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Rischio e Comunicazione, Dispense di Sociologia Della Comunicazione

Riassunto dettagliato del libro Rischio e Comunicazione del prof. Andrea Cerase, Sapienza, aa. 2023/2024 Comunicazione del Rischio e dell’emergenza

Tipologia: Dispense

2023/2024

In vendita dal 29/06/2024

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Scarica Rischio e Comunicazione e più Dispense in PDF di Sociologia Della Comunicazione solo su Docsity! RISCHIO E COMUNICAZIONE – CERASE Rischio e comunicazione: appunti per un’introduzione al dibattito La pertinenza e la centralità dei risk studies: Soltanto quarant’anni fa il dibattito sul rischio nelle scienze sociali era appannaggio di una ristretta cerchia, intenta a comprendere e a tentare di risolvere problemi e conflitti che soprattutto a livello locale, caratterizzavano le risposte sociali all’introduzione di tecnologie pericolose o all’incombere di certi rischi naturali. Le riflessioni di alcuni gruppi di ricerca so sono nel tempo intrecciate tra loro. Il rischio è diventato un tema chiave nel dibattito delle scienze sociali un concetto centrale per descrivere e spiegare le società contemporanee, il modo in cui esse gestiscono il cambiamento e affrontano il proprio futuro. Il dibattito pubblico ha consentito ai risk studies di espandere il proprio campo di indagine. Il rischio, oltre a stressare il concetto di modernizzazione, tocca diversi punti focali per comprendere la società contemporanea, e in particolare, il ruolo e l’organizzazione della conoscenza; i processi decisionali e le scelte politiche; la previsione degli effetti collaterali e/o indesiderati dalle scelte e soprattutto la loro attualizzazione nel futuro. L’idea di rischio come dimensione pervasiva e caratterizzante delle culture tardo moderne, la necessità di un confronto autoriflessivo sulle conseguenze inattese dell’industrializzazione, la portata globale e locale dei rischi, così come il tema delle scelte riguardanti la loro gestione individuale e collettiva costruiscono i cardini teorici della società del rischio (Beck). Il rischio sta cambiando la nostra cultura e il nostro modo di entrare in relazione con l’altro, creando continuamente nuove ansie. La categoria di rischio e il discorso sul rischio hanno acquisito un’inedita pervasività e centralità nella vita sociale, formando un insieme di strategie culturali volte a conferire un ordine a una realtà imprevedibile e apparentemente fuori controllo, e offrendosi come strumenti di autoregolazione dell’individuo rispetto alle necessità imposte dalle società liberali. Il rischio è un modo per caratterizzare e spiegare le dinamiche sociali, per interpretare le culture della contemporaneità e per comprendere la trasformazione delle istituzioni. Scienza, etica, diritto e politica sono continuamente co-prodotte attraverso le loro interazioni reciproche. La co-produzione è quindi come un processo di definizione reciproca dell’ordine epistemico e normativo che – tra l’altro – configura diversamente i rapporti tra la scienza, l’etica, il diritto e la politica stessi in relazione al periodo storico e al clima politico e culturale. Il risk management promuove modi condivisi di percepire il rischio anche tra tribù politicamente e culturalmente distanti tra loro. Quindi, se i rischi non sono mai politicamente e eticamente neutrali, è necessario ridiscutere criticamente la separazione tra fatti e valori, avviando una critica autoriflessiva nei processi di Risk Governance  fa riferimento all’insieme di azioni, processi, tradizioni e istituzioni attraverso cui si esercita l’autorità e si prendono e attuano decisioni, con l’obiettivo di allocare al meglio le risorse disponibili. Il concetto di rischio non corrisponde più a un’unità inscindibile di pericolo e opportunità, di pro e di contro da soppesare razionalmente che dal XVIII secolo aveva caratterizzato l’ethos della nascente borghesia e segnato l’avvento della modernità industriale. Oggi, il rischio significa soprattutto esporre gratuitamente se stessi, o altri, a pericolo gravi e per questo trovarsi a dover affrontare la disapprovazione sociale. Per comprendere meglio i motivi della strutturale avversione della società nei confronti di alcuni tipi di rischio necessario porre una particolare attenzione alle sue dimensioni culturali, e ai modi in cui queste definiscono scelte, identità e conflitti sociali, come evidenziato dalla Cultural Theory. Lo sviluppo delle tecnologie e l’evoluzione dei sistemi politici e giuridici garantiscono i massimi livelli di sicurezza mai raggiunti storicamente ma, questo processo si è accompagnato all’aumento di inquietudini e preoccupazioni, sia dei cittadini che dei governi. Anche i pericoli naturali sono percepiti come sempre meno “imprevedibili”. 1 Il rischio, legandosi alla dimensione imperativa della scelta, è così diventato un aspetto pervasivo dell’azione umana, in grado di definire le mete culturali, etiche e politiche in una società sempre più dominata dalla paura di pericoli reali o anche solo immaginati. La necessità di rispondere alle sfide poste dal rischio è oggi un cardine nell’azione dei Governi nella cosiddetta risk-centre society. Perché i risk studies: i motivi di un approccio interdisciplinare: L’allargamento del campo della risk analysis alle scienze umane e sociali non è stato facile. L’emergere di nuovi rischi dalle conseguenze sempre meno prevedibili e calcolabili e le crescenti preoccupazioni del pubblico per i temi ambientali e i conflitti politici ad essi legati avevano infatti messo drammaticamente in evidenza i limiti del razionalismo e la confusione teorica degli approcci tecnici, rivelatisi poco adeguati alla risoluzione e alla mediazione delle controversie legate al rischio. Con l’etichetta risk studies si tende oggi a identificare un nuovo campo di studi nato come tentativo di dare risposte ampie e pertinenti ai diversi problemi sociali, politici, economici e giuridici creati dall’emergere dei rischi; caratterizzandosi per il tentativo di integrare approcci, prospettive teoriche e sapere disciplinari diversi entro un quadro unitario e coerente. Il termine “risk studies” inizia ad apparire in letteratura intorno agli inizi degli anni ottanta del XX secolo, in associazione con una serie di ricerche sull’ubicazione di siti nucleari e di altre tecnologie rischiose. All’inizio degli anni novanta invece, questo termine compare nell’accezione attuale, a indicare e definire un campo teorico, non più riducibile alle sole necessità pratiche e contingenti dei rischi ambientali, tecnologici e industriali. La co-produzione di un nuovo paradigma del rischio, in grado di considerare e farsi carico non solo degli aspetti tecnici e scientifici ma anche delle sue dimensioni percettive, sociologiche e culturali, nasce in relazione alla crescente paura per il nucleare e alle prime catastrofi. Ricordiamo: Sellaflield (Inghilterra) 1957, Minamata, depositi tossici a Love Canal, Chernobyl, la mucca pazza, epidemie di influenza aviaria e suina. Queste catastrofi oltre a provocare un senso di sfiducia verso la scienza, hanno accreditato l’idea di essere costantemente assediati dagli esiti dannosi di decisioni prese da altri contro la nostra volontà. È proprio in quel periodo che si registra un aumento del conflitto sociale legato all’emergere dei rischi tecnologici e ambientali, che inizia a manifestarsi nei termini di una sempre più ampia mobilitazione dei movimenti ambientalisti. Inoltre, ai cosiddetti “man made distasters” si aggiungono molte catastrofi naturali come lo Tsunami dell’oceano indiano 2004, i terremoti di Haiti 2010 e del Giappone 2011, le cui conseguenze tendono ad essere inputate a scelte umane, come la mancanza di efficaci sistemi d’allerta, una superficiale pianificazione urbanistica o la sottovalutazione dei rischio. In territorio italiano ricordiamo: Reggio e Messina 1908, l’Aquila 2009, Amatrice 2016. Alcuni di questi eventi legati al rischio hanno innescato dinamiche sociali nuove. La gestione del rischio ha finito per assorbire un vasto insieme di attività sociali caratterizzate da incertezza e conflitto, insinuandosi nelle pieghe più minute della quotidianità con il risultato di ridefinire socialmente persino il corpo e la sua stessa fisiologia come fonti di rischio. Il tema del rischio si è legato sempre di più a quello della politica: necessità di includere le comunità esposte. Il campo di quelli che oggi definiamo risk studies è, infatti, il risultato di una progressiva apertura alle scienze umane e sociali che si è concretizzata nella nascita di centri di ricerca specializzati, che nella fase iniziale si legavano in particolare al nucleare, all’inquinamento o agli effetti catastrofici dei disastri naturali. Questi gruppi, caratterizzati da una marcata impronta multidisciplinare e da una crescente attenzione alle dimensioni psicologiche, sociali e culturali dei rischi, non sono hanno messo in discussione l’idea del rischio come dominio esclusivo del calcolo e della tecnica, ma hanno contribuito ad affermare l’idea di una pluralizzazione delle forme di razionalità sottese ai processi di percezione, valutazione e gestione del rischio da parte di esperti e profani. Sin dagli anni cinquanta, gli studi avevano messo in luce l’impossibilità di fondare e informare una decisione su base razionale, riconoscendo che la razionalità umana è limitata. I primi esempi di centri di ricerca caratterizzati da un’impostazione multi e interdisciplinare si collocano negli Stati Uniti nella second metà del XX secolo. In Italia, dopo il terremoto del Friuli del 2 nostro rapporto con la scienza, la tecnologia, l’ambiente e la salute, mettendo il concetto di rischio al centro dell’agenda mediale e politica. Le decisioni di governi, scienziati, tecnologi, hanno così finito per modificare profondamente il nostro rapporto con il rischio, determinando la necessità da parte della società di individuare, prevenire e ridurre al minimo una quantità di piccoli e grandi rischi che incombono in ogni aspetto della vita quotidiana. L’invisibilità, l’immaterialità e l’imprevedibilità connesse a questo tipo di rischi hanno reso sempre più evidente l’inadeguatezza della visione convenzionale del rischio come prodotto della probabilità di un evento avverso moltiplicata per il danno conseguente. Inizia a farsi un’idea nuova: il rischio, da elemento di disturbo contingente e calcolabile razionalmente inizia a diventare un fattore sempre più caratterizzante dall’esperienza sociale della tarda modernità, fino a diventare una dimensione chiave per comprendere il conflitto politico, le direttrici dello sviluppo tecnologico e industriale e la stessa struttura delle relazioni sociali. L’interesse e l’attenzione delle scienze sociali verso i temi del rischio sono una semplice presa d’atto della loro rilevanza e della capacità di spiegare la profondità dei mutamenti in atto. 1.2 Beck, Giddens, Lash: la riflessività del rischio: La prospettiva concettuale dei teorici della società del rischio assume la centralità del conflitto nella definizione dei rischi, che si definiscono anzitutto come problemi o patologie dell’attuale fase di modernizzazione, che eccede le sue possibilità di soluzione. Quest’approccio appare in netto contrasto con l’idea di Luhmann, che invece sostiene una concezione della società come sistema autoreferenziale interconnesso attraverso la comunicazione e tendenzialmente orientato all’equilibrio. Secondo Beck, sostenitore di quest’approccio conflittuale, bisogna considerare la crisi del processo di modernizzazione, messo in discussione proprio dall’emergere del rischio. Il problema che questi ultimi pongono riguarda proprio la possibilità di una gestione “democratica” delle conseguenze dei rischi e delle decisioni che si ritiene debbano essere prese. Sono state proposte numerose concettualizzazioni, per lo più centrate attorno al mutamento “paradigmatico” nelle relazioni industriali, nell’organizzazione del lavoro e dei mercati. L’elemento condiviso da questo insieme di teorie è l’idea che la profondità del mutamento sociale e le trasformazioni del sistema industriale agiscano sulle forme di produzione della cultura, generando una crisi in grado di rimettere in discussione persino la fondatezza dei principi di razionalità che avevano caratterizzato le “formazioni sociali” del capitalismo liberale e organizzato. Beck, in certa parte anche Giddens e Lash, pur riconoscendo la profondità del mutamento sociale, si discostano dalla tradizione interpretativa del post-industrialismo e ancor più dalle categorie della postmodernità. Tendono a rifiutare tutte quelle teorie che premettono un “post” per spiegare il disorientamento conseguente alla perdita dei punti di riferimento, che la teoria sociale tradizionale tendeva a dare ormai per consolidati. 1.3 Il rischio come apocalisse della modernità in Beck: Beck, focalizzandosi sul periodo più recente propone una visione diversa e più articolata del mutamento, individuando il rischio come elemento di rottura rispetto alle letture tradizioni e come contenuto specifico dell’attuale fase di modernizzazione, in cui la produzione della ricchezza va di pari passo con la produzione di nuovi rischi, ridisegnando la mappa dei conflitti che non riguardano più la sola redistribuzione del benessere quanto la produzione, la definizione e la distribuzione dei rischi prodotti dalle scienze e dalle tecnologie. A differenza di quanto avveniva in passato, secondo Beck, ciò che oggi più accomuna l’esperienza umana nelle società capitalistiche avanzate non è più l’appartenenza di classe, genere, ceto o condizione professionale quanto l’essere esposti a qualche tipo di rischio. Con una sostanziale differenza: se nelle società preindustriali in cui il mondo era minacciato da pericoli naturali che potevano essere attribuiti a “forze esterne”, i rischi dell’era contemporanea conseguono alle decisioni dell’uomo: essi sono il prodotto dell’industrializzazione e pertanto sono destinati ad aggravarsi in conseguenza del suo stesso progresso. Ciò si deve, secondo Beck, a quella che definisce come “crisi della modernità lineare”, 5 ossia di quel modello di modernizzazione che ha accompagnato la nascita e il consolidamento della società industriale, che oggi attraversa una fase di dissolvimento, conseguente al crescente disincanto nei confronti delle stesse premesse che costituiscono il nucleo culturale del tradizionalismo intrinseco alla società industriale. Una crisi capace di minare la fiducia nella scienza e nella razionalità. Secondo Beck, negli ultimi decenni del XX secolo, gli sviluppi delle tecnologie, la globalizzazione dell’economia, insieme all’inedita possibilità di autodistruzione dell’ambiente e del genere umano, hanno profondamente modificato la natura e l’impatto del rischio. Gli effetti “rischiosi” di questi cambiamenti finiscono per riguardare strati sempre più ampi della popolazione mondiale, finendo per influenzare pervasivamente le vite degli individui e lo stesso assetto sociale. Il pensiero di Beck è strutturato attorno a cinque tesi fondamentali: La prima riguarda il rapporto tra rischio e conoscenza, che pone l’autore nell’ottica del costruzionismo. L’invisibilità e l’irreversibilità che caratterizzano in maniera crescente i rischi, l’ampiezza dei loro effetti collaterali e l’impossibilità di controllarli hanno contribuito in maniera decisiva a ridimensionare il monopolio del sapere scientifico sul rischio. Gli scienziati, i mass media e i risk manager, hanno un enorme potere di stabilire i modi in cui queste definizioni sono prodotte e plasmate implicando, l’idea che il rischio possa essere drammaticizzato o minimizzato in base alle conoscenze e ai saperi disponibili. Secondo Beck i rischi si distribuiscono democraticamente: l’aumento delle fonti di rischio e dell’imprevedibilità delle interazioni tra loro e con l’ambiente, moltiplicano le possibilità di esservi esposti e accrescono le difficoltà di proteggersi. Ma c’è anche un’altra importante questione che tracia una netta linea di cesura rispetto al pensiero di Luhmann: com’è stato fatto osservare, Beck non ritiene che il rischio sia frutto di una qualsiasi decisione, ma delle decisioni prese da entità politiche ed economiche organizzate piuttosto che dai cittadini. Il moltiplicarsi dei rischi alimenta anche un aumento esponenziale della domanda di protezione. Il processo di riconoscimento del rischio e del suo potenziale catastrofico mette l’analisi delle sue cause e delle sue possibili conseguenze catastrofiche al centro del processo politico stesso, investendolo della responsabilità di individuare soluzioni organizzative, tecnologiche e normative che ne rendano possibile la gestione. Beck iscrive questo processo nella crisi della modernità industriale, contraddistinta da “modelli di vita collettivi piena occupazione, stato nazione e stato sociale, rimozione e sfruttamento della natura” e nel conseguente passaggio alla seconda modernità, che invece è “caratterizzata da crisi ecologiche, diminuzione del lavoro salariato, individualizzazione, globalizzazione e rivoluzione dei ruoli tra uomo e donna”. Si afferma così una nuova dottrina sociale che, problematizza il rischio come elemento caratterizzante dell’esperienza della tarda modernità. Nell’opera di Beck sull’affermarsi della società del rischio, una tra le tesi più importanti riguarda il modo in cui l’accresciuta centralità del rischio tende a provocare l’erosine degli stili di vita tradizionali e l’assunzione di nuove responsabilità da parte degli individui. Continuamente chiamati a decidere su cosa fare della propria vita. La necessità di evitare catastrofi perennemente incombenti si traduce nell’aumento della riflessività dell’individuo che, trovandosi sempre più spesso nella condizione di dover far scelte “rischiose”, è praticamente obbligato a valutare, persino quelle più banali. Uno degli aspetti più rilevanti nelle proposte di Beck riguarda la strutturale ridefinizione del sapere e della cultura, che sembrano in grado di erodere alla radice il nucleo delle certezze che avevano caratterizzato la precedente fase della modernizzazione, e che riguardavano praticamente ogni assetto della vita sociale, in primo luogo la fiducia nelle conquiste del progresso scientifico. Un assunto fondamentale delle teorie della società del rischio è, infatti, il fallimento del progetto moderno: la rapidità del mutamento sociale sarebbe stata tale da dissolvere molte delle vecchie tradizioni e dei miti che governavano molti aspetti della vita sociale aprendo la strada a un 6 crescente sentimento d’indeterminatezza e insicurezza. Secondo lo stesso Beck, la transizione dalla prima alla seconda modernità reca in sé un netto mutamento dei valori e degli obiettivi che la società dovrebbe garantire. Si passa così da un prevalente orientamento all’eguaglianza a una marcata tendenza a preferire la sicurezza, del dovere collettivo di garantire un’equa redistribuzione di risorse scarse al problema individuale di come evitare ruschi sempre più numerosi e gravi. L’aumento della differenziazione sociale avrebbe reso sempre meno prevedibile le conseguenze delle fonti del rischio, minando la alla base l’autorità degli scienziati e degli esperti. La critica mossa da Beck alla scienza soprattutto si rivolge contro l’idea che quest’ultima possa essere intesa come mero come supporto alla gestione tecnocratica della società, diventando quindi corresponsabile della continua creazione di nuovi rischi. Beck, che pure riconosce la nostra dipendenza dalle conoscenze scientifiche nella valutazione delle situazioni di rischio, sostiene il possibile superamento dell’attuale fase, auspicando che i cittadini possano tornare a fidarsi di una scienza diventata “critica”, che rinunciando alle finzioni come quelle delle “soglie di tossicità” e dell’”assenza di nessi causali dimostrabili” possa realmente renderci più consapevoli dei rischi che corriamo, anche se sono invisibili. La scienza, in questo senso, è una variabile fondamentale nel processo di riflessivizzazione e diventa sempre più necessaria ma allo stesso tempo sempre meno sufficiente. La sfiducia nei confronti della cosiddetta scienza ufficiale è tematizzata proprio attraverso la rivendicazione di un ruolo per la scienza critica, cui è affidato il compito di smascherare il sapere dei tecnocrati e demistificare le conseguenze non volute dall’industrializzazione. Questa posizione avvicina Beck al cosiddetto ambientalismo scientifico. Secondo Beck, le radici dei conflitti che caratterizzano l’attuale società del rischio possono essere individuate proprio nell’ascesa dei movimenti sociali tra gli anni ’60 e ’70 del XX secolo. L’aumento del benessere e dell’istruzione avrebbe favorito la nascita di un nuovo linguaggio dei diritti, spesso in aperta critica nei confronti delle tecnologie del rischio come le armi nucleari. Alcune trasformazioni sociali avvenute costituiscono la premessa di quei processi di individualizzazione che condurranno più tardi all’affermazione delle società del rischio. Beck sostiene che gli sviluppi tecnologici nucleari, rendono impossibile calcolare la probabilità del rischio, rendendo di fatto impossibile comprendere la natura di molti dei rischi che gli esseri umani devono affrontare. La scienza critica indirizza la società verso una gestione dei rischi diversa e più equa. L’esempio di scienza critica suggerito da Beck è quello della biologia, che è stata la prima disciplina scientifica capace di dar l’allarme sugli effetti distruttivi dell’industrializzazione sugli ecosistemi. Una scienza autonoma dalla tecnocrazia e responsabile è la chiave per ridurre la distanza tra esperti e profani che ha caratterizzato per interno la prima fase della modernizzazione industriale. È proprio la natura immateriale, invisibile e futura a rendere i rischi così difficili da riconoscere, ponendo gli individui in condizione di doversi fidare del parere degli scienziati, autorità e media: la società del rischio si caratterizza, infatti, per la nostra dipendenza dalle conoscenze dei sistemi esperti. La perdita della sovranità cognitiva, si traduce così in un processo di riflessivizzazione della conoscenza, in cui il vuoto lasciato dalla scienza tradizionale è colmato dalla competizione tra voci esperte. La comparsa del rischio su scala globale tenderebbe a modificare profondamente la struttura sociale, fino a produrre nuove forme di organizzazione sociale e conseguentemente, nuovi tipi di disuguaglianza e di conflitto. Nella società del rischio globale, i costi dei rischi non si distribuiscono egualmente tra tutti. Beck esprime in buona sostanza una posizione che lega la dinamica sociale al conflitto più che all’integrazione, che rivela in certa misura l’influenza della teoria marxista sul suo pensiero. Il sociologo ha in più occasioni espresso forti critiche al carattere metafisico della nozione di sistema che ha caratterizzato la sociologia neoparsonsiana, e in particolare quella di Luhmann. Sebbene agli inizi sembri quasi evitare di nominarlo, Beck muove un attacco durissimo alla sua concezione sistemica delle conseguenze collaterali del rischio, ritenendola deresponsabilizzante e conservatrice. Il prevalere del sistema sull’individuo e l’infinita concatenazione degli effetti collaterali rendono, infatti, impossibile arrivare a un’imputazione 7 che avrebbero dovuto avere importanti conseguenze sulla formulazione di questo concetto. In sintesi, Giddens come Beck, sembrerebbero parlare del sé riflessivo come risposta a uno stato d’incertezza cronica, caratteristico delle società occidentali contemporanee. L’idea stessa del sé come progetto riflessivo deve essere considerata come un prodotto dell’interazione sociale in un determinato contesto storico e sociale allo stesso modo in cui lo sono le soluzioni individuate in altri contesti. La critica di Gabe Mythen a Beck appare più articolata e complessa, e muove dall’osservazione su come negli anni ’90 dello scorso secolo il termine società del rischio sia stato utilizzato in modo generico ne campi disciplinari più disparati fino a diventare una storta di lingua franca. Alcuni autori, inoltre, criticano il fatto che nell’impostazione di Beck non sia chiaro se intenda il rischio in un’ottica costruzionista o realista. Quando Beck afferma che i rischi “in un certo senso sono sia reali che irreali”, pone la questione dell’accettabilità del rischio sostenendo da un lato la tesi dell’invisibilità dei rischi, dall’altro l’idea di una trasformazione necessaria da “effetti collaterali latenti” a “effetti primari pienamente visibili”. Logica comunicativa sottesa a questi approcci: le teorie della modernizzazione riflessiva e della società del rischio tendono a spostare l’accento sul coinvolgimento dell’opinione pubblica nella definizione dei limiti conoscitivi della scienza e della tecnologia e sulla responsabilizzazione riflessiva. Questo coinvolgimento dovrebbe essere una sorta di antidoto naturale al rischio. In conseguenza di questa imprevedibilità, la comunicazione e i media possono alimentare un eccesso di aspettative e di fiducia nei confronti dei saperi esperti. 1.6 Il rischio nella prospettiva della governamentalità: Il concetto di governamentalità una crasi delle due parole governare e mentalità e rimanda alla più ampia concezione di potere e dominio proposta da Foucault, e alle pratiche attraverso cui una molteplicità di organizzazioni sociali e istituzioni produce la realtà sociale e ne definisce ilo significato. Il governo dei rischi si realizza anche attraverso la coltivazione tra i cittadini di un insieme di assunzioni normative relative al rischio, che riguardano la vita quotidiana e impegnano gli individui alla loro osservanza. La varietà dei modi attraverso cui il potere è esercitato costituisce peraltro uno dei punti chiave della teoria foucaultiana: il ruolo dell’autorità istituzionale (legge) o della costrizione fisica (carcere) sono considerati complementari e non alternativi a quello di queste assunzioni, che sono costruite socialmente e culturalmente e che nelle società neo-liberali assumono una crescente rilevanza rispetto ai primi. L’analisi governamentale del rischio individua quattro dimensioni chiave: la conoscenza, il potere, la soggettività e i modi del governo. In particolare, considera i rapporti tra conoscenza e potere, che non sono neutrali, ma che si definiscono in funzione di precise necessità storiche. La governamentalità del rischio si stabilisce entro un insieme di relazioni dialettiche, seppur confuse e frammentate, tra istituzioni e individui. L’ipotesi generale proposta da Foucault è che nelle democrazie liberali stiano emergendo nuove forme di gestione del potere e del conflitto, non necessariamente imposte dall’alto attraverso la coercizione e la repressione, quanto attraverso un’incessante produzione di conoscenza autoriflessiva, volta a sollecitare nuovi atteggiamenti, stili di vita e modi di pensare e agire. Il potere governamentale si legittima, attraverso la necessità di conoscere e governare la ricchezza, la salute e persino la felicità della popolazione. Nella prospettiva governamentale l’interesse principale non sono le istituzioni in sé, ma le pratiche di governo e le forme di conoscenza e di razionalità che le rendono possibili: la funzione delle pratiche è quella di governare le condotte degli individui e delle collettività, nella misura in cui queste si declinano attraverso le istituzioni, i discorsi, le regole e le stesse azioni. Foucault, è interessato alle ragioni per cui determinate pratiche, ad esempio quelle legate all’istituzione carceraria, diventano urgenti e necessarie in un determinato momento storico riconfigurando i 10 rapporti di potere all’interno della società. L’approccio governamentale non implica una visione deterministica dei processi sociali, né un’infinita capacità di condizionamento dello stato sulla realtà sociale. Benché quest’ultimo abbiamo un ruolo chiave nella struttura di relazioni di potere, la sua azione è ampiamente condizionata da una miriade di istituzioni. Secondo i teorici della governamentalità la società contemporanea è profondamente permeata dall’idea di rischio e dall’imperativo morale di ridurne le conseguenze mettendosi al sicuro. Analizzare i discorsi sul rischio significa quindi interrogarsi sui modi attraverso cui sono definiti i problemi, in rapporto ai valori, agli stili di vita e alle emozioni, ma soprattutto significa analizzare i rapporti di potere sottesi ai rischi definiti come reali e alla loro gestione. In questo senso il rischio può essere definito come una cornice interpretativa unificante, in grado di dare una forma discorsiva coerente a manifestazioni molto diverse della strutturale incertezza del nostro tempo. La posizione teorica è quella costruzionismo forte, e si discosta espressamente dalla teoria culturalistica di Douglas, che considera separatamente le conseguenze fisiche del rischio, considerate come fatto oggettivo, e la sua percezione, che invece è socialmente costruita. La radicalità dell’approccio governamentale è ben spiegata da Ewald “niente è di per sé un rischio, non esiste alcun rischio nella realtà. Ma d’altro canto tutto può essere un rischio; tutto dipende da come si analizza il pericolo”. L’approccio della governamentalità presenta rilevanti elementi di convergenza con l’approccio della società del rischio e la teoria della modernizzazione riflessiva. Entrambe assumono il rischio come dimensione chiave della modernizzazione, condividendo uno sguardo privilegiato sui processi di trasformazione che attraversano le società contemporanee e sulla progressiva tendenza all’individualizzazione delle scelte imposte dal rischio, trovando un interesse condiviso nei confronti del ruolo delle conoscenze esperte nella costruzione della soggettività moderna e dei processi di riflessivizzazione. Condivide con le teorie della società del rischio e quelle della modernizzazione riflessiva l’idea che l’individualizzazione della responsabilità dei rischi rappresenti la cifra delle trasformazioni strutturali che interessano le società tardo moderne. McDermott e Lupton studiano il discorso sull’obesità infantile utilizzando l’analisi dei programmi nutrizionali delle scuole, i documenti governativi e le campagne mediali di educazione sanitaria, osservando come gli imperativi della salute, della forma fisica abbiano da un lato creato delle pedagogie del disgusto contro l’altro “malato” e “obeso”, e dall’altro favorito l’instaurarsi di una disciplina preventiva del corpo, in grado di garantire una sorveglianza preventiva e sistematica non sono nei confronti di persone definite a rischio come fumatori, ma anche dei bambini obesi e di quelli fisicamente poco attivi. 1.7 Niklas Luhmann. Rischio e sistema sociale: decisione e comunicazione: Il lavoro di Niklas Luhmann si stacca dagli approcci finora presentati, perché tende a privilegiare la dimensione dell’integrazione sociale a quella del conflitto e del potere. L’intera opera di Luhmann ruota attorno all’idea della società come sistema sociale ipercomplesso, autopoietico, interconnesso e capace di autoriprodursi attraverso e per mezzo della comunicazione. Egli ha anticipato o attualizzato alcuni temi sviluppati anche da questi due autori. Il più importante elemento di connessione tra le due scuole, che non di rado ha dato vita a contrasti polemici, riguarda forse il riconoscimento della centralità del rischio come caratteristica strutturale dei sistemi sociali complessi e al tempo stesso, dell’incertezza come conseguenza della complessità stessa. Luhmann, inoltre, condivide con Beck e Giddens un importante assunto sulla natura del rischio: la rischiosità intrinseca delle società industriali, fondate sulla scienza e sulla tecnologia. Ad avvicinare Luhmann ai teorici della governamentalità è, invece, l’analisi del processo storico attraverso cui il rischio s’impone come forma di razionalità tipicamente moderna, e l’approccio 11 decisamente costruzionista. Il presupposto teorico da cui Luhmann parte è l’idea che la società sia un insieme di sistemi complessi, relativamente autonomi, che si distinguono dall’ambiente e che concorrono a realizzare selettivamente le possibilità offerte da quest’ultimo. Il sistema, per garantire la sua continuità deve prima selezionare e poi realizzare determinate possibilità tra quelle attuabili entro l’infinita complessità del reale, deve cioè operare una continua operazione di riduzione di complessità per rendere almeno parzialmente governabile l’ambiente. Il sistema sociale consente di dare risposte al problema della indeterminatezza, perché si definisce in base al senso che è possibile attribuire alle azioni individuali se si stabilizzano le aspettative reciproche e sopravvive agli individui che lo costituiscono, fintanto esso è capace di rimanere relativamente stabile rispetto all’ambiente esterno. Ma l’ambiente esterno è diventato sempre più complesso. Luhmann osserva, il dilagare dell’incertezza come conseguente all’aumento della complessità nei sistemi sociali e alla tendenza di quest’ultima a tradursi in rischio, danno luogo a una devianza della norma che, se è indicata come una caratteristica strutturale dei sistemi derivante dalle sue normali operazioni, al tempo stesso minaccia costantemente la capacità del sistema di autodeterminarsi. La sociologia del rischio in questo senso rappresenta una particolare articolazione del suo pensiero sistemico, che approfondisce e concretizza il suo interesse per le interazioni tra i sistemi rese possibili della comunicazione, ma anche tra i sistemi e l’ambiente esterno, anche in seguito all’attualizzarsi delle conseguenze inattese delle decisioni rischiose. Il concetto che maggiormente lega la teoria dei sistemi alla questione del rischio è quello di contingenza, che riguarda la possibilità che l’azione, e in particolare quel tipo specifico di aione che è la decisione, produca effetti diversi da quelli attesi, sia dal punto di vista del soggetto che effettua una scelta sia da quello del soggetto a cui la scelta è indirizzata, cioè da colui che la subisce o ne è esposto. La prospettiva sistemica è forse ciò che maggiormente distingue il lavoro di quest’autore: data l’articolazione della società in sottosistemi funzionali codificati (politica, scienza, economia, diritto), posti in relazione tra loro attraverso la comunicazione, l’irrompere sulla scena sociale del rischio, che si manifesta dall’emergere conseguenze indesiderate delle decisioni, sposta decisamente l’equilibrio complessivo del sistema. Nel pensiero di Luhmann la distinzione tra osservazioni di primo e secondo ordine appare fondamentale: la consapevolezza del rischio (o comunicazione del rischio) richiede per l’appunto la capacità di osservare ab externo le conseguenze dele nostre decisioni. E ciò è possibile solo nella misura in cui è possibile distinguere tra ciò che è rischio e ciò che non lo è. Queste distinzioni riguardano anche il posizionamento dell’osservatore di second’ordine rispetto al rischio stesso. Il rischio, secondo Luhmann, produce uno smisurato aumento del fabbisogno decisionale. L’enfasi sulla decisione rappresenta forse la più importante premessa del ragionamento di Luhmann, secondo cui, per l’appunto il rischio si distingue dal pericolo configurandosi come esito delle decisioni umane piuttosto che di eventi dovuti a fattori ambientali non direttamente controllabili. A differenza del pericolo, che va inteso come la possibilità di subire un danno che non deriva strettamente da una decisione umana ma dall’incertezza e dall’imprevedibilità dell’ambiente, il rischio è definito da Luhmann anzitutto nei termini della consapevolezza di una minaccia cui si è esposti e come esito di una decisione che l’individuo può prendere autonomamente (fumano, guidando in modo spericolato) o subire in conseguenza della volontà altrui (contaminazione chimica, adulterazione del cibo). Qualsiasi scelta riguardante il rischio pone in relazione le decisioni assunte nel presente con le sue conseguenze nel futuro. Questa distinzione tra rischio e pericolo rappresenta un aspetto centrale del pensiero di Luhmann. La possibilità di conoscere e quindi decidere, a rendere possibile questa conversione del pericolo in rischio. Ad esempio, nonostante i terremoti siano considerati imprevedibili le conoscenze nel campo dell’ingegneria civile, così come le mappe di rischio sismico rendono possibile limitare i danni. La possibilità di scegliere se utilizzare queste conoscenze per costruire o ristrutturare secondo criteri antisismici 12 Quest’approccio implica l’idea che la valutazione del rischio debba essere un prodotto neutrale della scienza, fondato su una netta distinzione tra i fatti e i valori, che implica il rifiuto di visioni normative del mondo ed esclude quindi le questioni legate all’influenza di fattori etici e sociali. Una simile visione del rischio introduce dunque una fondamentale distinzione: quella tra esperti e profani. L’idea che i primi debba per definizione avere una maggiore competenza tecnica rispetto ai secondi stipula nei fatti una distribuzione asimmetrica del potere decisionale. Si tratta di un approccio tecnocratico che, mutuando una visione tardo-positivistica del rapporto tra scienza e società presuppone una superiorità delle pretese di verità che caratterizzano il sapere scientifico rispetto alle conoscenze e alle preoccupazioni dei profani, come se i ragionamenti e le interpretazioni degli esperti si collocassero al di sopra di qualunque pregiudizio, arbitrarietà e giudizio di valore. Questa visione appare autoritaria: nei fatti essa nega la possibilità di un coinvolgimento dei cittadini nelle decisioni riguardanti il rischio in quanto troppo emotivi, irrazionali e incompetenti. Per i tecnici e gli ingegneri quella del risk management è sempre stata una questione tecnica, legata al rapporto tra calcolo delle probabilità e la loro accettazione da parte del pubblico. La tendenza a escludere e sottovalutare gli aspetti sociali, culturali e psicologici, che caratteristica l’orizzonte di senso dell’approccio statistico-probabilistico ha inevitabilmente portato all’impossibilità da parte dei tecnici di capire per quali motivi gli atteggiamenti verso il rischio da parte delle persone deviassero così vistosamente dalla perfetta razionalità dei loro calcoli. Si tocca così uno dei punti chiave del problema in oggetto: laddove tutte le questioni che si riferiscono alle risposte psicologiche, sociali e culturali del rischio vengono definite in termini di seccanti conflitti, ostacoli indesiderati o dispendiose perdite di tempo, si tende ad alimentare scontri sempre più aspri. Una tra le numerose implicazioni rilevanti di quest’approccio è l’idea che, se il rischio può essere concettualizzato nei termini della probabilità oggettiva di un certo evento avverso, gestire il rischio significa anzitutto stabilire una gerarchia di priorità nell’allocazione delle risorse necessarie: tanto più un rischio è probabile e catastrofico, tanto maggiori dovranno essere le risorse che è necessario mobilitare. Allo stesso modo, i rischi potenzialmente gravi per un piccolo gruppo, caratterizzati da una probabilità marginale, si dovrebbero invece dedicare risorse inferiori. Se si accetta questa visione razionalistica del rischio, ne consegue ad esempio che la perdita della vita di poche persone esposte ad un rischio poco probabile possa essere considerata irrilevante. Tra i numerosi corollari dell’approccio ingegneristico-probabilistico, vi è infatti l’idea knightiana secondo cui ogni danno può essere quantificato in termini monetari. Il risarcimento del possibile danno conseguente ha per molto tempo rappresentato uno degli strumenti più utilizzati per ridurre il conflitto intorno ai rischi. Tuttavia, quest’atteggiamento ha dato luogo a numerose critiche: anzitutto perché non tutti i rischi possono essere monetarizzati, in secondo luogo perché le conseguenze di taluni rischi sono assolutamente incalcolabili e infine perché non è più ritenuto moralmente accettabile. Uno degli aspetti più problematici di questo modo di concepire il rischio è il suo intrinseco riduzionismo. La probabilità che un dato evento negativo possa effettivamente accedere dipende in ultima analisi non solo dal potenziale catastrofico delle tecnologie utilizzate, ma anche dal modo in cui le organizzazioni sono in grado di interpretare i segnali che accompagnano la trasformazione di un rischio incombente in un’imminente catastrofe. È in occasione di questi disastri tecnologici, in cui i rischi si attualizzano nei termini delle loro conseguenze più nefaste e concrete, che si delineano due distinti domini di rischio. Il dominio dell’aleatorio, in cui protagonisti sono la comunità scientifica e i decisori politici e in cui il calcolo della probabilità si è a poco a poco imposto come strumento universale di conoscenza si oppone strenuamente al dominio dell’ignoto, terreno d’elezione dell’opinione pubblica, in cui valgono soltanto i criteri della prudenza e del buon senso. Gli approcci esclusivamente probabilistici al rischio comportano in molti casi l’emergere di una serie di paradossi legati alle variabili considerate e ai limiti stessi della misurazione. Un ulteriore elemento problematico di quest’approccio riguarda l’utilizzo metaideologico della nozione probabilistica di rischio: la pretesa oggettività del calcolo delle probabilità di un evento avverso e la sua apparente indipendenza da giudizi di valore può essere utulizzata come una sorta di antidoto 15 semplificatorio alla complessità dell’analisi di fenomeni che invece hanno una natura prettamente sociale. 2.3 Frank Knight: il rischio come incertezza calcolabile: Frank Knight e la sua opera più famosa: Risk, Uncertainty and Profit. Il lavoro dell’economista americano appare significativo per la sua riconosciuta influenza sul nostro modo di pensare e gestire il rischio. È considerato uno dei padri fondatori del risk management moderno e uno degli iniziatori di quella tradizione oggettivista che concepisce il rischio come entità esterna all’osservatore, misurabile e calcolabile. La rilevanza del suo contributo consiste nell’aver concepito il concetto di rischio come strumento per l’assorbimento dell’incertezza nella condotta dell’imprenditore, ossia come mezzo per la massimizzazione dell’utilità attesa in condizioni d’incertezza. È necessario partire dalla classica distinzione di Knight tra il rischio e incertezza, che fa riferimento alle informazioni disponibili su fenomeni incerti. Secondo l’economista il concetto di rischio è applicabile solo quando la distribuzione di probabilità di un certo fenomeno può essere assegnata in conformità a parametri oggettivi e misurabili, mentre si parla d’incertezza quando questo tipo d’informazioni non sono disponibili e le probabilità possono essere stimane soggettivamente. Knight immagina il rischio come la probabilità associata ai diversi risultati che conseguono a una singola decisione. Sebbene resti impossibile prevedere con esattezza ciò che avverrà in un futuro nel modello attuariale proposto da Knight l’osservazione sistematica del passato consente, in prima istanza, di distinguere ciò che è assicurabile da ciò che non lo è. Knight individua la stessa legittimazione del profitto proprio nell’assunzione dei rischi, nella capacità di fondare decisioni economiche in condizioni di conoscenza incompleta o imperfetta. La stretta focalizzazione su questi aspetti ha inoltre avuto un enorme impatto sulla legislazione in materia del rischio fino a sintetizzare l’approccio positivistico al rischio che si è sviluppato. 2.4 Il tramonto delle certezze: L’avvento della società del rischio mette in questione la stessa idea di calcolabilità del rischio che è alla base dell’approccio ingegneristico. Da quante tempo si tende a rilevare come alcune forme di rischio siano legate a un forte aumento del grado d’incertezza delle conoscenze scientifiche e degli stessi sistemi organizzativi, alla crescente partecipazione del pubblico alle controversie ambientali. 2.5 I modelli lineari della comunicazione del rischio: La concezione del rischio come realtà ontologica comporta l’idea che la comunicazione debba essere intesa principalmente come trasferimento lineare di conoscenze scientifiche da un emittente esperto a un pubblico di profani. Stabilisce un flusso di informazioni gerarchicamente orientato che connette un emittente qualificato a una massa di riceventi passivi. Il suo obiettivo è quello di incoraggiare i profani ad accettare le decisioni politiche e le tecnologie che implicano l’esposizione a un rischio. Per molti anni, la comunicazione del rischio si è fondata su un anacronistico modello stimolo-risposta: il significato di una data informazione è definito proprio dall’emittente e trasferito a un insieme di destinatari capaci di interpretare il messaggio correttamente, senza alcuna interferenza da parte dell’individuo o del contesto. Questo tipo di approccio alla comunicazione è stato definito da Krippendorf come “containermodell”. I messaggi, il linguaggio e le immagini sono visto come semplici contenitori di informazioni che ne perseverano il significato e che possono essere traferiti da un porto all’altro come container. Secondo Krippendorf, ha delle profonde implicazioni nel rapporto tra chi comunica e la società, affermando l’idea che qualsiasi interpretazione indipendente dalle intenzioni dell’emittente non possa essere addebitata alle “follie della percezione umana” causate da errori umani capaci di fuorviare i destinatari dal significato autentico del messaggio. I modelli lineari della comunicazione intesi come strumento per influenzare le percezioni o il comportamento del pubblico di fronte a un rischio appaiono legati a una concezione del processo comunicativo e all’idea tipica del clima culturale della prima metà del ‘900, che i messaggi possano essere considerati come stimoli in grado di 16 provocare nel destinatario determinate risposte, cioè comportamenti desiderati dall’emittente. In particolare, è ampiamente riconosciuta l’influenza su quest’approccio lineare alla comunicazione del modello matematico dell’informazione proposto da Shannon e Weaver alla fine degli anni Quaranta. È da questo modello che viene mutuata l’idea che nel caso in cui si rilevino interferenze che ostacolano il trasferimento di informazioni (tipicamente una fonte di rumore) la corretta ricezione del messaggio possa essere comunque assicurata dalla ridondanza delle informazioni veicolate al destinatario. La ripetizione delle informazioni sarebbe, cioè, sufficiente a garantire che il destinatario comprenda. All’interno di questo sintetico quadro generale, si possono distinguere due modelli: la principale differenza riguarda il tipo di potere che legittima il ruolo dell’emittente: la conoscenza scientifica e il sapere esperto contraddistinguono il modello deficitario mentre l’autorità giustifica invece il modello DAD (decidi – annuncia - difendi). 2.5.1 Il deficit model: Il primo approccio comunicativo definito come deficit model o modello deficitario, si colloca nel dibattito sulla comprensione delle scienze e delle tecnologie da parte dell’opinione pubblica. Si tratta di una rielaborazione del modello classico nella comunicazione pubblica della scienza che, a partire dalla contestata idea di comunicazione come processo gerarchico, unidirezionale, schematizza in maniera semplificata ma efficace le relazioni tra esperti, media e opinione pubblica. Il deficit model sottolinea due aspetti: la pretesa disinformazione dei cittadini e il sensazionalismo dei media, la cui conseguenza è che sia i cittadini che i policymakers siano ostaggio di paure irrazionali che in taluni casi renderebbero problematica la loro partecipazione ai processi decisionali. Il modello deficitario interpreta una visione tecnocratica dei rapporti tra scienza e società, i cui pilastri sono: 1) Lo scetticismo dei cittadini; 2) La pregiudiziale ostilità dei cittadini alla scienza e alla ricerca; 3) La disinformazione dei cittadini dovuta alla scarsa alfabetizzazione scientifica; 4) Alle distorsioni della scienza operate dai media. Questo modello, pur riconoscendo la centralità dei media nel costruire le immagini pubbliche dei rischi, tende a enfatizzare il timore degli scienziati per i problemi insiti nell’inevitabile “traduzione” da parte dei media delle informazioni scientifiche, e gli effetti di amplificazione e distorsione che derivano da questo processo. La prospettiva del deficit model si focalizza prevalentemente sulla quantità d’informazione veicolata ai destinatari. Il pubblico, che si assume uniforme e atomizzato, una vota ricevuto il messaggio è messo in condizione di reagire razionalmente al rischio, prendendo la decisione che coincide con quella suggerita dagli esperti. Il processo può essere tuttavia ostacolato da fonti di distorsione (i media). Nel caso in cui il pubblico dovesse reagire negativamente, si reitera il messaggio in maniera ridondante fino all’ottenimento degli effetti voluti. 2.5.2 Il modello Decidi – annuncia – difendi: Strettamente legato al modello deficitario, da cui si distingue principalmente per la fonte di legittimazione dell’emittente, è il modello DAD. Si tratta di un modello implicito, secondo il quale il principale obiettivo del comunicatore sarebbe quello di far digerire le valutazioni e le iniziative stabilite dagli esperti alle popolazioni esposte a un certo tipo di rischio. Si fonda sulla forte asimmetria di potere tra decisori e pubblico. Nel modello deficitario la fonte di legittimazione delle scelte è il sapere scientifico esperto e il coinvolgimento e l’adesione del pubblico possono essere perseguite attraverso la somministrazione in dosi massicce delle conoscenze necessarie per riallineare la comprensione del rischio da parte del pubblico a quella degli scienziati. Invece, nel modello DAD la fonte di legittimazione dell’autorità è l’autorità medesima. Questo modello assume come requisito principale la passività normativa del destinatario nella ricezione 17 Il lavoro sulle euristiche di Gerd Gigerenzer si colloca nello stesso filone cognitivo di Tversky e Kahneman, pur attestandosi su posizioni nettamente diverse. Gigerenzer rielabora le riflessioni di Simon intorno al concetto di razionalità limitata entro la cornice della psicologia cognitiva, ha indagato e descritto le euristiche della scelta frugale, ovvero quei processi mentali basati sull’intuizione e sull’istinto che consentendoci di elaborare in modo efficiente piccolissime quantità di informazioni, ci aiutano a prendere le decisioni migliori in modo semplice, veloce ed efficace. Quest’approccio di ricerca si concentra, cioè, si quelle scelte che, fondandosi su piccoli e limitati indizi e utilizzando risorse alternative alla logica formale ci hanno consentito di sopravvivere, adattarci e dominare l’ambiente. Gigerenzer sottolinea come le complesse conoscenze prodotte dagli esperti possano diventare esse stesse un problema, nella misura in cui esse sono soggette agli stessi processi euristici (e agli stessi sbagli) dei profani. Ciò implica anche la necessità di non cadere nelle trappole delle false certezze, spesso conseguenti a una scarsa alfabetizzazione ai concetti della probabilità. 3.3.1 Le euristiche della disponibilità: Nel valutare la probabilità o la frequenza di un certo evento rischioso tendiamo a far riferimento a strategie cognitive che elaborano l’idea di probabilità nei termini di numerosità e familiarità. Le euristiche della disponibilità non fanno quindi riferimento a eventi che avvengono effettivamente ma a ciò che di quegli eventi le persone sono in grado di ricordare o meno. Le euristiche della probabilità e della rappresentatività costituiscono un caso particolare delle euristiche della disponibilità, che riguarda le inferenze circa gli eventuali rapporti tra singoli eventi e categorie più ampie nell’universo di riferimento, tra il caso singolo e le presunte regole generali. 3.3.2 Le euristiche dell’affetto: In condizioni di particolare stress quando l’incombere di un rischio che si preannuncia come serio o grave limita il tempo e la possibilità di ragionare razionalmente o di ricordare informazioni rilevanti, le persone tendono a percepire e decidere facendo affidamento non solo a processi cognitivi, ma anche alle forti emozioni associate alla fonte di pericolo. Tale processo è stato denominato euristica dell’affetto. Il modo in cui il concetto di affetto viene elaborato nell’ambito di questo approccio fa riferimento alla connotazione positiva p negativa di un particolare tipo di stimoli, immediatamente ed emotivamente associati all’idea di “buono” o “cattivo”. I risultati delle ricerche psicometriche avevano evidenziato due dati particolarmente importanti: la più forte percezione del rischio per attività, tecnologie ed eventi in grado di provocare terrore (ad esempio il cancro) e la correlazione inversa tra la percezione dei rischi e quella dei benefici, in forza di cui se una fonte di rischio era associata a un beneficio il rischio tendeva ad essere percepito come meno grave e viceversa. In seguito, venne fornita una dimostrazione empirica di come il concetto di rischio e quello di beneficio non solo fossero dinamicamente legati tra loro, ma che questa relazione fosse controllabile manipolando sperimentalmente le informazioni sugli attributi affettivi del rischio e dei relativi benefici, dando luogo a una sorta di “effetto alone” in grado di influenzare sia la percezione sia alle scelte riguardanti i rischi, tendendo con ciò a rendere “affettivamente” coerenti le valutazioni. 3.4 L’approccio psicometrico: La percezione del rischio può essere descritta in prima istanza come un processo cognitivo in cui i dati sensoriali grezzi sono acquisiti e contemporaneamente organizzati nella nostra coscienza entro strutture di ordine superiore. Percepire un rischio, significa strutturare i dati sensoriali sulle caratteristiche dei potenziali pericoli associandoli alle emozioni che essi suscitano, creando una 20 mappa cognitiva dei rischi e delle loro relazioni. Si definisce l’approccio psicometrico alla percezione del rischio che, secondo Paul Slovic, si caratterizza per due principali orientamenti paradigmatici: 1) La matrice teorica profondamente cognitivista; 2) L’utilizzo di situazione sperimentali e scale abbinate a tecniche d’analisi multivariata a fattoriale. Questi orientamenti si traducono in quattro assunti fondamentali: Primo  il rischio è postulato come concetto soggettivo piuttosto che come entità oggettiva. Secondo  le definizioni del rischio devono tener conto sia degli aspetti fisici, tecnici ed economici legati alle fonti di pericolo che dei meccanismi psicologici e sociali che le trasformano e le rendono riconoscibili in quanto rischi. Terzo  l’opinione del pubblico dei profani è considerata come rilevante oggetto d’interesse. Quarto  l’analisi della struttura cognitiva delle percezioni e dei giudizi sui rischi si affida a procedure statistiche, e in particolare a tecniche di analisi multivariata. La metodologia ha un ruolo importante per il paradigma psicometrico, che si avvale di sofisticate procedure statistiche per individuare, misurare e analizzare le variabili e le loro relazioni. La metodologia che caratterizza quest’approccio prevede tipicamente quattro fasi di ricerca: 1) Messa a punto di questionari contenenti una lista di eventi, tecnologie o pratiche rischiose sufficientemente ampia da coprire l’area d’interesse; 2) Sviluppo di scale psicometriche che le caratteristiche del rischio ritenute rilevanti per modellare la percezione e la risposta; 3) Sottoporre il questionario, chiedendo ai rispondenti di valutare ognuno de rischi utilizzando le scale psicometriche; 4) Ricorrere a tecniche di analisi multivariata. 3.5 Percepire il rischio: terrore, familiarità, conoscenza: Le ricerche sulla percezione del rischio hanno iniziato a concentrarsi sull’identificazione dei fattori che apparivano maggiormente in grado di influenzare la percezione soggettiva dei rischi, concentrandosi sulla probabilità attribuita a certi eventi rischiosi e sulle caratteristiche qualitative che influiscono maggiormente sulla gravità percepita dei rischi stessi. Queste ricerche si proponevano, cioè, di capire quali fossero i rischi maggiormente temuti, se e a quali condizioni la paura fosse coerente con la pericolosità effettiva dei rischi. Quest’approccio tentava di rendere osservabili e misurabili le immagini mentali e gli atteggiamenti latenti nei confronti del rischio. I risultati di questo vasto insieme di ricerche hanno consentito di evidenziare alcune caratteristiche chiave: familiarità, controllabilità, volontarietà dell’esposizione, potenziale catastrofico, equità, immediatezza del pericolo e il livello di conoscenza. Questi tendono a essere più o meno strettamente correlati tra loro. Per Slovic, la percezione del rischio e le valutazioni circa la sua accettabilità dipendono da tre principali fattori: il livello di terrore che esso è in grado di incutere, la familiarità e l’esperienza di esposizione, e l’ampiezza dei possibili danni. Nel primo fattore l’idea di terrore appare legata alla mancanza di controllo. Nel secondo, i rischi sconosciuti sono legati all’invisibilità, alle conseguenze sconosciute e posticipate nel tempo. Allo stesso tempo, il numero delle persone esposte in un rischio, i danni alle persone emergono come dimensione in grado di caratterizzare l’impatto. Marinelli suggerisce di aggregare i fattori che influenzano la percezione soggettiva del rischio in tre aree distinte: quella delle condizioni cognitive ed emotive in cui si svolge il processo di valutazione, il potenziale catastrofico e i possibili benefici. Secondo questa classificazione è possibile 21 individuare le dimensioni rilevanti per ciascuna delle aree considerate. Per quanto riguarda l’area riguardante le condizioni della valutazione, si fa riferimento alla volontarietà nell’esposizione o meno a un dato rischio; al livello di conoscenze individuali e scientifiche disponibili per comprendere le cause e l’evoluzione; alla controllabilità e alla familiarità, ma anche a emozioni che possono influenzare il processo percettivo. L’area relativa al potenziale catastrofico fa invece riferimento al carattere immediato o differito della minaccia, alla sua irreversibilità, alla sua capacità di generare danni. Infine, nell’area dei possibili benefici si ritrovano elementi di valutazione si vantaggi e svantaggi e sull’equità con cui sono distribuiti tra le popolazioni esposte. In estrema sintesi, si può dire che un determinato rischio è percepito come maggiormente minaccioso se esso imposto e non liberamente scelto, se è poco noto o familiare, se implica gravi conseguenze potenziali e, infine, se non prefigura alcun vantaggio soggettivo per chi ne è esposto. Non di rado queste proposte di revisione si associano a una fruttuosa contaminazione. Tra le influenze di maggior rilievo vi è: quella della Cultural Theory. Accanto alle tre dimensioni più rilevanti è stata proposta una quarta dimensione legata ai rischi innaturali e immorali come alcune tecnologie nucleari. Una meta-analisi di queste ricerche ha evidenziato alcuni aspetti d’interesse, ad esempio, il fatto che le percezioni del rischio possono risultare diverse in base al paese in cui sono condotti gli studi. Inoltre, i risultati tendono ad essere influenzati dalle specifiche caratteristiche del target dei rispondenti. Infine, i dati sono condizionati anche dal momento in cui sono somministrati i questionari. 3.6 La comunicazione del rischio e i fattori di mediazione: L’emergere di sostanziali differenze nei modi di percepire il rischio da parte degli esperti e profani, rilevando la necessità pratica di ridurre questo gap ha da subito individuato nella comunicazione del rischio uno strumento cruciale per migliorare il dialogo e aumentare il consenso intorno agli aspetti più controversi della gestione dei rischi. Il contributo più importante di questi studi alla comunicazione del rischio riguarda le condizioni di efficacia dei messaggi: l’individuazione di alcuni dei fattori critici, in grado di ostacolare o favorire la comprensione dei messaggi da parte dei singoli destinatari, adeguandola alle intenzioni dell’emittente, ha consentito di migliorare la qualità della comunicazione e di circoscrivere, se possibile, alcuni tipi di reazioni negative legate a una inadeguata formulazione dei messaggi. Secondo quest’approccio, le risposte percettive e comportamentali ai rischi sono mediate sia dalle caratteristiche individuali sia dall’ambiente sociale, e si determinano come esito di un processo che si realizza nel corso del tempo. L’attenzione ai fattori psicologici che mediano le percezioni implica la necessità di veicolare messaggi chiari, centrati sul destinatario, utili per capire il rischio e significativi per informare le sue scelte a riguardo. Ciò significa, ad esempio che la comunicazione debba tener conto del modo in cui i destinatari caratterizzano i rischi. L’approccio psicometrico, che del resto la prospect theory di Tversky e Kahneman, hanno delle notevoli implicazioni sulle strategie di comunicazione del rischio: le probabilità di successo, infatti, dipendono in modo decisivo dal linguaggio, dal tono emotivo e dalla struttura argomentativa utilizzati per costruire i messaggi. Può essere utile considerar non solo gli aspetti cognitivi, ma anche quelli linguistici ed emotivi. Per comprendere meglio il modo in cui gli approcci psicologici tendono a concettualizzare la comunicazione del rischio: l’evento rischioso viene codificato come un segnale di pericolo che può provenire dall’ambiente, da fonti della comunicazione istituzionale o dalle reti interpersonali e viene elaborato e interpretato dagli individui attraverso i processi euristici e percettivi. Il segnale di rischio è inoltre mediato anche da atteggiamenti e disposizioni psicologiche individuali. L’esito di questo processo è una valutazione circa l’accettabilità o inaccettabilità del rischio, che determina il comportamento manifesto dell’individuo, in particolare le sue decisioni sull’adottare o meno determinate misure di mitigazione del rischio. L’obiettivo riconosciuto della comunicazione del rischio è quello di modificare la percezione del rischio e quindi il comportamento, evitando allarmi ingiustificati. Il ruolo del comunicatore consiste soprattutto nella produzione e nel riadattamento dei messaggi, con il fine di massimizzarne 22 socioculturale e alla loro identità di membri di un certo gruppo sociale, piuttosto che come effetto di processi cognitivi o disposizioni personali, come più o meno esplicitamente proposto dalle teorie dell’azione razionale e dalla psicologia cognitiva. Ogni gruppo sociale tende a sviluppare e istituzionalizzare forme di preoccupazione nei confronti di specifici pericoli: malattie, guerre, stregonerie, rischi ambientali. E tuttavia le società e i gruppi sociali tendono a non preoccuparsi allo stesso modo di fronte a tutti questi pericoli. Ogni società seleziona i pericoli che devono essere oggetto di attenzione e controllo tra quelli che più direttamente minacciano la loro organizzazione sociale. Sia il concetto di rischio che quello di tabù rimandano all’idea di una minaccia che non riguarda solo il benessere individuale ma anche l’ordine della struttura sociale di riferimento. Uno degli elementi più interessanti del pensiero di Douglas: la constatazione che le società cosiddette primitive e quelle tecnologicamente più avanzate condividono in larga parte lo stesso tipo di risorse culturali per gestire e contenere i pericoli diventa un elemento sempre più stringente e caratterizzante del suo approccio. Non importa se questi stratagemmi siano sofisticati ed effettivamente capaci di eliminare i pericoli, quanto la credenza diffusa e istituzionalizzata che essi siano effettivamente capaci di farlo. Uno dei tratti che più caratterizzano il pensiero di Douglas è l’idea che nelle società occidentali il rischio sia usato per presidiare i propri confini fisici e simbolici, esercitando cioè specifiche forme di potere nei confronti di determinati gruppi o istituzioni sociali individuati come minacce o pericoli. 4.2 Norme, valori e conflitti sociali: È stato osservato come la teoria culturale della Douglas possa iscriversi nell’ambito delle teorie neo-durkheimiane, esprimendo cioè un’idea al tempo stesso strutturalista e funzionalista. Nell’analisi sulle cosmologie di alcune società primitive, l’autrice mutua l’idea che per comprendere a fondo una certa società sia necessario lo sviluppo di una teoria sociale della conoscenza, in quanto fonte inesauribile di significati e come prodotto della società stessa. L’accento sul rapporto tra i rischi e sistemi di credenze appare indicativo se poste in relazione ai concetti di contaminazione contagio: questi sono infatti interpretati da Douglas come conseguenze della trasgressione al divieto di attraversamento dei confini simbolici tra il sacro e il profano, in cui l’atto individuale è in grado di minacciare l’intera comunità, di renderla, cioè, vulnerabile al pericolo. Il nesso tra la teoria di Durkheim è quasi letterale: tali norme, che si fondano su un’esperienza di natura intimamente religiosa, hanno una forza morale coercitiva e sono sempre espresse in termini di demarcazione e separazione, la cui funzione è quella di rinforzare il legame sociale e a dare unità all’esperienza. Il richiamo di Durkheim diventa particolarmente esplicito nel riferimento ai processi di istituzionalizzazione del rischio: se si riconosce che la funzione assolta dai delitti e in particolare di quelli più efferati e atroci sia quella di sollecitare le reazioni della legge e dell’ordine anche il rischio implica reazioni dello stesso tipo, in quanto potenziale genocidio deve essere oggetto di un medesimo trattamento. Implica, cioè, l’accordo sui principi morali e sulle forme di razionalità che devono sostenere le scelte, oltre che la definizione dei particolari tipi di danni che vanno a tutti i costi evitati. Non è difficile cogliere un accento tipicamente funzionalista quando la Douglas sostiene che i modi in cui i pericoli naturali e sociali sono costruiti vanno interpretati come strumenti atti a garantire la riproduzione del sistema sociale e la sottomissione dei suoi membri. La vera domanda, fa notare l’antropologa, non riguarda quali siano i pericoli più allarmanti, ma quali siano le spiegazioni e le attribuzioni di responsabilità più efficaci a esercitare forme di controllo sociale in una data comunità. La Teoria Culturale non pone al centro della scena il rischio in sé, ma il modo in cui esse interferisce con gruppi e istituzioni sociali, portatori e testimoni di visioni del mondo in conflitto tra loro. Il rischio, dunque, segnala anche l’esistenza di un conflitto culturale: la mancanza di consenso sia sulle cause dei rischi sia sulle loro conseguenze future pone le condizioni per un 25 confronto tra le concezioni e gli interessi di ciascun gruppo sui modi in cui affrontare un dato rischio. 4.3 Il modello grid / group (griglia e gruppo): Com’è stato fatto notare la teoria proposta da Douglas implica l’esistenza di diverse forme di razionalità in conflitto tra loro. Questo tipo di analisi al centro delle riflessioni riportate nel libro “Risk and Culture” di Wildawsky. Gli autori propongono un modello (grid / group) che ha influenzato la disciplina del risk assestment e della risk communication e la messa a punto delle linee guida per la comunicazione dei rischi naturali e tecnologici di molte tra le più importanti agenzie di protezione di altri paesi. L’idea di fondo di questo modello interpretativo è che il modo in cui il rischio viene percepito, interpretato e controllato dipendano da due fattori: l’appartenenza a un certo tipo di gruppo sociale e la coercitività delle norme di gruppo rispetto all’individuo. Le organizzazioni e i gruppi sociali sono classificati in base alla loro vicinanza e a due modello idealtipici, in cui nel primo si privilegi ala centralità del gruppo rispetto a quella dell’individuo, la dimensione della coesione sociali e quindi la stabilità delle relazioni interne, mentre nel secondo è l’interesse dell’individuo a prevalere su quello del gruppo d’appartenenza, dando luogo a strutture sociali in cui prevalgono la competitività e il conflitto interno. La coesione del gruppo è interpretata come funzione del controllo sociale che tali norme sono in grado di esercitare sui singoli: a un estremo vi sono quelle situazioni in cui le alternative comportamentali considerate appropriate sono limitate, all’estremo opposto le situazioni in cui gli individui sono invece liberi di scegliere e tenuti a negoziare loro relazioni sociali. Questa intuizione sull’importanza della forza nei legami di gruppo si aggiunge l’idea della griglia, cioè di analizzare il livello della forza che le istituzioni esercitano nella regolazione dei rapporti sociali, lungo un continuum che misura il livello di formalizzazione delle procedure e che va da un livello minimo, che caratterizza i gruppi sociali basati sulla conoscenza reciproca e sulla condivisione comunitaria, a un massimo di formalizzazione, che si riscontra invece nelle società complesse e fortemente burocratizzate. Il modello griglia / gruppo di Douglas ha trovato una sua collocazione nello studio del ruolo di mediazione esercitato dalle culture nel processo di percezione del rischio. Il modello teorico si fonda sull’analisi congiunta di due dimensioni chiave: la griglia, cioè l’atteggiamento degli individui che può declinarsi in termini d’impegno verso la comunità di riferimento e di deferenza nei confronti delle sue gerarchie, o piuttosto in un orientamento verso i valori individualistici, come l’impresa o la competizione. La dimensione del gruppo, valuta la forza dei confini che delimitano il gruppo rispetto all’esterno, vale a dire la misura in cui l’appartenenza a un gruppo molto coeso impone restrizioni al contatto con i membri di altri gruppi o piuttosto tende a lasciare liberi i suoi membri di relazionarsi liberamente, in cui, cioè, è considerato inaccettabile un eccesso di controllo sulle scelte individuali. La combinazione di queste due dimensioni da luogo a quattro distinti idealtipi di gruppo caratterizzati da un diverso orientamento rispetto alle logiche del rischio. I quattro gruppi sono così individuati: Nel quadrante griglia alta / gruppo basso troviamo gli isolati; caratterizzati da legami di debole intensità all’interno del gruppo d’appartenenza, descritti da un forte fatalismo e dall’idea dell’uomo come vittima di una natura capricciosa, che li pone nella condizione di subire più o men passivamente gli eventi rischiosi. Nel quadrante griglia alta / gruppo alto troviamo i gerarchici, descritti da un forte rispetto e fiducia nei confronti delle autorità e delle istituzioni, idea di valutazione e gestione dei rischi che debbano rimanere di competenza del governo. Il quadrante griglia bassa / gruppo basso si collocano gli individualisti, caratterizzati da uno scarso attaccamento alle norme di gruppo e da un forte orientamento alla soddisfazione di bisogni personali che considerano la natura sostanzialmente indifferente allo sfruttamento da parte dell’uomo. 26 Infine, nel quadrante griglia bassa / gruppo alto si trovano gli egualitari, cui Douglas e Wildawsky collocano i gruppi ambientalisti, caratterizzati da una forte coesione interna, dalla tendenza di cerare le responsabilità al di fuori del gruppo stesso e dall’idea che il rischio sia conseguente alla fragilità della natura rispetto all’azione umana. 4.4 La colpa dei rischi: le strategie di blaming: La teoria culturale proposta da Douglas pone una particolare enfasi al rapporto tra rischi e conflitti. Il rischio è concettualizzato come un’esauribile fonte di conflitto sociale, che reclama sanzioni simboliche nei confronti di coloro che, in base alla violazione delle norme del gruppo, sono additati come responsabili o colpevoli. Douglas sostiene che il vero scopo del rischio è quello di garantire la tenuta delle istituzioni sociali rispetto alla crescente indeterminabilità dei pericoli e alle cospirazioni provenienti dall’esterno della comunità. L’imputabilità dei rischi alla decisione umana comporta che un insieme sempre più ampio di problemi sociali tendano a essere definiti e trattati come minacce alla sicurezza. Il rischio, infatti, non è ma eticamente e politicamente neutrale: la paura del pericolo tende a rafforzare le linee di divisione in una comunità incoraggiando l’imputazione delle responsabilità a carico degli altri, definiti di volta in volta come capri espiatori. Secondo Douglas, l’accresciuta rilevanza del concetto di rischio nelle società industrializzate renderebbe necessaria una riflessione su come esso si sia declinato in diversi contesti storici e culturali. Non sempre il rischio è stato connotato negativamente, in termini di pericolo, né ha avuto lo stesso significato di moralizzazione e politicizzazione del pericolo che ha assunto in seguito ai processi di industrializzazione e anche in conseguenza di incidenti come quello di Chernobyl. Il concetto di rischio, in questo senso presenta alcune significative analogie con quello di tabù e di peccato e del loro uso in quanto spiegazioni causali per ciò che è andato per il verso sbagliato. E anche un modo per colpevolizzare le vittime per l’irresponsabilità dimostrata di fronte a un segnale d’allarme ignorato. 4.5 L’allargamento dei campi d’indagine della Cultural Theory: Il principale merito della Cultural Theory consiste nell’ampliamento dei campi d’indagine pertinenti al tema del rischio. Il rischio, in questo senso, non è più un concetto specialistico e circoscrivibile agli ambiti in cui esso è più tradizionalmente confinato, ma come le questioni legate all’ambiente e / o l’impatto delle tecnologie, ma finisce per ricomprendere anche altri ambiti più riferibili alla costruzione dei problemi sociali. L’abuso di alcool, terrorismo e immigrazione, per esempio, tendono a essere definiti e trattati sempre più frequentemente in termini di rischio, in base al fatto che le loro conseguenze indesiderate sono definite come esiti di scelte in carico alla responsabilità dei decisori pubblici: la politica, in primo luogo, ma anche le istituzioni dello stato. Uno degli aspetti più rilevanti della CT è l’aver indicato come la trasformazione dei problemi sociali in rischi abbia imposto la depoliticizzazione delle scelte che tende a reificare e talvolta a rimuover i valori implicati in ciascuna decisione e di conseguenza a indebolire il legame etico tra mezzi e fini. Se le scelte sono ridefinite in base ai soli principi di efficacia ed efficienza non si possono escludere effetti collaterali dannosi. La Teoria Culturale ha inoltre contribuito a ridurre le distanze tra le due culture dell’analisi sociale dei rischi: quantitativa e qualitativa. È rilevante sottolinear l’efficacia euristica della Cultural Theory in situazioni di evidente conflitto valoriale attorno alle percezioni del rischio. Un campo di ricerca in cui la fecondità di quest’approccio risulta piuttosto evidente e intuitiva riguarda gli atteggiamenti contrapposti tra le culture giovanili e il mondo degli adulti, nella misura in cui essi si manifestano in relazione ad alcuni comportamenti rischiosi. 4.6 La comunicazione del rischio come scambio simbolico: La prima e più importante conseguenza della CT sulla comunicazione del rischio è l’idea che la cultura debba essere considerata come una sorta di codice condiviso che istruisce la codifica e la decodifica dei messaggi, in mancanza del quale il processo comunicativo si trasforma in un 27 nei diversi contesti sociali e istituzionali, contribuendo a determinarne gli impatti. Rayner accura Kasperson e i suoi collaboratori di pressapochismo, e certamente non risolve la vessata quaestio degli approcci oggettivisti versus approcci di matrice più fenomenologica, costruzionista, soggettiva, trasportandola su un altro terreno. Per i teorici dell’amplificazione sociale del rischio ciò implicherebbe la necessità di considerare entrambe le dimensioni come complementari tra loro: in ultima analisi, più che preoccuparci del fatto che il rischio sia reale o meno, si dovrebbe ragionare sul fatto che le percezioni del rischio abbiano conseguenze concrete e misurabili. 5.1.3 Un approccio integrativo e multidisciplinare: L’approccio SARF si propone esplicitamente l’intento di integrare gli approcci teorici precedenti, costruendo un quadro concettuale in grado di far convivere gli aspetti tecnici della valutazione dei rischi con le evidenze empiriche emergenti dalle scienze cognitive sociali. Si contraddistingue, cioè, per il tentativo di valorizzare gli elementi di convergenza e superare le impasse interpretative che avevano caratterizzato i vari approcci precedenti, e di risolvere le contraddizioni emerse nell’ambito degli studi sulla percezione individuale e sulle risposte sociali di gruppi e comunità esposti a qualche tipo di rischio. Tra le principali finalità della SARF vi è quella di fornire modelli di spiegazione che possano dar conto degli obiettivi (fini) delle strategie (mezzi) e delle entità (attori) coinvolti nei processi di valutazione, comunicazione e gestione del rischio, che sono strettamente collegati tra loro e fanno riferimento a strutture di valori più o meno condivise, ciò implica la necessità di imparare a leggere le relazioni tra uomo e ambiente in modo interdisciplinare. Il modello della SARF focalizza sia i meccanismi psicologici che governano la percezione individuale del rischio, sia i processi di gruppo e istituzioni che ne determinano il significato, rendendo possibili l’articolazione delle risposte sociali. 5.2 Gli stadi del processo di amplificazione e i ripple effects: L’amplificazione sociale del rischio è definita in prima istanza come “il fenomeno per il quale i processi di informazione, le strutture istituzionali, il comportamento dei gruppi sociali e le risposte individuali plasmano l’esperienza sociale del rischio, contribuendo in tal modo alle sue conseguenze”. In questa definizione si fa riferimento a diversi tipi di processi, che s’intrecciano nell’elaborazione dei segnali di rischio, informazioni di varia natura sono decodificate ed elaborate dalle varie stazioni di amplificazione nella forma di messaggi, mettendo così in gioco sia le percezioni individuali degli attori che i processi di mediazione simbolica entro un dato contesto sociale. Le risposte sociali e ripple effects sono determinati dalle interazioni tra le varie stazioni di amplificazione e dagli effetti a catena che diventano osservabili entro la griglia proposta dall’amplificazione sociale, descritta analiticamente e graficamente in un modello che, con poche modifiche, ha accompagnato lo sviluppo del framework dalle prime pubblicazioni fino ai nostri giorni. Il processo si articola in due stadi principali, che definiremo macrofasi, quella di trasferimento delle informazioni e quella dell’organizzazione della risposta sociale, che si articolano in sette distinte fasi chiave, che qui definiremo microfasi. Nella prima macrofase si assume che l’esperienza diretta, i processi di classificazione e contestualizzazione che avvengono nei media e nelle reti sociali consentano di selezionare i messaggi di rischio entro una mole di segnali altrimenti irrilevanti, che possono essere riconosciuti come rischi soltanto attraverso l’esperienza, le conoscenze veicolate dai media e i quadri cognitivi e valoriali propri al gruppo sociale di appartenenza. Nella seconda macrofase si analizza invece il ruolo dei diversi contesti sociali, istituzioni e culturali nella costruzione del significato sociale dei rischi e nell’articolazione delle relative risposte comportamentali e sociali. In ciascuna delle microfasi il rischio può essere sia attenuato che amplificato, innescando una serie di effetti a catena che possono determinare interferenze o perturbazioni – anche di lungo periodo – sul sistema sociale e politico, sui mercati, sui quadri normativi e sulla reputazione dei singoli stakeholder coinvolti. 30 Le sette microfasi: 1. La selezione dei segnali di rischio (filtraggio): certe informazioni sono riconosciute come rilevanti in base all’esperienza diretta (personale), di fondamentale importanza per valutare l’entità di un certo tipo di rischio e che può attribuire al segnale un contenuto allarmante o tranquillizzante. In mancanza di un’esperienza diretta si fa riferimento all’esperienza indiretta che rende individui in certa misura dipendenti dalle rappresentazioni fornite dai media ed è influenzata dal volume, dalla drammatizzazione e dalle connotazioni simboliche delle informazioni. Molto importanti, da questo punto di vista l’effetto stereo, che occorre quando si riceve lo stesso messaggio attraverso più canali l’effetto filtro, per cui una parte del contenuto del messaggio è enfatizzata o ignorata, e l’effetto di equalizzazione, che si verifica quando un messaggio su un oggetto precedentemente veicolato in un altro contesto evoca simbolicamente sentimenti di ansia, paura o sdegno; 2. La decodifica dei segnali e la loro riclassificazione all’interno di nuove cornici interpretative (reframing), si avvale delle informazioni veicolate attraverso più canali. I segnali sono, cioè, interpretati in base alle percezioni e agli schemi mentali preesistenti; 3. Il ruolo dell’interazione sociale è di particolare importanza perché il modo in cui gli individui valutano i rischi è largamente influenzato dal contesto sociale, gli stessi rischi possono assumere significati diversi in base al contesto; 4. I messaggi e le loro implicazioni sono valutati alla luce dei valori e delle norme sociali valide nei contesti di riferimento. Se i messaggi appaiono rilevanti o coerenti rispetto alle credenze preesistenti, i segnali saranno intensificati; 5. L’interazione sociale nell’ambiente culturale di riferimento e nel gruppo dei pari consente la validazione del significato dei messaggi e l’adeguamento delle interpretazioni individuali a quelle del gruppo. I meccanismi psicologici sono ritenuti importanti ma insufficienti a comprendere le risposte ai rischi; 6. La formulazione di specifiche intenzioni sul comportamento da tendere nei confronti del rischio da parte di individui, gruppi e istituzioni e di chi ha la responsabilità di prender decisioni a riguardo, in base al fatto che il rischio sia ritenuto o meno tollerabile / accettabile; 7. L’intervento individuale o di gruppo in azioni volte ad accettare, ignorare, tollerare o rifiutare il rischio. Esso si attualizza in risposte comportamentali o comunicative che possono sia amplificare sia ridurre il rischio stesso, innescando una serie di effetti a catena che possono provocare profondi e durevoli cambiamenti nel sistema. Se si osserva questo processo di amplificazione adottando il punto di vista del singolo individuo, la prospettiva appare leggermente diversa. I riceventi valutano le informazioni elaborate comparandole con le altre operando una serie di deduzioni e inferenze sul loro significato esplicito e implicito così come alla credibilità e agli intenti attribuiti all’emittente. Le informazioni sono generalizzate in base alla presenta d’indizi simbolici e a ragionamenti di senso comune, fino a creare e razionalizzare specifiche credenze sul rischio in grado di integrarsi con i sistemi di credenze preesistenti e di influenzare la propensione a mettere in atto specifiche azioni nei confronti del rischio. Questo modello considera il modo in cui i segnali interagiscono attraverso canali comunicativi di diversa natura che connettono le varie stazioni di amplificazione. Queste interazioni e iterazioni tra fonti, messaggi e canali contribuiscono in modo decisivo alla percezione di un certo pericolo, che può essere enfatizzato o trascurato in una molteplicità di modi, dando luogo a una serie di effetti a catena che a loro volta possono aumentare o diminuire il rischio stesso o addirittura crearne di nuovi. Alla base del processo di amplificazione vi è il segnale che fa riferimento a un rischio o a un evento rischioso, può essere veicolato da fonti di diversa natura (esperienza personale, comunicazione interpersonale o media) e viene elaborato attraverso i sensi, i giudizi dei membri del proprio network personale o da mediatori professionali dell’informazione (giornalisti, scienziati, risk manager). I cluster di segnali, elaborati come messaggi comunicativi, si propagano e si amplificano 31 attraverso canali diversi fino a raggiungere la platea dei riceventi individuali, che selezionano, codificano e valutano i messaggi formulando diagnosi, deduzioni e ipotesi interpretative facendo riferimento ai processi euristici, alle caratteristiche qualitative dei rischi e alle valutazioni culturalmente determinate dal proprio gruppo di riferimento. I messaggi così elaborati influenzano la risposta individuale e sociale al rischio e possono determinare effetti sugli atteggiamenti. Il modo in cui gli individui percepiscono un certo rischio può aumentare (amplificazione) o diminuire (attenuazione) in base ai modi in cui certi segnali sono convertiti, elaborati e decodificati dalle diverse stazioni di amplificazione individuali, in cui agiscono congiuntamente filtri di natura affettiva e cognitiva (euristiche) e culturali (sistemi di credenze) che fanno riferimento anche al ruolo attribuito alle diverse istituzioni. Questi filtri agiscono in combinazione tra loro, promuovendo atteggiamenti e comportamenti che possono a loro volta generare effetti a catena ovvero impatti secondari non pianificati. 5.3 Comunicazione e amplificazione dei rischi: La SARF attribuisce grande importanza ai processi comunicativi. Quest’attenzione nasce dalla necessità di spiegare i motivi per cui rischi dell’impatto fisico molto circoscritto riescano a produrre enormi conseguenze sociali, suscitando livelli straordinari di paura e preoccupazione: un evento rischioso reale o anche ipotizzato avrebbe un impatto limitato e circoscritto se non fosse osservato e quindi comunicato dagli esseri umani. Le rappresentazioni generate nel processo d’interazione comunicativa (media e comunicazione interpersonale) sono decisivi per comprendere l’impatto dei rischi entro una data società. Diversi autori fanno riferimento a una nota posizione di Luhmann, che distinguendo tra rischi e pericoli, osserva che certi eventi diventano rischi solo se sono osservati, riconosciuti e comunicati in quanto tali agli altri. Quest’approccio adotta una prospettiva costruzionista e pancomunicativa. I primi lavori fanno riferimento a modelli di comunicazione trasmissivi, in particolare a Shannon e Weaver introducendo però un’importante distinzione analitica tra messaggio e rumore in base all’intenzione comunicativa dell’emittente: per il pubblico è diventato sempre più difficile distinguere il primo dal secondo. La SARF assume come potenzialmente rilevanti tutti i messaggi indipendentemente dalla fonte, dal destinatario e da tutti i possibili canali e direzioni in cui i messaggi sono veicolati, adottando così una visione allargata della comunicazione che appare vicina a quella proposta da Plough e Krimsky. Si tratta di un’idea nuova di quest’approccio che identifica la comunicazione del rischio come la via principale dell’amplificazione sociale. 5.3.1 Il ruolo centrale della comunicazione: Esso considera l’insieme dei flussi comunicativi che connette le diverse stazioni di amplificazione e le iterazioni tra queste ultime, in tutte le direzioni possibili. Questo comporta il rifiuto di identificare la comunicazione del rischio con i soli messaggi veicolati dalle autorità o dagli esperti, e impone di guardare alla comunicazione in senso molto più ampio, allargando il campo d’analisi a qualsiasi messaggio veicolato da qualsiasi fonte attraverso qualsiasi canale, senza restrizioni sulla direzione dei flussi, o sull’ampiezza delle audience coinvolte, e tenendo in considerazione anche i messaggi veicolati involontariamente. Una più approfondita analisi dei fondamenti teorici della SARF evidenzia una concezione polisemica del rischio, che peraltro appare vicina a quella introdotta negli studi sulla devianza da alcuni importanti studiosi di comunicazione. 5.3.2 L’importanza dei media: L’ambiente, la salute, il crimine, il terrorismo, la guerra e qualsiasi altra fonte d’incertezza che abbia a che fare con la sicurezza, l’incolumità e il pericolo non solo rientrano nella concettualizzazione dei rischi proposta dalla SARF, ma rappresentano quasi per definizione temi di forte interesse da parte dei media mainstream. Tuttavia, la varietà di rappresentazioni mediali dei rischi rende necessaria una più approfondita analisi delle relazioni e delle reciprocità tra le teorie 32 CAPITOLO 6 – TRA LE TEORIE E PRATICHE: CHIAVI DI LETTURA PER LA COMUNICAZIONE DEL RISCHIO 6.1 Obiettivi e funzioni della comunicazione del rischio: Come qualsiasi altra teoria nel campo delle scienze sociali, anche quelle che riguardano la valutazione e la comunicazione del rischio devono misurarsi con valutazioni di carattere normativo, epistemologico e metodologico nella definizione dei propri quadri concettuali, differenziando i modelli interpretativi in base almodo in cui ciascuna di queste dimensioni è identificata, definita e collegata alle altre. Ogni teoria definisce particolare concezioni di emittete e destinatario, dei loro rispettivi ruoli, del messaggio e della sua composizione, degli effetti che può creare o contribuire a determinare, dei canali utilizzati e dei vari fattori che intervengono nel processo di codifica e decodifica dei messaggi stessi. La finalità geenrale che si riconosce alla comunicazione del rischio è di contribuire a mitigare gli effetti di un rischio sulle persone e sui beni, che si realizza attraverso la condivisione di informazioni vere e scientifichamente corrette che consentano di comprendere il rischio e affrontarlo. Per perseguire efficacemente quest’obiettivo, la comunicazione del rischio deve affiancarsi in modo coerente agli altri strumenti della risk governance, tenendo conto delle finalità, delle percezioni e delle preoccupazioni che i diversi pubblici associano a certe fonti di rischio, dei modi in cui queste sono rappresentate dai diversi pubblici e degli obiettivi legittimi di tutti gli stakeholders. A partire da questa finalità di riduzione del danno, cui è riconosciuto un carattere universale, la condivisione delle informazioni, la modifica dei comportamenti e il cambiamento delle credenze. Alcuni dei lavori di Fischhoff possono essere molto utili per inquadrare meglio le relazioni tra la comunicazione del rischio, i processi decisionali che questa dovrebbe favorire e le implicazioni normaive ed etiche a carico del comunicatore e del committente. Secondo Fischhoff, il primo obiettivo della comunicazione del rischio (intesa come scambio d’informazioni tra vari soggetti) è quello di produrre decisioni informate aiutando i decisori a prendere le migliori decisioni possibili. 6.2 La mediazione interpersonale: dall’opinion leader ai social media: Il ridimensionamento dei ruolo e del prestigio sociale della scienza e il crescente sentimento di scietticismo e di diffidenza nei confronti di quest’ultima costituiscono le cifre distintive del cambiamento nei rapporti tra rischio e società. I comunicatori del rischio, chiamati a mediare non sono tra i punti di vista diversi e legittimi sul rischio tesso, ma su visioni del mondo totalmente conflittuali. Questa sfida si radicalizza con l’arrivo e il consolidamento di internet e in particolare dei social media, all’interno del mediascape. Le immagini del mondo create e veicolate da e attraverso i media descrivono una visione complessiva e globalizzata delmondo e dei suoi abitanti. Muller- Mahn ed Everts hanno sottolineato come la disponibilità di queste immagini renda immediatamente visibile e comprensibile sia il carattere globale e gli impatti locali dei nuovi rischi analizzati da Beck. Il concetto di riskcapes fa riferimento al modo in cui certi rischi possono attualizzarsi entro particolari territori geografici, incorporando in essi una molteplicità di prospettive localmente situale e parzialmente sovrapponibili. Ma il concetto si riferisce anche al modo in cui questi territori a rischio diventano notizie, poi discorsi e infine occasioni di consumo mediale fino ad acquisire importanza per gruppi sempre più ampi, dando luogo a una serie d’impatti sulla geografia, sulla gestione dello spazio e sul modo stesso di gestire e comunicare il rischio. Le rappresentazioni di eventi come gli attacchi terroristici dell’11 settembre 2001, lo tsunami di Sumatra del 2004, l’uragano Katrina, le pandemie, sono state costruite utilizzando estensivamente le testimonianze digitali dei cittadini e dei sopravvissuti. L’inedita disponibilità di questo tipo di immagini, la possbilità di un loro uso strumetale rappresentano senza alcun dubbio una delle sfide cruciali che attendono la comunicazione del rischio nel prossimo futuro. La disponibilità e la rilevanza di questi strumenti hanno favorito la loro progressiva incorporazione nelle strategie utilizzate per comunicare sia il rischio sia le crisi. Si tratta di una trasformazione in grado di incidere 35 profondamente sugli stessi paradigmi della comunicazione del rischio, rendendo sempre meno realistici e praticabili le strategie comunicative basate sui modelli lineari. Nel dibattito si sono spesso contrapposte visioni utopiche e distopiche sulle potenzialità e i pericoli del mezzo. Sul versante degli apocalittici troviamo autori come Krimsky, che evidenziano come l’aumento esponenziale della quantità, della disponibilità e dell’accessibilità delle informazioni possa tradursi nella tendenziale distruzione della geraechia delle competenze, favorendo l’adozione di un modello policentrico, globale e disorganizzato di discussione, che dovrebbe generalizzare e globalizzare lo scetticismo nei confronti della conoscenza scientifica. Le letterature più ottimistiche, pur riconoscendo i potenziali pericoli, tendono a porre l’accento anche gli aspetti positivi, ad esempio la minore dipendenza del pubblico dai media tradizionali. Alcuni, riallaccianfosi alla visione di internet come strumento in grado di realizzare l’utopia habermasiana della sfera pubblica o quantomeno di favorirne le condizioni evidenziano come individui e gruppi relativamente privi di potere possano far ascoltare la propria voce, offrendo nuove opportunità per implementare strategie di comunicazione del rischio, più democratiche e inclusive. La necessità di superare i modelli lineare e l’attenzone alla dimensione contestuale e relazionale nei processi di costruzione del risgnificato si sono tradotti in una rivalutazione del ruolo delle reti sociali e dei modelli dell’influenza personale e della opinion leadership nella formazione dell’opinione, nella diffusione dei messaggi e nell’adozione di pratiche innovative che ha riguardato sia gli studi teorici che in ricerche empiriche. È stato osservato come, nonostante la rapida e capillare diffusione di supporti tecnologici, lo studio dei processi d’interazione tra comunicazione mediale e interpersonale e la costruzione di significato all’interno delle reti sociali continuano a rappresentare una chiave interpretativa indispensabile per capire il modo in cui le comunità e i gruppi definiscono i rischi e li affrontano. gli effetti della misinformation strategicamente orientata su false informazioni volte a manipolare il pubblico, costituiscono un campo privilegiato per l’applicazione di queste conoscenze. La disinformazione ormai è costante nella gestione della comunicazione. 6.3 La comunicazione del rischio e la decisione politica: Gli autori che hanno tematizzato la società del rischio hanno più volte rilevato come la qualità delle decisioni politiche sia anzitutto legata alla legittimazione delle fonti di conoscenza. Quando i rischi si presentano come minacce in grado di insidiare la quotidianità dell’esistenza i valori più profondi e le stesse visioni del mondo, fare riferimento esclusivamente all’evidenza scientifica può diventare superfluo e inappropriato. Diversi autori, tra i quali Ewald, Sofsky e Sunstein hanno rilevato criticamente come il rischio possa minare le basi razionali della decisione democratica. Come spiegato nel paragrafo sulla governamentalità, di fronte alla possibilità di conseguenze serie e irreversibili non conta solo ciò che si può dimostrare, ma anche ciò che si può solo immginare, dubitare, presumere o temere. Nella situazione d’incertezza interpretativa che consegue alla politicizzazione dei rischi, la stessa conoscenza scientifica rischia di essere usata più per insinuare il dubbio che per la conoscenza che essa può offrire prestandosi a manipolazioni per scopi di natura politica, in grado di consolidare la concezione sociale del rischio come ermeneutica della paura. La comunicazione del rischio tende sempre più frequentemente a occupare uno spazio di mediazione e negoziazione entro un campo conflittuale e fortemente politicizzato. Il significato sociale dei rischi è, cioè, costruito discorsivamente dai diversi risk claimers, che cercano di universalizzare la propria visione del rischio rendendola intersoggettivamente riconosciuta, valida e quindi reale. Diversi studioso hanno indicato la teoria habermasiana dell’agire comunicativo come alternativa ai modelli trasmissivi della comunicazione del rischio e come fondamento irrinunciabile per le teorie della decisione partecipata. Le cinque condizioni della razionalità comunicativa 36 proposte da Habermas, cioè il carattere aperto e pubblico della discussione; l’assenza di coercizione, dominio e giochi di potere strumentali; la centralità delle argomentazioni razionali; la ricerca del consenso e la deliberazione democratica sulle policy e infine l’accordo razionalmente motivato e il carattere aperto delle decisioni prese. In parole più semplici, la buona volontà, la buona fede e il reciproco riconoscimento rappresentano la base per le decisioni concretamente basate sulla ragionevolezza piuttosto che su un’idea astratta di razionalità. Purtroppo, le situazioni reali sono speso molto diverse da quelle idealmente prospettate da Habermas. In molti casi, nei conflitti sui rischi non viene messa in campo soltanto una valutazione sulla potenziale rischiosità di una singola e determinata tecnologia o innovazione ma piuttosto delle visioni complessive della vita, dei rapporti tra uomo e natura e della stessa dialettica politica, che proprio per questi motivi rendono molto più difficile la conciliazione tra interessi e punti di vista. Il conflitto nasce spesso in relazione alla difficoltà di scienziati e cittadini nel misurarsi con l’incertezza, che si traduce talvolta nella negazione della provvisorietà e dei limiti del sapere. Ciò in molti casi può comportare l’esclusione dal dibattito di altre forme di razionalità localmente situate e altrettanto legittime, pretendendo talvolta di sostituirsi normativamente a esse. Il mancato ascolto delle popolazioni esposte, insieme alla tendenza a sottostimare l’incertezza e a rassicurare indebitamente, possono portare ad atteggiamento di scontro, rendendo impossibile anche solo immaginare le conseguenze concrete delle decisioni sulla vita e sull’economia delle popolazioni esposte. La tendenza a concepire individui e gruppi come “black box” senza guardare ai processi di costruzione di senso, e a considerare la comunicazione del rischio come un prolungamento del processo decisionale, volto unicamente a fornire spiegazioni, finisce inevitabilmente per erodere la fiducia nei confronti di esperti e autorità. Tra i diversi studiosi che hanno insistito sul rischio come costruzione discorsiva, sono di particolare interesse gli studi di Boholm e Corvellec. In una di queste ricerche, gli autori hanno identificato tre strategie caratteristiche che costituiscono polemicamente i rischi definendo i rapporti tra fonti di rischio e oggetti a rischio. La prima di queste strategie è la comunicazione affermativa del rischio che costruisce l’oggetto rischioso veicolando l’idea che possa avere effetti negativi sull’oggetto a rischio; La seconda è la strategia della smentita ovvero della negazione del rischio, in cui si afferma la non pericolosità della fonte di rischio sull’oggetto a rischio; Nel terzo caso, il rischio non viene negato ma associato a potenziali benefici, o anche a effetti di mitigazione provocati dalla stessa fonte o da altre fonti. Questa costruzione polemica riguarda la stessa concettualizzazione e caratterizzazione delle fonti e degli oggetti a rischio. 6.4 La comunicazione del rischio e gli altri settori della comunicazione: La comunicazione del rischio: emerge la difficoltà di individuare in Italia una precisa collocazione accademica per questa disciplina. Non costituisce ancora l’oggetto di una specifica legge, la sua assimilazione nel diritto italiano avviene attraverso il recepimento di principi statuiti dalla legislazione europea. L’eccesso di frammentazione e la mancanza di profili definiti possono comportare alcuni gravi problemi: la moltiplicazione e la personalizzazione incontrollata dei messaggi e degli stili comunicativi tra diverse amministrazioni, può avere gravi conseguenze sull’omogeneità e la coerenza dei messaggi, e quindi sulla credibilità del singolo emittente e delle istituzioni rappresentate. 6.4.2 Il linguaggio della scienza e il linguaggio naturale: Uno degli aspetti più complessi della comunicazione del rischio riguarda il diverso modo di percepire o, meglio, di costruire i rischi da parte degli scienziati e delle persone comuni. Dal punto 37
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