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ripensare il neorealismo vitti, Dispense di Letteratura Contemporanea

schemi e riassunti dettagliati del libro

Tipologia: Dispense

2021/2022
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mariagiulia.b 🇮🇹

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Scarica ripensare il neorealismo vitti e più Dispense in PDF di Letteratura Contemporanea solo su Docsity! RIPENSARE IL NEOREALISMO: CINEMA, LETTERATURA, MONDO RIPENSARE IL NEOREALISMO: CINEMA, LETTERATURA E MONDO – Antonio Vitti Il termine per primo fu usato all’inizio del ventesimo secolo in filosofia, per definire una scuola che manteneva che l’oggettività dei fatti è indipendente dal pensiero umano. Fu ripreso dalla critica letteraria per “etichettare” il romanzo “Rubè” (1921) di Giuseppe Antonio Borgese, definizione estesa ai cosiddetti Realisti degli anni Trenta: C. Bernari, A. Moravia, V. Pratolini ed E. Vittorini che ancora vengono indicati come precursori, perché avevano reagito all’ottimismo superficiale del Regime e si erano sforzati di rinnovare l’uomo nel suo intimo. Essere fascista voleva dire appartenere allo strato più basso dell’umanità, essere antifascista essere più uomo. La linea di continuità storica fra l’anteguerra e il dopoguerra crea degli equivoci. Un’equivocità che si attenua nel campo cinematografico o per lo meno non esiste per molti registi che negano l’esistenza di film che possano essere chiamati neorealisti nel periodo antebellico in quanto segnano l’inizio del neorealismo con la Resistenza contro il nazi-fascismo e la liberazione della patria. Basti pensare che il regista Giuseppe De Santis, aiuto regista e anche collaboratore della sceneggiatura di “Ossessione” (1943) di Luchino Visconti, ha sempre sostenuto che: «il film anticipa sicuramente le scelte che poi farà il cinema neorealistico perché nasce prima della caduta del fascismo, … penso, però, che il neorealismo nasca da un nodo storico. C’è una guerra, c’è la caduta del fascismo, c’è una Resistenza e gli italiani conquistano la democrazia, senza questo nodo stoico il Neorealismo non sarebbe potuto nascere». Non si trova consenso neanche nel rifiutare l’appellativo di scuola, l’interpretazione che molti hanno seguito dopo la pubblicazione della prefazione di Italo Calvino al suo romanzo “Il sentiero dei nidi di ragno”. Anche su questo fronte non tutti sono d’accordo nel dire o nel pensare che il neorealismo non sia una scuola. Difatti lo storico e regista Carlo Lizzani, protagonista del movimento, gli da anche questo appellativo riconoscendo in esso un fenomeno complesso che ha rappresentato un movimento culturale che ha avuto all’interno delle personalità diverse che si sono ritrovate d’accordo su aspetti fondamentali della loro stagione culturale in quanto ha portato a un cambiamento e re-invenzione del linguaggio cinematografico che ha influenzato il formato, la composizione del fotogramma e il montaggio. Il convegno organizzato a Casa Artom oltre a ripensare il ruolo avuto dal neorealismo nella cultura e nel cinema italiano servirà per riaprire il discorso su questo fenomeno che dall’estero viene visto e studiato come il più importante movimento culturale italiano. Il 14-15 maggio 2008 si sono radunati docenti e studiosi italiani e americani per discutere e riflettere su questo appassionante e sfuggente fenomeno che continua a far parlare di se anche nel cinema italiano contemporaneo con il filone di cinema chiamato neo-neorealista ma anche con registi come Gianni Amelio e Mimmo Calopresti, che hanno dei legami stilistici e tematici con quel fenomeno. Ripensare al neorealismo è anche un modo di rivisitare la grandezza di quegli artisti che smentendo il concetto che i veri neorealisti fossero soltanto gli artisti che coglievano la realtà al suo stato puro, senza mediazione, hanno svelato il trucco dietro la macchina da presa per mostrare aspetti del nostro vivere che prima di allora era rimasto nascosto, mi riferisco non solo alle realtà sociali ma anche a modalità linguistiche e gestuali che grazie a quegli artisti sono apparse sul grande schermo. Il convegno è servito a riaprire il caso Ignazio Silone e “Fontamara”, oltre a mostrare l’influenza che il teatro napoletano di Eduardo De Filippo ha avuto su quella felice stagione. La guerra forzò il letterato a prendere una posizione. L’esempio di Giaime Pintor come lezione d’impegno del nuovo letterato resta nella lettera testamento scritta da Napoli il 28 novembre 1943, tre giorni prima di cadere su una mina a Castelnuovo al Volturno nel tentativo di raggiungere le formazioni partigiane. Secondo A. Gramsci il mondo moderno, con la nuova organizzazione del lavoro, ha gettato le basi materiali che rendono possibile un collettivo salto di classe per un intero ceto sociale. Il nuovo intellettuale non deve sentirsi traditore a livello individuale perché abbandona la propria classe di provenienza: la borghesia, perché ci sarà un intero e progressivo mutamento di una classe intera. Che cosa avrebbe dovuto fare l’intellettuale durante quella fase? Secondo Gramsci egli avrebbe dovuto assumere un ruolo importantissimo perché a livello culturale avrebbe combattuto l’egemonia della borghesia nella lotta con il proletariato. Il nuovo letterato sarebbe dovuto andare verso il popolo per farsi promotore della letteratura nazionale popolare, cioè arte impegnata per una nuova cultura. La scoperta dell’opera gramsciana aprì in Italia un dibattito che condizionò e costrinse molti scrittori italiani a fare delle scelte e portò allo scoperto aspetti irrisolti della cultura italiana come la questione della lingua e il ruolo storico dell’intellettuale a partire da Dante. Il problema della lingua, cioè come far parlare i personaggi, non credo venne mai posto in maniera teorica nel mondo del cinema, ma venne fuori lavorando e discutendo sulle varie sceneggiature, almeno questo fu un problema affrontato da De Santis durante la lavorazione dei film ambientati in Ciociaria. Se il Neorealismo significava prima di tutto radicarsi nelle varie problematiche nazionali, molto spesso, per ogni film che si faceva nelle varie realtà locali e regionali, veniva spontaneo far parlare questi personaggi in dialetto o per lo meno, non tanto in un dialetto stretto che poteva rendere incomprensibile il sud al nord e il nord al sud, ma in una lingua italiana che fosse contaminata, che avesse un accento, con qua e là la battuta in dialetto. Visconti, ne “La terra trema – Episodio del mare” (1948) nella copia originale fece parlare tutti i pescatori di Aci Trezza, in dialetto siciliano stretto, incomprensibile a Visconti stesso, perché loro non conoscevano la lingua italiana. Per Visconti era una scelta politica oltre che una provocazione polemica. Lo fece per sottolineare che la decantata unità d’Italia era un’unità con molte sfasature, con ingiustizie, appunto per denunciare che il sud a quell’epoca veniva abbandonato. Per altri registi questo modo di fare cinema significava isolarsi dal rapporto con il pubblico nazionale e intendevano lavorare in una direzione in cui il pubblico fosse il destinatario dei film, perciò quell’operazione di Visconti fu considerata radicalizzante, che poi il regista stesso dovette alterare accettando di far mettere i sottotitoli in italiano oppure il doppiaggio del film in una lingua un tantino più comprensibile. Mario Alicata, allora portavoce della politica comunista nel meridione era contrario all’inserimento del dialetto nei film regionali, locali, e sosteneva la tesi che in realtà il cinema essendo finzione, anche la lingua poteva essere una lingua di finzione, e che i personaggi, sia pure appartenenti a società e a civiltà locali, oppure essendo borghesi, operai o contadini, dovessero parlare una lingua che fosse non solo comprensibile, ma il più possibile poetica e il più possibile ricavata o di diretta dipendenza dall’italiano. Alicata portava ad esempio i romanzi di Verga, dove sia pure nel periodare, nelle frasi e nel componimento della lingua, c’era un substrato e una derivazione dal dialetto siciliano, ma il dialetto non veniva mai parlato in modo diretto, ma veniva semmai mediato attraverso quello che questo dialetto aveva accumulato nella sua storia dalle altre influenze linguistiche delle varie occupazioni dell’isola. ESISTE UN TEATRO NEOREALISTA? – Enrico Bernard Moravia e Bernari non hanno mai gradito una schematizzazione rigida. Infatti, pur apprezzando il cinema del dopoguerra, questi scrittori hanno ripetutamente insistito sulle diversità tra le loro opere e il cinema neorealista. E più la critica ha puntato per comodità ad un “contenitore” unico per il cinema neorealista del dopoguerra e la letteratura del periodo 1927-1934, più Moravia e Bernari hanno mostrato insofferenza ed hanno preso anche strade diverse e contraddittorie rispetto a certe “riduzioni” scolastiche delle rispettive più complesse poetiche. Il primo cinema neorealista del Rossellini di “Paisà” e “Roma città aperta”, dei De Santis, Lizzani, Maselli de “Il sole sorge ancora”, tende per scelta ideologica al documento e ad una visione critica della realtà, ma con un soggettivismo limitato allo stretto necessario. Al contrario la letteratura di Moravia e Bernari non può prescindere da una visione psicologica, interiorizzata, esistenziale e surreale del mondo. Qui le strade tra letteratura e cinema neorealista si dividono: per la letteratura il rapporto con la realtà è un meccanismo per entrare nell’ambito del contenuto esistenziale dei personaggi, invece il cinema neorealista degli anni ’44-’50 “usa” l’individuo per descrivere una realtà storica o sociale. Così, mentre nelle opere d’esordio di Moravia e Bernari, “Gli indifferenti” del 1929 e “Tre operai” del 1934, il contesto fa da sfondo al dramma interiore dei personaggi, nel cinema il “contesto sociale” è “ideologicamente” prevalente. In una conferenza negli Stati Uniti e raccolta da Antonio Vitti, uno dei Maestri del neorealismo, Peppe De Santis, spiega che le influenze letterarie sul suo cinema sono “americane” (Steinbeck, Hemingway ecc.), limitando il suo rapporto con la letteratura italiana a due casi: “Gente in Aspromonte” di Alvaro e “Tre operai” di Bernari. È vero che il cinema “neorealista” ha avuto una sintonia di intenti ideologici, un comune sentire con gli scrittori considerati precursori di questo genere. Non si può certo ignorare l’influenza che un romanzo come “Tre operai” può aver avuto su “Ladri di biciclette”, per esempio. Allora la stretta parentela tra il cinema e la letteratura neorealisti è data dalla “posizione” etica e morale dell’autore che si esprime ideologicamente e politicamente, tanto per cominciare dalla scelta del tema del racconto o dello scenario, nonché dalle finalità che si propongono queste opere, certamente non realizzate per l’intrattenimento. Non si tratta quindi di minimizzare i legami tra letteratura e cinema neorealisti, bensì di riesaminarli nella loro giusta luce. Non è del resto un caso se delle tre opere narrative considerate “antesignane” del neorealismo, nessuna ha avuto una significativa trasposizione cinematografica. E ciò nonostante i tentativi non pienamente riusciti di un regista del calibro di Citto Maselli che cerca di fare letteratura col cinema, mentre Bernari e Moravia pensavano piuttosto a far cinema con la letteratura. Scrive il Mereghetti a proposito della versione suscita subito l’interesse di Bernari che scorge nell’autore originario di Camerino un “alter ego” teatrale. Cosa collega Bernari a Betti? Guarda caso: tre operai. Infatti il dramma di Betti inizia da un “neorealistico” fatto di cronaca: una frana che ha sepolto tre operai. Ora, il romanzo di esordio di Bernari si intitola nella prima versione del 1929-1930 “Gli stracci”, mentre il titolo e la stesura definitiva di “Tre operai” sono del 1932. C’è di più: mentre il Teodoro de “Gli stracci” è un giovane di estrazione piccolo-borghese, improvvisamente nella stesura successiva del 1932 (“Tre operai”) diventa il figlio di una famiglia operaia. Le date, le ricorrenze e le concomitanze non escludono, anzi sembrano proprio avvalorare l’ipotesi di un continuo rapportarsi della letteratura al teatro e viceversa, soprattutto in questi anni. Certo, stilisticamente “Frana allo scalo nord” e “Tre operai” sono differenti. Il secondo romanzo di Bernari “L’ombra del suicidio” ovvero “Lo strano Conserti” rafforza quelle tendenze kafkiane e surreali che porteranno anche Betti al suo capolavoro teatrale, “Corruzione a Palazzo di Giustizia” del 1945. Non posso qui dilungarmi su questo argomento, perché un confronto tra l’opera rimasta a lungo inedita di Bernari e “Corruzioni” di Betti necessiterebbe di un saggio a parte. È possibile affermare che come il teatro di Machiavelli, Aretino e soprattutto Goldoni ha creato i presupposti del realismo manzoniano, così il teatro di Viviani anticipa gli elementi “neorealisti” del teatro di Eduardo e di Betti e della narrativa di Bernari che sarà protagonista dell’apertura di un terzo fronte: il cinema. Infatti l’osmosi di temi, atmosfere e personaggi dal teatro al cinema trova in “Tre operai” di Bernari, come nei tre operai protagonisti della “Frana” di Betti, un esempio della possibilità di trasformare il romanzo in cinema partendo dal teatro. Sembra impossibile impostare qualsiasi discorso sul cinema e sulla letteratura neorealista senza capire l’importanza del teatro nella formazione della narrativa di Bernari e Moravia che hanno in Viviani e in Pirandello modelli drammaturgici di riferimento. Gli stessi modelli che Eduardo e Betti hanno ben presenti nella stesura di una drammaturgia che a buon diritto possiamo definire “incunabolo neorealista”. LA BALENA DI ROSSELLINI – Claudio Bondì A quasi quarant’anni di distanza s’intuisce che i viaggi e le permanenze americane di Roberto Rossellini dal 1969 al 1977, tra New York, San Diego, Houston, Santiago, Buenos Aires, Rio De Janeiro, più che spinti dalla sua oggettiva curiosità per le cose e per il mondo furono il frutto di aver anticipato dentro di sé, come molto altro, ciò che oggi chiamiamo “globalizzazione”. I coniugi de Ménil, petrolieri miliardari emigrati dalla Francia nel 1940, lei ereditiera della grande famiglia Schlumberger, collezionisti d’arte, mecenati che avevano contribuito a realizzare il Media Center dell’università, furono tra i primi a promuovere ed assecondare la sua antica passione per la tecnologia, la biologia, la scienza. Nella città texana era capitato negli anni in cui la scienza, appunto, la tecnologia erano sotto i riflettori di tutto il mondo: gli anni della gara spaziale con l’Unione Sovietica, dei viaggi sulla Luna, del centro aerospaziale della NASA, dell’istituto di cardiochirurgia, ecc. Scienza, televisione e storia che l’allunaggio del luglio ’69 aveva coniugato tra loro, erano connesse alla posizione artistica ed ideologica del Rossellini di quegli anni. Da un cinema che intendeva rendere visibile la realtà senza diaframmi interpretativi, «io non voglio dimostrare nulla», diceva spesso, il passo verso la televisione fu automatico. L’interesse di Roberto Rossellini per la televisione durava ormai da quasi venti anni, dai documentari indiani in poi, poiché aveva intuito, prima di altri, che questo mezzo gli consentiva di offrire visibilità e documentazione diretta di fatti e conoscenza, e dunque contribuiva ad educare il pubblico. Proprio nei film televisivi di quegli anni “Blaise Pascal” del 1971 e “Cartesius”, l’ultimo del 1974, per strade diverse, tutta la consapevolezza scientifica acquistata nei soggiorni americani trovava una via di comunicazione, un anticipo dello sviluppo che l’evoluzione della tecnologia e delle scienze hanno significato per la storia: quella con la S maiuscola. Chi scrive ha fortunosamente ritrovato alcuni anni fa nel fondo dimenticato di una borsa un pacco che contiene il trattamento originale in inglese e la traduzione italiana del progetto “La scienza”, scritto in collaborazione con il biologo Clark Read. L’elenco totale dei materiali girati e conservati tra Rice University, de Menil Foundation di Houston, State University of New York a Buffalo, 4 Ampex Helican scanner video conservati a Houston senza minutaggio e con il titolo “Rossellini Conference” non più visibili a Houston perché il riproduttore video magnetico più vicino del sistema Ampex Helican Scanner dicevano si trovasse ad Atlanta, Science 16mm b&w c/o William Colville Smithville Texas. Più altri materiali registrati presso la rete televisiva locale KUTH channel 8. Di questi materiali alcuni sono conosciuti e sono stati montati a Roma tra il 71 e il 73: come la ripresa della prima macchina per la circolazione extra corporea messa a punto dal Centro di cardiochirurgia di Houston, o la visita e il funzionamento del telescopio di Arecibo a Portorico e infine l’esame delle pietre lunari con Rossellini presente. Nelle carte ritrovate non si fa cenno ai contenuti degli altri materiali audiovisivi. È stato emozionante sul piano personale ritrovare all’improvviso una parte di vita che in qualche modo era stata un po’ mia, ma ancora di più scorrere il progetto incompiuto “La scienza” nel quale si riconosce la metodologia d’approccio che fu il nodo centrale degli ultimi anni di Rossellini. Lo script rivela una concezione di scienza che diventa sinonimo di conoscenza. Rossellini voleva indagare, sulla natura: la fisica, la chimica, la biologia: il sapere scientifico unito al medium cinematografico e televisivo si costruiva secondo la sua ipotesi attraverso un processo dialogico in cui coinvolgere ricercatori e scienziati. Rossellini avrebbe voluto proporre, attraverso questi dialoghi, una sintesi tra cinema e scienza, tra scienziato e cineasta. Egli amava ripetere, con un po’ di “undestatement”, che nella sua lunga carriera aveva girato sempre un unico film: dai documentari, al periodo neorealista, da “Viaggio in Italia” alle ricostruzioni storiche per la TV. La descrizione, per quanto necessariamente sommaria, dell’attività di Rossellini negli Stati Uniti e quindi nell’America latina serve da prefazione per far comprendere che quanto si dirà in seguito o meglio quanto si racconterà, non è in contraddizione con le pagine precedenti ma anzi ne rappresenta un originalissimo corollario. Rossellini non ha mai cessato di essere un neo-realista intendendo questa definizione come un comunicatore di “cose viste”. Non trovava nell’approccio alcuna differenza tra la trilogia della guerra e il suo cinema successivo. Considerava cinema anche la sua esperienza televisiva, poiché la televisione era la messa in onda, la grande sala, non la tecnica di ripresa, o l’impianto della struttura narrativa. Era il maggio del 1971. Rossellini s’innamorava delle persone ed era oggetto d’amore. Torna dal Cile con materiale documentario sulle miniere di rame a cielo aperto filmate dal figlio per un documentario, e «le immagini fotografiche delle galassie riprese dall’osservatorio di Cerro Tololo» quindi l’intervista viene montata e successivamente mostrata al presidente cileno. Poi ritorna in Italia a Roma, sta cominciando la preparazione di “Agostino d’Ippona”, con un’idea, la trama di un film ispirato ad un fatto di cronaca: il 28 ottobre del 1971 una grande balena si era arenata sulla spiaggia di una località a centocinquanta chilometri a nord di Santiago, Playa de Los Vilos. Da questo fatto Rossellini aveva tratto un apologo, una specie di parabola sulla ricchezza e sulla felicità. Propose a chi scrive di realizzarne un film sotto la sua supervisione. È Renzo Rossellini che ha trovato tra i numerosissimi fascicoli del padre, sceneggiature, progetti, appunti, un ritaglio di giornale del 28 ottobre del 1971. Chi ha avuto la fortuna di affiancare Roberto Rossellini, lavorarci insieme, ma anche soltanto conoscerlo e passare un’ora con lui, non può dimenticare, oltre l’umana simpatia, la capacità di seduzione, il coraggio e l’intelligenza, la quantità continua di progetti, d’idee, di congetture che, come un fiume carsico, emergevano all’improvviso tra le sue parole, magari a pranzo, o durante un’intervista, al telefono, o in viaggio. Egli è stato l’ispiratore e l’anticipatore di tanto, tutto, il cinema della seconda metà del ‘900, e questo ruolo maieutico gli è stato riconosciuto tra gli altri dalla nouvelle vague, dal free cinema di New York, dal cinema novo brasiliano. Decide d’autori in tutto il mondo sentono in lui il maestro. Federico Fellini disse con un’intelligente metafora: «Roberto è stato il vigile che, prendendomi per mano, mi ha aiutato ad attraversare la strada». FILMARE L’ARIA INTORNO ALLE COSE. IL NEOREALISMO DI FEDERICO FELLINI – Fabrizio Borin “Roma città aperta”, 1945: siamo al secondo tempo del film di Roberto Rossellini alla cui sceneggiatura partecipa appunto il giovane Fellini. Don Pietro viene a sapere dai ragazzi che nella casa popolare c’è Romoletto che nasconde un fucile ed una bomba artigianale che intende lanciare sui tedeschi impegnati in un’operazione di rastrellamento alla ricerca degli uomini da deportare in Germania e dell’esponente comunista della Resistenza, l’ingegner Manfredi. Le sequenze che vanno da questo punto alla morte drammatica di Pina, divenute un’icona del neorealismo cinematografico italiano, ma anche della storia del cinema mondiale, se riconsiderate dal punto di vista di alcuni piccoli nuclei narrativi e di situazione, consentono di verificare alcune caratteristiche davvero interessanti e adatte ad introdurre le tematiche del titolo di queste considerazioni. Seguendo l’ordine del racconto, dopo l’affermazione serissima del ragazzino Marcello, il primo personaggio ad entrare in gioco è il brigadiere: napoletano, segaligno, dignitoso e soprattutto provvisto di quella calma saggezza popolare che gli consente di barcamenarsi alla meno peggio tra i civili italiani, i fascisti ed i tedeschi. Infatti, quando questi ultimi prendono posizione ed inizia il rastrellamento, il brigadiere, del quale gli stessi soldati tedeschi non si fidano più di tanto, viene paradossalmente fatto sostare proprio nel punto centrale degli snodi narrativi della macrosequenza, da dove in certo modo si rende utile. Questa posizione gli permetterà di fungere da cerniera: sia sull’arrivo di don Pietro con il ragazzino- chierichetto; sia all’arrivo delle donne che, prima di unirsi alle altre, riescono a sussurrare rapidamente al brigadiere che il nonno non è voluto scendere. A questo punto il fascista chiede al nostro brigadiere chiarimenti sul piano dell’appartamento di questo malato grave e l’uomo: «Mah, non so. Al terzo, al quarto…» e aggiunge, in un appena accennata ma chiaramente espressa attestazione di dignità, anche allo scopo di opporre alla sicurezza germanica, una testimonianza di ruolo pubblico utile alla collettività: «Non faccio mica il portiere…». Poco convinto, il graduato decide di salire con due soldati a controllare direttamente, e per due ragioni. La prima perché, afferma, «sono anche un po’ dottore», vale a dire che oltre ad essere un militare è pure pratico di medicina, anche se però non in senso completo, dato che lui stesso ammette di esserlo parzialmente; e, secondariamente, perché, rivolgendosi al brigadiere gli dice: «La tua faccia non mi piace». Le fasi che portano alla “padellata” e, prima, il tipo del soldato fascista toscano che è anche un po’ dottore, non solo non indeboliscono l’episodio del rastrellamento quando i tedeschi portano via Francesco e la contemporanea morte di Pina, ma anzi lo caricano, lo preparano. Bene, è molto probabile che, come in altri passaggi di film precedenti non rosselliniani, tutto questo abbia visto emergere la vena comica e di scrittura per dir così, anche leggera di Federico Fellini, una congenialità che, prima che nella sceneggiatura e nella regia ha avuto modo di essere sviluppata in molta pratica di disegno e di impegno letterario, teatrale, radiofonico. Rimane l’impressione di vedere e sentire il colpo di padella che Fabrizi affibbia all’arzillo e per niente “moribondo” sor Biagio; anche perché quest’ultimo è steso a letto, svenuto che più svenuto di così non si può, mentre la padella appare dal basso dell’inquadratura, impugnata dal ragazzino nella mano destra mentre la gira e rigira quasi a controllare che non ci sia la traccia dell’ammaccamento, del “ficozzo” che verosimilmente invece potrebbe apparire sulla testa del vispo vecchietto antifascista. Il quale, solo poco prima aveva indirettamente chiamato la padella e la cucina quando aveva ricordato «Se famo ‘na magnata» per festeggiare l’imminente matrimonio di Pina e Francesco ed aveva imprecato contro i tedeschi ed i fascisti: «Ma io me ne frego… de li tedeschi… de li fascisti! Io je faccio un…», prima che un pronto don Pietro gli metta una mano sulla bocca per farlo tacere. Sonorità, questa, che sempre per pura assonanza fa venire alla mente il rumore prodotto dal proiettile sparato dalla rivoltella del gerarca fascista in “Amarcord”, diretto da Fellini nel ’72. Il grammofono, issato sul campanile a segnare l’opposizione al regime, alle sue parate ed esibizioni ginniche, comincia a diffondere le note dell’”Internazionale”, mentre il gruppo di militari, nel bar, è tutto impegnato al biliardo alle prese con una «palla difficile» da colpire; saranno invece tutti costretti, dalle note musicali, ad uscire e colpire, prendendo a revolverate, la tromba del grammofono, finché una pallottola, con il colpo secco di cui s’è detto, contribuirà a far tacere la voce del dissenso politico e a scatenare l’ennesima vendetta contro la gente del paese, nella quale sarà peraltro coinvolto anche il padre “anarchico” del giovane Titta. La retata di “Amarcord” per le vie di Rimini, come il rastrellamento romano, e il fascista con l’olio di ricino fatto bere al padre di Titta quale punizione per la sua massima “sovversione”, può richiamare l’ironia della situazione in “Roma città aperta” nel breve scambio di battute tra la donna con la secchia del bucato alle fondane e lo stesso graduato che con i suoi uomini comincia a perquisire l’edificio dal tetto. Allora se questa parentesi “comica”, questa piccola serie di fenomeni “leggeri” all’interno del film a apparentemente esterni all’azione, all’intreccio, alla trama, ai personaggi che stanno tutti vivendo l’occupazione e la guerra con le sue crudeltà e le sue morti anche tra i civili, non solo non riduce il pathos ma anzi lo nutre e lo facilita nel suo sviluppo così come voluto da Rossellini e da Fellini che collabora con il regista alla sceneggiatura, potrebbe risultare poco importante attribuire con il bilancino critico ad uno dei due l’ideazione piuttosto che la concatenazione ovvero i tempi comici. Al giovane Fellini rimane impressa la capacità di vedere e filmare l’aria che circonda le cose nel senso di acquisire la consapevolezza che preliminarmente, appunto, ci sono «le cose» della vita vera, reale, concreta ed immediata alle quali ci si deve abbandonare per servirle e raccontarle, quelle cose, senza orpelli intellettuali, aggiunte ideologiche, abbellimenti estetico-espressivi, eccetera; cose che poi sono la capacità rosselliniana di fissare la realtà in tutti i suoi spazi, di guardare le cose dentro e fuori contemporaneamente, di svelare ciò che di inafferrabile, di arcano, di magico, ha la vita. Un sistema dinamico, il vento, che aiuta il cineasta a creare stupendi viaggi-da-fermo, ovvero a ideare sensazioni di vario tipo: preparazione dell’evento, sensazione scontornata dell’attesa, anticipazione di un pensiero o di una notizia, atmosfere di contesto, vagheggiamenti di chimeriche ed “esotiche” sorprese, reinvenzioni della memoria, vaghi profumi dell’inconoscibile, senso dell’avventura immaginata, dosi stranianti nella magia del suo specialissimo realismo, inserimento sonoro, musicale in modulazione sulle particolarità di personaggi “lunari”, ambienti stranianti, proiezioni ideali solo sognate. E però l’aria, origina atmosfere inquietanti oppure tranquillizzanti, è potente ed efficacissimo congegno di montaggio, visivo o sonoro e non di rado applicato nelle combinazioni di entrambi, che nell’autore di “Otto e mezzo” si rivela adatto ad aprire o chiudere sequenze, ovvero a legarle tra loro in maniera difforme dalla fenomeno neorealistico, delle sue applicazioni e riflessioni: «Perciò, quando si parla di neorealismo ci si può riferire solo a Rossellini. Gli altri hanno fatto del realismo, del verismo, o hanno tentato di tradurre un talento, una vocazione, in una formula, in una ricetta». Per un verso, l’indicazione del guardare le cose ad un tempo dentro e fuori, lascia per Fellini in qualche modo il passo alla sola sfera interiore, istintiva, individuale. E, per altro verso, permette all’autore di “Le notti di Cabiria” di compiere un gesto di affettuosa cortesia amichevole verso il grande “padre inevitabile”, verso il regista de “La prise du pouvoir per Louis XIV” (1966) quando affida la conclusione di queste sue note sul “tasso” neorealistico rosselliniano ad una sorta di formale autorimpianto fatalistico per non aver egli stesso fatto la medesima scelta: «Ma forse questa è un’interpretazione mia del tutto personalistica, la proiezione altrettanto viziata dall’imbarazzo e dalla nostalgia di chi non ha saputo o potuto essere diverso. Rossellini è stato una specie di metropolitano che mi ha aiutato ad attraversare la strada. Gli riconosco, nei miei confronti, una paternità come quella di Adamo: una specie di progenitore da cui siamo tutti discesi. È stato un incontro importante, sono stati importanti i film che ho fatto con lui: in maniera di destino, però, senza che ci fosse volontà o lucidità da parte mia. Io ero disponibile per qualche impresa e lui era lì». Se si tratta di dare la giusta importanza e collocazione all’orizzonte del neorealismo rosselliniano osservato con acuti occhi felliniani, rimane all’attenzione anche un altro degli aspetti ricordati. Si tratta della faccenda di riuscire a camminare in equilibrio tra condizioni difficili, contrastanti, fors’anche ostili e riuscire, con grande naturalezza istintiva e di carattere, a farle diventare sentimento, valori emozionali, un punto di vista. Questa situazione è precisamente la dimensione, tipicamente felliniana, di sentirsi, Fellini, a suo agio nella vociante confusione del set dove paradossalmente trova concentrazione e ispirazione per fare, organizzare, suggerire, provare, dirigere, filmare. Ad un tempo le cose e la loro aria circostante. Con “I vitelloni” siamo nel 1953 e questo consente di riprendere quanto, in quello stesso anno, Franco Fortini sollecita a riflettere e comprendere. Vale a dire l’apparizione sulla scena italiana di nuovi soggetti che possiamo riconoscere come l’emergente classe media. E qui trovano espressione anche le problematiche per un verso connesse alla stanchezza della formula neorealista e per altro verso al suo progressivo superamento antipopulista. Ciò porterà in seguito alla ricerca di autori e scrittori per il cinema che cominceranno a misurarsi con la realtà che cambia molto rapidamente, che è esattamente quanto rilevava Fellini a proposito della sterzata pedagogica di Rossellini e circa la necessità mancata di procedere alla intercettazione dei cambiamenti prodottisi nell’Italia e nella società dei primi anni Cinquanta, che Fellini invece intuisce e inizia magistralmente a raccontare. In questi primi anni Cinquanta c’è un’altra tappa di avvicinamento-distanziamento di Fellini dal neorealismo e si riferisce ad “Agenzia matrimoniale”, che cronologicamente sta tra “I vitelloni” e “La strada”. È un segmento del film-inchiesta zavattiniano che “pedina” Antonio Cifariello in una finta inserzione per trovare un’anima gemella, e la povera Rossana sarebbe disposta a sposare anche un lupo mannaro pur di sfuggire alla miseria. Poi, dalla favore feroce di Gelsomina e Zampanò in avanti, il percorso del realismo visionario felliniano è quello che tutti conosciamo, ma che non sarebbe stato possibile se egli non avesse incontrato sul suo destino, il “pizzardone”, il “metropolitano” Roberto Rossellini che l’ha aiutato ad attraversare, guarda caso, proprio “La strada”, intesa come uno dei film-cerniera della sua poetica. Un cammino che Fellini, come Antonioni, non seguirà se non per l’idea del cinema come inchiesta. Al punto che chi scrive è convinto di poter definire “La dolce vita” un potente film-inchiesta sull’Italia della Crisi, del Boom economico e del cinismo incombente. Che “I clowns”, oltre ad essere un atto d’amore per l’universo del circo, è un film-inchiesta su un mondo e su un tipo di linguaggio comico avviatosi verso una lunga, forse inarrestabile agonia mortale. Che “Prova d’orchestra” è un film-inchiesta, un apologo triste sulle macerie dei mali di una società ottusamente imprevidente e arrogante. DAL NEOREALISMO AL NEOREALISMO – Gian Piero Brunetta «Non credo che in Italia occorra servirsi di scenografi per costruire un film. Noi dovremmo mettere insieme pellicole semplici e povere nella messinscena, pellicole senza artifici, girate come si può dal vero. Basterebbe uscire in strada, fermarsi in un posto qualsiasi e osservare quel che accade durante mezzora, con occhi attenti e senza preconcetti di stile, per fare un film italiano, naturale e logico. Arrestatevi all’angolo di una via del centro o del sobborgo, rimanete estranei a quel che v’accade intorno e osservate ogni cosa che se v’apparisse nuova» . C’era una volta Cesare Zavattini! …diranno subito i miei lettori. No, signori, avete sbagliato, c’era una volta Leo Longanesi che, col suo articolo “L’occhio di vetro” sul numero monografico della rivista “L’italiano” 1933, dedicato al cinema sembra fissare i punti cardinali e i modi del vedere della successiva poetica neorealista. Questo testo, unito a una serie di microsoggetti sul meccanico di biciclette, sulla stazione di provincia, sulla ferrovia, sulla fiera italiana, sulla pensione milanese ecc. non costituisce certo un unicum. Anzi va subito opportunamente riportato a un clima non solo italiano: “L’occhio di vetro” mette a fuoco realtà strapaesane e stracittadine, ma respira cultura europea e mitteleuropea, dal momento che nello stesso numero vengono pubblicati articoli di Chaplin e Bela Balázs. Se guardiamo al di fuori del cinema italiano sicuramente il cinema di Jean Renoir è l’esempio alto del modo naturale in cui si sviluppa nel cinema europeo degli anni Trenta il cammino verso il realismo nel solco della grande tradizione pittorica e letteraria ottocentesca. Non si tratta certo di una frontiera avanzata e tuttavia per molto cinema sarà questo il passaggio obbligato per fare i conti con la modernità. La rivoluzione sovietica aggiunge a questa tradizione il valore ideologico e utopico di immaginazione di prospettive e orizzonti futuri. Anche se, già a partire dal I Congresso degli scrittori sovietici dell’agosto 1934 ai codici culturali verrà sostituita una normatività ideologica rigida e limitativa che farà regredire in modo drammatico la ricerca espressiva in Europa. Verso la fine degli anni Venti, soprattutto per merito delle poetiche di Ejzenstejn, Pudovkin, Vertov, che cominciano a circolare nell’Europa occidentale, sembra possibile vedere una naturale confluenza delle avanguardie in un movimento capace di avvicinare le nuove realtà sociali. Grazie a una serie di spinte che giungono dall’Unione Sovietica e dalla Francia si viene costruendo un nuovo orizzonte culturale orientato in prospettiva verso modelli naturalistici e realistici. Il cammino verso il realismo non presenta una direttrice unica: anzi appare come il frutto della confluenza tra forze contrapposte. Prima di giungere ai film di Rossellini, si deve tener conto dello scambio e dell’interazione di molteplici forze in campo. Non si può comprendere la fase di gestazione del neorealismo, senza tener conto del formidabile sviluppo del dibattito culturale che coinvolge in Italia, verso la fine degli anni Venti, gli intellettuali militanti fascisti e antifascisti che si prodigano per la rinascita di una cinematografia ridotta a zero. Se in una prima fase si utilizza in Italia questo termine avendo come riferimento privilegiato la cultura sovietica, verrà inclusa in seguito in maniera esplicita la letteratura tedesca e in particolare il movimento della “Neue Sachlichkeit”, di cui il vocabolario italiano è un calco esplicito. La Nuova Oggettività tedesca, alcuni film che la rappresentano e il cinema sovietico appaiono come i modelli che interagiscono e sono in grado di influenzare direttamente sia “Sole e Terra madre” di Blasetti che “Rotaie” di Camerini. Il punto d’arrivo in Italia in questa fase di formazione di un humus culturale destinato ad agire sul medio-lungo periodo sembra riconoscibile nell’”Introduzione” di Barbaro nel 1932 a “Il soggetto cinematografico” di Pudovkin: «Quanto al realismo c’è purtroppo da deplorare che all’Ennerreffe (la “Nouvelle Revue Française” n.d.a.) abbiano idee così poco chiare in fatto di estetica e di conseguenza anche quelle dei nostri intellettuali siano ancora un po’ confuse: certo si è che tra realismo, neo-realismo, realismo magico, Proust, Joyce, Neue Sachlichkeit e magari surrealismo ci sono relazioni abbastanza strette…». È opportuno evocare le grandi figure di operatori che hanno affiancato il lavoro dei grandi registi, ne hanno esaltato le poetiche e aperto le diverse vie del vedere neorealista. Nessuno ha mai riconosciuto la centralità e il ruolo determinante degli operatori italiani nel conferire valore aggiunto alle storie e nel fissare alcuni elementi di identità di una grande cinematografia. Questo elenco comprende figure che coprono un periodo di tempo vasto e ci aiutano a capire come siano giustificate alcune ipotesi sulla continuità di alcune esperienze. Il semplice accostamento di alcuni titoli distribuiti nell’arco dei decenni ci sembra rendere autoevidente il discorso. Ubaldo Arata, ad esempio, è l’operatore di “Rotaie” di Camerini, di “La signora di tutti” di Ophüls, di “Passaporto rosso” di Brignone e di “Roma città aperta” di Rossellini. Per non parlare di Carlo Montuori, operatore dal 1913 e direttore della fotografia di “Sole, Resurrectio”, “La tavola dei poveri” di Blasetti e negli anni Quaranta di “Sissignora” di “Gioventù perduta”, “Ladri di biciclette” e negli anni Cinquanta “Pane amore e gelosia”. O di Massimo Terzano, che pure esordisce nel 1913, è l’operatore del primo film sonoro “La canzone dell’amore” del 1930 e racconta l’ingresso del paese nella modernità da “Gli uomini che mascalzoni” di Camerini del 1932 ad “Acciaio” di Ruttmann dell’anno successivo per filmare nel dopoguerra molto materiale di “Giorni di gloria” di Serandrei del 1945 e “Due lettere anonime” di Camerini del 1946. O Otello Martelli, che accompagna Balbo nella traversata dell’Atlantico del 1932 per poi essere a fianco di Rossellini per “Paisà” e “Francesco Giullare di Dio” (1950), di De Santis per “Riso amaro” del 1949, e poi di Fellini per “I vitelloni” e “La strada”. Lo sguardo degli operatori diventa una sorta di protesi visiva dello sguardo del regista, dà una forma al vedere, fissa dei rapporti all’interno dello spazio tra paesaggio, ambienti, cose e persone. Torniamo al punto: dalla metà degli anni Trenta, quando una serie di germi messi a coltura in vitro iniziano a circolare e agire in profondità sui giovani aspiranti registi. Anche se poi le leggi del caso porteranno un regista fino a quel momento autore di film di propaganda come Rossellini, ad assumere il ruolo di individuo messianico e ad assumersi la paternità di un fenomeno nato dall’incontro naturale tra macchina da presa e realtà. Alla formazione della poetica neorealista concorreranno modelli culturali e cinematografici e luoghi finora mai osservati dalla macchina da presa dal Po alla Sicilia. Si augura Antonioni: «Vorremmo una pellicola avente a protagonista il Po e nella quale non il folclore, cioè un’accozzaglia di elementi esteriori e decorativi destasse l’interesse, ma lo spirito…». Quasi nello stesso periodo Visconti compie un viaggio di scoperta del profondo Sud, fino a quel momento conosciuto soprattutto grazie alla letteratura verista: «Viene naturale, per chi crede sinceramente nel cinematografo, di volgere gli occhi con nostalgia alle grandi costruzioni narrative dei classici del romanzo europeo e di considerarli oggi la fonte forse più vera di ispirazione… Con la testa piena di questi pensieri, girando un giorno per le vie di Catania… m’innamorai di Giovanni Verga». Nel cinema, come in letteratura, viene accolta in Italia la parola d’ordine del ritorno a Verga e il verismo è assunto come chiave d’accesso privilegiata alla realtà. Verga diventa un interlocutore quotidiano e la sua opera un breviario per l’ideale viaggio di risalita morale di un gruppo di giovani riuniti attorno a Visconti e alla rivista “Cinema”. Alicata e De Santis, dopo il richiamo a Verga allargano lo sguardo al presente: «Vogliamo portare la nostra macchina da presa nei campi, nei porti, nelle fabbriche del nostro paese» . Negli anni di guerra, prima che appaia l’articolo “Neo-realismo” di Barbaro sul numero di “Film” del 5 giugno 1943, nelle riviste cinematografiche italiane termini come “realtà”, “realismo”, “reale”, circolano non solo negli articoli di autori che sembrano voler esibire l’insegna antifascista. Con Rossellini e poi De Sica-Zavattini si riparte da zero: ripartire da zero significa recuperare la verginità dello sguardo e una capacità di riscoprire il mondo come se lo si guardasse per la prima volta, come se fosse la realtà a guidare lo sguardo della macchina da presa e a imporre la sua verità. Ci si libera dal peso della tradizione e si ha l’impressione di scoprire e creare il mondo, rimisurandolo a partire dall’uomo che muove i suoi primi passi in un’Europa completamente ridotta in macerie. Ma non si butta via certo il patrimonio professionale accumulato dagli operatori nei decenni precedenti. L’occhio degli operatori si adatto come una nuova pelle alla nuova forma della realtà e aiuta in qualche modo a ricomporla. Gilles Deleuze, in una delle illuminate intuizioni del suo viaggio nomadico nell’immagine cinematografica, osserva che alla fine della guerra mondiale l’Italia per prima, rispetto alla Francia e alla Germania, giunge ad avere una coscienza intuitiva della nuova immagine che sta per nascere e del tipo di racconto che rimette in questione il modello dell’immagine-azione del cinema americano e riporta il cinema all’anno zero della sua storia. Far rinascere il cinema come linguaggio, come etica ed epica collettiva, vuol dire restituire allo sguardo e alla sua intelligenza la pienezza dei suoi poteri, fargli riscoprire le possibilità di esplorare il visibile nella sua totalità. Il neorealismo ridefinisce le coordinate del cinema dalle fondamenta, riformula i principi formali, strutturali e di poetica, offrendo nuovi paradigmi narrativi e rappresentativi, restituendo allo spettatore la capacità di “vedere”. Grazie a un gruppo di film italiani il cinema raggiunge quella condizione privilegiata per cui la visione delle cose consente il riconoscimento delle vicende individuali nelle storie corali e della totalità nella storia singola. Tra il 1945 e il 1948 le opere di Rossellini, Zavattini-De Sica, De Santis, Visconti, Germi, Castellani, Lattuada, sprigionano una forza di novità, un’energia e una potenza tali da cambiare le coordinate, i sistemi di riferimento, i paradigmi culturali, la prosodia, la sintassi e le poetiche di tutto il cinema mondiale. Il neorealismo ha appena mosso i suoi primi passi e già ha contribuito a formare una nuova identità del cinema europeo e inventato una tradizione, un’etica del vedere e del narrare e una capacità di investire il più anonimo gesto quotidiano del senso e del valore di un’epopea collettiva. La “petite histoire évenémentielle” di anonimi personaggi, colti a caso dalla macchina da presa nel loro agire quotidiano, si trasforma nella Grande Storia, nella storia di tutti. L’occhio della macchina da presa incontra la Storia e se ne fa cronista e cantore. Nelle fasi in cui elabora, senza alcuna intenzione programmatica, la sua poetica Zavattini prevede che chiunque, partendo dalla più semplice realtà microcellulare, possa raggiungere infiniti universi di racconto. Scrive nel 1954: «Partiamo tutti insieme, partiamo in venti per realizzare il programma “Vista di un paesucolo”… dopo il primo metro anche prima, ciascuno prende la direzione che crede e che può e ciascuno penetrerà la vita del paesucolo a seconda della forza dei suoi occhi… La partenza è comune e non si pongono limiti al neorealista» . La poetica del neorealismo non nasce da alcun progetto comune ideato a tavolino, quanto da una perfetta coincidenza di fattori tra cui, in primis, la capacità autorappresentativa del reale, la forza e il dramma scritto nelle cose di un paesaggio sconvolto, devastato, ferito e tuttavia portatore di una fortissima carica di speranza e di spinta propulsiva verso il futuro. Alla percezione della durata, che nasce grazie al montaggio di elementi diversi, si sostituisce un rapporto con il visibile in cui i procedimenti stilistici dissolversi e i vari elementi che compongono la scena sono in grado di raccontare storie differenti all’interno di una sorta di coro o di movimento sinfonico. Autori molto diversi, come Rossellini, Visconti, Germi, Blasetti, Camerini, Castellani, Sappiamo che a partire dal periodo neorealista, il rapporto fra produzione cinematografica e produzione letteraria, in Italia, è diventato sempre più diretto e proficuo. La produzione filmica italiana, d’altronde, sin dai suoi esordi, è sempre stata molto attenta, forse più di altre culture, al legame con i testi letterari, italiani o meno. Sarebbe sufficiente nominare l’interesse di D’Annunzio e Pirandello per il cinema per confermare tale forte contatto fra letteratura e film in Italia. A partire dagli anni ’40, al di là della ripresa di opere tratta da classici, questa tendenza, restando nell’ambito della letteratura italiana, è proseguita soprattutto per opere letterarie post-belliche che avevano ottenuto immediata attenzione critica e successo di pubblico. Si pensi a “Cronache di poveri amanti” (Lizzani, 1953, il romanzo di Pratolini era del ’47); alla “Ciociara” (De Sica, 1953, il lavoro di Moravia era del ’57); al “Gattopardo” (Visconti, 1963, il romanzo era uscito postumo nel ’58); al “Giorno della civetta” (Damiani, 1968, il libro di Sciascia era del ’61); al Giardino dei Finzi Contini (De Sica, 1970, il romanzo di Bassani era del ’62); al “Conformista” (Bertolucci, 1970, il libro era del ’51) o, in anni più recenti, a “Porte aperte” (Amelio, 1990, il racconto di Sciascia era del 1987). Allo stesso, non si devono trascurare operazioni cinematografiche che hanno invece reso note opere letterarie altrimenti oscure, quali “Il poema dei lunatici” di Ermanno Cavazzoni (1987), fonte della “Voce della luna” di Fellini (1990), per fare un solo, ma significativo esempio. Fra i registi che hanno acquistato notorietà critica e di pubblico negli ultimi vent’anni, Gabriele Salvatores è forse uno di quelli che più si è distinto per aver spesso scelto di filmare storie tratte da romanzi o racconti più o meno di successo. Infatti, forse tranne che nel caso dei film adattati dai romanzi di Ammaniti, è stata proprio la versione cinematografica a rendere poi noto al grande pubblico il libro stesso. Sin dagli esordi, la cinematografia di Salvatores si è contraddistinta per l’eterogeneità delle sue scelte tematiche, nonché per la sua capacità di affrontare soggetti fra loro molto diversi. Basti pensare a qualche titolo, per avere un’idea immediata della varietà tematica del regista che ha vinto l’oscar per un film (“Mediterraneo”, 1991) apparentemente sulla seconda guerra mondiale ma che, in realtà, tocca tematiche quali l’amicizia, l’amore, l’esilio, la viltà, le aberrazioni ideologiche, il crollo degli ideali politici. Alla varietà tematica, corrisponde una varietà stilistica, naturalmente e, in proposito va subito detto che, nel rapporto fra testo e film, una delle caratteristiche del cinema di Salvatores è quella di rispettare il testo di partenza, per poi imporre la propria interpretazione stilistica e tematica, grazie a leggere, ma significative modifiche. Nella strategia narrativa dei suoi film, ad esempio, risalta l’abilità di convertire passi descrittivi o realistici in immagini oniriche, che però non tramutano la realtà in un universo necessariamente sognante. Per verificare dall’interno come si svolge il proprio rapporto fra testo e film nel cinema di Salvatores, in questo saggio desidero soffermarmi su “Io non ho paura”. Libro e film hanno entrambi ottenuto enorme successo di pubblico e di critica. Nel romanzo come nel film, la storia tocca più o meno direttamente, e in modo realistico, temi cari al meridionalismo, quali l’analisi economico-sociale di una zona rurale negli anni Settanta non ancora raggiunta dal benessere che, negli ultimi due decenni del ventesimo secolo, ha parzialmente emancipato molte aree del Sud. Credo che uno dei punti di contatto intellettuale maggiore fra Salvatores e Ammaniti sia dovuto proprio all’ambientazione geo-sociale nonché alla sua cronologia che colloca l’azione alle soglie di quello che può essere definito l’arrivo dell’agognata modernità e dei suoi benefici. La sceneggiatura è stata curata dallo stesso Ammaniti in collaborazione con Francesca Marciano; non sorprende, perciò, che il film segua piuttosto fedelmente la trama e i risvolti del libro benché vi siano pochi, ma significativi, cambiamenti rispetto alla prosa originale. Il mio interesse verte soprattutto sulle ragioni estetiche dietro alcuni di questi cambiamenti, per verificare se, al di là delle normali differenze dettate dai due diversi codici artistici, questi scarti fra libro e film segnalino delle differenze interpretative tanto nella rappresentazione dei personaggi quanto dell’atmosfera socio-culturale del film rispetto al libro. Siamo nell’estate del 1978 in un piccolo centro del Sud circondato da campi di grano. Un bambino di nove anni, Michele Amitrano, mentre gioca con gli amici nella campagna vicino alla frazione, Acqua Traverse, dove vive insieme a poche altre anime, scopre casualmente un buco nel terreno, un nascondiglio, dove è tenuto un suo coetaneo, Filippo Carducci. Filippo, figlio di un industriale lombardo, è stato rapito da una banda a cui appartengono tutti gli adulti di Acqua Traverse, incluso il padre (Pino) e la madre (Teresa) di Michele. Michele, vinta l’iniziale paura, comincia a conversare e diventa amico di Filippo, che visita di nascosto. Nei primi incontri, Michele non ha idea che il bambino sia stato sequestrato. Presto, però. Finisce per scoprire la verità e si confida, in cambio di un regalo, con un suo amico, Salvatore, che lo tradisce. Michele è obbligato a dimenticarsi tutto dal padre, mentre Filippo viene spostato in un nuovo nascondiglio. Quando però Michele apprende che il padre e gli altri hanno deciso di uccidere Filippo perché le indagini si stanno facendo sempre più pressanti, si precipita a cercarlo, lo salva, ma rimane lui stesso ferito da un colpo di pistola tirato dal padre che pensava di sparare al bambino sequestrato. Il libro e il film finiscono con il padre, disperato, che tiene in braccio un Michele semi-cosciente, mentre viene circondato dai carabinieri. Ma nel film c’è una variante essenziale: Filippo torna indietro a sincerarsi delle condizioni di Michele, viene quasi ricatturato dal peggiore dei rapitori, Sergio, poi costretto ad arrendersi alle forze dell’ordine. L’immagine finale coglie i due bambini che si toccano le dita e sorridono. Il romanzo invece si chiude con Michele che, dopo aver implorato un recalcitrante e impaurito Filippo di scappar via, implora a sua volta il padre di fuggire, prima di perdere conoscenza. Il romanzo è scritto con uno stile asciutto, diretto, che riflette la semplicità dei dialoghi dei bambini e la scarsa eloquenza degli adulti, siano essi criminali incalliti (Sergio) o persone semplici (tutti gli altri). La storia, nei suoi risvolti umani, sociali e esistenziali è vissuta principalmente attraverso gli occhi del protagonista bambino: Michele. Ma c’è una differenza basilare: nel libro è lo stesso Michele che, a distanza di ventidue anni, racconta la vicenda; mentre nel film tutto è vissuto e scoperto sul momento. La strategia narrativa del romanzo ci avverte di continuo che il narratore (Michele) filtra la propria vicenda fisica ed esistenziale al vaglio della memoria e delle molteplici esperiente acquisite negli anni. La differenza fra chi seleziona dalla propria memoria, e chi invece vive e subisce gli eventi al presente è evidente: la riflessione sull’esperienza successiva consente al protagonista del romanzo di ripensare le esperienze anteriori, proponendole come definitive. Un vantaggio della memoria è sicuramente quello di poter indicare oltre. Il tema della miseria sociale che fomenta il crimine e spinge verso il consumismo e la ricchezza come ambiti sbocchi antropologici da parte dei protagonisti adulti è ben presente sia nel libro che nel film: siamo in una misera zona rurale dove si sopravvive grazie al lavoro agricolo stagionale unito ad altri mestieri più o meno fissi. Il contrasto fra la bellezza luminosa del paesaggio, la gioia di vita dei bambini e la fatica del vivere mista alla gelosia rancorosa degli adulti è evidente e non necessita spiegazione alcuna. Ma sia Ammaniti che Salvatores, in misura diversa, non puntano su questa componente sociale come fulcro della storia, bensì ne sottolineano la realtà attraverso gesti e pensieri indiretti, generati dalla visione di Michele. Così, per esempio, l’ambizione economica e sociale del padre di Michele, prima ancora che si sappia del suo ruolo fondamentale nel rapimento, s’intravede dal regalo che fa ai figli. Un dono che, in realtà, come ben intuisce Michele, è diretto a se stesso; è un feticcio della sua sognante ambizione sociale. Un oggetto dei desideri, inutile, che rappresenta la favolosa città-mito del turismo per eccellenza. Ma è l’inutilità della gondola come giocattolo a far trapelare il suo valore di balocco adulto. La gondola viene situata in bella vista sull’unico altro oggetto che rappresenti la presenza del superfluo e della ricchezza nella povera casa degli Amitrano: il televisore. Ed è proprio la televisione una protagonista nascosta e inquietante, quasi fosse una reificazione del male di tutta la storia. Lo slancio con cui il gruppo dei rapitori si precipita davanti alla TV per ascoltare i notiziari è in parte funzionale alla buona riuscita del rapimento, ma è soprattutto dovuto al fatto che si parla di loro. Molte delle distinzioni fra libro e film rispondono a normali esigenze dovute ai due diversi codici artistici, oppure servono semplicemente a rendere il film accessibile al più vasto pubblico del cinema, nonché ad un pubblico non italiano e contemporaneo. In alcuni casi, però, Salvatores affida ad un simbolo quello che era sviluppato più naturalisticamente nel romanzo. Il libro si apre con una gara di corsa dei bambini nei campi di grano, mentre il regista comincia la propria opera con una carrellata che sonda il sottosuolo ove, lo scopriremo più avanti, giace Filippo e da lì risale verso gli assolati campi di grano dove corrono i bambini. Nel libro, la gallina doveva essere lanciata ai maiali affamati di un vicino porcile, e l’idea era stata proprio di Michele: «perché non prendiamo una gallina, così la gettiamo nel recinto dei maiali e vediamo come la spolpano?». Nel romanzo, una volta fallita la spedizione verso il porcile, il “Teschio”, il bullo del gruppo, propone d’impalare la gallina sulla collina, alla fine di una gara di corsa. La funzione simbolica, nella versione cinematografica, è forse ancora più suggestiva: nell’assenza di spiegazione, questa lugubre apparizione da magia nera richiama indirettamente la meticolosa inquadratura d’apertura che risale lentamente dal buio di quella che poi si rivelerà la prigione di Filippo, ed è un ulteriore segnale premonitore che l’ambiente bucolico e assolato di cui siamo entrati a far parte nasconde un segreto di morte e violenza che aleggia, al pari dei corvi, su questo inizio quasi magico, con le vedute infinite del cielo azzurro e delle distese di grano in cui corrono i bambini. Le scene che denotano una diversa lettura del soggetto fra libro e film vertono comunque principalmente sulla caratterizzazione dei personaggi. Il libro, ad esempio, è più crudo nel riflettere l’ambiente sociale dove si svolge la storia. La casa degli Amitrano è persino più povera di quella rappresentata nel film: la camera da letto di Michele e della sorellina Maria, per esempio, è così stretta che i letti devono essere messi per lungo, e non in parallelo, come nel film. Michele è più selvatico e meno gentile nel romanzo, come già segnalato dall’idea della gallina da dare in pasto, viva, ai maiali. Non ci pensa due volte a prendere a pugni e calci Filippo, seppure per scuoterlo dal suo torpore di carcerato. Maria, pur nella sua innocenza, nel libro è più conscia e partecipe delle prepotenze e dei rituali violenti degli amici di Michele. Il libro implica una maliziosa consuetudine di soprusi e di angherie che sono in linea con il suo tono più realistico. Allo stesso tempo, nel romanzo, Salvatore, l’amico che tradisce Michele, è di un livello sociale più elevato degli altri, essendo il figlio del proprietario terriero della zona, un avvocato che fa avanti e indietro con Roma. Nel libro si scopre che è proprio lui il boss nascosto di tutta l’operazione criminale. Nel film, invece, non solo il padre di Salvatore non compare, ma Salvatore appartiene alla stessa classe sociale di Michele e gli altri. Nel film, Sergio resta l’unico personaggio che stona: è più agiato dei suoi complici ed è, soprattutto, decisamente più spietato. Sulla rappresentazione di questo personaggio, e la conseguente limatura degli spigoli più violenti nel padre e nella madre di Michele, si gioca la differenza maggiore tra film e romanzo. Nel libro è romano, ha 67 anni, è magro e mal ridotto, con i capelli raccolti in un codino, tanto che Michele lo descrive come «secco, gobbo» dalla «pelle flaccida, appesa a quelle ossa lunghe come se l’avessero cucita sopra»; un uomo anziano che, sciolto il codino, «sembrava un vecchio Tarzan malato». Scopriamo che è stato in prigione per delle rapine a mano armata, il che gli assegna una reputazione da duro e lo qualifica come un balordo, e che poi è emigrato in Brasile dove si è risposato con una donna giovane e ha comprato una casa. La sostanza del personaggio non cambia nel film, ma ci sono variazioni dedicate a creare ancora più contrasto e a rendere Sergio ancor più malvagio e lontano dall’umanità tormentata dei genitori di Michele. Nella versione cinematografica, Sergio non è di Roma, ma di Milano; non è anziano e filiforme, ma di mezza età e corpulento. Nel libro Sergio parla in italiano, semmai, utilizza dei regionalismi, ma non parla in dialetto; nel film, l’utilizzazione del milanese in momenti di nervosismo da parte di Sergio, sottolinea il suo disprezzo per gli altri, i terroni non professionisti che non lo possono capire e con cui è costretto a condividere la fine di questa vicenda. Sergio, nel libro, è un vero duro che non ama perder tempo e far mostra di machismo. La scena del film è meno violenta, nei gesti e nelle parole. Sergio, in piedi, insulta e affronta Felice. Quando Felice gli si scaglia contro finiscono fuori inquadratura e intuiamo dai gesti di Sergio che si rimette gli occhiali che probabilmente è stato colpito. Nel romanzo, invece, l’alterco degenera a causa di un’offesa ben precisa di Sergio ai danni di Felice, un insulto non digeribile in un ambiente di duri o di aspiranti tali. Subito dopo Felice colpisce il vecchio. Questo dialogo, assente nel film, delinea in modo palese il carattere di Sergio e il suo disprezzo per i complici, Felice in testa. Un disprezzo affidato ad un linguaggio e ad un ragionamento che stonerebbe in un contesto diverso, ma che rientra in pieno in quello disegnato dal libro. Nel film, l’assenza di uno scambio così preciso e diretto fa sì che la rissa nasca dalla discussione su se e chi debba uccidere il bambino e si colora, semmai, di toni razziali. La figura della madre di Michele nel romanzo è più esasperata ancora che nel film. Il contrasto fra il suo orgoglio e il male che la circonda e di cui è partecipe, si sfoga in violenza nei confronti dei figli, specie Michele. Il film rende sufficientemente bene le frustrazioni della donna, schiacciata fra la sua vita solitaria e le privazioni materiali, a loro volta acuite dall’indisciplina di Michele. La situazione criminale di cui si trova a far parte, suo malgrado, divisa fra sogno e senso di colpa, non può che aggravare le tensioni che già innervano il suo carattere. La descrizione della lite fisica fra Teresa e Felice, con quest’ultimo che cerca di difendersi dalla furia della madre, ha una connotazione fortemente sensuale che nel film è meno netta. La violenza dell’azione, nel libro culminata con il padre di Michele che sorprende Felice sopra la moglie e lo scaraventa a terra e lo prende a calci, è sicuramente minore nella rappresentazione cinematografica. Salvatores lascia intuire bene che Felice, pur essendo l’aggredito, nella scena, diventa improvvisamente un pericoloso potenziale aggressore una volta che ha la meglio sulla madre di Michele. Il quale reagisce e salta su Felice per aiutare la madre che si divincola, solo quando questi, pur continuando a gridare alla donna di fermarsi e di smetterla, sembra effettivamente l’aggressore. La furia selvaggia di Teresa non è dettata solo da amore materno, ma deriva in buona parte dalla sua rabbia repressa causata dalla sua aspirazione ad essere una brava madre, che però non riesce a salvare il figlio dal tremendo segreto che incombe su tutti. Felice, non a caso il più vanaglorioso del gruppo, diviene l’oggetto di un’ira sproporzionata, perché diventa la personificazione dei sensi di colpa di Teresa. Non diversamente dallo scontro Sergio-Felice, nel film c’è meno violenza. Non ci sono padellate in faccia, non c’è nudità esplicita, non c’è primo piano dello sguardo stupratore di Felice; il padre tira via felice e lo sbatte contro il muro, ma non lo prende a calci. D’altronde, anche la figura del padre nel film non trasuda di fastidioso machismo o di una netta predisposizione alla violenza fisica quanto nel romanzo. Il film elimina o modifica scene che avrebbero dato un’idea diversa del padre. Nel romanzo è il padre a gridare di voler tagliare tutte e due le orecchie del bambino rapito mentre ascolta l’appello della madre di Filippo alla televisione. Una scena di un generale impegno di “realismo” inteso come, da un lato, aderenza al vitalismo della “vita contemporanea” e, dall’altro, rifiuto critico dell’idealismo sia liberale (Croce) sia istituzionale (Gentile). È sulle pagine del “Saggiatore” che Francesco Orlando, in “Fuori dalla metafisica”, polemizza contro l’idealismo gentiliano, visto ormai dalle nuove generazioni di intellettuali fascisti nostalgici del perduto richiamo rivoluzionario, come “soggettivismo speculativo” e “filosofia della trascendenza”. Accusato di un irrigidimento in dogmi autoritari, l’idealismo diventa sintomo per Orlando, di una cultura fondamentalmente astratta e conservatrice, che ha perduto ogni iniziale slancio vitale per sclerotizzarsi in una stati istituzionale. È contro quanto di astratto e formale si trova nell’idealismo che Orlando propone, come via di uscita dalla crisi, un recupero del realismo, della filosofia, che parta da un adeguamento del pensiero umanistico alle nuove scienze del reale, sperimentali e positivistiche. Per dirla con Romano Luperini, il «dissenso volto soprattutto contro le ideologie ufficiali del regime» andava presentandosi come generica «affermazione di un “realismo …. Sostanzialmente empirico». Con occhio rivolto agli sviluppi della meccanica e della fisica quantistica, Massimo Cimino, sempre sulle pagine del “Saggiatore”, insiste sul «desiderio di procedere oltre sulla vita della realtà», staccandosi una volta per tutte dai soliti, “eterni” problemi della filosofia idealistica. E se l’ostilità a Gentile politico, uomo delle istituzioni, è certamente implicita in tanta critica dell’idealismo nel nome del ritorno al reale, la critica a Gentile filosofo rimane spesso un bersaglio esplicito del “Saggiatore”. I temi dell’inattualità dell’attualismo gentiliano; dell’odore di muffa filologica della “Filosofia dell’arte” di quest’ultimo; della metafisica incapacità di confrontare una scientifica «coscienza viva della nostra realtà» obliterata dietro il vecchiume dell’empirismo spinoziano e dello pseudo-idealismo crociano; e una eco, infine, della “Lebensphilosophie” tedesca, e della filosofia bergsoniana del divenire, tutti questi temi ritornano in un corsivo redazionale del 1931, che conclude: «affermiamo una concezione realistica della vita… senza l’orpello di nessuna forma di superstruttura intellettuale o di mistica illusione, concezione che crediamo essere l’unica e vera espressione spirituale e vitale dell’epoca nostra». Se la nuova categoria di “neo-realismo”, inteso come miscela di vitalismo espressionistico, romantico “Sturm und Drang”, e positiva attenzione al reale, serviva per archiviare come vetero-realiste esperienze politicamente sconvenienti al regime quali “Gli indifferenti” di Alberto Moravia (1929), “Gente in Aspromonte” di Corrado Alvaro (1930), e “Tre operai” di Carlo Bernari (1934), serviva anche a rilanciare la possibilità di un nuovo romanzo inteso come “realistico” adeguamento del bello scrivere a una positivista fenomenologia delle emozioni. Su questa riga, il giovane Mario Pannunzio insisteva nel suo “Del romanzo” su una ormai superata crisi del genere: diventato ormai “metodo di ricerca” comparabile alle scienze positive, il nuovo romanzo realista non si accontentava più di essere “verosimile”, ma diveniva rappresentazione “esatta” della realtà emozionale e interiore dei personaggi. Scrivendo nel 1934, Francesco Jovine non può che constatare l’avvenuta «riconquista della realtà» da parte di nuovi scrittori, che hanno, in pochi anni, dato un colpo tremendo e mortale a idealismo, retorica, rondismo ed altre esperienze calligrafiche. Ed è nel momento del trionfo che il realismo, secondo il memento di Jovine, rischia di divenire nuova ortodossia: «In antitesi con una letteratura vuota di contenuto, ridotta a vane esercitazioni stilistiche, si tenta di contrapporne un’altra che tragga dalla realtà presente le sue ragioni di vita… Per sfuggire alla retorica della pura forma i neo-realisti minacciano di crearne un’altra: quella del puro contenuto». È solo nel 1941, dopo l’entrata in guerra dell’Italia e il riaprirsi di una nuova crisi di consenso nei confronti del fascismo, che la sinistra italiana rialzerà la testa, e il dibattito sul realismo potrà ricominciare. Giuseppe De Sanctis e Mario Alicata, con “Verità e poesia”. Piegare il conservatore e latifondista Verga alle esigenze di un’«arte rivoluzionaria» poteva certamente essere una forzatura. Del resto, l’insistenza verghiana sul realismo del «documento umano», dello «studio sincero e spassionato… del movente dell’attività umana… e del meccanismo delle passioni» umane, veniva bene a confondersi con le esigenze sociali e umane della tradizione realista italiana che da Francesco De Sanctis al fascismo di sinistra degli anni Trenta sarebbe confluita nel realismo “antropomorfico” di Visconti. Fede e responsabilità verso “l’uomo”; responsabilità della cultura a formare, realisticamente, i “fatti”; “dovere” e lavoro “civile”, questi gli assunti fondamentali della cultura italiana del primissimo dopoguerra. Il problema era intendere le modalità attraverso cui la “nuova cultura”, così opposta alla vecchia ininfluente e consolatoria, avrebbe dovuto o potuto esercitare una sua “influenza civile sugli uomini”. Vittorini, sulle pagine del “Politecnico” ci si sarebbe sinceramente provato. Ma gli inaspettati risultati del referendum e delle elezioni per la costituente del 2 giugno 1946, con l’inaspettata sconfitta delle sinistre, il ritorno riformista del vecchio potere borghese, il nulla è cambiato, avrebbero presto nutrito i primi dubbi sulla validità dell’operazione vittoriniana: quale nuova cultura? Quale influenza civile? La polemica avrebbe preso le mosse da un articolo di Mario Alicata sul numero 5/6 di “Rinascita”, dove si rimproverava a Vittorini di non essere riuscito, in fin dei conti, né a parlare alle masse, né ad attirare intellettuali al marxismo. La critica di Alicata era rivolta a un Vittorini troppo intellettuale e troppo poco politico; interessato eccessivamente alla letteratura americana, e non abbastanza alla più rivoluzionaria letteratura sovietica. Quella di Alicata era una asserzione, insomma, del fallimento “realistico” di Vittorini, che si era rivelato incapace, con il “Politecnico”, di esercitare una vera, reale «influenza civile sugli uomini». Se Vittorini aveva voluto sminuire il valore della polemica, vedendo anzi nello scritto di Alicata «una conferma che in seno al mio Partito si possono avere opinioni culturali anche contrastanti» , l’intervento dello stesso Palmiro Togliatti, che sul numero 10 di “Rinascita” chiariva come «il fondo delle osservazioni di Alicata mi trova consenziente», metteva Vittorini con le spalle al muro. Bisognava in qualche modo rispondere alla questione posta da Togliatti: come separare, se non attraverso un crociano isolamento dell’estetica tipico della vecchia cultura, politica e cultura, tra cui invece «passano legami strettissimi di dipendenza reciproca»? Come «separare con una barriera… il passaggio dalla prima politica alla seconda cultura…?». Lo scontro verteva insomma su quella che Vittorini veniva chiamando «autonomia per la cultura». Tra politica e cultura Vittorini stabilisce lo stesso divario che corre tra contingenza e immediatezza da un lato, e storicità e mediazione dall’altro: «la politica agisce tenendo conto della realtà anche sotto il suo aspetto più contingente e adeguandosi anche al suo aspetto più contingente, mentre la cultura si svolge tenendo conto della realtà sotto il suo aspetto più largamente storico senza bisogno di commisurarsi alla contingenza». Il Gramsci a cui si riferiva Vittorini era forse non tano quello delle “Lettere dal carcere” che “Il Politecnico” aveva cominciato a pubblicare nei numeri 33-34 del 1946 a cura dello stesso Vittorini, bensì il Gramsci della «storia degli intellettuali italiani» a cui aveva accennato un anonimo articolo apparso con il titolo di “L’eredità letteraria di Gramsci” su “l’Unità” di Napoli del 30 aprile 1944, e che un nuovo articolo dell’aprile 1946 di Felice Platone, su “Rinascita”, dava come di imminente pubblicazione. Si trattava insomma di quel Gramsci che Togliatti stava per pubblicare nel primo volume tematico dei “Quaderni”, “Il materialismo storico e la filosofia di Benedetto Croce”, che sembrerebbe proprio Vittorini avesse avuto la possibilità di leggere in anteprima. Dalla diatriba Vittorini/Togliatti, la questione intorno al ruolo della cultura, come quella intorno al significato di “realismo”, andavano traducendosi in un diverbio di cui l’auctoritas di Gramsci veniva chiamata a giudicare. Abbandonato nel dicembre 1947 il progetto del “Politecnico”, Vittorini ritorna polemicamente sulla questione l’anno dopo, all’indomani della nuova crisi delle sinistre in seguito alle elezioni del 18 aprile 1948, con la prefazione al “Garofano rosso”, scritto negli anni Trenta, ma solo adesso pubblicato per la prima volta: «A chi appartiene? Alla società alla quale io appartengo; alla generazione alla quale io appartengo… Anche dove sono “mio” e il mio libro è “mio”, dove il mio libro è diventato “realtà letteraria” io appartengo alla mia società e alla mia generazione… un libro è come se fosse stato scritto impersonalmente, da tutti coloro che hanno avuto o conosciuto o comunque sfiorato la mia stessa esperienza, vale a dire è un documento…». Il romanzo come “documento” di una generazione e di un’epoca; il romanzo come scrittura che si fa da sé, dalle cose, “impersonale” appunto. L’eco del verghiano “Amante di Gramigna” è inconfondibile: compito dell’arte, e dell’arte realista in particolare, rimane quello di offrire della realtà, non un’opinione politica, apertamente schierata, come vuole il dogma delle due culture zdanovista, bensì un documento umano. Anche se, proprio nello stesso 1948, Vittorio De Sica, parlando di “Ladri di biciclette” e del «tanto dibattuto realismo», ricordava come quest’ultimo «non può essere, a parer mio, un semplice documento», sarà proprio quest’idea dell’arte come “documento”, come sequenza di «fatti rappresentati» a costituire la via italiana al realismo, tra esigenze civiche da un lato e cooptazione politica dall’altra, tra ritorno a Verga e zdanovismo, tra «letteratura di arte» e «letteratura di propaganda». La questione non si sarebbe risolta qui, con il “documento” e nella generale confusione del 1948. L’esplosione del fenomeno Gramsci l’anno seguente, con la pubblicazione, fra l’altro di “Gli intellettuale e l’organizzazione della cultura” e del moderno principe nelle “Note sul Machiavelli sulla politica e sullo Stato moderno”; la pubblicazione poi dei “Saggi sul realismo” di György Lukács nel 1950, con la teorizzazione del “tipo” come cardine dell’estetica realista; lo scontro teorico tra Gramsci e Lukács; la pratica del “realismo non funzionale” nei “Gettoni” di Vittorini a partire dal 1951; tutto questo, ed altro, avrebbero contribuito allo svilupparsi di una poetica e una teoria del realismo in Italia. IL NEOREALISMO CHE NON PASSA (DI MODA) – Roberto Ellero «La volontà e la necessità della testimonianza, lo slancio degli uomini che penetrano la realtà fino negli angoli più reconditi e ne colgono il senso grazie alla propria qualità di artisti, ripercorrendo le sue calde vene e rivelando la sostanziale ingegneria dell’ingranaggio, non è una cosa che possa “passare di moda”» . Così, a proposito del neorealismo, Alfredo Guevara, in quello che è considerato il manifesto del “nuovo” cinema cubano, variante caraibica, nella sua immediatezza rivoluzionaria, delle molte altre nuove ondate caratterizzanti il panorama cinematografico mondiale a cavallo degli anni Cinquanta e Sessanta. Ma la persistenza del richiamo al neorealismo è un elemento che travalica la temporalità di quegli anni e la temperie “nuovista” di quelle esperienze, collocandosi con autorevolezza tra i riferimenti irrinunciabili di molto cinema successivo, naturalmente d’autore, indipendente e preferibilmente ai margini geopolitici dell’impero- mercato, in corrispondenza di quelle cinematografie “nazionali” che nel vasto Sud del mondo hanno visto la luce in seguito ai processi di decolonizzazione, formale e sostanziale. Non c’è, infatti, autore africano, mediorientale o sudamericano che non riconosca nel neorealismo una delle matrici, se non la principale, delle proprie ragioni espressive, anche se spesso il riferimento è ricondotto a principi di ordine, apparentemente, extraformale: l’urgenza etica dell’affrontare con gli strumenti propri dell’indagine neorealistica le contraddizioni dell’esistente, in una considerazione eminentemente critica della prassi cinematografica, e la virtù economica del mettere a profitto in termini estetici le inevitabili ristrettezze del basso costo. Ma davvero, nel caso del neorealismo, è ancora possibile distinguere nettamente l’etica dell’estetica? E l’etica e l’estetica dall’economia? Ogni autore e ogni film sono frutto di tanti padri, permeati di molteplici visioni, letture ed influenze, esplicite ed implicite, in un insieme di assonanze raramente riconducibili ad un unico modello. Si guardi all’universo indigente e marginale in cui si muovono gli antieroi di Aki Kaurismäki, dove la precarietà del reale viene spinta radicalmente sino ai suoi limiti, sconfinando in un parossismo quasi surreale. Ma quel che è certo è che dove e quando la lezione di neorealismo fa capolino, a motivarne la sussistenza sono fattori e soluzioni di natura, al contempo, etica, estetica ed economica. Uno sguardo nuovo sulla realtà, dunque sulla complessità del suo essere al di là delle ingannevoli apparenze, si dà nell’istante stesso in cui più impellente si fa il bisogno di svelare l’inganno, denunciandolo. E vi è certamente un’urgenza etica, in quel proposito di svelamento, che per risultare efficace necessita di strumenti formali appropriati, la costruzione di una visione e di una narrazione non compromesse dall’immediatezza delle apparenze e radicata, piuttosto, in un territorio di indipendenza la cui libertà è paradossalmente garantita dalla stessa (auto)sufficienza dei mezzi. Quando, oggi, un’autorevole voce coeva come Carlo Lizzani rievoca le vicende del neorealismo, di cui è stato giovane protagonista, ponendo l’accento sui valori di una rivoluzione che seppe essere anche e forse soprattutto formale nella sua capacità di elaborare un linguaggio cinematografico nuovo, autorizza col senno di poi un’estensione semiologica dell’esperienza neorealistica che, facendo giustizia di tanti equivoci ontologici e semantici, ancor meglio motiva e spiega la persistenza di un mito che va ben al di là della fattuale esistenza del movimento che l’ha determinato, nonché delle evidenti diversità che l’hanno contraddistinto, nella pluralità degli autori e delle loro predilezioni e tendenze. L’impressione è che, qui da noi, a viziare l’eredità del patrimonio neorealistico, a nasconderne la “modernità”, siano stati quegli elementi di contrapposizione ideologica che per molto tempo hanno irrigidito lo stesso dibattito culturale, sin dai tempi dei “panni sporchi” di andreottiana memoria e del conseguente arroccarsi della “resistenza” neorealista sulla linea dell’opposizione comunista, certo non priva essa stessa di retaggi e di ambiguità nel disapprovare ed osteggiare talune espressioni più spregiudicate o soltanto disinibite del movimento, quale ad esempio il cinema di De Santis, in odor di sospetto perché troppo romanzesco, popolare, in una parola “di successo” anche presso il grande pubblico. Largamente inesplorata, non a caso, rimane l’analisi intorno agli elementi di continuità del neorealismo nella massima e più compiuta espressione di genere della produzione nazionale, la commedia all’italiana, non tanto nella versione “rosa”, paesana e consolatoria, anni Cinquanta, dei “poveri ma belli” e dei “pane, amore e..”, su cui si è pur scritto ripetutamente, quanto in quella assai più sarcastica e graffiante dei due decenni successivi, dove i Risi, Monicelli, Comencini, Loy, Scola danno il meglio di sé, non di rado concorrendo in maniera determinante alle trasformazioni del costume nazionale. Se l’Italia degli anni Settanta si scopre improvvisamente “laica” agli appuntamenti con i diritti civili, smentendo lo stereotipo del paese bigotto, quando deve, in profondità, a quel suo cinema di commedia? Quanto al versante più marcatamente autoriale, come non rilevare il rischio di aver relegato quelle poetiche in mondi a parte, segnalando più gli scarti e le differenze, con il neorealismo di partenza, che non le affinità, almeno iniziali? Un po’ “sospesi”, nelle loro personalissime elaborazioni, parranno successivamente anche le presenze Lizzani e Gianni Puccini preparano il trattamento e, secondo Lizzani, la sceneggiatura «fu ultimata in aprile». Ai tre sceneggiatori, la casa cinematografica, la Lux di Dino De Laurentiis, ci aggiunse Ivo Perilli e Carlo Musso come i loro rappresentanti e collaboratori per varie fasi, e De Santis si rivolse allo scrittore calabrese Corrado Alvaro per le sue capacità di rappresentare il mondo contadino. De Santis e gli sceneggiatori si erano proposti di rappresentare anzitutto l’aspetto “sociale” del mondo delle mondine con tutte le loro ansie e le loro difficoltà sociali ed economiche. Per gli sceneggiatori, la storia delle mondine doveva nascere come un racconto popolare, in altre parole, doveva far parte di una nuova letteratura e cinema nazionale e popolare. Dato che De Santis e i suoi collaboratori si ponevano come fine unico di svelare la vita faticosa delle mondine, il film fu immediatamente ritenuto, secondo Eduardo Nardi, «un film rosso e dunque pericolosissimo». De Santis aveva consegnato la sceneggiatura alla LUX proprio in clima delle elezioni dell’Aprile 1948 e la casa cinematografica se la tiene per «due mesi dopo le votazioni» perché, secondo Lizzani, “Riso Amaro” «era già un film troppo rosso, un film da non far più» . Inoltre le mondine, delle risaie di Lignana a pochi chilometri da Vercelli, provenivano dal modenese e dall’Emilia-Romagna, tutti perlopiù paesi rossi. Nonostante i numerosi ritocchi alla sceneggiatura, De Santis e i collaboratori sviluppano e costruiscono la storia dei quattro personaggi e diminuiscono quella delle mondine. Perciò il soggetto neorealista delle mondine diventa un vero racconto letterario sviluppato in tal modo che «nelle sue diverse componenti», scrive Emanuele Nardi, «si profila una sorta di film-romanzo con personaggi vigorosi ed eloquenti». Benché De Santis si fosse proposto il problema sociale come base e al centro della sceneggiatura, la realtà storica della sconfitta della sinistra del 18 aprile 1948 ebbe gran peso sulla sceneggiatura in tal modo da incidere e da sminuire la storia sconfortante delle mondine ed a sviluppare quella del racconto romanzato dei quattro personaggi. De Santis non riuscì a fare di “Riso amaro” un film documentario neorealista, ma il film si svia a documento romanzato. In quegli anni della trilogia della terra, De Santis afferma di favorire un realismo socialista, ma in realtà questo suo didascalismo culturale che è presente nelle mondine, è assente nei personaggi principali. De Santis ci ha affermato più volte che, per capire bene la sua opera cinematografica, la chiave che penetra e svela il pensiero e il suo mondo poetico è proprio legata al Partito Comunista Italiano in quegli anni. Secondo il regista, il P.C.I. era l’unico partito che si dedicava a migliorare la vita dei contadini e degli operai, ed anche del piccolo borghese da cui provenivano i personaggi dei suoi film. In “Riso amaro”, De Santis mette in risalto l’andamento della cultura popolare nazionale, e della nuova società italiana dell’immediato dopoguerra che si pone sulla strada del consumismo americano. L’Italia in questi anni si avviava verso un nuovo mondo neocapitalista. De Santis aveva intuito questo passaggio culturale anche se non condivideva il risultato. Quindi il duplice filone del film: da una parte lo sfruttamento delle mondine e dall’altra la storia romanzata dei quattro personaggi, si privilegia quest’ultima a spese della prima. Negli anni di “Riso amaro”, dal ’47 al ’49, De Santis è costretto a minimizzare il conflitto sociale delle lotte tra i padroni e le mondine e a concentrarsi di più sulla dimensione narrativa dei quattro personaggi, la cui storia è realizzata al posto di quella delle mondine che passa al secondo piano. Malgrado questo rovesciamento dell’enfasi delle due storie, gli sceneggiatori non tradiscono gli ideali che si erano proposti: cioè, di mettere in risalto le condizioni lavorative delle mondine senza far scattare una rivoluzione di classe tra di loro e i padroni delle risaie. In “Riso amaro”, De Santis parte dall’inchiesta sociologica sulla vita dura e faticosa delle mondine, ma si sperde subito appena la storia si trasforma in una specie di fotoromanzo. Il film inizia con una struttura da cinegiornale che rende l’attualità e l’ideologia proposta non solo immediata ma anche impegnata. De Santis s’ispira agli ideali del neorealismo, ma con lo sviluppo della storia dei quattro personaggi chiavi, il film subisce una trasformazione romanzesca, anche se termina rifacendosi alla cornice d’apertura con il commento del radiocronista che aveva introdotto la storia e qui chiude il suo reportage. “Riso amaro” è strettamente legato alle vicende storiche del dopoguerra, agli eventi culturali e al dibattito sulla didascalia dell’arte e del cinema. De Santis ha più volte affermato che la cultura italiana degli anni di “Riso amaro” «veniva conquistata lentamente nel modo profondo dalla cultura d’Oltreoceano», in pratica, quella americana. De Santis aggiunge che la cultura del proletariato italiano era quella «dei fotoromanzi e del boogie- woogie». Perciò il regista si difende dalle critiche di sinistra che non accettavano le sue mondine perché ballavano il boogie-woogie, indossavano le calze nere e i pantaloncini. La storia di “Riso amaro” si sviluppa con quattro personaggi: Silvana, Francesca, Walter e Marco. La vita di Silvana inizia bene ma finisce tragicamente. Invece, quella di Francesca inizia da ladre ma si salva e riesce a far parte del mondariso. Marco aiuta Francesca a ritrovarsi, e rimane quel personaggio positivo e virtuoso in contrasto all’unico personaggio nettamente negativo, il ladro Walter. Quest’ultimo è l’unico che non si trova nell’ambiente della risaia ed è quello che rispecchia un mondo lontano dalla vita delle mondine ed è quindi estraneo alle loro lotte sociali. Walter è costruito in opposizione a Marco: il primo viene presentato come un gangster di un film americano, e il secondo rappresenta la speranza del popolo. Walter rappresenta la forza negativa e distruttiva in contrasto alla morale e alle virtù di Marco. In apertura del film, la coppia di Silvana e Marco si contraddistinguono da Walter e Francesca, ma queste si capovolgono alla fine con la tragica morte di Walter e Silvana e la redenzione di Francesca e Marco. In “Riso amaro”, De Santis chiaramente favorisce il mondo delle mondine: vale a dire, un mondo di donne lavoratrici che lottano per la giustizia sociale. “Riso amaro”, ha dichiarato più volte il regista, è «un documentario antropologico-sociale» sulla vita delle mondine e il mondariso. Nel dopoguerra nasce ed esplode un genere di letteratura popolare che si manifesta nel fotoromanzo: vale a dire, l’incrocio tra la fotografia e il fumetto. Il fotoromanzo si trasforma nel cineromanzo, che Antonio Parisi definisce come «il fotoromanzo adattato al cinema». In effetti, mentre De Santis girava “Riso amaro” nell’estate del ’48, ne uscì l’edizione de “Il fumetto di Riso amaro”, pubblicata sulla rivista settimanale della CGIL, “Il Lavoro” del 12 giugno 1948. L’anonimo disegno racconta la storia del film dello stesso De Santis. “Il fumetto di Riso amaro” ebbe gran successo popolare. Non a caso, nel film Silvana legge il fotoromanzo “Grand Hotel”. I quattro personaggi primari sono riconoscibili proprio nei personaggi dei fotoromanzi di quell’epoca, cioè, quei racconti di storie d’amore e d’evasioni, raccontati per fotografie e fumetti indirizzati particolarmente alle donne come le tante storie di “Grand Hotel”. La storia dei quattro personaggi acquista degli aspetti da fotoromanzo. Walter è un tipo di gangster che si rifà ai tanti film di Hollywood. Silvana balla il boogie-woogie e mastica il chewing gum mentre legge i fotoromanzi. Francesca subisce il controllo di Walter ma eventualmente riesce a separarsi da lui e dai suoi furti. Silvana e Francesca si scambiano i ruoli, da mondina ad eroina tragica (la prima) e da eroina tragica a mondina (la seconda). Infine c’è Marco il sergente che rappresenta il bene in contrasto a Walter. In termini storici e culturali, De Santis dilata e estende il personaggio di Silvana non più modellato su quello di una Pina di “Roma città aperta” o addirittura su quello di una mondina contemporanea, ma il regista le attribuisce delle caratteristiche dei personaggi di fotoromanzi, di una Silvana inebriata dai sogni fantasticati e irreali della lettura dei fotoromanzi. De Santis fu il primo a capire le nuove tematiche e i nuovi mezzi di comunicazione dei contadini e degli operai anche se politicamente e socialmente lui non condivideva la nascita di questi personaggi, come Silvana e Walter, che trasgredivano dal mondo neorealista a quello immaginario e illusivo dei fotoromanzi. L’incipit di “Riso amaro”, dalla voce fuori campo al giornalista di Radio Torino, ci presenta delle inquadrature di stampo documentario. La voce narrante dell’apertura fa sì che la storia del film acquisti un’oggettività e quindi un’attendibilità. Questa viene a meno con le sequenze che presentano i personaggi. La loro storia stabilisce una duplice programmazione tra la vita dura delle mondine e quella dei quattro protagonisti in cui si sviluppa la storia della collana e del gangster Walter e del mondo del boogie-woogie e del “Gran Hotel” di Silvana. L’oscillazione fra la vita delle mondine e quella della vita facile di Walter rinforzala la dialettica tra attendibilità e incredibilità, o tra il vero e l’immaginato che rispecchia la vita di Silvana. De Santis intendeva fare un film che in qualche suo modo migliorasse la vita del popolo, ma invece il regista si fa trasportare dalla narrazione essendo lui portato, secondo De Marchi, ad essere uno «story-teller». In effetti, De Santis è spesso chiamato regista che racconta con le immagini proprio perché nasce da scrittore. Con “Riso amaro”, De Santis diede vita al “divismo italiano” attraverso il personaggio rappresentato da Silvana Mangano, vestita di calze nere e in pantaloncini. La Mangano subito diventa una sex-symbol italiana, e fu anche chiamata la bomba italiana e viene paragonata alla Rita Hayworth del poster che Antonio ricci appende in “Ladri di biciclette”. Il personaggio di Silvana diventa in mano al regista una figura femminile insolita. Silvana è donna moderna che trasuda l’eros e passa da eroina a donna trasgressiva e tragica. De Santis sforza la rappresentazione e lo sviluppo del carattere di Silvana, per cui il regista fu criticato dalla destra e inaspettatamente anche dalla sinistra che non volle riconoscere in lei quella compagna che doveva lottare per la condizione femminile e per i diritti delle mondine. La Silvana di De Santis sogna un mondo più facile, una vita all’americana, e perciò è trasportata nel mondo del male che la conduce a sparare a Walter e poi a suicidarsi. Nella trilogia della terra, il cineasta si appropria del folclore popolare che si esprime anzitutto nel canto, che serve da mezzo collettivo d’espressione per cui le mondine esprimono i loro pensieri, la loro condizione, e la dura fatica da lavoratrici. Qui ci si potrebbe applicare il proverbio: “canta che ti passa”; ma il canto ha soprattutto una funzione vitale per le mondine e loro se ne servono per esprimersi. Col canto le mondine spesso sdrammatizzano una situazione drammatica e di sofferenza come quella dell’aborto di una delle ragazze nella risaia. In tal caso, il canto diventa il loro unico modo d’espressione perché si sostituisce alla parola e diventa l’unico mezzo di comunicazione sia individuale e collettivo. Possiamo dire della funzione della danza in “Riso amaro”: ad esempio, il ballo del boogie-woogie. Ma questa danza ha un duplice aspetto positivo e negativo, in quanto serve da festività ed espressione corporale e popolare; qui è però d’esportazione americana ed è interpretata in funzione erotica che dà scandalo. Questa danza acquisisce per De Santis un atteggiamento ambivalente e dialettico perché il cineasta la intendeva come espressione femminile del corpo, ma Silvana si serve della danza come desiderio di una vita americana. Dalla recente rivalutazione del film “Riso amaro” e dell’opera omnia desantisiana si è riuscito a correggere tante delle polemiche lanciate al regista anche da parte degli intellettuali di sinistra, per cui le mondine dovevano ballare solo delle danze tradizionali e non potevano ancora slegarsi dagli schemi di donna-madre, più vicina al mondo tradizionale ed arcaico a cavallo tra l’Otto/Novecento. Anche se De Santis era tra i pochi che avevano ben capito questa trasformazione della condizione femminile, che stava per verificarsi nell’immediato dopoguerra, c’è ancora nel regista un’ideologia un po’ ambigua nel trattamento dei personaggi femminili. Per De Santis, il dibattito ideologico e politico si basava sulle questioni sociali, le lotte sindacali delle mondine, la riforma agraria, e il mondo contadino. “Riso amaro” rispecchia le stesse ambivalenze, le stesse contraddizioni e ambiguità presenti in Italia di quegli anni che oscillano tra la politica e l’arte: in pratica, tra la rivoluzione russa e di quella cinese e il cinema hollywoodiano e la presenza americana. In “Riso amaro” convivono due tendenze, due tensioni che il regista, a mio avviso, non riesce a risolvere. Il film è teso tra gli obiettivi politici e quegli artistici: tra le lotte sociali e il mondo culturale del dopoguerra che si voltava in direzioni opposte. “Riso amaro” si dovrebbe collocare proprio in quel crocevia tra Mosca e Hollywood, tra quel mondo politico a cui molti intellettuali di sinistra s’ispiravano e a quell’altro mondo artistico che loro imitavano. In “Riso amaro”, De Santis riesce a cogliere proprio quell’esprit du temp, che è radicato nell’anima di quegli anni e nel dibattito intellettuale sennonché politico del dopoguerra. Qualche mese dopo Davide Lajolo, il responsabile de “l’Unità” di Torino, scrive pure sul giornale del P.C.I. del 15 ottobre 1949, accusando De Santis di aver tradito il suo compito di fare un film sulle mondine e i loro sacrifici. Il critico, che servì anche da guida al regista nel vercellese, si affretta a dire che il regista si è fatto prendere dalla «cronaca nera… l’avventura… un po’ d’americanismo…». Sempre su “l’Unità”, del 3 dicembre 1949, Edgardo Macorini rende evidente il fatto che “Riso amaro” si sofferma sulla sensualità di Silvana Mangano e mette in risalto il funzionamento dei movimenti della macchina da presa. Dal punto di vista tecnico, Macorini ritiene che “Riso amaro” è «uno dei più abili e accurati film italiani del dopoguerra». Fernaldo di Giammatteo accusa il regista di sfruttare in particolare il corpo e la sensualità della Mangano: «con una minutissima caratterizzazione esterna, che va dalla sottoveste e dalle calze nere, alla fotografia incollata sul muro ed al grammofono. Il fisico di Silvana Mangano è inoltre sfruttato nella più ampia misura possibile» . Di recente, il critico Gian Piero Brunetta corregge la critica che ha stroncato il film di De Santis: cioè, quella critica per lo più marxista che riteneva il film come espressione da romanzo d’appendice o un film da fotoromanzo. Per Brunetta, De Santis aveva utilizzato vari codici e generi cinematografici e quindi in “Riso amaro” «convivevano il Neorealismo, il cinema Sovietico di Dovzenko e il riferimento iconico all’avanguardia artistica romana insieme al fotoromanzo alla Grand Hotel alle canzonette e allo stile di vita appena esportati dall’America». “Riso amaro” è stato per lo più ignorato dagli studiosi fino al 1978 quando è apparso lo studio di Carlo Lizzani che contiene anche la sceneggiatura. Questo studio servì a dar vita a diversi studi monografici sull’opera omnia cinematografica del regista di Fondi, che era stata trascurata dal pubblico e ignorata dagli studiosi. Inoltre lo studio di Lizzani (1978) è fondamentale per tutti gli studiosi che si sono occupati di “Riso amaro”. Infatti negli ultimi tre lustri “Riso amaro”, e tutta la filmografia di De Santis è stata rivalutata ed approfondita. In particolare vorrei sottolineare alcuni studi, ad esempio, “Rosso Fuoco, il cinema di Giuseppe De Santis” (1996), “Le Visioni moltiplicate: immagini culturali in Riso amaro” (1996), “Riso amaro, il film, la storia, il restauro (1999), i vari volumi della collana dei “Quaderni dell’Associazione Giuseppe De Santis”, e l’anno scorso è apparso il volume “Peppe De Santis, secondo se stesso”, a cura di Antonio Vitti (2006). VEDERE NEL CRISTALLO. LA FORMA DEL TEMPO NEL CINEMA DI ROBERTO ROSSELLINI – Federico Luisetti «Come un corpo può presentarsi allo stato amorfo o cristallizzato, l’arte di Rossellini sa dare ai fatti, di volta in volta, la loro struttura più densa ed elegante: non la più gradita o “bella” ma la più acuta, la più diretta o la più tagliente». Anticipando le posizioni di Deleuze, il quale scorge nell’«immagine-cristallo» la forma specifica dell’«immagine-tempo» inaugurata da Rossellini e dal neorealismo italiano, Bazin ricorre ai processi di cristallizzazione per descrivere lo stile di ripresa di Rossellini. Secondo Bazin la sua arte si basa su principi genetici simili a quelli che regolano la nascita dei cristalli. Il cinema di Rossellini produce immagini acute, pietre da taglio, immagini-rasoio. Da questo punto di vista, la decisione di divergenza fondamentale tra Deleuze e Heidegger, che spiega la dissonanza tra il bergsonismo di Deleuze e quello rosselliniano, riguarda soltanto la collocazione di questo tempo-cristallo. 2. Tohiishi E Rossellini, dove colloca i suoi cristalli di tempo? Se il «cinema del veggente» di Rossellini è caratterizzato dalla presentazione diretta del tempo, quale forma del tempo si scorge dentro i suoi cristalli? Per quale ragione il suo bergsonismo non si lascia catturare dalla rete concettuale del bergsonismo deleuziano? A differenza di Deleuze, che riconduce il bergsonismo all’automatismo superiore di un’ontologia trascendentale kantiano-spinozista, Rossellini colloca i suoi cristalli di tempo nella struttura della molteplicità continua propria della “durée” bergsoniana. Bazin nota la «densità» dei «fatti» caratteristica del cinema di Rossellini, e la paragona a quella di un corpo cristallizzato. Allo stesso modo, per Bergson «ogni durata è spessa», dal momento che lo spessore è proprio di ciò che non si può dividere, degli atti di cui si compongono i movimenti: «si può dividere una cosa, ma non un atto». Costruire immagini-cristallo significa per Rossellini realizzare delle immagini dense, «immagini-fatto», spesse come la durata bergsoniana. Per raggiungere il risultato è necessario abbandonare le tecniche di dissociazione escogitate dal cinema classico, dimenticare le regole formali di distribuzione dei corpi nel quadro e delle sequenze in un montaggio e rifiutare la scienza dei raccordi e dei falsi raccordi. La durata non è un mezzo omogeneo, composto di sezioni raccordabili attraverso elementi di transizione, il cinema di Rossellini non si basa sull’unità formale di inquadrature raccordate ad altre inquadrature. La durata è percorsa da forze e qualità che ne increspano la superficie, le riprese mostrano ambienti e situazioni emotive non ulteriormente analizzabili, fatti puri, blocchi intensivi di realtà, una topologia delle forze piuttosto che una geometria del movimento. L’eterogeneità della durata, una continuità di un atto e non uno stato, presuppone in Bergson la fusione di elementi distinti. La durata è ciò che si conserva in modo indivisibile nelle continuità dei mutamenti interni, un progresso dinamico opposto a una successione o a una rappresentazione simbolica. Allo stesso modo, il metodo di Rossellini presuppone la continuità del suo stile di ripresa. Una continuità posta in una dimensione profonda del metodo, che si sottrae alle analisi condotte secondo i criteri del «linguaggio» cinematografico. Fondamentale è però che la scena possieda «il ritmo giusto», una condizione che si ottiene creando una continuità di movimento tra le due componenti non dialettizzabili delle immagini cinematografiche: i movimenti dei corpi e delle cose e i movimenti della macchina da presa: «… col montaggio c’è un ritmo che non è naturale, che è totalmente costruito. Muovendo la macchina da presa si ottiene un ritmo naturale» . La somma di questi due elementi, l’eterogeneità qualitativa e la continuità, determina in tutta la sua complessità la nozione bergsoniana di molteplicità continua e caratterizza anche lo «stile» di Rossellini. Questo tipo di molteplicità è descritta da Bazin attraverso il celebre paragone con il guado di un torrente: le pietre da taglio che compongono un ponte «s’incastrano perfettamente per formare la volta. Ma dei bocchi di pietre sparpagliati in un guado sono e rimangono delle pietre, la loro realtà di pietra non è alterata dal fatto che, saltando dall’una all’altra, me servo per guadare il torrente». Chi ha avuto modo di frequentare i giardini giapponesi in cui sono collocati i piccoli padiglioni in cui si svolge la cerimonia del tè, sarà rimasto colpito da questo paragone, che rimanda inconsapevolmente sia all’estetica zen che all’orientalismo di Rossellini. Nella cerimonia del tè occupa infatti un posto privilegiato il sentiero di pietre grezze che conduce alla capanna dove si svolge la cerimonia del tè. L’andatura a cui costringono questi sassi (tohiishi), con il suo ritmo inconsueto, escogitato per introdurre alla temporalità densa della casa del tè, ricorda da vicino l’arte naturalistica dei movimenti di macchina di Rossellini. Rifiutandosi di comporre l’inquadratura secondo macro-strutture narrative fondate su micro-unità visive, Rossellini mira ad agganciare il movimento della macchina da presa alla durata delle cose e dei corpi, estraendo in tal modo la loro temporalità dalla loro mobilità. L’intersezione tra questi movimenti scatena le tonalità emotive (le «affezioni» di Bergson), ora incontri rivelatori, ora azioni tragiche; in ogni caso, rappresenta una costruzione dinamica di unità indivisibili di movimenti naturali e movimenti di macchina. Come nella durata bergsoniana, la «forza» e l’«alterazione» sostituiscono le vedute statiche e i raccordi. Anche quando le scene di Rossellini appaiono scarne e rarefatte, esse contengono una densità inanalizzabile di «fatti», prodotti dalla semplice interazione tra il tempo della messa in scena e il tempo e la posizione «giuste» della macchina da presa: bisogna abituarsi ad «inventare tanti piccoli fatti dentro le cose … C’è un tempo per ogni cosa, ogni aspetto dev’essere utilizzato al momento giusto … Sento subito dov’è che va messa la macchina da presa … Devo trovare il punto più giusto da dove cominciare, un punto per tutta la scena». La predilezione di Rossellini per una drammaturgia fondata su unità episodiche deriva dalle esigenze e dai limiti di questo metodo: un episodio non è nient’altro che un’amplificazione della scena centrale attorno a cui esso è costruito. L’unità sequenziale della narrazione classica è sostituita dalla densità e indivisibilità dell’immagine- fatto centrale, intorno a cui si cristallizzano le altre scene. Poiché l’immagine centrale racchiude una continuità indivisibile di fatti spazio-temporali, essa si cristallizza in forme taglienti, in lame di significato. Come in Bergson, il metodo dell’intuizione e la conseguente collocazione all’interno della durata fa sì che «tutto si riporti a un punto unico», a un «qualcosa di semplice, di infinitamente semplice». Uno «sforzo» nel caso di Bergson, la ferita affettiva delle situazioni centrali di Rossellini, sentimenti «sottili» e «brucianti», i tagli provocati dai cristalli di tempo. 3. Limiti Il bergsonismo kantiano di Deleuze, la sua ottica delle superfici lucide e germinali, non può riconoscere la lama cristallina delle immagini-tempo di Rossellini. Immagini che restano dentro il territorio del movimento, estraendo da esso la sua pura natura temporale. Come afferma Bergson in “Materia e memoria”, «… l’analisi ci riporta sempre al movimento stesso. Ma perché cercare altrove?». Per Bergson l’azione e i movimenti nello spazio non sono una realtà impura, non si svolgono in una regione ontologica derivata rispetto alla purezza delle sintesi temporali originarie. Al contrario, non vi è alcuna sintesi trascendentale, poiché il tempo è un fatto, e la sua immanenza è radicata nella mobilità stessa delle cose. Il pensiero metafisico è intuitivo nella misura in cui accetta di collocarsi nel movimento, e soltanto a partire da esso estrae «la mobilità che ne è l’essenza». Come Bergson. Rossellini resta nei confini dell’immagine-movimento, ma per coglierne la struttura temporale: «i suoi personaggi sono come ossessionati dal demonio della mobilità». Rossellini indica nelle molteplici forme dell’attesa la sostanza del tempo filmico: «Intervistatore: Che cosa trova di essenziale nel racconto cinematografico? Rossellini: A mio modo di vedere, l’attesa: ogni soluzione nasce dall’attesa. È l’attesa che fa vivere, l’attesa che scatena la realtà, l’attera che, dopo la preparazione, dà la liberazione … L’attesa è la forza di ogni avvenimento della nostra vita: e così anche per il cinema». Bazin riconduce l’attesa rosselliniana ad una logica della posteriorità: «L’unità del racconto cinematografico in “Paisà” non è il piano, punto di vista astratto sulla realtà che viene analizzata, ma il fatto. Frammento di realtà bruta, in se stesso multiplo ed equivoco, il cui senso si mostra soltanto a posteriori grazie a degli altri fatti tra i quali lo spirito stabilisce dei rapporti». Di questa osservazione merita conservare il riconoscimento dei limiti che costituiscono un «fatto», un’unità di racconto. L’attesa è la forza di ogni avvenimento, perché essa non è temporalità sciolta ma durata orientata alla propria catastrofe. I personaggi di Rossellini non attendono mai in modo indefinito, attendono la chiusura dell’attesa, che conferisce ad essa la sua natura. La forma ontologica dell’attesa rosselliniana è l’attesa della fine dell’attesa, sia questa un irreparabile o un godimento, la vita o la morte: «Prenda ad esempio l’episodio della tonnara, in “Stromboli”. È un episodio che nasce dall’attesa. Si viene creando, nello spettatore, una curiosità per ciò che dovrà succedere: poi è l’esplosione della mattanza dei tonni». Bazin potrebbe legittimamente sostenere questa logica della «posteriorità» soltanto se il limite dell’attesa assumesse in Rossellini la forma di una rivelazione apocalittica. E proprio servendosi di questo inadeguato lessico ebraico-cristiano viene spesso mutilato il cinema di Rossellini. Così come l’attesa, anche i suoi limiti, che le sono strutturalmente interni, sono una forza e non uno scioglimento, un’eternità. Come Bergson, Rossellini fa dipendere il movimento dalla mobilità, e quest’ultima da un unico presupposto: che la mobilità sia cambiamento, che sia trasformazione qualitativa e non addizione quantitativa. Ma perché il cinema dell’immagine-movimento liberi l’immagine-tempo che esso racchiude segretamente al proprio interno, i limiti dell’atto devono essere colti come forze virtuali, la loro natura deve escludere ogni istantaneità. Mentre Deleuze pone la genesi dell’immagine-tempo nell’automatismo spirituale dell’intervallo irrazionale, Rossellini attraverso il metodo dell’attesa amplifica gli intervalli temporali racchiusi dai tagli-forza dei movimenti. Le lunghe riprese ad inseguire i movimenti dei personaggi, interrotte bruscamente da soggettive che fanno a meno dei buoni raccordi classici, convertono il movimento in attesa. Queste conseguenze, delimitate dagli stacchi delle soggettive, sono puri intervalli-attesa. I tempi morti diventano la sostanza dei film di Rossellini e rendono inutili i raccordi funzionali. Così in “Viaggio in Italia” non accade nulla, «nulla tranne l’attesa; una lunga attesa dilatata per tutto il film», delimitata dalla scena conclusiva della processione di Maiori. Rossellini produce una molteplicità di sequenze-durata a partire dai tagli delle soggettive. In “Europa 51” le immagini della diga, le visioni della fabbrica e delle borgate, la tromba delle scale da cui precipita Michel e i corridoi della clinica in cui viene rinchiusa Irene, sono altrettanti limiti-forza che racchiudono le forme dell’attesa e ne fanno delle sequenze-durata chiuse su se stesse come cristalli di tempo. Il cinema classico si è costruito sull’orizzonte psicologico della tensione e della risoluzione della tensione, suspense e scioglimento. In questo modo esso ha distrutto l’attesa e con essa l’elasticità di un intervallo temporale pieno, benché presente a se stesso soltanto nell’esperienza del ritardo. I tempi morti dell’immagine non sono tempi vuoti ma tempi pieni; la loro purezza non-narrativa mostra l’autoaffezione della temporalità, lo spessore e la densità della durata. Nei film ad episodi di Rossellini, e in modo programmatico in “Paisà”, non sono le soggettive o gli inserti extra- diegetici a delimitare la continuità dei blocchi di durata, quanto degli avvenimenti posti ai limiti delle sequenze narrative: «A ben guardare, “Paisà” è tutto fatto di attese. Ogni episodio non è altro che la lunga attesa d’un evento che, seppure incombente, si manifesterà soltanto alla fine, in maniera brusca e definitiva» . Esordio e conclusione delimitano i confini di ciò che la molteplicità continua della sequenza può mostrare: morte e scorrere delle acque sono le facce del cristallo entro cui si ripartisce addensandosi la temporalità delle riprese. 4. Il dentro Questa concezione dell’immagine-attesa rilancia il bergsonismo, percorrendo una via alternativa rispetto alla lettura kantiano-spinozista dell’immagine-tempo deleuziana. Sullo sfondo, due visioni incompatibili del vitalismo. In Rossellini, la filosofia della natura incontra il vitalismo orientale: la temporalità del mondo e quella dei soggetti viventi si formano all’interno di un unico campo d’immanenza. È questa la prospettiva del filosofo giapponese Kitarô Nishida: «Nel mio saggio “La vita” ho scritto che il mondo della vita, a differenza del mondo della materia, contiene al suo interno un’autoespressione … In altre parole, è un mondo che esiste e si muove da se stesso. … In questo mondo, quando una cosa agisce … tutto questo deve dirigersi verso l’autoformazione del mondo stesso. … Il tempo deve avere il proprio contenuto». Deleuze elabora invece un vitalismo spinozista del pensiero puro, in cui il tempo è autoaffezione del concetto. Perciò, l’automa spirituale «segna l’esercizio spirituale del pensiero, la maniera in cui il pensiero pensa e pensa se stesso, nello sforzo fantastico di un’autonomia» e il «cervello vissuto» è il territorio del cinema moderno. Le tracce che ci permettono di distinguere i due orientamenti si riassumono nelle caratteristiche attribuite da Deleuze e da Rossellini ai limiti-interruzione del tempo narrativo. Per Deleuze è paradigmatico il metodo «interstiziale» di Godard: la proliferazione di falsi raccordi e movimenti, l’esplosione della temporalità cronologica; l’intervallo irrazionale, metodo fondato sulla disgiunzione delle inquadrature e tra immagini e suoni. In Rossellini, le interruzioni intersecano la durata delle scene portanti come forze ritmiche e non-narrative, soggettive e sequenze-inquadrature extra-diegetiche, svincolate dalla logica dell’azione dei personaggi: immagini vulcaniche in "Stromboli” e “Viaggio in Italia”, paesaggi industriali in “Europa 51”. Questa collocazione delle interruzioni all’esterno delle sequenze continue spiega l’insofferenza di Rossellini per il vocabolario del montaggio e la sua repulsione per il «nesso logico» del soggetto: «Il nesso logico del soggetto è il mio nemico … Io non mi trovo bene che là dove posso evitare il nesso logico». All’interno delle singole scene, Rossellini si preoccupa invece di costruire una continuità stratificata, che corrisponde alla natura delle molteplicità di fusione descritte da Bergson. In questo caso, l’interazione tra i movimenti dei corpi, degli oggetti e della macchina da presa, libera una pura mobilità di cambiamento, un ritmo di durata che varia per ogni scena. Come aveva intuito Bazin, l’unità del piano sequenza è il procedimento ideale per rendere l’indivisibilità di una durata al tempo stesso continua e solcata da movimenti eterogenei. Per dare avvio alla cristallizzazione dell’immagine-durata, Rossellini procede come in una reazione chimica. A seconda delle esigenze drammaturgiche, prende a prestito e rifunzionalizza le tecniche cinematografiche tradizionali, utilizzando metodi di sintesi differenti. Prendiamo il caso della «soggettiva libera indiretta» teorizzata da Pasolini. Rossellini se ne serve in modo limitato, ma quando ciò avviene le modalità sono quelle anti-formalistiche e non-estetiche di trucchi tesi ad estrarre la temporalità dei ritmi di durata dalla mobilità pura delle immagini, e quest’ultima dai movimenti dei corpi nello spazio. È ciò che avviene nella scena della cappella Brancacci affrescata da Masaccio nel film per la televisione “L’età di Cosimo de’ Medici”. Il mercante inglese Wadding, precipitato nell’universo sconosciuto della civiltà fiorentina del XV secolo, si ritrova al cospetto degli affreschi del Masaccio. Accompagnato da un frate, che durante tutto il piano sequenza pronuncia soltanto la frase «Sono gli affreschi del Masaccio!», Wadding entra nello spazio della cappella. Qui due pittori sono intenti a lavorare all’affresco ancora in fase di realizzazione. Wadding, colto di sorpresa dalla realtà incomprensibile degli affreschi, interroga il frate e i pittori sul significato di quest’arte. credevano che l’intelligenza consistesse nell’uscire dal tempo». L’errore di queste posizioni è topologico. La collocazione più difficile, che richiede maggiore sforzo, corrisponde all’intuizione della «mobilità originale», la capacità di prendere posto nella «sostanzialità del mutamento». L’intuizione è una pedagogia del movimento e della sua temporalità. Intuire significa per Bergson, come per Rossellini, assorbire dentro l’immagine la «fatica di attendere»: «Sappiamo bene, sin dai nostri anni di collegio, che la durata si misura attraverso la traiettoria di un mobile e che il tempo matematico è una linea. … La misura del tempo non riguarda mai la durata in quanto durata; viene contato soltanto un certo numero di estremità di intervalli o di momenti, vale a dire, in definitiva, di arresti virtuali del tempo. … Tra le estremità potrà accadere qualsiasi cosa: il tempo potrebbe accelerarsi enormemente e anche infinitamente, ma nulla cambierebbe per il matematico, per il fisico, per l’astronomo. La differenza sarebbe tuttavia profonda per ciò che riguarda la coscienza … la fatica di attendere non avrebbe infatti lo stesso significato dall’oggi al domani, da un’ora all’ora seguente. Di questa attesa determinata e della sua causa esteriore la scienza non può tenere conto …». NEOREALISMO: ANACRONISMO/AVANGUARDIA – Giuliana Minghelli Parlando del neorealismo letterario e cinematografico, il discorso critico ha spesso sottolineato il carattere ibrido di questo fenomeno culturale. Le molte contaminazioni che lo attraversano tendono a mettere in gioco varie gerarchie interne all’universo artistico: la contaminazione linguistica tra lingua letteraria, lingua parlata e dialetto; la contaminazione di generi; la contaminazione tra codici appartenenti a diversi media; e infine la contaminazione maggiore, quella tra elementi letterari e extra-letterari, tra poesia e ideologia. In una cultura imbevuta di pensiero crociano, non poteva che suonare come un atto di condanna. Ed infatti, partendo dal carattere ibrido del movimento, Maria Corti, in “Viaggio testuale”, conclude che il neorealismo non ha prodotto «codificazione letteraria» o «sensazione di rottura», il neorealismo è effetto letterario mancato. Il neorealismo presenta una resistenza alla codificazione e interpretazione che spinge infine la Corti a lamentare la nascita di un intrattabile «monstrum» stilistico, «un’anguilla che sfugge di mano». L’anguilla è animale d’acqua dolce e salata. Il ritorno insistente alla natura ibrida del fenomeno suggerisce come forse, proprio in questo aspetto, va rintracciata la sua specificità e profonda novità. Parlare di anacronismo in relazione al neorealismo cinematografico non è cosa nuova. Legato all’esperienza della liberazione e del dopoguerra e velocemente invecchiato con questa, già dai primi anni Cinquanta il neorealismo diviene emblema nella cultura italiana di una sopravvivenza anacronistica, un fossile ingombrante che, nonostante le dichiarazioni di morte ed estinzione, continua a rivisitare la scena cinematografica. Archiviato in Italia come “rispecchiamento” di una stagione storica ormai tramontata, all’estero il neorealismo conosce più lunga e illustre vita. Coerentemente con la sua apertura al reale e non tanto per debolezza progettuale, il neorealismo non produce poetiche ma fa della sua stessa pratica cinematografica il manifesto di un nuovo modo di vedere e di raccontare il mondo. La radicalità di questa rivoluzione stilistica è rimasta invisibile alla cultura italiana per molti anni. Letto come “monstrum” o anacronismo, il neorealismo, salutato da André Bazin nel 1946 come una rivoluzione estetica, riportato al centro del discorso teorico da Gilles Deleuze negli anni Ottanta, potrebbe essere letto come l’unico momento veramente d’avanguardia e di rottura, l’unico modernismo che l’Italia abbia avuto. Per situare il neorealismo nel più ampio contesto della storia e teoria del cinema internazionale, questo saggio vuole ripensare la pratica del cinema neorealista alla luce della riflessione di Walter Benjamin sull’arte cinematografica e il suo rapporto con forme artistiche più arcaiche come il racconto orale. In questa prospettiva critica la rivoluzione narrativa e visiva introdotta dal neorealismo può essere compresa partendo proprio dagli elementi anacronistici che lo contraddistinguono, come la tradizione orale e la figura del cantastorie. Nel 1936 Walter Benjamin cominciò a lavorare su due saggi destinati ad avere un enorme impatto: “Il narratore. Considerazioni sull’opera di Nicola Leskov” e “L’opera d’arte nell’era della sua riproducibilità tecnica”. Un saggio guarda indietro nostalgicamente all’arte ormai persa del cantastorie; l’altro coraggiosamente in avanti verso i nuovi orizzonti espressivi aperti dal cinema. Mentre “Il narratore” tratta di una reale pratica narrativa del passato, “L’opera d’arte” esplora l’idea di un cinema ipotetico. Il neorealismo, cinema nato dal naufragio della modernità tecnologica con cui il pensiero di Benjamin si era misurato, può essere letto come l’effettiva materializzazione storica del cinema del futuro auspicato da Benjamin a cavallo tra i due saggi: simultaneamente il punto di coincidenza tra la nostalgia/anacronismo del cantastorie e la modernità della macchina da presa, un’unità basata sull’esperienza, comunicazione, arte e tecnica. Leggendo il neorealismo all’intersezione di queste due prospettive critiche apparentemente opposte e tuttavia dialetticamente e produttivamente intrecciate da Benjamin, si può cominciare a comprendere la natura innovativa del progetto neorealista che recuperando l’arte perduta del racconto orale all’interno della forma moderna del cinema, ridà voce e redime una modernità negata e umiliata dall’esperienza della guerra. Due nuovi modi di comunicazione hanno causato la lenta estinzione della vecchia arte orale, collettiva e anonima del cantastorie: il romanzo e l’informazione. Nata e consumata in uno spazio collettivo, la storia occupa una posizione antitetica rispetto al mondo solitario dello scrittore e lettore di romanzi. Espressione di un’intelligenza che viene da lontano, la storia si oppone anche al mondo dell’informazione: verificabile, immediatamente accessibile, totalmente spiegato. La storia non informa l’ascoltatore; piuttosto, incapsulata in una narrativa tenuta rigorosamente libera da ogni spiegazione, la storia dà consiglio, saggezza. Non solo la sua struttura narrativa profonda, ma le sue modalità di consumo sono radicalmente differenti. Mentre i lettori di giornale consumano avidamente le notizie quotidiane e i lettori di romanzi si nutrono «della fiamma da cui è consumato il destino altrui» nella speranza «di riscaldare una vita infreddolita alla morte di cui leggono», gli ascoltatori di storie assaporano la resistenza della storia ad essere consumata totalmente. La storia, ci dice Benjamin, «somiglia ai chicchi di grano che sono rimasti ermeticamente chiusi per millenni nelle celle delle piramidi e che hanno conservato fino ad oggi la loro forza germinativa». La moderna esperienza della guerra ha assestato un colpo letale al «racconto passato di bocca in bocca». Mentre nel saggio su “L’opera d’arte” questo è un punto conclusivo da cui muove l’utopia di un nuovo modo di percezione e di rappresentazione artistica, nel “Narratore” questo è piuttosto un punto di partenza per una esplorazione di vari modi di comunicazione e affabulazione. È il declino dell’esperienza una verità storica ineluttabile? O non è vero piuttosto che la funzione antropologica del racconto è un elemento inalienabile dell’umano, e che invece di scomparire, si eclissa in vene sotterranee, e eventualmente riappare mutata in altri modi di rappresentazione quali informazione, fotografia, cinema? Nell’ormai lontano 1964, parlando del secondo dopoguerra e del suo romanzo del 1947 “Il sentiero dei nidi di ragno”, Italo Calvino in un saggio esemplare, sia per il contenuto che per il suo movimento stilistico, fatto di incertezze, riprese e abbandoni del filo espositivo, riflette sul suo lavoro e sull’atmosfera storica e culturale che lo aveva espresso, vale a dire il “neorealismo”. Il ricordo di Calvino è condiviso da molti suoi contemporanei. Per questa generazione di italiani il carattere collettivo dell’esperienza storica della seconda guerra mondiale, ha fatto sì che la costellazione dell’esperienza ed il racconto orale che ne è espressione, dati per perduti da Benjamin, facessero un’inaspettata ricomparsa. Il riferimento a «un anonimo narratore orale», «l’esperienza», «la voce anonima dell’epoca» sottolinea il riemergere di un antico modo di comunicazione, non l’epica grandiosa e impossibile degli inizi mitici che si auspicava la Corti, ma il genere più umile, quotidiano e contaminato del racconto orale, vicino alla cronaca, a metà strada tra le categorie aristoteliche di poesia e storia, non proprio narrazione e nemmeno documento, ma «storia». Tuttavia, scomparsi gli ultimi bivacchi attorno al fuoco, esaurite le storie nei memoriali e nell’epopea picaresca di Pin, la voce anonima del narratore orale non poteva che spegnersi al confine con la pagina scritta. Fin dalle sue prime recensioni dei film neorealisti André Bazin parla del neorealismo come di un cinema che predilige la dimensione dell’oralità su quella della scrittura. Così, descrivendo la tecnica narrativa di Rossellini, Bazin usa parole che riecheggiano profondamente forme e valori della storia benjaminiana: «Nel film di Rossellini i fatti si susseguono e lo spirito è costretto ad accorgersi che si raccolgono e che, raccogliendosi, finiscono per significare qualcosa che era in ciascuno di essi e che è, se si vuole, la morale della storia» . Ma come può il riemergere anacronistico della “storia” adattarsi al mondo post-orale del romanzo, dell’informazione e del cinema? Contrariamente a quanto pensava la Corti, non c’è nulla di fortuito o improvvisato in questa contaminazione. Come Benjamin cercava di articolare tra “Il narratore” e “L’opera d’arte”, è proprio la nuova arte cinematografica a mettere in luce una copresenza di forme e funzioni artistiche moderne e primitive. La contemporaneità dei due saggi benjaminiani continua a lasciare perplessa la critica a causa dei punti di vista opposti su passato e futuro, l’arte pre e post-tecnologica. In che senso racconto orale e cinema sono accomunati? Prima di tutto nell’origine delle loro funzioni. Benjamin pensa la tecnologia del cinema come un momento di distacco radicale dal passato (fine dell’aura, dell’autorità dell’opera d’arte) e come continuità antropologica delle funzioni primitive mimetiche e di gioco. In secondo luogo, cinema e racconto orale condividono lo stesso carattere collettivo. Entrambi sono prodotti per un pubblico popolare e, idealmente, dal popolo. Il cinema del futuro per Benjamin, come più tardi nella visione utopica di Cesare Zavattini, dovrebbe muoversi tendenzialmente oltre il controllo del mercato di sogni hollywoodiano, verso uno scambio di immagini e di storie legato alla democratizzazione della macchina da presa. Idealmente, il cinema dovrebbe trasformarsi da semplice intrattenimento per le masse a strumento nelle mani di ciascun spettatore e mettere in questione la divisione tra produttori e consumatori. In questo senso, la fluidità e intercambiabilità di funzioni tra narratore e ascoltatore, lo scorrere della storia orale, ricreata ad ogni racconto, costituiscono la frontiera utopica contro cui Benjamin proietta le potenzialità del nuovo mezzo cinematografico. In terzo luogo, cinema e racconto orale si avvicinano nelle modalità di ricezione. L’esperienza della moderna metropoli ha profondamente mutato i circuiti percettivi: shock, ripetizione, frammentazione dello spazio e tempo dominano la percezione del moderno spettatore. «Il pubblico cinematografico è un esaminatore», osserva Benjamin, «ma un esaminatore distratto». La ricezione-in-distrazione che caratterizza l’arte post- auratica viene a sostituirsi alla contemplazione di fronte all’opera d’arte tradizionale. Benjamin identifica nell’architettura il prototipo di un’opera d’arte che, come il cinema, è ricevuta collettivamente e in uno stato di distrazione. Sebbene mai menzionata nel saggio, la storia orale rappresenta un altro possibile prototipo per il cinema. Legata al ritmo delle attività manuali quotidiane come tessere o filare e alla noia e distrazione indotti dalla ripetizione dei compiti, la storia orale, come l’architettura, è fruita collettivamente e in uno stato di distrazione. Come a rispecchiare il doppio binario, il movimento a spola tra passato e futuro, che informa il discorso sulla nuova tecnologia cinematografica, “L’opera d’arte” avanza in realtà due idee di cinema, due diversi scenari per il dispiegarsi dell’interazione tra natura e umanità messa in atto dal cinema. Dall’individuazione di questi due momenti contrapposti dipende un’esatta comprensione dell’idea di cinema avanzata dal neorealismo. Dice Benjamin: «Da un lato, il compito del cinema si definisce attraverso un’educazione alla visione. La presupposizione sottesa a questo compito è che la realtà sia una quantità sconosciuta, da penetrare e comprendere nei suoi elementi costitutivi e costrittivi. Si noti come l’obiettivo, la fotografia e cioè la densità del singolo fotogramma, giochino un ruolo di primo piano in questo compito». «Dall’altro, attraverso la dinamite del decimo di secondo, il cinema garantisce un margine di libertà enorme e imprevisto» , crea uno “Spielraum”, spazio di gioco. Il pensiero corre al cinema rivoluzionario di Dziga Vertov e Sergei Ejzenstejn, ma il linguaggio, sebbene rovesciato in senso emancipatorio, alla luce dell’imminente distruzione letterale di «bettole, uffici, fabbriche e stazioni», si avvicina pericolosamente alla retorica di Marinetti e dei futuristi citati alla fine del saggio. Il punto di contatto implicito è la svalutazione e indifferenza alla “realtà”, concepita come una quantità “oggettiva”, conosciuta, una prigione da scomporre, smontare, triturare in un collage di fotogrammi, in cui poi muoversi, in un sogno di invulnerabilità, come spensierati turisti tra le rovine. A cavallo tra i due saggi, tra foreste primigenie e giungle tecnologiche, storicamente sull’orlo di un precipizio, l’idea di cinema di Benjamin si ferma all’esempio immediato della cinematografia rivoluzionaria russa. E qui si ferma anche l’operatività del modello del racconto orale. La tecnica filmica su cui si costruisce il film d’avanguardia che lavora con la dinamite del decimo di secondo, è puramente moderna. Parlandone, Benjamin svaluta l’apporto del cameraman e pone l’accento sul lavoro di post-produzione, è lì che ha luogo la scelta artistica. Importanza fondamentale è data al montaggio: il racconto cinematografico si delinea come opera di taglio, scomposizione e riassemblaggio del reale. Il rovesciamento più radicale introdotto con il neorealismo, è legato forse proprio alla posizione della macchina da presa vis à vis l’uomo. Come già nei film di Vertov, l’apparato discende nella strada dove dà vita a un’azione duplice e reciproca: la vita recita per l’apparato, ma l’apparato, a sua volta, recita per la vita. Con un movimento opposto a quello descritto da Pirandello ne “I quaderni di Serafino Gubbio” e citato da Benjamin ne “L’opera”, nel neorealismo non è più tanto l’attore ad essere alienato nell’apparato, ma è la macchina da presa ad assumere caratteristiche umane, ad essere innervata. Nato in un mondo in rovina, il neorealismo rovescia la vocazione del cinema da distruttore a occhio umanizzato, che si pone con umiltà di fronte al mistero della realtà e educa all’attenzione. Nata in un mondo profondamente violato dalla tecnologia, la macchina da presa neorealista, da meccanismo che simulava la distruzione, diviene tocco e sguardo volto a rifondare il rapporto dell’uomo col mondo. Il neorealismo rende operativa la prima concezione di cinema di Benjamin, ma, muovendosi oltre le riflessioni del filosofo tedesco, nasce come risposta al fallimento del cinema di fronte alla storia, fallimento denunciato da Zavattini, nel convegno internazionale sul cinema tenutosi nel 1949 a Perugia. Secondo Zavattini il neorealismo nasce come reazione a un cinema cieco. Per vedere ancora una volta, il cinema deve recuperare il senso di scoperta e meraviglia verso il reale delle prime visioni dei fratelli Lumière, il neorealismo rappresenta questo ritorno. Tecnicamente questo fatto si esprime con un recupero della visione d’insieme, del paesaggio: la profondità del fotogramma, il campo lungo, il piano sequenza, sostituiscono campi e controcampi, primi piani e l’uso preponderante del montaggio. In queste scelte linguistiche e stilistiche il cinema neorealista si riallaccia alla tecnica del racconto orale. Da un’idea della realtà come un tutto oggettivo e totalizzante che deve essere smontato e ricostruito in sede di montaggio, si passa al riconoscimento che la realtà è parziale e frammentata, fatta di una serie di eventi, che Berto scrive con i gesti ampi e arrotondati di chi nuova a rana, senza fatica apparente. La prosa scorre flessuosa, ammortizzata, priva di spigoli. L’intenerimento lirico è prodotto dalla lunghezza di frasi che si allargano a estuario. Sul principio di questo libro anche le transizioni fra una scena e la successiva sono tenui. Il racconto passa di mano dal paesaggio ai personaggi, e di personaggio in personaggio, con una morbidezza femminile da lavoro domestico. Nel secondo capitolo vediamo trascorrere un intero decennio, gli anni ’30, dopodiché tutto si rompe: «Crollò il governo e l’ordine della nazione, e il popolo fu diviso. Quasi tutti vissero aspettando. La guerra sarebbe finita un giorno o l’altro, forse presto». «Molto tempo passò con lentezza, e fuori pioveva leggermente». Berto sa tutto quello che serve al racconto che deve svolgere, ma lo sa momento per momento. Se l’orizzonte geografico è vasto, quello narrativo si va formando capoverso dopo capoverso. Chi narra sente il bisogno d’illuminare la scena poco per volta, in modo che il lettore la vada scoprendo ed esplorando così come ha dovuto fare lui stesso. Berto non anticipa e non ritarda. Non anticipa conclusioni e non si attarda sull’attimo, ma non salta un passaggio. «Le cose gli si presentavano alla mente ad una ad una, e il resto del mondo rimaneva come sfumato o ignorato». Questa annotazione che riguarda Daniele, il ragazzo ex seminarista che sarà, con Carla e Giulia e Tullio, uno dei quattro protagonisti del romanzo, vale per l’andamento del libro interno. Berto ha un modo di raggiungere l’oggettività che sta tra l’indifferente e il trasognato. Quel fluttuare tra le cose che succedono e che, proprio come chi le contempla e attraversa, non si tengono insieme, ha il corrispettivo nello stile: la sintassi di Berto morbida, sciolta, veloce, ci restituisce la sua maniera di stare al mondo. Quando la storia incomincia ci troviamo nell’Italia piovosa e ferma dei primi anni ’30 dove il fascismo è già pietrificato al potere e dove dura il ricordo dell’inverno 1929, quando il termometro scese ai venti sottozero. “Il cielo è rosso” succede in una nazione che è l’Italia, in una regione che è il Veneto, in una città che è Treviso. Ma Berto ha rinunciato a nominare i luoghi e a numerare con precisione i mesi e gli anni. Luoghi e tempi di questa storia sono immaginari nel senso più completo della parola. 2. Nell’autunno 1940, poco dopo l’intervento dell’Italia in guerra, Berto comincia a insegnare latino e storia nell’istituto magistrale “Duca degli Abruzzi” di Treviso. Ha ottenuto il posto quale ex combattente in Africa Orientale, pluridecorato. Era rimasto in Abissinia, come volontario, per ben quattro anni, dal ’35 al ’39: «un volontario sincero» come scriverà più tardi ne “Il male oscuro”. Gli esami universitari li darà quasi tutti al ritorno in patria, diciotto nel giro di soli sette mesi. Si laurea il 21 giugno del ’40 con una tesi orale sul Canaletto, voto 102/110. Ha quasi ventisei anni, essendo nato il 27 dicembre 1914 a Mogliano Veneto, nel trevigiano. In quell’estate 1940 pubblica anche il suo primo racconto, “La colonna Feletti”, un episodio della guerra coloniale: un testo asciutto, impaziente. Si direbbe che sia proprio l’impazienza a orientare la sua vita in quel periodo; quando nel ’41 si trova a sostituire il segretario politico del Fascio di Treviso che è stato richiamato alle ami, si stufa rapidamente ed entra in urto con le autorità superiori. Il brano è tratto da un testo autobiografico scritto in terza persona nel giugno 1965, titolo “L’inconsapevole approccio”. Il prosieguo della storia ci dice che Berto si decide a rinnovare la domanda di arruolamento come volontario e che nella primavera del ’42 viene richiamato; lo destinano però a un corso di perfezionamento per allievi ufficiali, a Parma. Veterano d’Africa, Berto non ne vuole sapere di nuove esercitazioni e accademie; adduce un’ulcera duodenale e si fa esonerare, ma presenta una seconda domanda di arruolamento, stavolta presso la Milizia Volontaria per la Sicurezza Nazionale di cui è membro: andrà dunque in guerra non con l’esercito ma con il VI Battaglione Camicie Nere Africa Settentrionale. Il 1 settembre 1942 sbarca a Tripoli; poco dopo, a El Alamein, si spezza il fronte dell’Asse. Non resterebbe che contenere l’avanzata inglese, ma di andare a combattere non se ne parla, anzi, i volontari delle camicie nere possono misurare con i loro occhi giorno per giorno la gravità della disfatta italo-tedesca. Dobbiamo aspettare la fine di marzo del ’43 per trovare Berto impegnato nella battaglia di El Hamma, ma solo come addetto ai rifornimenti. Subito dopo, però, riceve l’onore di raccogliere i superstiti dello scontro e formare una Compagnia che si unisce al X Battaglione Camicie Nere “M”, dove naturalmente l’iniziale sta per Mussolini. Il 13 maggio, a Enfidaville, dopo aver distrutto le armi e le munizioni che gli restano, Berto e i suoi camerati si consegnano a una pattuglia senegalese. Li portano in camion a Casablanca. Nel gruppo quasi nessuno di loro accetta di dichiararsi «prigioniero collaboratore»: vengono perciò imbarcati in nave e condotti verso un “Fascist camp” oltreoceano, a Hereford nel Texas. Dopo l’otto settembre tra quei prigionieri, tutti nominalmente fascisti, cominciano a manifestarsi svariate fazioni politiche: anarchici, badogliani, monarchici fedeli al re o fautori della successioni, fascisti repubblicani o repubblichini; spuntano anche dei leninisti, la cui centrale è proprio la baracca dove alloggia Berto, che potrà usufruire di un qualche indottrinamento marxista. A Hereford, mettere a disposizione il proprio sapere e le proprie abilità è la regola; chiunque sappia fare o insegnare qualcosa si dedica ai propri compagni di prigionia, e le gerarchie militari ne risultano sovvertite. Nascono varie riviste manoscritte che circolano in copia unica; una di esse s’intitola “Argomenti”; Berto vi pubblica una prosa che lui stesso definisce frutto del dannunzianesimo più languido: è intitolata “La vicenda delle stagioni”. Ma sullo stesso numero di “Argomenti” un suo amico, il prisoner of war Gaetano Tumiati, ha pubblicato un breve racconto, “Nostra grande via”. Berto rimane impressionato. Nei mesi successivi saranno intensi gli scambi con lui, con il futuro magistrato-scrittore Dante Troisi e con Alberto Burri, che ha appena deciso di abbandonare la medicina per la pittura. Viene scritto per primo, in un mese, “Le opere di Dio”, che uscirà nel 1948. Poi, dal principio dell’estate e per otto mesi, Berto si lascia andare a una lunga narrazione con titolo provvisorio “La perduta gente”. La stesura è incominciata pochi giorni dopo l’arrivo di un nuovo gruppo di prigionieri italiani; Berto fa appena in tempo a trovare fra loro un concittadino al quale chiede notizie di Treviso. Risposta: i bombardamenti l’hanno distrutta. L’intervista dove si legge questo brano appare nel marzo 1964 sul bimestrale “L’Europa letteraria”. “Il male oscuro” è stato appena pubblicato; Berto accompagna quell’anamnesi psichica con un autocommento in cui tira le somme della propria vicenda umana. Il nuovo libro è il referto tragicomico di una lunga claustrofobia, che ha trovato finalmente liberazione e libertà nella scrittura. Ma anche “Il cielo è rosso”, scritto giusto vent’anni prima, nasceva da un contrasto non troppo diverso. Le aperture di paesaggio nei primi capitoli del “Cielo” sono anche una reazione al recinto della prigionia. L’infinita disponibilità di tempo di cui la narrazione sembra bearsi è il corrispettivo psicologico del divieto di spazio: il deserto texano è grande, ma guardarlo stando chiusi in un recinto non può bastare. Il primo romanzo di Berto è anche uno sfogo per quel «male del reticolato» che deve il nome a un poeta italiano, Vittorio Sereni, rimasto anche lui prigioniero per due anni. La lingua, certo: anche se per prima cosa va detto che ne “Il cielo è rosso” Berto descrive disastri di guerra di cui non è diretto testimone, devastazioni e miserie che può ricostruire solo per forza d’immaginazione, ma di cui ignora la portata, il contesto politico, la dinamica, la cronologia; è il più vistoso dei caratteri che rendono unico il suo romanzo. Però, in quest’opera letteraria, situazioni di questo genere lasciano il segno innanzitutto sull’uso delle parole. Nella guerra e nel dopoguerra che Berto s’impegnava a inventare troviamo non uno, ma due esercizi di traduzione letterale: se il primo, come lui stesso ci dice, riguarda il dialetto veneto trascritto in dialoghi italiani, il secondo riguarda l’inglese d’America, il cui spazio sonoro avvolge l’autore nel campo di Heferord. Nel “Cielo” vediamo muoversi e parlare soldati americani ma non incontriamo truppe tedesche, con le quali Berto pure aveva una certa dimestichezza, avendole frequentate negli ultimi mesi di guerra. Berto rientra in Italia nel febbraio del ’46. Propone i manoscritti a Bompiani e a Garzanti, senza esito. Nel frattempo riesce ad avvicinare Giovanni Comisso che abita a Zero Branco, paese poco distante da Mogliano. “Il cielo è rosso” esce da Longanesi con la data 1947 negli ultimissimi giorni del ’46. L’editore ha rifiutato il titolo “La perduta gente”, che gli pareva iettatorio, sostituendolo, come l’autore voleva, con un’espressione presa dai Vangeli, ma senza rivelargli in anticipo quale. Ha anche sfoltito il testo, soprattutto nel primo capitolo, dove le descrizioni erano ancora più lunghe. 3. “Il cielo è rosso” racconta le peripezie di quattro ragazzi, tra i quindi e i diciassette anni, in una città devastata dai bombardamenti alleati. Carla e Giulia sono cugine, cresciute nella stessa casa. Carla è figlia di una serva, Giulia di una prostituta. I padri non si sono mai visti, le madri vengono a mancare presto; rimane solo una nonna, che non può tenerle a bada e che morirà sotto le bombe. Giulia è taciturna, schiacciata dalla mortificazione; la sua dedizione per gli altri è quella della vittima predestinata. Carla al contrario ha prontezza di spirito e di parola, economia di pensieri, umori volubili, a volte perversi altre volte malinconici. Guadagna prostituendosi ma resta legata, non si sa fino a che punto, con Tullio, la guida naturale del gruppo, il più adulto con i suoi diciassette anni. Tullio è comunista ma vive di furti e traffici. Ai tre si unisce Daniele, che ha appena abbandonato un seminario-prigione; nei bombardamenti ha perso la famiglia, per la quale d’altronde era sempre stato un peso, e non ha dove andare. Rispetto a Tullio e alle ragazze è di condizione superiore: l’essere un piccoloborghese cresciuto fra i preti basta a impacciarlo nei sentimenti e nei commerci che garantiscono la sussistenza. Il quadrilatero dei protagonisti cambia forma secondo le linee che si tendono tra loro, in particolare tra Daniele e le due donne, tra Daniele e Tullio che s’impone come modello di adultità: «Tullio faceva sempre pensare alle cose difficili della vita». Berto pratica una scrittura sotto anestesia, che ti lascia contemplare il dolore senza infliggertelo. I suoi personaggi sono una vegetazione nuova che cresce su terra bruciata, un’erba frastagliata e senza nome. Come forse si sarà capito, preferisco dire il minimo possibile sull’intreccio. Nel raccontare questa città, Berto non manifesta vergogna della sconfitta e della miseria, ma nemmeno compiacimento. Non ha reticenza nel guardare dritto alla realtà, sia pure una realtà ricostruita per indizi mentali. «Perché noi non stiamo tanto a vedere se le cose che facciamo sono buone o cattive, basta che siano cose che servono». La cronaca del bombardamento e distruzione della città, nei capitoli tre e quattro, è una scheggia di potenza: il più cospicuo tra gli sforzi di empatia visionaria esercitati verso il paese lontano. Eppure a chi questo punto si aspettasse un’opera apocalittica si accorgerebbe subito di essersi sbagliato: «il romanzo che alle prime scene s’imposta quasi come una infernale macchina da guerra, subito dopo si scarica e poi si effonde con la desolata tenerezza di un carillon». L’avvertimento è di Pietro Pancrazi, che elogia il “Cielo” sul “Corriere della Sera”. Il conflitto tra linguaggio e intreccio va addebitato in gran parte alla preoccupazione moralistica che pesava su Berto durante la stesura. Se Comisso si infervora tanto per quel libro, non è solo per la qualità dello stile, ma anche perché gli pare che il “Cielo” sia un libro congruente con quel «neoromanticismo» e quella «riscoperta dei sentimenti» di cui s’è fatto promotore fin dal ’43. E basta mettere in moto i personaggi, soprattutto Daniele e Giulia, perché quella musica si faccia udire, e affinché la luce da lui prediletta scenda a tingere il paesaggio; si tratta di una luce veneta: «Berto è uno scrittore veneto “spaccato”, quasi fradiciamente veneto» scrive Andrea Zanzotto, che con Berto ebbe una lunga amicizia antagonistica. Questo carattere veneto è la solitudine etica che accomuna Fogazzaro e Comisso, Piovene e Parise: un modo di guarda il mondo, e di scriverne, con egoismo limpido e tranquillo, con un atteggiamento disarmato e disarmante. Scegliere di stare soli come per un gesto di sedizione malinconica, utile a degustare tanto il piacere quanto la tristezza. «Bisognava esser soli, e diventare più forti, e non avere molte speranze per la vita» : ecco una frase chiave di “Il cielo è rosso”. Berto è un animale che tiene perfettamente pulita la propria tana, basti pensare all’igiene stilistica di un romanzo come “Il male oscuro”, che può apparire torrenziale e fangoso solo a uno sguardo disattento. Berto è autore rettilineo; per quanto lunghe, anche le sue digressioni sono rettilinee. Ora, il cinismo naturale è lo strumento con cui uno scrittore scopertosi tale in prigionia, sospeso “middle of nowhere”, sente la necessità di regolare i conti con l’Italia di prima, l’Italia della sua giovinezza politica e affettiva e culturale, che gli pesa sulla nuca come una maledizione. La adora e la detesta. Desidera distruggerla per ricostruirla. Come liberarsene? E come accoglierla? È qui che si serra il nodo tra sentimento e moralismo. Tutte le morti che segnano le fasi del “Cielo è rosso” sono morti sacrificali, morti che si slanciano a un orizzonte ultraterreno per poi inflettere qui sulla terra, tra chi è sopravvissuto, un’onda luminosa di ritorno che abbaglia e consola; un’onda, una volta di più, di luminosità veneta: «ho assorbito attraverso un’educazione in gran parte religiosa un concetto del tutto escatologico del dolore», dice Berto di sé nel “Male oscuro”. Scritto da lontano, “Il cielo è rosso” è un romanzo sul destino dell’Italia. Per Berto, combattente e poi prigioniero fascista che mancò l’occasione della guerra civile ’43-’45, che non ebbe modo di scegliere da quale parte stare, per Berto l’Italia non poteva crescere, farsi adulta e contemplarsi combattendo. Il «volontario sincero» era finito dietro un reticolato del Texas, e non poté fare altro che inventarsi una lunga storia dove i personaggi si muovono sempre limitati da quattro pareti, o dai confini di un paio di quartieri. Nel “Cielo” troviamo personaggi, misure del tempo e luoghi che Berto ha inventato a distanza di migliaia di chilometri sulla base di memorie, frammenti di notizie incontrollabili e poi ancora di suggestioni, impuntature nervose, scatti di odio e amore ugualmente incontrollabili. La lega umana che vediamo agitarsi in questo libro con rassegnazione febbrile stringe i denti e sopravvive finché può, contando su resti di vitalità biologica. Solo in questo senso “Il cielo è rosso” è un’opera della resistenza. Il lettore può anche attribuire l’iniziale maiuscola alla parola, purché si renda conto che qui la paura più viva non è la guerra o la fame o la malattia, ma la paura di chiedere e di ricevere amore. TRA LETTERATURA E CINEMA: IL NEOREALISMO ECCENTRICO DI PALAZZESCHI – Gino Tellini «A 65 anni tutti vanno in pensione, io entro in un impiego, tutto alla rovescia per me» : così, con l’autoironia che gli è abituale, Palazzeschi commenta con l’amico editore Enrico Vallecchi, da Roma, il 29 giugno 1950, l’incarico di critico cinematografico che terrà sulle colonne di “Epoca”, tra l’ottobre 1950 e il luglio 1951, per complessivi trentasette film recensiti, in un totale di quaranta articoli. Nella sua breve stagione di battitore libero, che gioca fuori casa, gli accade «di tenere a battesimo il binomio vincente del cinema futuro: Antonioni (“Cronaca di un amore”) e Fellini (“Luci del varietà”); e va detto che, a differenza di molti fra i recensori patentati, seppe farlo con fiduciosa autorevolezza». Non c’è ombra di quella supponenza, anche un po’ altezzosa, del letterato di grido che si camuffa da addetto ai lavori su un terreno non suo. Dichiara, anzi, di rubare «il posto a un critico vero», denuncia la propria scarsa «conoscenza della materia», chiede lumi e consigli. Di qui il tratto distintivo della sua rubrica “Cinema”, dove non si pronunciano verdetti, bensì si assume il punto di vista dello spettatore comune, dell’utente Desidero invece riferirmi, sempre in rapidissima sintesi, a “I fratelli Cuccoli”, che escono nel 1948, nel pieno vigore della stagione neorealistica. Si afferma di solito che il romanzo, nel quadro delle parole d’ordine allora vigenti, va contromano o controcorrente. L’”eroe” del romanzo palazzeschiano, l’esile e fragile Celestino Cuccoli, biondo con gli occhi azzurri, cerca di vivere quella che Sava chiama la «calda vita», cerca di attingere nel grigiore del quotidiano il miraggio della libertà e della leggerezza. Rifiuta la nozione del possesso, dei soldi, dell’avere, per dare ascolto alla voce dell’essere, a un’istintiva e puerile naturalezza, al mistero di una libido festosa, al piacere creaturale di esistere, alla letizia del sacrificio di sé, alla gioia di regalare senza limiti la felicità a chi gli vive accanto. È stato facile parlare di evasione fantastica. Ma non è così. Palazzeschi va sempre per suo conto, ma non è mai indifferente o distratto dinanzi alle ragioni della storia, al dramma della storia. Il candido Celestino deve misurarsi con l’opacità del mondo durante la guerra e il dopoguerra, con gli antagonismi e le resistenze della società, con gli ostacoli e le barriere del giorno per giorno. Perciò nel romanzo è guardato in controluce dall’angolo visuale di quanti lo considerano un pazzo, secondo l’etica economico dell’opinione comune, perché la realtà pare debba imporre un codice di leggi non scritte ma tassative, che prescrivono misura, limite, calcolo, profitto. Se l’impulso edonistico e libertario è riversato su un personaggio anomalo, esposto alla luce radente dell’ironia, significa che quella libertà, quell’innocenza, quell’istintiva naturalità, quella vocazione all’amore, riflesse in uno specchio che le fa apparire abnormi o assurde, si rivelano anche agli occhi dell’autore, per quello che sono: un dono raro e prezioso riservato a pochissimi, perché pochissimi sono gli spiriti liberi. Ha scritto Gadda: «Palazzeschi non è e non può ritenersi un grosso calibro dell’epica: nella più o meno stridula o affiatata orchestra, degli scrittori nostri del secolo, egli non è di certo il trombone, egli è l’aedo triste d’una labile, d’una momentanea felicità. La felicità sembra sfiorarci un attimo e già si dissolve nel nulla». Nel clima di alta tensione dell’Italia 1948, sulle macerie di un paese semidistrutto, mentre vide l’obbligo dell’impegno e della militanza sociale, mentre la narrativa europea reclama istanze di carattere ideologico, professioni di fede politica, registrazioni d’eventi, resoconti d’esperienze vissute e di fatti accaduti, “I fratelli Cuccoli” dischiudono, leopardianamente, uno spiraglio enigmatico e surreale sul tema dell’umana felicità. “L’arte di essere infelice” s’intitola uno dei tanti “disegni letterari” che Leopardi si è proposto invano di scrivere: «Quella di essere felice è cosa rancida; insegnata da mille, conosciuta da tutti, praticata da pochissimi, e da nessuno poi con effetto». Celestino Cuccoli è tra i «pochissimi» che l’hanno praticata, e non senza «effetto». L’eccentrico Palazzeschi non devia e non evade dalle ragioni storiche che premono alla coscienza della derelitta e operosa Italia nel periodo della ricostruzione, ma anzi collabora a una nozione di narrativa neorealistica più mobile e più libera di quanto comunemente si crede. Nonostante l’interessamento della Lux Film e l’ipotesi d’una regia affidata a Renato Castellani, il progetto non decolla. Ma l’idea del film resiste e, sotto la regia di Mauro Bolognini, il ruolo di Celestino è proposto a Totò, che avrebbe dovuto interpretarlo nel 1967, se la morte non l’avesse sorpreso all’improvviso, nell’aprile di quell’anno. Palazzeschi ama Totò, senza riserve e senza sofismi intellettuali, perché si schiera dalla «parte semplice del pubblico», lui che confiderà a Mondadori, nel 1958: «Vorrei essere amato dalle creature semplici e non discusso dai sapienti di letteratura». Sente Totò non solo a sé congeniale, ma consanguineo: «il comico genuino e, come il poeta, un fatto naturale». La gioia di vivere, che riscatta dalle ore di disperazione e di angoscia, che libera dalle umiliazioni e dalle sofferenze fisiche, la naturalezza dell’esistere, la comicità come antidoto alla pena, il riso come «controdolore», l’«arcobaleno» che sopraggiunge dopo il «temporale»: ogni pensiero rivolto a Totò è un pensiero rivolto a Celestino Cuccoli, all’eroe d’una aerea leggerezza che significa istintivo amor vitae e che riesce a rendere tangibile il miraggio della felicità. Non la felicità di sapore classico, che è calma e interiore e pacatezza dello spirito, ma la felicità che nasce dal piacere anche effimero e istantaneo, anche dall’intensa emozione del desiderio. La felicità che può fiorire in mezzo alle macerie. OGGI E ALLORA, IL NEOREALISMO RIVISITATO – Tonino Valerii Il film è del 1947 una data che traccia una linea di demarcazione tra le guerra ancora non conclusa e il primo mortuario dopoguerra. Rossellini che ha perso da poco il primogenito, durante la realizzazione del film sembra ottenebrato da un oscuro cupio dissolvi. Si accinge quindi a tracciare il ritratto di un adolescente il cui agire viola gli stessi comandamenti di Dio. L’adolescente, Edmund, unico sostegno della famiglia composta del padre inabile, una sorella maggiore prostituta suo malgrado e un fratello imboscato, si guadagna da vivere disseppellendo le vittime dei bombardamenti per dargli onorata sepoltura. Lavoro che compie con impegno malgrado l’esigua figura adolescenziale e denutrita. Su istigazione di un suo vecchio maestro ex nazista avvelena il padre invalido, inutile bocca da sfamare. E dopo aver vagato come un automa in una Berlino ridotta ad un cumulo di macerie, si toglie la vita. Dalle stragi di guerra e dalle torture Rossellini approda alla più tremenda delle trasgressioni, quella al dettato di Dio: “Onora il padre e la madre” e “Non uccidere”. Secondo il parere di molti esegeti con “Germania, anno zero” e l’ultimo episodio di “Paisà”, Rossellini tocca l’apice dell’arte sua e, aggiungerei, di tutto il neorealismo. il cattolico Rossellini traccia consapevolmente un percorso iniziatico e rivela la veritiera natura della sua visione della vita e della fatica che l’uomo, qualunque uomo, deve affrontare per giungere a una sola irredimibile verità: la vita segue un tragitto di cui all’uomo è negata la conoscenza e che ne fa un eroe per il solo fatto di percorrerlo. Già nelle opere degli anni precedenti s’erano intravisti segni di un certo cambiamento; per esempio: “Fari nella nebbia” del 1942 aveva orientato il trentenne Gianni Franciolini, a frugare nel mondo inquieto della gente che si guadagna da vivere faticosamente, fra i camionisti e gli ambienti che frequentano; fra incontri notturni, strade polverose, trattorie, mercati, postriboli molto distanti dagli ambienti lucidati a specchio, saloni con mattonelle bianche e nere, che apparivano nei film cosiddetti dei telefoni bianchi. Nella Francia del front populaire di Leon Bloom, e delle “maisons du peuple” agivano registi come Jean Renoir (“La Marsigliese”); Marcel Carné (“Le visiteurs du soir”, “Les enfants du Paradis”); René Clair (“Sotto i tetti di Parigi”, “Parigi che dorme”, “Quattordici luglio”). Questi registi mostravano operai, piccoli borghesi, bottegai in quartieri pulsanti di vita, di amori, e di delitti, dando della Francia un ritratto veridico e commovente. Così come da oltre oceano giungevano le voci di autori come John Ford (“Furore”), King Vidor (“La folla”, “Alleluia”), Frank Capra (“È arrivata la felicità”) e moltissimi altri dalle cui opere si levava la voce stessa della gente comune. Dalla cinematografia tedesca arrivava, invece, il fenomeno dell’espressionismo, una specie di sismografo che aveva registrato il lento inesorabile cammino che avrebbe portato la Germania «from Caligari to Hitler». In Italia i sintomi che preannunciarono il neorealismo furono due, non necessariamente ispirati alle cinematografie sopracitate, ma che tuttavia davano forma a qualcosa capace di rimettere in moto processi narrativi obsoleti, il mostrare l’uomo e le sue capacità di indignazione. Il primo di essi è “I bambini ci guardano” di Vittorio De Sica tratto da un romanzo di una certa notorietà: “Pricò” di Cesare Giulio Viola; l’altro, “Ossessione” di Luchino Visconti tratto dal romanzo “Il postino suona sempre due volte” dell’americano James Cain. Sullo schermo irrompono vagabondi, disoccupati, reduci di improbabili guerre, prostitute che alludono o praticano comportamenti trasgressivi, personaggi border line, che passano come meteore. La provincia americana degli assicuratori, dei benzinai, dei commessi viaggiatori, delle pianure punteggiate di pompe di benzina e motel, si trasforma in “Ossessione” in una vasta, assolata e polverosa bassa ferrarese; nelle osterie come quella del Bragana, nelle fiere e nei concorsi canori e nel postribolo di Ferrara. Ma bisogna farne ancora molta di strada prima di intravedere il neorealismo. bisognerà aspettare che nel paese si verifichi una svolta di storica portata: che si determini, cioè, quel sollevamento popolare capace di scuotere le coscienze e convincere il popolo a prendere la via della montagna. Un po’ di mesi prima che ci lasciasse, durante una delle tante conversazioni con Giuseppe De Santis, Peppe pronunciò una frase che mi colpì. Cito a memoria: «Il neorealismo, che sarebbe più giusto chiamare neo- umanesimo ebbe molti padri incerti ed una sola autentica madre. La resistenza» . Quanto al termine neo- umanesimo lo coniò per sottolineare in quel movimento la centralità dell’uomo. L’uomo che lavora, che soffre che «fa crescere il grano» come recita il titolo di un suo soggetto mai realizzato per l’avversione dell’industria e delle istituzioni, nei confronti di tematiche socio-antropologiche emergenti. Quanto alle incertezze di paternità De Santis ne faceva carico alle troppe definizioni à la main, che attribuivano la nascita del nuovo soggetto a fatti contingenti come l’occupazione dei teatri di posa; dall’irreperibilità degli attori; dalla mancanza di energia elettrica e pellicola. Sicuramente delle concause che comunque non impedirono a Rossellini, De Sica e Visconti di realizzare i loro film. Al fianco di Visconti egli contribuì a definire e a delimitare quella griglia dentro i cui parametri si sarebbero mossi tutti i film della corrente neorealista e che costituirono il nucleo più avanzato di quel soggetto politico- culturale che avrebbe assunto il nome di neorealismo. Vittorio De Sica moriva nel 1974. I funerali rappresentarono un evento di portata mondiale. La folla straripante, le notizie innumerevoli. Poi con calcolata lentezza tutto fu riassorbito. Eppure, di Vittorio De Sica, Cesare Pavese ebbe a scrivere che lo si poteva considerare «il più grande narratore del secolo». Mentre di “Ladri di biciclette” Orson Welles, ma non solo lui, disse senza infingimenti che lo considerava il più bel film che avesse mai visto. André Bazin infine scrisse che per definire De Sica «si è imperiosamente portati al principio stesso della sua arte intrisa di tenerezza e amore. Ho parlato di amore ma avrei potuto dire anche poesia. Essendo la poesia nient’altro che la forma attiva creatrice dell’amore, la sua proiezione nell’universo». L’aristocratico Visconti aveva i suoi canali privilegiati e fu l’unico che lasciò allievi che seppero tramandarne l’arte e la memoria. L’intellettuale, il nobile, il marxista Visconti non dovette fare alcuna fatica per appuntare il suo ritratto nella galleria della storia del cinema. Vero è che fu l’unico che tenne e seppe rinnovare il suo stile e le sue tematiche ad un livello di prestigio. Ma tornando a Pavese su De Sica: non vi sareste aspettati un premio letterario intestato al Maestro? Non vi sareste aspettati una riflessione di qualche altro tipo su Roberto Rossellini? Certo l’opera di Rossellini non è meno importante delle decine di libri, romanzi e/o memorie di guerra, resistenza, e liberazione passati dai magazzini degli editori ai remainders clubs. Né mi sento di affermare che la poesia di “Paisà” e di “Germania anno zero” non meriti uguale attenzione di opere letterarie ben diversamente giudicate. NEOREALISMO – LA NUOVA IMMAGINE IN ITALIA 1932-1960 – Enrica Viganò In una lettera che mi scrisse Mario Giacomelli ai tempi in cui iniziai ad occuparmi di neorealismo ritrovo una sintesi del mio sentimento verso questo fenomeno della storia fotografica italiana: «Realtà come noi stessi / come disciplina interiore / come pelle e anima». L’approccio scientifico mi ha condotto poi a fare dei distinguo ben precisi tra le diverse istanze e modalità del neorealismo, ma quell’incanto verso «una vera carità di tempo, di occhi e di orecchi, data ai fatti, alla gente del proprio paese», è rimasto intatto. Negli Annali Einaudi del 1979 Carlo Bertelli individua già nei primi decenni del secolo i germi del neorealismo. La poetica neorealista risulta, infatti, da una concatenazione di eventi storici e spinte ideali che non possono esaurirsi e spiegarsi nella convinzione finora più diffusa, e cioè che alla fine della guerra sorga una nuova fotografia, grazie semplicemente alla ritrovata libertà e in reazione agli ani bui del fascismo. Circoscrivere questo fenomeno al dopoguerra è fuorviante, anche se effettivamente il neorealismo in fotografia raggiunge i suoi splendori e la sua maggiore popolarità proprio negli anni ’50, sulla scia del successo del cinema neorealista. Nel 1932 la mostra della rivoluzione fascista consacra la fotografia come mezzo di comunicazione di massa, connotandone il valore educativo e divulgativo. Grande spazio e attenzione vengono riservate dal regime all’immagine fissa, in aggiunta a tutte quelle novità tecnologiche emerse in breve sequenza: la radio, il rotocalco e il cinema sonoro. Elementi funzionali ai grandi apparati informativi dei regimi e dei governi degli anni Venti e Trenta, capaci di amplificare la pressione comunicativa degli apparati sui cittadini. Le immagini fotografiche costituivano la “prova delle dichiarazioni di Mussolini, testimoniavano in modo “inequivocabile” la verità e l’affidabilità delle sue parole. Era ancora difficile distinguere tra informazione e propaganda, ma intanto il popolo analfabeta aveva scoperto un linguaggio accessibile a tutti, dal nord al sud, al di là dei dialetti e del ceto sociale. Ovviamente la maggior parte della produzione fotografica era sotto lo stretto controllo della censura fascista. Anzi, a prescindere da questa, era ben chiaro a tutti quello che era conveniente documentare e quello che non lo era, ma come sempre nelle maglie di una struttura rigida si annidano eccezioni e contraddizioni. I fotografi addestrati a riprendere il “mondo reale” si trovarono tra le mani uno strumento che offriva molte più potenzialità di quelle sfruttate dal regime. Succede quindi che, accanto alle immagini dei lavoratori orgogliosi e sorridenti per il “benessere” creato dal Duce, gli obiettivi inquadravano anche situazioni di arretratezza e miseria o tradizioni popolari in netto contrasto con la modernizzazione proclamata dal fascismo. Nei tardi anni ’30 si sviluppa anche un altro importante veicolo del realismo, il fotogiornalismo dei rotocalchi. Le riviste illustrate saranno un altro luogo di verifica delle potenzialità del linguaggio fotografico. In quell’epoca la maggior parte delle immagini vengono fornite gratuitamente ai periodici dell’Istituto Luce, ma altre pieghe della rigida struttura vengono a formarsi tra le pagine dei giornali, che accanto alla contemplazione delle gesta del Duce riescono a volte a inserire scene di vita vera. È il caso di riviste come “Omnibus” di Leo Longanesi illustrata con le fotografie di Cesare Barzacchi, settimanale di attualità politica e letteraria, che verrà chiuso dalla censura fascista dopo meno di due anni di attività. In tutto ciò non bisogna dimenticare che il dibattito sulla fotografia in Italia è ancora in mano per lo più ai circoli fotoamatoriali, dediti alla ricerca formale e scevri da ogni preoccupazione di documentare la realtà. Bisognerà aspettare il dopoguerra per sentire le prime voci alzarsi contro l’estetismo fine a se stesso. Da questo dissenso nasceranno nuove associazioni di fotografi, prorogando per lunghi anni la diatriba tra le fazioni opposte. Una sintesi di queste dinamiche era necessaria nel nostro excursus per poter seguire le tappe dell’evoluzione della grammatica visiva: con Giuseppe Cavalli e Riccardo Moncalvo da una parte e Paolo Monti e Pietro Donzelli dall’altra, per fare solo alcuni nomi. dominante, un consenso che nasce «storicamente» dal prestigio e dalla fiducia derivante dal gruppo dominante, dalla sua posizione e dalla sua funzione nel mondo della produzione. Gli intellettuali di tipo “rurale” che secondo Gramsci erano di stampo tradizionale, cioè legati alla massa sociale campagnola e piccolo borghese di città, specialmente nei centri minori, dovevano svolgere il ruolo di mettere a contatto la massa contadina con l’amministrazione statale o locale. Nel discutere l’atteggiamento del contadino nei confronti dell’intellettuale, Gramsci tratta anche della duplice e contraddittoria ammirazione e del dispregio, invidia, rabbia e rancore che i “cafoni” provano per gli intellettuali. Nel romanzo di Silone, Fontamara è un paese che non è stato mai libero da un potere straniero, per cui i cafoni vedono lo stato come un’entità nemica. I fontamaresi sono poveri ed emarginati e non sono mai stati partecipi di un movimenti popolare che sia riuscito a cambiare la loro oppressione culturale ed economica. L’essere stati sempre sottomessi a un potere forestiero significa che, per sopravvivere, i fontamaresi hanno veramente bisogno di un “galantuomo” il quale li rappresenti e li protegga contro tutto quello che minaccia la loro esistenza. Il galantuomo appartiene alla società dominante, cioè al potere temporale che regna sopra i fontamaresi. I contadini dipendono da lui. In cambio, il popolo serve al galantuomo come mano d’opera a basso costo o per coltivare la terra come braccianti. Questo potere, come tutti quelli che si sono susseguiti nella Marsica, è a loro sconosciuto. La differenza tra il nuovo governo e gli altri è che il fascismo finge di coinvolgere i contadini e di includerli nelle decisioni da prendere, come avviene con la petizione portata dal Cavaliere Pelino per la spartizione dell’acqua che i cafoni devono firmare senza sapere per cosa, oppure con la farsa della convocazione alla riunione ad Avezzano per ascoltare le decisioni del nuovo Governo di Roma sulla questione del Fucino. Il fascismo peggiora la loro perenne povertà. Visto che i fontamaresi non fanno altro che lavorare la terra, quando la loro acqua è tolta, non resta altro che morire di fame. La mancanza dell’acqua diventa “la novità” che si può collegare con il nuovo potere fascista che sostiene il capitalismo finanziario. L’esistenza dei cafoni è minacciata e ora devono scegliere di accettare la realtà imposta loro dai Fascisti senza ribellarsi, oppure morire di fame. In più, la legge che conoscevano, rappresentata da Innocenzo La Legge, con il nuovo governo è cambiata, ed ora i contadini non possono nemmeno emigrare da Fontamara, «una nuova legge… sospese tutta l’emigrazione» che era sempre stata l’unica risoluzione ai problemi della società contadina meridionale. Le nuove calamità che si abbattono sui cafoni peggiorano il loro perenno sfruttamento. Per loro rimane anche il problema della lingua che il regime fascista non risolve, basti pensare all’incontro con il Cavalier Pelino, all’esame sulle gerarchie, e alla spartizione dell’acqua. I cafoni non parlano la stessa lingua dei regnanti o dei cittadini, non riconoscono le autorità e non si identificano con l’identità nazionale. Benché le terre del Mezzogiorno d’Italia siano state unite nella stessa realtà storica statuale, ordinata sempre, tranne le brevi repubbliche del 1647-1648 e del 1799 nella forma monarchica prima dell’unità nazionale, per Silone non esiste un’autentica storia nazionale ma soltanto la storia di sovrani e di ordinamenti succedutisi nel corso dei secoli. Nel romanzo Silone mostra che, in realtà, gli intellettuali non ebbero mai una posizione egemone e non furono in grado di rappresentare le esigenze della popolazione, per cui non si fecero mai espressione di una nazione. Essi non riuscirono mai a raccogliere intorno a sé l’anima del paese. I rapporti tra le classi sociali a Fontamara dimostrano che la tradizione popolare venne dissolta nel più vasto ambito della nazione italiana senza mai consolidare i valori etnici e gli ideali politici ai quali le masse aspiravano. Per il cafone siloniano la nazione è estranea ai bisogni e agli interessi dei suoi abitanti; infatti, da parte della classe dirigente, manca una consapevole accettazione, conservazione ed elaborazione del patrimonio dei valori civili e spirituali ricevuti in eredità dai padri, cioè della civiltà contadina. Nel romanzo Silone, con ironia, mostra come l’unione forzata del Mezzogiorno al regno d’Italia ha determinato la spoliazione economica e la dispersione di una parte delle ricchezze naturali della zona, con il dono del Fucino ai Torlonia da parte dei reali di Casa Savoia in cambio dell’appoggio politico. La maniera in cui è affrontata la questione delle terre del Fucino dimostra che il fascismo la risolve assegnandole agli agrari ricchi e non ai braccianti. Nella vita di tutti i giorni il personaggio dell’impresario è la personificazione della politica fascista a servizio del capitalismo finanziario. Questo nuovo potere è rivelato attraverso le romanzate vicende tra i Fontamaresi e l’impresario e la maniera in cui quest’ultimo prende il potere nel paese e spodesta i vecchi “galantuomini” come don Carlo Magna, servendosi anche dell’appoggio della chiesa e delle banche: «egli rappresentava la Banca… I vecchi proprietari incominciarono a tremare di fronte a lui…». Nel 1935 Palmiro Togliatti tenne delle conferenze-lezioni a operai italiani a Mosca che frequentavano la scuola di partito nell’allora Unione Sovietica. In una di queste lezioni, Togliatti affronta anche il tema del fascismo nelle zone agricole. La lezione disegna le basi della politica fascista in Italia e la natura classista del fascismo e i mezzi ideologici e organizzativi usati per crearsi un consenso di massa. Togliatti fa una profonda analisi del carattere di questa base e dei problemi che le forze democratiche e comuniste in Italia devono porsi e suggerisce dei metodi di strategia politica da intraprendere nelle difficili circostanze create dal regime fascista. Indicando gli effetti della politica fascista sull’economia negli ultimi anni Trenta e la crisi economica, Togliatti afferma che molti strati della popolazione agricola sono ridotti a uno stato di povertà che peggiora giornalmente e che bisogna trovare a ciò una soluzione. Secondo la sua tesi la crisi non sta causando un impoverimento di tutta la classe operaia ma soltanto di certi strati culturali e allo stesso tempo rende altri più forti. Nella creazione letteraria di Silone la tesi di Togliatti si personifica attraverso la figura dell’impresario e dei Torlonia che si arricchiscono con l’aiuto del governo e a spese dei non possedenti. All’affermazione dell’impresario che l’America è nel lavoro, i cafoni rispondono: «quelli che più lavorano sono i più poveri». Lo sbarramento politico nei confronti di “Fontamara” e del suo autore non permisero una lettura non ideologica da parte dell’apparato culturale del PCI. La chiusura è confermata dal fatto che bisogna arrivare agli anni Ottanta per la realizzazione filmica del romanzo, che fu promossa dalla televisione di stato e dal produttore Edmondo Ricci, il quale suggerì per la regia il nome di Carlo Lizzani. Lizzani sfogliò il libro nel dopoguerra, ma era prevenuto contro quanto odorava di folclore, con il Sud senza mediazioni di tipo favolistico. Invece nel 1979 quando, in seguito all’offerta della RAI, rilesse il libro, lo trovò bello, ne avvertì lo spessore profondo e gli parve una grande occasione per un nuovo capitolo della storia del Novecento e soprattutto quella tra il 1922 e il 1945. Il romanzo gli parve l’occasione per arricchire con un’altra storia di “umili” quello sguardo sul Novecento che era la linea portante del suo cinema. Lizzani ritiene che la chiamata da parte della RAI venne al momento giusto perché si erano superati il clima da Komintern degli anni ’40 e ’50 e gli antichi pregiudizi nei riguardi di Silone. Dalla sua uscita dal comunismo tutti, nel partito e vicini ad esso, subivano l’immagine negativa che il partito dava dello scrittore: un transfuga, un avventuriero, un avversario di Togliatti e di Gramsci, per questo Lizzani aveva soltanto sfogliato il romanzo e non solo l’odore di folclore del romanzo lo rendeva diffidente. Quando gli fu offerto il film, Silone era già morto e Lizzani non ebbe occasione di parlargli o di conoscerlo. Ebbe, però, rapporto cordiali con la vedova alla quale piacque il copione e la realizzazione cinematografica. Il film può essere visto come un risarcimento dopo anni di ostracismo ma, essendo stato realizzato così tardi, quando ormai i contadini non erano più al centro della cultura italiana e il dibattito sul realismo si era esaurito, poteva soltanto avere un valore storico senza poter trasmettere l’istanza rivoluzionaria del romanzo. La forza del romanzo sta nel fatto che negli anni Trenta i fontamaresi, schiacciati dal governo fascista e dalla sua violenza e cecità, acquistano una coscienza politica rivendicativa che li porta alla ribellione aperta e alla consapevolezza che solo politicamente e con l’unità sociale si possono combattere e sopportare i soprusi e le violenze. Tutti i fontamaresi sono gente povera, assuefatta alle abitudini, agli abusi e alla sofferenza. La loro vita è una vita di stenti e di sofferenze per sopravvivere. La loro esistenza è controllata dal tempo e dalla terra stessa come ciclo stagionale che si ripete da anni e generazioni. Essi vivono in un mondo arcaico, appartato dalle innovazioni moderne e sociali fino a quando gli eventi straordinari non li spingono alla mobilitazione sociale. L’atto collettivo e politico lo compiono solo dopo la morte di Berardo che muore per tracciare un esempio politico per il riscatto collettivo e non per interesse personale. Per questa ragione l’azione di Berardo deve essere interpretata come il primo atto di un processo politico consapevole, quello di un contadino che si stacca dalla ristretta mentalità dell’interesse personale per abbracciare l’interesse comune e sociale. Tutto questo accadrà solamente dopo la conversione politica di Berardo che passerà da uno stato anarchico di ribellione e di violenza all’accettazione di un atto politico cosciente per il bene e come esempio per gli altri cafoni. All’inizio Berardo Viola è un giovane eccezionale, dotato di una forza fisica superiore al normale e con una tradizione familiare di brigantaggio, dominata da un destino avverso. È presentato mentre scaglia sassi contro le lampadine dei lampioni nella notte, dopo che il paese è stato privato della luce elettrica. Le sue relazioni con gli altri personaggi sono dominate dalla sua forza fisica. Egli aveva perso tutto in un tranello giocatogli da don Circostanza, il cosiddetto Amico del Popolo. Berardo è temuto dai paesani ed ammirato, ma non è mai considerato da prendere come esempio dagli anziani del paese. Nel III capitolo la personalità di Berardo è approfondita: egli appare come uomo leale, forte, iroso, che accetta quasi con buon umore la sua sventura di non avere terra. Molto spesso si lascia andare ad atti di violenza contro le autorità statali e comunali, ma tutti giustificano le sue azioni con il fatto che non abbia niente da perdere. Più tardi, nel racconto, conosciamo un altro aspetto della personalità di Berardo, il suo orgoglio che sarà importante alla fine della storia e della sua vita. La sua fierezza gli impedisce di sposare Elvira perché lei ha una dote, mentre lui non ha terra. Per guadagnare denaro e ricomprarsi la terra Berardo decide di andare a Roma e di lavorare il doppio. Prima che egli parta, in una discussione nel locale paesano con il cursore comunale, scopriamo un altro aspetto della sua filosofia sulla vita. Berardo è d’accordo nell’abolire il ragionamento e la discussione politica perché la proibizione è conforme alla sua filosofia che sostiene che non vale la pena discutere tanto il cafone perde sempre. Il suo cambiamento è lento, infatti, la sua forza devastatrice ed anarchica si scatena contro i soprusi dell’Impresario che stava cercando di impadronirsi di un terreno che da millenni apparteneva a tutti. La staccionata di legno messa dal comune va in fumo durante la notte. Il mito anarchico di Berardo, forza naturale che si abbatte contro le autorità, che non si discute, continua ad arricchirsi, ma quando il paese ha bisogno del suo aiuto per difendere l’unica bolla d’acqua del paese Berardo si ritira. Le parti si sono alternate, ora i proprietari vogliono difendere i propri interessi; allora vogliono l’aiuto di Berardo, l’unica forza capace di ribellarsi ai soprusi. L’amore per Elvira e il suo orgoglio lo fanno cambiare e pensare ai suoi interessi personali. Il suo nuovo atteggiamento si svela nella casa di don Circostanza, il quale gli offre la paga ridotta secondo le nuove leggi fasciste per alleviare la disoccupazione. Berardo accetta la riduzione per amore d’Elvira. Comunque la grande sorpresa per tutti si avvera il giorno della spartizione dell’acqua, Berardo non si fa vedere affatto. Sembra che senza di lui non si possa agire o reagire, egli era sempre stato il simbolo della ribellione. Tutta la sua forza e volontà erano concentrati in quel desiderio di far soldi per comprarsi la terra per poter sposare Elvira. Per realizzare questo scopo avrebbe fatto qualsiasi atto o sacrificio, proprio come prima avrebbe fatto qualsiasi cosa per essere rispettato e per vendicare gli abusi dell’autorità. Tutto questo lo si può vedere chiaramente durante il suo ultimo giorno a Fontamara. A Sulmona è scoppiata la rivoluzione dei cafoni e si aspetta l’aiuto di Fontamara, ma qui nessuno si muove senza Berardo. Egli fa finta di non capire e pensa solo ai suoi interessi personali. Adesso Berardo la pensa come prima la pensava il paese, i ruoli si sono invertiti. Berardo non è diventato un vigliacco, ha solo cambiato la prospettiva del suo fine o scopo della vita. Infatti l’autore ci dice che Berardo era interamente concentrato in una sua idea: quella di riuscire a trovare lavoro. Egli era disposto a tutto, nessuno scrupolo l’avrebbe trattenuto. A Roma, con il passare del tempo, in cerca di lavoro senza trovarlo, Berardo incomincia a perdere la fiducia nel successo e nell’interesse personale. Comunque il suo sogno svanisce e si frantuma solo quando gli arriva la notizia della morte d’Elvira. Solo alla fine del libro il lettore saprà che Elvira ha offerto la sua vita per salvare Berardo. Salvarlo da cosa? La risposta ce la dà Elvira stessa, perché prima della partenza di Berardo vedendolo così cambiato gli aveva detto: «Se è per me che ti comporti in quel modo, ricordati che io cominciai a volerti bene, quando mi raccontarono che tu ragionavi nel modo contrario». L’incontro con l’Avezzanese arriva al momento opportuno, quando Berardo ha bisogno di ritrovare uno scopo nella vita. Vengono arrestati come sospetti e durante la loro prima notte in carcere l’Avezzanese spiega a Berardo il ruolo e la funzione del Solito Sconosciuto. Nel colloquio Berardo capisce il valore della persuasione e si rende conto che anche gli altri strati della società, all’infuori dei cafoni, soffrono e sono poveri e sfruttati. L’Avezzanese fa leva su uno degli aspetti più forti della personalità di Berardo, il suo orgoglio di uomo fiero. Il loro discorso procede lentamente perché Berardo da buon cafone siloniano non si fida di nessuno e non riesce a capire come mai un cittadino voglia aiutare i cafoni abruzzesi. Tutto questo è contro la sua concezione della vita. Ma, preso dal suo lato sensibile, l’orgoglio, Berardo subisce un cambiamento di prospettiva e la vita ha di nuovo un senso. Adesso Berardo dovrà insegnare a tutti i cafoni di Fontamara il significato dell’azione collettiva, cioè dell’azione politica come gli aveva spiegato l’Avezzanese. A questo punto il suo grande desiderio di amicizia e il suo temperamento lo spingono a rivelarsi come il Solito Sconosciuto, egli non si rende pienamente conto del suo atto e del rischio che corre, vuole solo fare uscire di prigione lo studente avezzanese. Egli crede di star giocando; infatti appena raggiunto lo scopo pensa di poter smettere la finzione e uscire. Quando si accorge che non può finire così, decide di dire la verità, ma il Solito Sconosciuto ha sparso di nuovo il giornale con il titolo a grandi caratteri «VIVA BERARDO VIOLA». Questo basta per far decidere Berardo ad accettare qualsiasi cosa, anche la morte. Durante le ore della notte incomincia il suo tormento, non è ancora convinto dell’azione politica che sta facendo, ma alla fine esclama: «Sarò il primo cafone che non muore per sé, ma per gli altri». Berardo ha scoperto l’atto politico che servirà da esempio agli altri cafoni, adesso è maturo e può ritrovare la pace interna. Per la prima volta nella storia el paese e dei suoi abitanti, nasce un atto collettivo: il primo giornale dei cafoni sotto la direzione di Scarpone, l’erede morale di Berardo. Essi si ribellano alla loro esistenza fatta di sopravvivenza, soprusi ed angoscia e per la prima volta, uniti, si chiedono che fare. Questa è l’importanza di Berardo e il fine della sua lenta maturazione che passa dall’azione anarchica, violenta, individuale all’azione politica da essere presa come esempio per il bene collettivo e l’unità sociale.
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