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ripensare il mondo, Ingold, Sbobinature di Antropologia Culturale

riassunto di "ripensare il mondo" di Ingold

Tipologia: Sbobinature

2021/2022
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Caricato il 06/09/2022

giulssss2001
giulssss2001 🇮🇹

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Scarica ripensare il mondo, Ingold e più Sbobinature in PDF di Antropologia Culturale solo su Docsity! RIPENSARE IL MONDO INGOLD CAPITOLO 1: PRENDERE SUL SERIO GLI ALTRI Problema del Come dovremmo vivere? La vita degli esseri umani è sociale perché incarna il processo continuo e collettivo di comprendere come vivere. Occorre un campo di ricerca che si faccia carico di apprendere a proposito del problema di come vivere tenendo conto della saggezza e dell’esperienza di tutti gli abitanti del mondo, indipendentemente alle loro origini, mezzi di sussistenza, circostanze e luoghi: questo campo di ricerca è l’antropologia. Cosa significa essere umani? La scienza ci definisce Homo Sapiens: in cosa consiste la nostra saggezza? Sono domande che interrogano sia l’antropologia che la filosofia, ma gli approcci sono diversi: l’antropologia fa filosofia nel mondo, studia tramite coinvolgimento, dialogo e partecipazione. È una filosofia che include le persone. Questo tipo di filosofia è oggi particolarmente necessaria, dato il momento critico che sta affrontando il mondo, stretto in un sistema di produzione, distribuzione e consumo: è l’inizio di una nuova era nella storia della terra, l’Antropocene. Questo mondo è però l’unico che abbiamo, quindi come dovremmo vivere in modo che ci possa essere vita per le generazioni future? È qui che entra in gioco l’antropologia. Molti esperti e scienziati nel corso del tempo hanno studiato il funzionamento del mondo e hanno cercato di arrivare ad una soluzione, ma lo hanno fatto da una posizione privilegiata, esterna al mondo concreto. L’obiettivo dell’antropologia invece non è quello di interpretare o spiegare le modalità degli altri, ma di condividere la ricerca in loro presenza, nutrendosi del connubio tra immaginazione ed esperienza. Gli antropologi aspirano ad una relazione diversa con il mondo, che non è oggetto di studio, ma è l’ambiente di processi e relazioni nel quale tutti sono immersi fin dall’inizio. Non si cerca un potere oggetti, quanto piuttosto la “saggezza”: per essere saggi bisogna avventurarsi nel mondo e correre il rischio di esporsi a ciò che sta accadendo in quel momento. L’antropologia deve ristabilire l’equilibrio tra sapere e saggezza, dato che nella ricerca contemporanea il sapere viene largamente privilegiato. La particolarità dell’antropologia sta nel fatto che la sua ricerca si discosta dalla metodologia tradizionale, privilegiando una relazione affettiva e un coinvolgimento con coloro che vengono studiati, utilizzando così un metodo di lavoro chiamato “osservazione partecipante”. L’osservazione ha bisogno di tempo, per questo come luogo di lavoro per l’antropologia si parla di campo e non di laboratorio: • Nel campo: bisogna attendere che le cose accadano, accettando quello che viene offerto, senza inganno o sotterfugio • Nel laboratorio: luogo organizzato ad arte, equipaggiato, in cui le cose vengono forzate per scoprire i loro segreti. Si potrebbe dire che il laboratorio permette di cogliere i dati quantitativi e il campo quelli qualitativi, ma l’autore non è d’accordo con “qualitativi” perché nel momento in cui trasformiamo la qualità in un dato è come se ci aprissimo alle persone solo per poi approfittarci della loro generosità e voltargli le spalle. La parola che gli antropologi usano per descrivere le persone è etnografia, che non corrisponde all’osservazione partecipante perché l’etnografia è legata alla raccolta di dati. L’osservazione partecipante dell’antropologia invece non serve per descrivere altre vite, ma per unirsi a loro nel compito comune di trovare dei modi di vivere. È un apprendimento di tipo trasformativo. La prima regola dell’antropologia è prendere gli altri sul serio, partendo dal principio che non si possono classificare gli altri in base a una qualsiasi scala razionale o evolutiva che possa giustificare il fatto che le loro pratiche e i loro pensieri vengano presi meno sul serio dei nostri. Questo significa negare che le visioni del mondo degli altri, che contrastano con le nostre, possano avere qualche presa sulla realtà: onniscienza per proteggere la realtà come noi la conosciamo. L’antropologia fa riferimento ad un passaggio da una domanda di tipo epistemologico (riguardante la conoscenza: come possiamo conoscere il mondo?) ad una di tipo ontologico (riguardante l’essere: come può esserci un mondo da conoscere?). Esempio dell’antropologo Hallowell che discute con il capo degli Ojibwa, Berens, sul fatto che per lui alcune pietre possano essere vive. Ci sono due tipi di atteggiamenti che le persone possono assumere nei confronti delle cose: sacro e profano (es. il tavolo è profano, ma se viene usato come altare diventa sacro). Nella nostra epoca scolarizzata sminuiamo facilmente come semplice “rituale” ciò che gli altri fanno quando turba la nostra sensibilità: penseremmo che Berens ha solo immaginato delle pietre vive -> ritorna la questione di immaginazione ed esperienza. Non possiamo mai parlare con certezza del mondo, come se già lo conoscessimo, perché il mondo stesso non si è mai stabilizzato nella sua struttura e composizione; è in continuo divenire, perciò una fonte continua di meraviglia e stupore, che dovremmo vivere con consapevolezza. Questo tipo di approccio significa trattare le cose (le parole di Berens) con la serietà che meritano: prestare attenzione alle cose, essere presenti e vigili nel momento in cui prendono forma, che è il momento in cui l’esperienza e l’immaginazione di fondono e il mondo prende vita. Si tratta di pensare alla vita come a una potenziale circolazione di materiali e correnti di energia, che scorrono nel mondo trasformando le forme in essere, mantenendole al proprio posto per l’arco di tempo assegnato (le pietre non sono in vita, ma sono nella vita). In antropologia la comprensione dell’essere e del divenire delle cose è conosciuta come animismo (che è il risultato di prendere gli altri sul serio). Dobbiamo forgiare approcci alternativi al problema di come vivere, per provare a sanare la rottura tra modalità di conoscere il mondo e modi di abitarlo, tra scienza e natura; è un passo necessario verso un futuro aperto e sostenibile. L’antropologia sostiene il valore della comparazione tra approcci diversi sui problemi di come vivere, derivanti da esperienze personali e da ciò che abbiamo imparato da altri. Vengono confrontati i modi di pensare e di agire: non si tratta di catalogare la diversità delle vite umane ma di far parte della conversazione, che è il mondo (non sul mondo), e l’unico modo in cui tutti viviamo. CAPITOLO 2: SOMIGLIANZA E DIFFERENZA Gli antropologi hanno sempre sostenuto l’idea della diversità culturale, ma questo appello alla pluralità può risultare fuorviante (rischioso perché le moderne forze globali hanno CAPITOLO 3: UNA DISCPLINA DIVISA Né le discipline umanistiche né quelle scientifiche riescono ad offrire delle risposte concrete ai problemi della condizione umana contemporanea, questo perché tra eruditi e scienziati regnava (e regna) uno stallo reciproco, raramente dialogano tra loro. Questa divisione tra scienze naturali e umanistiche è siglata dalla separazione tra le modalità di conoscenza del mondo e i modi d’essere nel mondo, caposaldo della tradizione occidentale fin dall’età classica: anche l’antropologia è lacerata dalle stesse divisioni, tanto da essere spezzettata in più tipi di “antropologie” (mediche, visive, forensi …). C’è qualcosa che le tiene insieme? Bisogna capire come mai l’antropologia ebbe inizio con l’intenzione di forgiare una “scienza dell’uomo” unificata e perché alla fine fallì. L’antropologia, infatti, è cresciuta nel fermento di idee che si accompagnavano al rifiuto del dogma religioso e del dispotismo politico, proprio degli intellettuali che individuarono nell’emancipazione dell’umanità la loro grande missione civilizzatrice. Il selvaggio era un’invenzione delle erudite menti europee, a quel tempo non era ancora nota la gamma completa della varietà umana e infuriava il dibattito se gli abitanti di quelle terre fossero davvero esseri umani. Carlo Linneo (naturalista svedese) fu il primo a inserire Homo nell’ordine dei primati: ma cosa definiva un animale Homo? Secondo Linneo la distinzione sta nel fatto che gli esseri umani sono stati dotati non solo di un corpo funzionante, ma anche del dono dell’intelletto o della ragione, cioè di una mente. La domanda a questo punto era se questa mente potesse essere elevata dallo stato selvatico alla civiltà. Charles Darwin nel 1832 rimane colpito dalla condizione di vita degli indigeni della Terra del Fuoco, tanto da chiedersi se fossero umani. Con un ragionamento espresso in L’origine dell’uomo e la scelta in rapporto col sesso pensò allora che quelle anime miserabili dovessero rappresentare lo stadio più infimo dell’essere umano sulla terra. Darwin si convinse che i poteri dell’intelligenza che riconosciamo in noi stessi non siano limitati agli esseri umani, ma attraversino l’intero spettro delle specie animali (anche il verme avrà un’intelligenza rudimentale); lo zoologo Huxley, sulla stessa linea di pensiero, pubblicò un saggio in cui affermava la stessa teoria, arrivando alla conclusione che la società “ha origini bestiali”. Per Darwin, la forza in grado di far emergere la civiltà dalla melma della bestialità è la selezione naturale, la cui narrazione può essere condensata nella parola “evoluzione”. Dagli ultimi anni del Diciannovesimo secolo, l’antropologia iniziò a promettere un resoconto unificato dell’evoluzione umana, che si pensava dovesse procedere su tre fronti: anatomico, artefattuale e istituzionale. Gli antropologi fisici studiavano l’evoluzione dell’anatomia umana, gli archeologi l’evoluzione degli utensili e gli antropologi sociali e culturali si occupavano dell’evoluzione delle istituzioni: struttura “a tre campi” dell’antropologia. Due importanti sostenitori di questa struttura furono i professori di anatomia Robert Reid (classificò le tipologie razziali in nome di un’antropologia come “scienza dell’uomo”) e Sir Arthur Keith, secondo cui << Il pregiudizio e la xenofobia lavorano per il bene dell’umanità, la fedeltà alla propria razza e l’odio verso gli altri costituiscono il vero motore del progresso evolutivo. La guerra delle razze è la falce che la natura ha per potare >>. Con la Seconda guerra mondiale questo tipo di pensiero declina, e al suo posto subentra un impegno etico basato sul principio che tutti gli esseri umani di passato, presente e futuro sono uguali nelle loro capacità morali e intellettuali e dotati di ragione e coscienza. Gli esseri umani esistenti vengono riclassificati come Homo Sapiens Sapiens: il primo Sapiens è la complessità cognitiva che caratterizza gli esseri umani rispetto al resto del mondo vivente, mentre il secondo serve per enfatizzare la rottura con il mondo precedente dominato da teorie razziste. L’antropologia sociale si distacca dall’antropologia fisica e dall’archeologia a causa del modo in cui ottenevano le loro prove per sostenere l’approccio evolutivo (si trovavano semplicemente come fossili). Il problema dell’antropologia sociale era infatti dimostrare l’evoluzione di costumi e istituzioni. La soluzione fu quella di supporre che tutta l’evoluzione sociale attraversasse le medesime fasi: gli stili di vita dei popoli ritenuti “primitivi” potevano esser osservati per offrire un punto di vista sulla condizione sociale arcaica di tutti gli esseri viventi, così che il loro presente diventasse modello del nostro passato. Questo tipo di pensiero è però stato da tempo confutato dall’antropologia sociale -> invece di provare a spiegare come si creino ed evolvano i costumi e le istituzioni, la nuova idea era quella di provare a mostrarne il funzionamento. Per quei popoli che oggi li praticano, bisognerebbe spiegare come costumi e istituzioni siano necessari a soddisfare i bisogni dei singoli o ad assicurare la continuità dell’intera società a cui appartengono: approccio noto come funzionalismo. L’antropologia sociale quindi, abbandonato l’approccio evolutivo, si allontana sempre di più da antropologia fisica e archeologia. In più c’è la questione del rapporto tra razza e cultura: partendo dalla teoria dell’eredità dei caratteri acquisiti alla fine del Diciannovesimo secolo si è arrivati ad affermare che razza e cultura, eredità biologica e patrimonio tradizionale, devono essere tenuti tassativamente separati. L’antropologo americano Alfred Kroeber parla di cultura definendola il superorganico, in quanto non ha a che vedere con l’ereditarietà ma appartiene a un regno a parte, al di sopra e al di là di ciò che è organico. Nello stesso periodo (1917) l’antropologia si stava differenziando in Nord America e in Gran Bretagna: in Nord America si affermava l’antropologia culturale, che si concentrava sulle credenze che le persone portano con sé e che trasmettono ai propri discendenti (radici dell’etnografia), mentre in Gran Bretagna l’antropologia sociale si dedicava alle modalità con cui le persone di relazionano tra loro nella condotta della vita sociale. Franz Boas, padre dell’antropologia culturale e maestro di Kroeber, decise di sostituire l’idea di razza con quella di cultura e l’idea di ereditarietà con quella di patrimonio culturale. Se infatti la cultura viene intesa come patrimonio culturale anziché come ereditarietà allora poteva equivalere a un retaggio di tradizioni che danno forma a credenze e pratiche di un popolo. Prima con l’influenza del romanticismo tedesco e poi con la perdita dell’impero britannico (1970), l’antropologia sociale aveva smesso di prestare servizio come ancella del potere coloniale, mentre nel Nord America le popolazioni native cercavano di far valere la propria voce nella lotta per l’autodeterminazione. La distinzione tra le due diventa irrilevante, sebbene l’antropologia sia in quegli anni più divisa che mai: le varie discipline si fondono ad altre più ampie, e l’antropologia sociale si unisce alle scienze sociali. Per molti sembrava che l’antropologia fosse una disciplina in rovina. CAPITOLO 4: RIPENSARE IL SOCIALE L’antropologia sociale nacque con Radcliffe-Brown come studio comparativo delle forme di vita che si possono riscontrare nelle varie società (non come un giudizio sulle potenzialità delle persone che vivono in esse). Può esistere un numero limitato di modi in cui le istituzioni si assemblano per creare una società ben funzionante? Per rispondere serve un’analisi comparativa sistematica, e questo secondo Brown doveva essere lo scopo dell’antropologia sociale. Questione di cosa sia una società: il problema è che le società non sono entità che si possono vedere o toccare, e che “società” e “vita sociale” sono due cose diverse. La storia delle società è ricca di trasformazioni, quindi come ammise lo stesso Brown la realtà con cui ci relazioniamo nella ricerca sociale antropologica non è un’entità ma un processo; bisognerebbe cercare di tenere assieme “vita sociale” e “vita di una società” (Brown non ci riuscì). Edmund Leach (autore di Un mondo fuori controllo?) critica Brown in quanto paragonava le dinamiche interne della società al funzionamento di un meccanismo, e il suo metodo di indagine partiva dal tavolo di progettazione, non dall’osservazione della realtà. Secondo Leach, tutta la vita e tutta la storia umana possono essere intese come un’esplorazione dello spazio infinito di possibilità aperte attraverso la combinazione di varie impostazioni o valori in un insieme finito di variabili = strutturalismo, introdotto nell’antropologia da Claude Lévis-Strauss (seconda metà XX secolo). L’antropologia si è sviluppata all’interno di un paradigma (termine che indica l’insieme dei principi fondanti di una disciplina che vincolano le sue domande e i mezzi per rispondere) evoluzionista, superato poi dal paradigma del funzionalismo. Il paradigma dello strutturalismo cambia nuovamente la questione, chiedendosi in che modo le azioni e le parole delle persone facessero significato. Per gli strutturalisti, la vita sociale prende forma della comunicazione, nel significativo scambio di segni e simboli. Di conseguenza le loro indagini chiave ruotavano su come i segni e i simboli possano veicolare un significato e come si relazionino a ciò che rappresentano. Si rivolsero quindi alla linguistica, che portava le stesse domande. Lévi-Strauss applicò al mondo sociale un metodo sviluppato dal linguista Roman Jakobson, il quale analizzava i fonemi di ogni linguaggio come una specifica combinazione di caratteristiche distintive, selezionate da quel determinato linguaggio all’interno di un repertorio limitato di caratteristiche disponibili per tutti gli esseri umani. L’idea era che lo stesso tipo di analisi delle caratteristiche distintive potesse operare non solo per uno scambio di parole ma anche per uno scambio di doni e merci nella vita economica e per lo scambio di persone nella costruzione delle relazioni di parentela e di affinità. Seguendo questa logica, ogni società mai esistita o che potrà mai esistere rappresenta solo una delle innumerevoli possibilità combinatorie, tutte comunque contenute in potenza nell’architettura e nel potenziale generativo di una mente umana universale. In quest’ottica però le persone sembrano essere sparite: esse non funzionano infatti grazie alle strutture, ma le strutture funzionano grazie a loro. L’antropologo strutturale vede nel dare e avere della vita sociale soltanto un’espressione esteriore di strutture inconsce, delle quali le persone sono totalmente all’oscuro. dell’essere (o della vita). Gli umani sono esseri bisociali perché producono sé stessi e gli uni con gli altri in continuo, come creature viventi e che respirano. Non sono due cose, ma una sola. La realtà stessa è relazionale ad ogni livello, ma cos’è una relazione sociale? Tre risposte: • Ogni relazione è una sequenza di interazioni che emergono nel corso del tempo: due parti si incontrano e negoziano finché non restano vicine - approccio transazionalista • Relazioni come rapporto tra ruoli che gli individui possono ricoprire all’interno di una struttura consolidata e istituzionalizzata, come tra genitore e figlio, maestro e allievo • Relazioni come modi che gli esseri viventi attuano per andare avanti insieme e per modellare l’esistenza gli uni degli altri Il fattore chiave è che le relazioni generino continuamente gli esseri che legano: le relazioni che intratteniamo con gli altri entrano dentro di noi, rendendoci ciò che siamo. Quando ci connettiamo con gli altri e allo stesso tempo ci differenziamo da loro, questi due meccanismi di unione e differenziazione agiscono dall’interno. Gli esseri umani non interagiscono quanto intra-agiscono. Comunque, mentre gli antropologi sociali sostengano questo tipo di pensiero, l’antropologia biologica rimane fedele alla teoria evoluzionista di Darwin. Quindi in realtà invece di constatare la complementarietà di due aspetti ci si trova davanti a due ontologie, una di relazione e una di popolazione. La soluzione sarebbe una biologia che pensa l’organismo vivente come fondamentalmente costituito nella sua relazione con gli altri, ripensando l’evoluzione non come un cambiamento delle linee di discendenza ma come il dispiegarsi dell’intera matrice relazionale in cui si generano e sopravvivono le forme umane e non umane (che sono i risultati che emergono incessantemente da processi di sviluppo o ontogenesi). CAPITOLO 5: ANTROPOLOGIA PER IL FUTURO L’antropologia è la disciplina che si fa carico del peso dell’esperienza umana in ogni sfera dell’esistenza e che si interroga su come poter modellare un mondo abitabile per le generazioni futuro, ma gli antropologi non riescono a farsi notare tra gli esperti né a dare risposte nel dibattito pubblico. L’antropologia scardina i fondamenti di quello che pensavamo di sapere già, infatti la responsabilità di prendere gli altri sul serio rende inammissibile perseguire la strategia di sollecitare l’originario appetito dei lettori fornendo loro dati e idee, conditi con originali novità, solo per appagarli. Si dà per assodato che le persone siano il risultato della propria cultura e che ogni cultura possa essere letta come un corpus di informazioni pronto per lo scrutinio degli esperti, e che quindi lo scopo sia la mera raccolta del materiale per completare una narrativa scientifica: questa visione non è scienza ma scientismo, ovvero una dottrina fondata sulla convinzione che il sapere scientifico abbia una sola forma e una verità universale. Gli antropologi vorrebbero essere ascoltati, ma hanno tre ostacoli: 1. L’antropologia presenta sé stessa come una disciplina che “fa” cultura, il che non ha molto peso in una cultura capitalista: la cultura è infatti il primo lusso ad essere eliminato quando si instaurano regimi di austerità. Oggi molti antropologi hanno smesso di usare questo vocabolo, ma abbandonando la sua rivendicazione, di cos’altro potrebbero occuparsi? 2. Problemi con il relativismo (identificato come elemento chiave della competenza antropologica), cioè l’idea secondo cui i giudizi hanno una loro logica interna o un movente razionale, e nessuno può essere classificato in alto o in basso su una scala di valore assoluta che faccia astrazione dalla cultura. In questa questione gli antropologi hanno un ruolo ambiguo, e non riuscendo a stabilire un proprio orientamento morale non vengono presi sul serio 3. Il problema con l’etnografia, che per l’EASA significa osservazione partecipante e viene spesso confusa con l’antropologia. L’etnografia in realtà piega l’osservazione partecipante ai propri scopi, cioè fare un resoconto che è il distillato delle vite degli altri (gli etnografi sono oggi assimilati a reporter). Lo scopo dell’antropologia è diverso perché significa attingere a ciò che abbiamo appreso, grazie alla nostra educazione con gli altri, per immaginare possibilità di vita diverse In più nell’opinione pubblica circolano molti stereotipi sulla figura dell’antropologo, che viene raccontato come l’intrepido cacciatore di reperti fossili, determinato a scovare le risposte che rivoluzioneranno la storia delle origini dell’umanità, o come quello imbarcato nella folle impresa di voler scoprire culture incontaminate dal contatto con la civiltà. Questi stereotipi che dipingono gli antropologi come stupidi, e i miti delle origini sui quali si basano, sono difficili da rimuovere; allo stesso tempo i divulgatori che hanno avuto qualche minima esperienza di vita presso popoli remoti non vedono l’ora di potersi presentare come antropologi. Si è quindi davanti a un vicolo cieco, e per invertire la tendenza bisogna fare tre cose: 1. Ripristinare l’antropologia come disciplina unica 2. Stabilire un nuovo accordo tra antropologi socioculturali e antropologi biofisici 3. Dimostrare come una futura antropologia che sia speculativa e sperimentale, analitica e descrittiva, abbia il potenziale di trasformare le esistenze La prima questione che si solleva è cosa significa definire l’antropologia una “disciplina”, dal momento che si trattava di una modalità di studio con le persone piuttosto che una ricerca sulle persone: si potrebbe dire che l’antropologia è una in-disciplina. Esiste però un altro modo di immaginare la disciplina che riflette meglio la pratica antropologica, cioè considerando coloro che la praticano come una comunità di studiosi, in cui le persone sono unite dalle loro differenze e non nella difesa di un territorio comune. Di conseguenza, non spetta all’antropologia una rivendicazione esclusiva e unica della cultura. L’antropologia, infatti, consiste in un vasto assortimento di piste nel paesaggio dell’esperienza umana; il recente proliferare di antropologie, non fa per forza presagire una frammentazione della disciplina, ma l’occasione per ciascuno di trovare la propria strada per produrre una conversazione unitaria. Il collante che tiene insieme l’antropologia è l’unità dell’esperienza, idea che viene espressa con il termine olismo: il compito dell’antropologia è focalizzarsi sull’intreccio di quegli aspetti della vita che potrebbero altrimenti essere ripartiti tra le diverse discipline per essere studiati separatamente. Analogamente, il soggetto dell’antropologia è l’umanità non segmentata, come dice Marcel Mauss: abbiamo bisogno del punto di vista dell’uomo totale. Comunque, olismo e totalizzazione non sono la stessa cosa, dal momento che con il primo ci si riferisce all’infinitò della vista e non al carattere definitivo di un essere preso nel suo insieme. In che modo l’antropologia differisce dalla sociologia? La profonda differenza tra le due discipline ha a che fare con il persistente retaggio del grande esperimento della metà del Ventesimo secolo noto come “scienze sociali”, un progetto fondato sull’illusione che i fatti sociali potessero essere registrati e analizzati con la stessa oggettività e autorevolezza di quelli naturali, con una fede per la comprensione scientifica rigorosa: il positivismo. Da qui nacque la moderna sociologia; gli antropologi invece che allinearsi con la scienza positivista si rivolgevano sempre più ad altri approcci umanistici. Inoltre gli antropologi socioculturali non si sono mai riconciliati con il modo in cui l’etnografia, quella parola che indicava l’osservazione partecipante, era stata fatta propria dai sociologi per avere a disposizione ogni possibile tecnica di inchiesta e raccogliere dati qualitativi per l’analisi, anche se ciò non comportava un reale coinvolgimento nell’osservazione. Oggi comunque il progetto delle scienze sociali si è largamente esaurito. Due demoni interiori dell’antropologia sono i concetti di razza e cultura, che vengono resi delle potenziali armi di distruzione di massa quando vengono combinati con i principi dell’essenzialismo e del retaggio. - essenzialismo = dottrina per cui un gruppo è categoricamente definito dai suoi membri, che hanno una serie di attributi in comune - Retaggio = principio per cui questi attributi sono trasmessi ai beneficiari in ogni generazione, indipendentemente e a priori rispetto alla loro vita nel mondo Nel connubio con il pensiero essenzialista, questa logica è profondamente ancorata nei fondamenti dell’antropologia. Gli antropologi hanno cercato di disintossicare la propria disciplina dal pensiero razziale in due modi: 1. Restringere la classificazione degli esseri umani esistenti dal livello di specie al livello di sottospecie, anche se affermare che tutti gli umani sono parte di una sottospecie non fa altro che riaffermare il concetto di razza. Significa rivendicare l’esistenza della razza e radicarla nella preistoria, quando esistevano razze distinte del genere umano. È ancora diffusa la credenza per cui i nostri antenati trionfarono grazie al possesso di determinati attributi, comuni a tutti gli umani moderni ma assenti nei loro concorrenti, che arano nei nostri geni fin dal principio. 2. Sostituendo il concetto di retaggio con quello di “patrimonio culturale”. In questo modo gli uomini non sono divisi dalla razza, ma dalla cultura, un ragionamento che portò gli antropologi ad affermare l’esistenza di culture discrete e che, se applicato alla varietà genetica ereditaria, ci riporta esattamente all’esistenza della razza. Per capire come gli antropologi finirono per riprodurre gli stessi principi che avevano favorito l’ascesa della scienza delle razze dobbiamo ritornare al punto originario in cui l’antropologia fisica e quella culturale presero due traiettorie separate. Dopo la fine della II Guerra Mondiale gli antropologi non potevano più permettere che le differenze culturali potessero essere biologiche, era un’idea inaccettabile. Nella Dichiarazione sulla Razza del 1996 c’è scritto che Non esiste una connessione necessaria tra caratteristiche biologiche e gruppi culturalmente definiti e non è giustificabile il fatto di attribuire delle caratteristiche culturali all’influenza del retaggio genetico. Sono parole importanti in quanto in esse si annida il germe del pensiero stesso che si voleva demolire, perché attribuiscono le “caratteristiche biologiche” dell’inizio al “retaggio genetico” della fine. La vera fonte del problema, comunque, è l’attribuzione di caratteristiche culturali e biologiche all’eredità genetica, che continua ad esistere negli approcci evoluzionisti insieme alle teorie dell’evoluzione bio-culturale (idea di un’ereditarietà a “doppio binario”,
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