di omogeneizzazione alla modernità politica e capitalistica. Si è parlato poi di «modernità perdute», cioè di tratti ascritti esclusivamente alla tradizione occidentale ma in realtà presente anche in civiltà extraeuropee: si parli ad esempio al reclutamento di una burocrazia specializzata in Cina, oltre all’adozione di politiche di welfare nella stessa e in Corea e Vietnam. La «environmental history» e la «big history», pur basate su due prospettive diverse, si basano sul focus tematico della World History. La storia ambientale è l’analisi dell’interrelazione tra mondo umano e mondo naturale, in cui quest’ultimo perde il carattere di passività per porsi con la comunità umana in una relazione dinamica. La consapevolezza di fondo è l’impossibilità di analizzare le vicende dell’essere umano in modo separato dall’ambiente fisico, sottolineando l’apparenza della specie umana ad una «community of Life», dove biosfera e umanità evolvono assieme in una dimensione cronologica di ampio respiro (dai cacciatori-raccoglitori alla società post-industriale). La storia ambientale ha un carattere fortemente interdisciplinare, sedendosi di discipline estranee alla storia come la biologia molecolare, l’archeologia, la geologia, la paleobotanica, l’epidemiologia, etc. La dimensione spaziale in cui opera è spiccatamente trans-regionale, non istituzionale e quindi non basata su criteri politici e socio-economici tradizionale. Per quanto riguarda la dimensione temporale, la storia ambientale è debitrice della teorizzazione braudeliana del tempo della «storia quasi immobile», scandita da un «tempo storico» connesso alle società e agli individui, differente dal «tempo naturale» che scandisce la storia naturale. Le origini della storia ambientale risalgono agli anni ’60 e ’70: le basi furono poste negli anni dopo la guerra mondiale, con il passaggio dalle istanze di conservazione (Project Conservation Movement) alla protezione attiva dell’ambiente. Nonostante il contributo della “geostoria” di Braudel, relativa all’analisi del rapporto tra uomini e ambiente naturale, il processo di istituzionalizzazione della storia ambientale fu avviato nel 1976 dall’American Society for Environmental History. Pioniere della storia ambientale fu Alfred Crosby, che con il suo Columbian Exchange del 1972, leggendo l’incontro tra Vecchio e Nuovo Mondo in termine di movimento bidirezionale di specie vegetali e animali, offrì un’analisi di fenomeni ecologici e biologici nello spazio atlantico. Nello studio di questa «omogeneizzazione biologica» Crosby adottò un approccio multidisciplinare, spaziando dall’antropologia alla zoologia alla botanica. La storia ambientale si è svolta seconda tre direttrici. Il primo filone di studi è focalizzato sull’influenza dei diversi fattori ambientali e climatici sull’evoluzione della storia umana, ad esempio le variazioni del livello del mare e l’attività vulcanica. Un lavoro esemplificativo in tal senso è Armi, acciaio e malattie. Storia del mondo negli ultimi tredicimila anni (1997) di Jared Diamond, che ha avanzato un’interpretazione di matrice geografica e biologica alla base della supremazia occidentale. Diamond ha sostenuto che la schiacciante superiorità dell’impero Spagnola sull’impero inca, molto più vasto, fu dovuto essenzialmente al livello tecnologico e militare spagnolo, nonché all’immunità alle malattie portate dagli invasori. Sempre secondo Diamond, l’accumulo di un surplus alimentare ha permesso la nascita di elites non produttive e di società «economicamente complesse, socialmente stratificate e politicamente centralizzate», dando inizio allo sviluppo tecnologico. Ancora, lo sviluppo dell’agricoltura in Eurasia, step fondamentale della storia umana, fu dovuto semplicemente alla distribuzione geografica di piante e animali dimenticabili. Questo approccio alla storia ambientale è stato tacciato di determinismo ambientale. Ne Il Miracolo Europeo Eric Jones si interroga sul sorpasso occidentale su società tecnologicamente più progredite come quella cinese. L’autore indica la ragione nella struttura topografica europea, con feritili pianure circondate da barriere naturali, che favorito la nascita degli Stati-Nazione, oltre alla peculiare e complementare distribuzione di risorse che ha favorito l’economia di mercato. Il sistema di Stati europei, argomenta, a differenza della Cina imperiale, dell’India Moghul o dell’Impero ottomano, prevalentemente «economie di spoliazione», in virtù di una sua endogena componente competitiva stimolò offerte di servizi e garanzie, molte dei quali volte a rimuovere il rischio, capaci di conservare e massimizzare il profitto. La dimensione economica ed ecologica sono l’autore non c’è il rischio di sconfinare nella storia naturale, poiché l’impianto è funzionale alla conoscenza delle vicende storiche umane. A differenza della storia ambientale, la big history dilata il tempo storico fino al massimo consentito, ammantandosi di una pretesa olistica estranea alla prima. Appare quasi come una riproposizione della storia universale di matrice religiosa, poiché presenta il rischio di sussumere le storie minori all’interno di una temporalità di carattere teleologico, quasi come un moderno mito della creazione. Al di là delle critiche rivolte per la tendenza al massiccio uso di fonti secondarie e alla riduzione della storia alla propria cornice, quindi svuotandola di significato, la critica maggiore riguarda le sue aspirazioni onnicomprensive e alla riabilitazione di una concezione lineare ed evolutiva del tempo. La geografia delle istituzioni storiografiche, fino a qualche temi fa, era monopolizzata da Europa e East Coast degli USA, e quindi dalle riviste di risonanza internazionale presenti in paesi come la GB, la Francia, la porzione orientale degli Stati Uniti. Sia le riviste di respiro locale, nazionale e internazionali qui presenti si focalizzavano su uno spazio geostorico preciso: quello europeo per l’età medievale e moderna, quello atlantico-occidentale per la storia contemporanea. Benchè la prospettiva e il metodo cambiasse a seconda dei casi - storico-politico, storico-economico, storico-sociale - il presupposto logico era comunque la dimensione storica come specificità euro-occidentale nel contesto mondiale, diventando sempre più pregnante ed esclusiva con l’approssimarsi all’età delle rivoluzioni economiche, intellettuali e politiche. Questo metodo coincide con l’idea tradizionale della storia come storia del progresso (segnatamente occidentale), recando come conseguenza un trattamento di favore per quelle aree del mondo che l’hanno rivendicata come segno distintivo della propria civiltà. Per le altre regioni del mondo, che seconda la vulgata hanno perso il treno del progresso nel ‘700, si utilizzano altre forme discorsive, come quella dell’antropologia, dello studio delle religioni e dell’etnologia. Questi «popoli senza storia» hanno semplicemente interrotto il proprio sviluppo, rimanendo fermi ad uno stadio “primitivo”. Questi sono i retropensieri di fondo della cultura europea dell’eco dell’imperialismo, da cui la storia come disciplina e metodo fatica ancora a svincolarsi. Questo discorso si riferiva anche ad epoche in cui l’Europa non poteva oggettivamente essere posta come prima donna sul palcoscenico della storia. Ad esempio, per quanto riguarda la storia antica, il discorso sulla formazione dell’Europa durante le civiltà greca e romana. Oppure, per la storia medievale (concetto che ha senso solo se riferito all’Europa), al netto di rapide aperture ad Oriente con le Crociate e Marco Polo, il discorso eurocentrico vi fa riferimento come una sorta di “incubatore” rispetto al decollo dell’età moderna, impegnata quindi a raffinare le proprie specificità materiali, politiche e spirituale. Anche qui lo scambio interculturale con un mondo reso volutamente periferia non è pervenuto. Oggi comunque questo discorso sembra aver mutato le proprie regole di ingaggio, specie per quanto riguarda la geografia. Non si scrive più di storia a proposito di ogni parte del mondo, ma se ne scrive in ogni parte del mondo: non è un caso, ad esempio, che il «Journal of World History» si stampi a Honolulu, un posto che fino a poco tempo fa esisteva solo nelle fantasie esotiche. I «posti senza storia» prendono la parola e dicono la propria, talvolta con i metodi della storiografia occidentale, talvolta sperimentando approcci eterodossi. Questo fenomeno ha interessato soprattutto gli USA, i cui dipartimenti di storia universitari vantano da tempo specifici settori dedicati agli studi d’area. Il multiculturalismo della società americana è senza dubbio uno dei luoghi migliori per questi studi, sia per pubblico che per studiosi, forniti dei mezzi e del minaste necessario per traghettare le culturale extraeuropee nel discorso storico: una storia non più del West, ma anche del «Rest», che ha coinvolto molti degli ex-imperi coloniali. Si è quindi accordato maggiore spazio ai mondi extraeuropei e alla loro storia, riscattata dal suo “peccato coloniale” e dall’eurocentrismo. Gli studiosi di queste civiltà nelle università europee esistono sin da quando la storia è diventata una disciplina accademica, ma fino a tempi recenti il loro operato è stato percepito dagli storici generalisti, cioè di storia dell’Occidente, come un’articolazione del paradigma orientalista, cioè una "storia della diversità” intesa come stato di minorità, inferiore a quella occidentale. Da un lato la «storia per noi», con tutte le sue peculiari “invenzioni”: il pensiero razionale, la società di mercato, lo Stato Moderno; dall’altro lato invece la «non storia», quindi folklore ed esotismo, per gli altri. L’allargamento del cast di protagonisti della storia offre l’occasione di una narrazione plurale, con categorie che non possono e non vogliono incastrarsi nei paradigmi tradizionali. Il discorso teleologico sul progresso che informa questi ultimi, nati nel solco della storiografia ottocentesca, veniva presentato come indiscutibile anche e soprattutto sulla base del valore (presunto) universale della nazione sovrana, culturalmente ed etnolinguisticamente omogenea, e dello stato amministrativo moderno, riconosciute come invenzioni peculiari dell’Occidente. Il resto del mondo quindi non poteva semplicemente offrire elementi del genere, e siccome questi erano reputati come il punto d’approdo della civiltà (non delle civiltà) se ne doveva dedurre che fuori dall’Occidente non vi era storia, o meglio una storia degna del suo nome. Se questa prospettiva è ormai tramontata, o perlomeno è stata messa pesantemente in discussione, lo si deve ad una catena di eventi materiale, legati al mutamento dello scenario politico planetario nel dopo-guerra. La decolonizzazione ha prodotto una dilatazione significativa del numero di Stati e quindi dei possibili soggetti territoriali di storiografia. In questi nuovi Stati, similmente a quanto accaduto in Europa nel XIX secolo, gli storici si sono rivelati fondamentali per l’elaborazione della legittimazione culturale dei paesi, trasformando di conseguenza, dopo l’affermazione nei luoghi di origine, anche le più prestigiose istituzioni e reti accademiche. Il bisogno di storia, quindi di una narrazione onorevole del proprio passato, è propria di tutti gli Stati sorti dalla decolonizzazione (emancipazione dallo sguardo antropologico/etnologico). Come se ne può però parlare utilizzando le categorie di riferimento, come lo Stato e la Nazione, elaborate nel discorso storico occidentale? Si tratta infatti di elementi assenti, o comunque in forma embrionale, nel panorama mondiale sette-ottocentesco, diffusi solo dopo il processo di decolonizzazione. La funzione dello Stato e della Nazione come unità di conto è stata poi messa in dubbio, in quanto funzione strategica nel ragionamento storico, anche per quanto riguarda la contemporaneità. Roger Chartier, storico francese, commentando i lavori della giornata di studio Penser le monde, organizzata a Parigi nel Maggio 2000, sottolinea come gli autori di quegli interventi rifiutano il «quadro dello stato-nazione, come se esso potesse delimitare, retrospettivamente, un’entità sociale e culturale già presente ancora prima della sua epifania politica», osservando come questi cerchino invece di identificare altri spazi o regioni, radicati storicamente nella rete di relazioni e di scambi che li costituiscono in modo indipendente dalla sovranità statale. Secondo Matthias Middel, studiosi di storia trans-nazionale, in un saggio presentato nella rivista «Historial Social Research» sul tema Storia mondale e globale in Europa, nota il legame tra la storia e un regime di territorialità, dominato necessariamente dall’elemento nazionale, da cui la prima si sta progressivamente distaccando. Il regime di territorialità, ovvero il rapporto tra potere e spazio, è quindi una costruzione storica specifica e contingente, che oggi sembra aver perso la linearità e la sequenzialità con cui era stato presentato tra XIX e XX secolo da una scienza storica, presentatasi al tempo come narrazione di stati-nazione europei e della loro proiezione egemonica nel mondo. continenti non avevano ancora sagomature chiaramente definite (es. per gli arabi nel XVI l’Africa non era ancora identificata come continente distinto), con un marcato carattere «societario», non statale e non nazionale: gli imperi, a differenza degli standard odierni, infatti mostravano un profilo debolmente articolato in senso statale, mantenendolo fino alla fine del XVIII secolo. Il contatto era quindi tra entità territoriali e politiche fluide, inserito in un sistema globale fondamentalmente policentrico: sottosistemi compatti e integrati da articolazioni ad intensità variabile. È il mondo «prima dell’egemonia europea», dove all’Oceano Indiano viene ascritto un ruolo centrale, di fatto ignorato dalla storia che si impara a scuola. Se c’è una leadership da riconoscere, è quella araba, che già dal VII secolo avevano acquisito, in seguito alle conquiste in Medio Oriente e Nord Africa, un ruolo dominante nei traffici dell’Oceano Indiano, diventando il perno di un commercio transregionale tra il bacino orientale e il Mediterraneo. Gli Arabi si integrarono anche all’interno delle economie regionali: a Canton, ad esempio, già del IX secolo esisteva un quarterà arabo, così come è registrata la presenza di mercati tunisini a Calicut al tempo di Vasco da Gama. Basti inoltre pensare ai raggi di Zheng He sulle coste sud-orientali africane, riuscendo a portare da lì una giraffa nella Cina Ming. Per gli arabi il Mediterraneo era nel loro sistema mondo una periferia lontana, che conobbe importanti trasformazione in seguito alla rivoluzione commerciale del XII e XIV secolo. La rete araba, comunque, non fu il solo grande sistema di circolazione di uomini, merci e culture: si pensi alla mondializzazione mongola realizzata tra XII e XIV secolo da Genghis Khan, collimata nella più grande costruzione terrestre di ogni tempo. I suoi effetti furono da un alto postivi, come la pax mongolica che permise a Marco Polo di raggiungere senza troppe difficoltà Pechino, creando un corridoio per i commerci europei e italiani. Una conseguenza fu però anche la peste nera, che arrestandosi al Sahara colpì maggiormente proprio l’ecumene euroafroasiatica, le cui regioni erano maggiormente intrecciata. L’Europa di quel tempo si inseriva quindi in un contesto policentrico e non gerarchicamente ordinato: Andre Gunder Frank sottolineava appunto questa fluido e saltuario delle gerarchie del mondo antico, ben diverso dal rovesciamento degli equilibri avvenuto nel ‘400 (governance europea). Bisogna comunque considerare che fino ai giorni nostri, le aspettative della popolazione si sono svolte comunque in una prospettiva locale, ancor di più per quanto riguarda l’Europa contadina, anche in riferimento alla categoria di Stato-Nazione. Ci si chiede quindi come concetti come globo, mondo o globalizzazione possano restituire la sostanza delle cose, anche bisogna tener conto che quella di cui stiamo parlando è stata una mondializzazione leggera, ben diversa da quella attuale. Gli imperi precontemporanei era creature politicamente fluide e lasche, capaci di tenere assieme elementi etnico-culturali altamente compositi grazie alle correnti di scambio commerciale (limitati comunque alle élite e ai beni di lusso), ai transfer culturali e religiosi o, all’estremo, dall’incedere di virus e batteri come la Peste. Tranne quest’ultimo fenomeno, è evidente che questa mondializzazione è stata tale solo per una frazione dell’umanità, almeno fino ai giorni nostri. Sovvengono poi altre domande: abituati a pensare il mondo in termini di gerarchie tra civiltà, quale era, in questo mondo premoderno, la misura usata per stabilire il livello di maturità di queste ultime? Uno di quegli strumenti tradizionali, cioè il criterio delle conoscenze scientifiche, è senza dubbio periodizzante solo per il Vecchio continente, spiegabile attraverso la rivoluzione scientifica che ha interessato l’Occidente a partire dal XVI secolo. È meno noto che quel sapere classico, ad esempio quello greco, abbandonato durante il Medioevo dall’Europa, non fu solo custodito dalla cultura arabo-islamica e poi restituito all’Occidente, ma fu elaborato, manipolato da quella cultura improntata ad una mentalità razionalista ancora sconosciuta nell’Europa dei secoli bui. La scienza introdotta nel circuito culturale europeo dalle traduzioni arabe non era quindi una semplice ricalco di quella greca, ma un prodotto originale del razionalismo arabo. Lo stesso discorso si può fare per la scienza cinese, facente parte assieme a quella europeo-semitica e a quella indiana delle tre grandi civilizzazioni scientifiche. Di sicuro era una scienza che non possedeva elementi costitutivi come la geometria euclidea, basandosi quindi su altri principi. Ma a differenza del Medioevo europeo, i cinesi non persero quello che avevano a causa di un’epoca di involuzione culturale: al contrario, tra II a.C. e XVI d.C., la cultura dell’Asia Orientale si rivelò sistematicamente più efficiente di quella europea nell’applicazione della conoscenza della natura a scopi pratici. Francis Bacon, non a caso, indicava le tre stelle della scienza moderna nella stampa, nella polvere da sparo e nel magnete - di origine cinese. Ancora, l’espansione scettica e tecnologica tra XVI e XVIII secolo in Europa fu dovuto anche all’allargamento di conoscenze indotto dal contatto con il Nuovo Mondo o con l’intensificazione dei rapporti con le civiltà orientali. Ma in Europa c’erano ancora pesanti ipoteche sulla conoscenza: se nella corte Tang gli scienziati erano infatti capaci di fissare gli eventi astronomici a centinaia di milioni di anni prima, in Europa nel XVIII secolo in molti credevano che la creazione fosse avvenuta nel 4000 a.C. Molti fissano l’inizio della prima mondializzazione al 1492 con la scoperta dell’America: una modernità, ovviamente, centrata sulle nazioni europee. La necessaria complementarietà tra modernità e miracolo europeo era una certezza data sino in tempi recenti per scontata. È possibile, ma molto improbabile a causa delle enormi distane, che le coste occidentali americane fossero stata toccate da imbarcazioni provenienti dalle coste asiatiche; più verosimile, grazie anche alla scoperta di tracce archeologiche, che tra XIII e XIV secolo ci siano arrivati per primi i vichinghi. Non c’è dubbio che l’approdo del quarto continente nel sistema-mondo “antico” tricontinentale fu in gran parte di matrice europea, così come lo fu l’avvio di un sottosistema americano in quanto tale: le popolazioni amerindie mostravano infatti poi propensione agli scambi su lungo raggio, e Aztechi ed Inca addirittura si ignoravano a vicenda. Le conseguenze sono quelle raccontate dal discorso caponino intorno all’ascesa dell’occidente: genocidio dei nativi attraverso una combinazione di malattie e manodopera forzata; iniezione di africani dall’altra sponda dell’Atlantico; il sacco dei preziosi tesori artistici e dei metalli preziosi americani. Tutto questo è speculare a ciò che accade dall’altra parte del mondo, con l’aggiramento della barriera islamica attraverso il Capo di Buona Speranza. Il risultato è un sistema-mondo economico basato su un rapporto gerarchico tra un core europeo a dominio cangiante e una serie di periferie e semiperiferie. La teoria “dipendentista” lega il successo e l’ascesa dell’Occidente all’espropriazione delle ricchezze delle altre regioni del mondo, causando contemporaneamente l’impoverimento di queste ultime. In realtà non si devono perdere di vista altre potenti correnti di movimenti oltre a quelle europee, come ad esempio la diaspora cinese nel Sud-Est Asiatico. La centralità dell’Europa non è un dato che si può desumere dal decollo del sistema-mondo, e bisogna guardarsi bene dall’operare un’equiparazione tra economia-mondo ed impero-mondo, categorie ben diverse. Non c’è dubbio sul fatto che gli europei, con la loro ubiquità, fossero i principali manipolatori dell’economia- mondo: le prospettive della big history suggeriscono che il passaggio da un’economia agraria ad una mercantile fu una svolta imboccata da tutte le società del globo durante il ‘400, di cui l’attivismo marittimo europeo fu solo un aspetto. Inoltre la dimensione imperiale europea si concretizzò solo verso la fine del XVIII, tre secoli dopo Colombo, e per questo lasso di tempo le componenti africane e asiatiche ne furono appena scalfite. Inoltre l’equazione tra iperattivismo commerciale e la posizione più redditizia nel sistema: è stato infatti fatto notare come i metalli americani finivano bottino coloniale a confluire sotto un solo scettro. Tuttavia Gruzinski non narra soltanto la storia della potenza spagnola nel mondo, ma esamina i modi e i contenuti della circolazione dei flussi umani e culturali dentro questo spazio virtuale. L’opera è organizzata attorno al concetto di meticciato (metissage), in quanto i soggetti attivi, pur in teoria sudditi del re di Spagna, non sono più soltanto europei, ma indios, filippini, giapponesi, mulatti d’Africa, etc. Al tempo stesso, dal contatto con i saperi, gli immaginari e la natura fisica dei mondi geograficamente lontani dalle frontiere dell’Europa occidentale, la cultura spagnola ne esce a sua volta arricchita e sollecitata a rivolgersi verso nuovi orizzonti. Ne deriva quindi una trasformazione «meticcia» anche degli europei, non solo degli indigeni, e dalle nuove conoscenze acquisite tramite la mondializzazione ne deriva la messa in crisi del sapere europeo tradizionale: saperi religiosi e suggestioni artistiche circolano da un lato all’altro dell’impero. Da queste contaminazioni prende forma un livello specifico di modernità, ovvero la "modernità della mobilità”, caratteristica degli spazi fluidi imperiali; la «monarchia cattolica» infatti non è statale né nazionale, e neppure solo europea. Partita come europeizzazione (ovvero esportazione di modelli ispanici e lusitani), la globalizzazione diviene un altro in cui la fluidità delle connessione a corrente alternata e delle mescolanze sfruttava la verticalità del dominio e sulle prostese universalizzanti della Chiesa e della Corona. Sanjay Subrahmanyam scandisce in uno schema diverso il tema della connessione affrontato da Gruzinski. Anche nel suo saggio lo spazio preso in considerazione è trans-continentale, perché si estende dal Portogallo all’India, dall’Europa occidentale all’Asia meridionale. Le sovranità di queste aree appartengono però ad imperi diversi (quello portoghese, ottomano, persiano, moghul) in conflitto tra loro. Queste costruzioni politiche tuttavia, nonostante le differenze culturali e religiose, sono connesse dall’utilizzo sincronico di una ideologia paragonabile: quella del «millenarismo di stato», che annuncia il prossimo avvento «della monarchia universale», quindi di un’istituzione capace di ridurre ad una sola le molteplici sovranità che si esercitano su quegli spazi sterminati. Interrogandosi sui grandi fenomeni che hanno unificato il globo nella prima età moderna, l’autore aggiunge l’insieme dei movimenti politici millenaristi collegati che sembrano aver accompagnato il processo di espansione europea: dalle epidemie che imperversano da una parte all’altra dell’Eurasia, all’argento e ai metalli preziosi disseminati a fine Cinquecento nel mondo dalle miniere sudamericane e da quelle giapponesi, alle piante e agli animale protagonisti dello scambio colombiano. Ovunque, in questa macroregione multi-imperiale che si estende dal Portogallo all’India, viveva l’attesa dell’imminente fine del mondo. La conclusione a cui giunge l’autore è che ad avvicinare parti del mondo così distanti non furono soltanto gli avanzamenti delle tecniche di navigazione e delle conoscenze geografiche, ma anche una visione del mondo prettamente “medievale”. Nell’introduzione al volume, l’autore dedica un omaggio a Denys Lombard, al quale si deve l’opera Le Carrefour Javanais. Quella di Lombard è una ricerca incentrata su una singola area territoriale, quella di Giava, e lo scopo è quello di mostrare di come le parti del mondo riescano ad incrociarsi persino un luogo così specifico. Qui ad essere globale non è lo spazio, ma il metodo. Per Lombard, Giava non è uno stato né una nazione, ma un «crocevia» (carrefour), che assorbe e rielabora correnti provenienti dalla Cina, dall’odierno Vietnam, dall’India, dall’Iraq e dall’Olanda. Il metodo utilizzato cerca quindi di riscattare la storia della nazione, sia proiettando in primo piano il locale e il regionale all’interno di uno specifico ritaglio territoriale e sia operando contemporaneamente con una prospettiva esterna ad esso. Ad essere tematizzabili come arene di circolazione, nella lettura di Gruzinski non sono formazioni imperiali qualsiasi, ma solo quelle “early modern” a bassa intensità di accentramento. Gli imperi pre-contemporanei, basati su una organizzazione dello spazio fluida e poco gerarchica, vanno per questo celebrati come i protagonisti di una età dell'oro chiaramente superiore alla nostra? Non necessariamente, ma va comunque riconosciuta la loro diversità rispetto a quel che è venuto dopo, la differenza profonda con la verticalità gerarchica degli imperi successivi. Torniamo a riflettere sullo stato moderno. Forse adesso non esiste più, e sicuramente non si è posto prima dell'800 come progetto compiuto: ma esso, solitamente accompagnato all'altrettanto monolitica categoria di nazione, ha vissuta una propria epoca di luminosità e di egemonia, cioè il periodo tra XIX e XX secolo. È questo infatti il secolo in cui non solo ha preso forma compiuta il sistema degli stati- nazione europei, ma si è anche assistito in ogni parte del mondo alla statalizzazione degli imperi fluidi precedentemente esistenti, così come all'estensione planetaria di quelli di matrice europea fino alla seconda guerra mondiale. Allo stesso tempo è stata l'epoca della crisi degli imperi non europei (o della loro estinzione), e quella del radicamento diffuso in quelle regioni dell'aspirazione a riscattare in futuro, nella forma politico-istituzionale dello stato nazionale, la soggezione coloniale del presente. Dunque a cavallo tra XVIII e XIX secolo la grande divergenza effettivamente c’è stata, assieme ad un evidente divario qualitativo. Lo confermano anche le crude statistiche, che certificano, forse ieri più di oggi, l'enorme abisso tra Nord e Sud del mondo in termini di ricchezza, benessere e potenziale militare. In seguito al prodursi di questi rapporti di forza sbilanciati, si impone quella lettura orientalista delle società extraeuropee denunciata per la prima volta in un saggio di Edward Said Orientalismo, l'immagine europea dell'ambente, che è stata per 30 anni un faro della critica post-coloniale militante e della storiografia insofferente nei confronti dell’eurocentrismo. Per Said “orientalizzare” significava svalutare le civiltà extraeuropee e consegnarle alla dimensione della stagnazione e del passato, stabilendo un’equazione esclusiva tra capitalismo occidentale e progresso. Ma come si è ampiamente dimostrato, prima del tornante epocale a cui siamo giunti, la civiltà europea non aveva dominato il mondo, e risultava in ogni caso anche in questa fase fortemente frastagliato: infatti, l’America centrale e del Sud sono, al di là della collocazione geografica, Occidente? Eppure la storiografia prendeva comunque derive arbitrariamente orientalistiche, sostenuta anche dagli studi filosofici, quelli di Hegel soprattutto, e quelli sociologici, come Weber: nur im okzident, diceva costui, solo in Occidente. Gli elementi politici ed economici tipici di quest’ultimo - il capitalismo, la scienza, lo stato burocratico impersonale e astratto - conferivano spontaneamente all’uomo bianco la missione di civilizzare un mondo rimasto allo stato infantile. La storiografia occidentale moderna nacque in quel periodo, narrando una teleologia trionfale che nei fatti era però assai diversa. La conoscenza delle civiltà extraeuropee era in autori come Weber, ma anche Marx, molto limitata e stilizzata, non andando oltre la semplice contrapposizione tra l'impulso occidentale prometeico e la riluttanza orientale ad interferire con la natura. Le prime sintesi di storia globale, apparse tra ‘800 e ‘900, nascono in ambienti sensibili all’esigenza di superare l’impostazione eurocentrica. Questo sguardo decentrato è presente ne La nascita del mondo moderno di Christopher Bayly, studioso di storia dell’India, e La trasformazione del mondo di Jurgen Osterhammel, esperto di storia della Cina, che danno di questa epoca d'oro del dominio occidentale (iniziata con l'imperialismo e finita con la decolonizzazione) interpretazioni assai diverse rispetto alle storie celebrative tradizionali. Nel nucleo di entrambe le opere è racchiusa l'idea basilare di dinamismo, differenziazione e movimento. L’Europa è stata sì centro dominante, ma pro tempore: il monde è una regione ben più vasta e complessa degli Stati-Nazione, e la presenza di questo centro così contribuire, attraverso specifiche competenze linguistiche e culturali, alla costruzione di un racconto storico alternativo, rispetto a quello prodotto dalla tradizione; e vi è un alto timore che proprio le differenze, le soggettività intese come agencies, le specificità regionali, le prospettive di analisi alternative vengano soffocate e inglobate all’interno di un nuovo racconto storico di respiro globale, che ai loro occhi conserva il rischio di un “etnocentrismo globalizzato”. A puntellare tali timori sono anche le preoccupazioni di carattere materiale i costi particolarmente elevati della world history costituiscono un ostacolo per gli area studies, in relazione alla disponibilità di mezzi necessari a praticarla. La storia sociale è stata la modalità d’indagine che nel corso del ‘900 (con caratteristiche diverse da paese a paese) ha goduto di un alto livello di popolarità, fino a proporsi, tra gli anni ’70 e ’80, come il luogo di raccordo ideale per tutti coloro che mostravano insoddisfazione per la limitatezza di orizzonti della storia politica tradizionale. Nella cultura storia francese, per esempio, attraverso la collaborazione con le scienze sociali, si è cercato di dare forma ad una storia più ampia e più umana, sensibile ai temi strutturali e critica verso la storiografia scientifica; capace di dare fiato alle voci più disparate, lontane dalle stanze del potere: dai gabinetti di comando degli eserciti, dai luoghi di riunione della diplomazia. In Germania, al contrario, la storia sociale si è costruita non tanto in ragione di una presa di distanza dal tema del potere e delle sue strutture, quanto piuttosto a partire dal ripudio di quella separazione concettuale tra stato e società, che a sua volta aveva rappresentato uno dei presupposti della storiografia positivistica ottocentesca. Essa si è, di conseguenza, esplicitata soprattutto nella proposta di elaborare una lettura del politico e del sociale intesi come intreccio organico, e gli oggetti di ricerca si sono identificati con i contesti sociali situati a distanza dal perimetro di irradiazione del potere statale (es. periferie, mondi dominati dai poteri locali vicini alla quotidianità). In Gran Bretagna la storia sociale, sempre in polemica contro la storia politica tradizionale, ha significato “storia dal basso”, ovvero storia delle classi popolari, delle loro pratiche e del loro immaginario ribelle una sorta di “antistoria”. Infine in Italia si è aggiunto a tutto ciò il tema della microstoria, con la sua attenzione alle periferie estreme. Si tratta di “storie ribelli”, ognuna a modo suo. E dunque tra le proposte della storia sociale e quelle di una storia non eurocentrica una convergenza, se non un’implicita alleanza, dovrebbe risultare quasi naturale: a entrambe la scala territoriale o tematica dello stato risulta insoddisfacente, troppo astratta, esteriore e distante dalla densità profonda delle relazioni comunitarie. Tuttavia parte degli storici sociali sembra condividere la medesima diffidenza che anche i cultori di area studies nutrono nei confronti della world history: polemici da sempre nei confronti di una storia “dall’alto”, temono che lo sguardo globale ne riproponga una nuova versione. Antoinette Burton, per esempio, ritiene che malgrado la world history si interessi a dare voce alle dinamiche di “globalizzazione dal basso, l’immagine generale della globalizzazione sul mercato storiografico non solo è presuntuosamente occidentale, ma anche presuntuosamente imperiale, e le sue categorie analitiche rimangono condizionate da un modello di matrice ottocentesca, da cui deriva il rischio di scivolamento sul terreno della tanto deprecata storia politica tradizionale. Tuttavia un altro autore afferma che è vero, gli storici della world history hanno spesso inserito ai margini i temi di storia sociale, ma d’altra parte il loro lavoro di narrazione di particolarità sociali e culturali diverse da quella occidentale, ha anche evidenziato la necessità di ripensare alla base regionale della storia sociale, dal momento che troppo spesso la storia sociale si è soffermata su un piano unicamente nazionale. Il problema parrebbe dunque quello di trovare una sintesi che, nella ricerca di una storia “più ampia e umana”, inglobi tanto la profondità analitica del micro, quanto la larghezza ecumenica del macro. Ancora una volta ci troviamo di fronte ad un incontro mancato tra due approcci storiografici che condividono la critica alle narrazioni tradizionali. Nel caso della storia di genere, ad essere messa in discussione, sin dall’emergere del movimento femminista alla fin degli anni ’60, è stata la “his history”, ovvero la “storia al maschile”, che fino a quel momento aveva detenuto il monopolio del racconto della vicenda storica umana, all’interno della quale le donne erano state condannate all’invisibilità. La nuova “her story” si proponeva dunque di riabilitarle in qualità di soggetti attivi dell’esperienza storica, restituendo loro la voce che la storia tradizionale aveva sinora soffocato. Nel corso della sua evoluzione lungo gli anni ’70 e ’80, in Europa occidentale e negli Stati Uniti, si assistette ad un incontro tra la “categoria di genere”, che tese a mettere in risalto le connotazioni sociali di genere in contrasto con le connotazioni fisiche di sesso. Inoltre, la categoria di genere fu presto estesa al “problema delle differenze nella differenza”, che si impegnava a smentire la presunta univocità del concetto di donna, che sino ad allora si era attenuta al paradigma normativo della donna bianca eterosessuale di classe media. Proprio intorno alla tematizzazione della differenza si è realizzato l’incontro tra gender history e post- strutturalismo. E il progetto storiografico volto alla presa di parola da parte delle donne implicava una decostruzione delle categorie fondanti della cultura tradizionale. L’irruzione della prospettiva globale nella gender history potrebbe non soltanto schiuderle nuovi orizzonti di analisi trans-nazionali, ma anche rappresentarle una sfida a liberarsi dall’eurocentrismo che la storia delle donne condivide con quella tradizionale Da cosa nasce allora la resistenza degli studi di genere a un’integrazione con la world history? Una recente riflessione ha evidenziato come un’assimilazione nella storia del mondo della gender history rischia di vedere smantellare due categorie fondanti: la soggettività in termini di Agency e la differenza, che tende sto scomparire dietro la ricerca di convergenze e uniformità. In primo luogo infatti alla world history si imputa un eccessivo conservatorismo tematico che, con concentrandosi sull’imperialismo, il commercio, lue scoperte geografiche, rende le donne invisibili, dal momento che si tratta di processi con protagonisti essenzialmente maschili. Sostanzialmente, ad essere considerato il nesso più produttivo tra gender e world history è il corpo. Esso infatti, inteso come “zona di contatto”, si eleva a luogo privilegiato di incontro, mescolanza, ibridazione, nonché a soggetto di resistenza, in quanto rappresenta la colonia più intima, così come la più ribelle e soggetta al disciplinamento. L’ulteriore minaccia che gravita sulla possibilità di un incontro tra storia delle relazioni di genere e world history riguarda poi la dissoluzione delle diversità all’interno di una prospettiva che tende a privilegiare la dimensione della convergenza. Per esempio, a livello linguistico, la possibilità di un’integrazione della dimensione “particolare” nell’ambito di un progetto storico di respiro globale postula la creazione di un vocabolario condiviso. Ma allora il dilemma è proprio qui: in che modo è possibile conciliare le storiografie critiche europee e non occidentali che hanno fatto della soggettività un tratto irrinunciabile con la proposta della world history? Molte restano le questioni che rendono complessa una cooperazione tra world e gender history. Un terreno fertile d’incontro sembrerebbe la valorizzazione delle interazioni trans-culturali, definite, elaborate e rielaborate interattivamente a livello globale nella dimensione predominante dello scambio e del meticciato culturale. Una pista di ricerca simile innanzitutto lascerebbe spazio all’interazione tra livelli di analisi diversi,
Docsity logo


Copyright © 2024 Ladybird Srl - Via Leonardo da Vinci 16, 10126, Torino, Italy - VAT 10816460017 - All rights reserved